IL MISTERO PASQUALE
Il Signore risorto vita 
della comunità 
nella potenza dello 
Spirito
di Fabio Ciardi
La koinonia ecclesiale trova il suo 
fondamento nella partecipazione alla koinonia divina e l'evento pasquale è il 
passaggio tra la koinonia trinitaria e quella ecclesiale. 
In effetti, la storia delle origini della 
Chiesa ha mostrato che l'umanità nata da Cristo è una umanità riconciliata, 
riunita. 
Luca ci ha presentato la comunità 
di Gerusalemme come la prima realizzazione della vita trinitaria in terra. 
L'intero libro degli Atti, quale libro della Chiesa, è la narrazione della 
progressiva dilatazione della comunione, quale tratto caratterizzante la nuova 
umanità. A Gerusalemme vi è la ricomposizione dell'unità tra tutti in un'anima 
sola e un cuore solo. La comunione appare come un dato fondamentale e 
costitutivo dell'esistenza cristiana. L'armonia umana come dato originario 
dell'umanità, poi lacerata dall'egoismo, dalla gelosia, dall'incapacità di mutuo 
intendimento - quale frutto della disunità con Dio causata dal peccato - è 
ristabilita nella novità dell'unità operata da Cristo. 
Paolo collega esplicitamente la 
koinonia fraterna tipica della comunità cristiana con la redenzione. L'Apostolo, 
attraverso la predicazione della buona novella, rende noto che se ora non siamo 
più popoli stranieri e nemici, lo dobbiamo al fatto che Cristo ci ha 
riconciliati "per mezzo della morte del suo corpo di carne" (Col 1, 22). "Egli 
infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo 
il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per 
mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare 
in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare 
tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se 
stesso l'inimicizia" (Ef 2, 14-16). Nel suo mistero di morte e risurrezione, 
Cristo ha ricreato l'unità spezzata dal peccato: unità degli uomini col Padre e, 
conseguentemente, unità degli uomini tra di loro. La riconciliazione con Dio (cf. 
2 Cor 5, 18-21) frutta la riconciliazione fraterna. 
Sulla croce egli ha tutto 
ricapitolato (cf. Ef 1, 10). La realtà dell'incarnazione e la radicalità della 
discesa hanno consentito al Figlio di Dio di assumere tutto ciò che è umano, 
rendendolo solidale con la nostra storia e con tutte le sue connotazioni di 
drammaticità e di peccato. Di conseguenza, nella sua ascensione può trascinare 
tutto con sé perché tutto gli appartiene, e diventare così "pleroma" (cf. Ef 4, 
7-10). La croce si colloca al cuore di questo itinerario del Cristo perché 
proprio lì, sulla croce, egli ha consumato il rapporto di unità profondo con 
l'umanità. Nell'innalzamento sulla croce - che è insieme morte, risurrezione e 
ritorno al Padre - egli attrae tutti a sé (cf. Gv 12, 32), facendo tutti uno fra 
loro. I Padri e i mistici hanno letto il mistero che lì si stava consumando in 
chiave di mistico sposalizio tra il Cristo Sposo e l'umanità-Chiesa sposa.
Innestati in Lui mediante il 
battesimo, che ci introduce nel suo mistero di morte e risurrezione e ce lo 
comunica, formiamo il suo corpo. La comunione con Cristo si risolve nella 
Chiesa-comunione. La comunione è quindi il frutto dell'opera redentrice di 
Cristo: nel riconciliarci con Dio, ci ha riconciliati gli uni con gli altri.
In una Chiesa-comunione, frutto 
del mistero pasquale, la comunità religiosa appare come segno eloquente di 
quanto la Pasqua di Cristo ha operato. In essa, mediante la consacrazione, si 
radicalizza l'inserimento in Cristo. La consacrazione religiosa in effetti, come 
ha insegnato il Concilio Vaticano II, si colloca nella linea di proseguimento 
della consacrazione battesimale e come sua radicalizzazione (cf. PC 5a). La vita 
religiosa vuole semplicemente "poter raccogliere più copiosamente il frutto 
della grazia battesimale" (LG 44a). Essa si presenta tutta incentrata sul 
mistero pasquale, in quanto vita di sequela radicale di Cristo e partecipazione 
al suo stesso destino. Nel documento della SCRIS che sintetizza gli Elementi 
essenziali dell'insegnamento della Chiesa sulla vita religiosa, leggiamo al 
riguardo: "La consacrazione religiosa stabilisce una particolare comunione tra 
il religioso e Dio e, in lui, tra i membri di uno stesso Istituto. Questa 
comunione è l'elemento basilare che costituisce l'unità della famiglia 
religiosa". Dopo aver elencato i fattori di ordine sociologico che 
contribuiscono a costruire e rafforzare l'unità, continua dicendo che "suo 
fondamento, tuttavia, è la comunione in Cristo stabilita dall'unico carisma 
originario. La comunione affonda le sue radici nella stessa consacrazione 
religiosa ( . . . )" (n. 18). 
Poiché la comunità religiosa è 
una comunità pasquale, per cogliere più intimamente il mistero profondo che la 
anima converrà proseguire nell'approfondimento dell'evento pasquale. Di esso 
cercheremo di cogliere due aspetti in particolare: l'annientamento (kenosis) di 
Gesù in croce e la sua presenza di Risorto.
LA KENOSI RIVELAZIONE DELL'ALTERITÀ E 
DEL RAPPORTO DI UNITÀ
La teologia contemporanea ha trovato 
nell'evento pasquale il luogo privilegiato per la comprensione del mistero 
trinitario. In esso infatti, come abbiamo precedentemente accennato, Dio si 
rivela in pienezza come distinzione e unità di Persone e si partecipa 
all'umanità fatta Chiesa. Occorrerà quindi che la comunità religiosa, così come 
ogni altra espressione di comunione ecclesiale, ritorni continuamente a 
immergersi nel mistero del Cristo che muore sulla croce per entrare, attraverso 
di esso, nel dinamismo della koinonia. 
Il morire di Cristo sulla croce 
apre l'intelligenza del mistero di Dio come relazione d'amore, mostrando, nello 
stesso tempo, il dinamismo di tale amore. Ci siamo già soffermati, nel capitolo 
precedente, sulle relazioni intratrinitarie che fondano quelle ecclesiali e le 
modellano. Ma non abbiamo ancora approfondito il modo con cui le relazioni 
avvengono all'interno della Trinità, e, conseguentemente, all'interno della 
comunità umana. Ora, è proprio a partire dal mistero pasquale che l'agape 
trinitaria, in quanto struttura di reciprocità, mostra di possedere una 
caratterizzazione particolare: quella kenotica. La kenosi cristologica rivela la 
dinamica dell'agape trinitaria, facendo intuire che il momento della kenosi è 
implicito e intrinseco al concetto stesso di agape. 
L'interpretazione del Mysterium 
Paschale, offerta ripetutamente da von Balthasar e divenuta un assunto della 
teologia contemporanea, è che "l'ultimo presupposto della kenosi è l'altruismo 
delle Persone (come pure relazioni) nella vita intratrinitaria dell'amore".
Gesù ha mostrato il modo e la 
misura dell'amore, dell'unico amore che Gesù può vivere, ossia quello 
trinitario, sulla croce, dove "si è annientato" (Fil 2, 7). Ha vissuto 
l'esperienza dell'annientamento, della kenosi, fino a sperimentare l'abbandono 
del Padre, espresso nel grido: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 
15, 34). In questo grido, la Trinità si svela e si partecipa. Esso dice 
separazione di Gesù dal Padre. E la traduzione, nella situazione umana, del 
rapporto che si vive all'interno della Trinità tra il Figlio e il Padre. Il 
distacco di Gesù dal Padre rimanda alla generazione eterna del Figlio che il 
Padre opera nel suo seno. Il Padre fa il Figlio altro da sé, in una generazione 
d'amore che è infinito gaudio. Riverberata sulla terra, l'alterità che nasce 
dalla generazione è patita, dall'umanità di Gesù, come doloroso abbandono, che 
riecheggia, assume e consuma l'abbandono e la lontananza da Dio in cui il 
peccato ha gettato l'uomo. Nel suo grido sulla croce, Gesù "ci dischiude 
l'intelligibilità del mistero trinitario dell'Agàpe divina: è donandosi, e 
spingendo questa donazione di sé sino all'abisso dell'abbandono e della morte, 
che la persona del Verbo incarnato realizza la sua propria identità nell'unità 
col Padre". 
In un suo prezioso documento, la 
Commissione Teologica Internazionale ha fatto propria questa interpretazione del 
mistero dell'abbandono di Gesù sulla croce. Vi si legge che il "distanziarsi del 
Figlio rispetto al Padre nel suo svuotamento kenotico" e nell'esperienza 
dell'abbandono da Lui vissuta è "l'aspetto proprio, nell'economia della 
redenzione, della distinzione (estrema) delle Persone della Santa Trinità, che 
peraltro sono perfettamente unite nell'identità di una stessa natura e di un 
amore infinito". 
La pericoresi trinitaria, 
rivelata nell'evento pasquale, si mostra come attraversata da un non essere 
dinamico, punto di congiunzione fra l'unità e la distinzione, viste come 
co-originarie. Il non essere, relativo e relazionale, come dinamica del 
dono-di-sé, come amore-pericoresi, è in tal modo interiore all'essere ed è 
attuato in quanto tale dalla libertà. "L'amore - spiega S. Bulgakov - ha se 
stesso nell'altro, esiste solo nell'auto-identificazione con l'altro; in sé è 
come se non esistesse tuttavia in questo non esistere si palesa tutta la forza 
della sua esistenza, nella misura in cui l'altro esiste in lui e la vita si 
attua nell'altro". 
Guardando alla Trinità, scopriamo 
allora con sorpresa che il non appare costitutivo dell'alterità. Ciascuno dei 
Tre non è l'Altro. Un non che non è dell'Essere assoluto che è Dio, ma del suo 
dispiegarsi nelle tre Persone. Ciascuno dei Tre è tutto donato agli Altri: è Se 
stesso non essendo in Sé, ma negli Altri, ed è Se stesso perché dagli Altri è 
restituito a Sé nella reciprocità. 
M. Cerini spiega l'amore del 
Verbo in seno alla Trinità come "un vuoto infinito di Sé, un dono totale di Sé 
in quanto Verbo al Padre, come un nulla assoluto, che però è amore, perciò è: ed 
è eternamente il Figlio; è risposta a quel dono totale di Sé - a quel vuoto 
infinito -, che è il Padre, il quale per primo dà tutto Se stesso: si direbbe 
che si svuota, che si annulla - ché il dar tutto sulla terra include il 
"perdere", il "vuoto" -, invece è, perché è amore: ed è il Padre, che 
eternamente genera il Figlio. E dall'incondizionato loro mutuo amore procede lo 
Spirito Santo, I'Amore fatto Persona. (...) E il paradosso dell'amore, che non 
è, non esiste per sé, perciò è: è amore". 
Gesù ci mostra dunque che il 
dinamismo vero dell'amore, nel quale l'uomo trova il compimento del proprio 
essere personale, è costitutivamente attraversato da un momento di morte, di 
dono di sé, di perdita della propria vita. Un momento di kenosi, dunque. Per 
illustrare la dinamica del mistero che si stava per compiere, Gesù, nel Vangelo 
di Giovanni, aveva affermato: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la 
mia vita, per poi riprenderla di nuovo" (10, 17). Gesù per ritrovare la propria 
vita nella risurrezione e nella pienezza del suo corpo glorioso che conterrà la 
totalità della nuova creazione, deve consegnarla, perderla. Il riconoscimento 
dell'alterità e la pienezza della reciprocità come unità nella distinzione 
presuppongono la capacità di "perdersi per ritrovarsi" (cf. Lc 9, 25; Gv 15, 13; 
Gv 10, 17-18). 
Nel suo dinamismo profondo, il 
mistero pasquale ci rivela in tal modo che l'amore ha un momento di non essere, 
che prelude una nuova pienezza di essere che si trascende. La radicalità del 
dono di sé, in Gesù, coincide infatti anche con il dono dello Spirito. Gesù 
Crocifisso "consegna" lo Spirito (cf. Gv 19, 30). Il momento della kenosi, ossia 
dello svuotamento di sé e del non essere, si compie nel dono dello Spirito.
Se la kenosi di Cristo rivela la 
realtà di un relativo non essere costitutivo dell'alterità all'interno della 
Trinità e consente il rapporto di pericoresi nella libertà dei Tre, che fonda 
unità e distinzione, la kenosi è necessariamente anche la legge della comunità 
che nasce dall'evento pasquale. Il mistero pasquale, nella sua componente 
kenotica, fonda e definisce la comunità. 
Abbiamo già detto che la 
traduzione in situazione umana della legge trinitaria è il comandamento 
dell'amore reciproco: "Come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli 
altri" (Gv 13, 34; cf. 15, 12.17). In esso, se rispecchia la dinamica 
trinitaria, dovremo trovare anche quel non essere che caratterizza quella 
dinamica. L'elemento kenotico infatti è presente nel comandamento nuovo, ed è 
dato da quel "come io vi ho amati". L'"amatevi tra di voi" dice pericoresi tra i 
membri della comunità. Il "come io vi ho amati" dice la modalità dei rapporti 
mutui. Gesù ha amato fino a dare la vita per gli amici, ha amato fino al segno 
estremo della morte e della morte di croce (cf. Gv 13, 1) fino alla perdita 
della propria identità, a non essere, nella perdita di rapporto con il Padre. 
"Sì, Gesù crocifisso e abbandonato è il modo di amare i fratelli. La sua morte 
in croce, abbandonato, è l'altissima, divina, eroica lezione di Gesù su cosa sia 
l'amore". 
Gesù non solo si pone come 
modello, ma offre anche la possibilità di amare come lui ha amato. Comunica 
infatti lo stesso amore con cui lui ha amato. Se è vero che la vita cristiana è 
la continuazione della vita di Cristo nei cristiani, la nostra carità non è 
soltanto l'imitazione della sua carità ma, più profondamente, essa è la 
partecipazione a questa carità e il suo prolungamento; non possiamo amare 
cristianamente se non per mezzo di Gesù e in Gesù. 
Il come del comandamento nuovo 
può infatti essere inteso anche in senso causale oltre che proposta di un 
modello da imitare. Può essere letto nel senso di perché: amatevi perché io vi 
amo; amandovi vi comunico il mio amore e quindi la capacità di amare. Il come 
del comandamento nuovo rimanda infatti a un altro come: "Come il Padre ha amato 
me, così io ho amato voi; restate nel mio amore" (Gv 15, 9). Gesù ci ha amati, 
dunque, con lo stesso amore col quale il Padre e Lui si amano, rendendoci in tal 
modo capaci di un'analoga relazione d'amore tra noi. L'amore fraterno è reso 
possibile dall'amore con cui Cristo ci ama. 
È significativo che la duplice 
enunciazione del comandamento nuovo includa il discorso sui tralci e la vite (cf. 
Gv 15, 1-7) e l'enunciazione della linea discendente dell'agape (cf. Gv 15, 9). 
E l'unica agape divina che unisce nello Spirito il Padre e il Figlio, il Figlio 
e i figli, i figli - nel Figlio - col Padre e tra loro. Non si tratta, 
naturalmente, di un amore della stessa identità o della stessa santità di quello 
di Gesù, ma "di un amore della stessa qualità o della stessa natura". Il come 
del comandamento nuovo infatti "non indica un semplice paragone, una analogia 
più o meno lontana o una somiglianza superficiale (...), ma una conformità 
profonda, poiché l'esempio di Gesù è anche la norma dell'amore e il suo 
fondamento". Si tratta, in definitiva, di "un'accezione teologica pregnante: 
l'imitazione è somiglianza, prolungamento e assimilazione: come il Padre ama 
Gesù, così Gesù ama i credenti (cf. Gv 15, 9; 17, 23) e i credenti devono amarsi 
dello stesso amore (cf. Gv 15, 12) (...); come il Padre e il Figlio sono uno, i 
discepoli devono essere uno (cf. Gv 17, 21)". Per questo Gesù può chiedere al 
Padre che si realizzi tra i discepoli quella pienezza di unità che c'è tra il 
Padre e Lui: "Tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, 
siano anche essi in noi una cosa sola" (Gv 17, 21). 
"Solo Cristo - ha scritto Chiara 
Lubich riprendendo queste parole del Vangelo di Giovanni - può fare di due uno, 
perché il suo amore, che è annullamento di sé (amore infuso in noi dallo Spirito 
Santo), ci fa entrare fino in fondo nel cuore degli altri". In chi "si annulla" 
e "fra due" che si uniscono annullandosi l'uno nell'altro, per amore, "Cristo 
rivive e, nel Cristo, il Padre". Questa unità, prosegue Chiara Lubich, esige un 
amore ai fratelli che è "annullamento di sé", perché Cristo viva in ognuno, e 
dall'unità tutti riaffiorino uguali e distinti. Si rivive il mistero trinitario 
dove "i Tre vivono unificandosi per la loro stessa natura: Amore, e unificandosi 
(= annullandosi) si ritrovano". "Quando Gesù è fra noi, siamo uno e siamo tre, 
ciascuno dei quali è uguale all'uno". 
Torneremo più avanti sulle 
esigenze che questo annullamento comporta e sulla concreta dinamica comunitaria 
che ne deriva. Per adesso rimaniamo sul versante teologico per cogliere 
un'ulteriore componente dell'evento pasquale, quella appena accennata, del 
Risorto che vive nella comunità.
LA PRESENZA DEL SIGNORE RISORTO
Avendo Gesù perduto la propria vita nel 
passaggio dell'annientamento, la ritrova gloriosa, pneumatizzata: il Signore, 
Gesù risorto, è lo Spirito (cf. 2 Cor 3, 17). Egli vive ormai un tipo di 
presenza nuova tra i suoi discepoli: è presente nello Spirito nella comunità da 
lui originata. 
Cristo è presente nella sua 
Chiesa, secondo quanto ha promesso: "Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino 
alla fine del mondo" (Mt 28, 20). "La Chiesa è ora presenza reale ed 
escatologica della vittoriosa e definitiva volontà divina di grazia, costituita 
da Dio nel mondo nella persona di Cristo. La Chiesa è il rimanere presente di 
quella prima parola sacramentale, che è Cristo nel mondo che opera ciò che 
esprime". Naturalmente, molteplici sono i modi di questa sua presenza, come ha 
sottolineato ad esempio la Costituzione conciliare sulla Liturgia, più 
diffusamente ripresa dall'Enciclica Mysterium fidei di Paolo VI. Cristo è 
presente nell'assemblea liturgica, nella sua Parola, nei sacramenti, nei suoi 
ministri... Se in questa varietà di presenza è stata solitamente sottolineata 
quella eucaristica, ciò non deve essere a discapito delle altre. "Tale presenza 
- ha scritto Paolo VI riferendosi a quella eucaristica - si dice "reale" non per 
esclusione, quasi che le altre non siano "reali", ma per antonomasia". Piuttosto 
che un'entità isolata rispetto agli altri modi di presenza, essa ha come fine 
quello di approfondire la presenza di Cristo nella comunità e in ogni suo 
membro. La Parola, il Sacramento e l'azione dello Spirito sono finalizzati a 
fare della comunità il luogo permanente della presenza di Cristo. La teologia 
odierna, a partire dal Concilio, ha riscoperto la multiformità di tale presenza
L'approfondimento della realtà 
della Chiesa locale e della Chiesa come mistero di comunione ha soprattutto 
messo in rilievo la presenza del Signore risorto tra i fedeli che sono riuniti 
nel suo nome, secondo la promessa di Gesù: "dove sono due o tre riuniti nel mio 
nome, io sono in mezzo a loro". E la riscoperta di Cristo presente nella Chiesa 
locale, espressione concreta della Chiesa universale. Più concretamente ancora, 
è la riscoperta di Cristo presente non solo in ogni singola Chiesa locale, nel 
senso di diocesi o parrocchia, ma in ogni cellula di cristianesimo. Poiché 
Cristo è presente anche solo dove sono "due o tre", anche nella più piccola 
espressione di comunione vi è la Chiesa. Non è che in questo modo, scriveva già 
O. Casel, "l'unica Ecclesia si frantumi in una pluralità di singole comunità, né 
che la molteplicità delle singole comunità unite insieme formi l'unica Ecclesia. 
L'Ecclesia è soltanto una, dovunque essa appare, è tutta intera e divina, anche 
là dove soltanto due o tre sono adunati nel nome di Cristo". "In piccolo - 
annota un esegeta di Matteo -, la Chiesa è dappertutto, là dove due o tre sono 
radunati nel nome del Signore. E una comunità intorno a Cristo e in Cristo. La 
Chiesa è universalmente là dove c'è la comunità di tutti i fedeli attorno a 
Cristo". 
Dobbiamo tuttavia riconoscere che 
questo tipo di presenza, particolarmente adatto per definire la natura della 
comunità religiosa, è stato solitamente ristretto, nella comprensione teologica, 
all'ambito cultuale e liturgico, quasi fosse legato esclusivamente al momento in 
cui la comunità cristiana si riunisce per pregare e celebrare i sacramenti, Il 
Concilio Vaticano II, che pure mette nuovamente in luce la presenza reale di 
Cristo in mezzo nell'assemblea liturgica (cf. SC 7), non si limita a questo tipo 
di presenza. Esso vede attuarsi la presenza di Gesù promessa in Matteo 18, 20 
anche nell'ambito dell'apostolato (cf. AA 18). Non si limita nemmeno ai 
cattolici: anche fra i cristiani di diversa denominazione è possibile stabilire 
la presenza di "Gesù in mezzo" (cf. UR 8). Siamo in linea con gli studi 
esegetici, che giungono alla conclusione che "Gesù risorto promette la sua 
presenza ad ogni riunione (fatta a causa o per il suo nome) prescindendo dal 
loro genere e ampiezza". 
Il Concilio può così arrivare a 
cogliere questo tipo di presenza come tipico della comunità religiosa. "Con 
l'amore di Dio diffuso nel cuore per mezzo dello Spirito Santo - si legge in PC 
15 - la comunità come una famiglia unita nel nome del Signore gode della Sua 
presenza". 
Nel suo famoso commento al 
Perfectae caritatis, Tillard ha sottolineato la ricchezza di questo testo da cui 
traspare la realtà misterica della presenza del Signore tra i religiosi, la 
relazione tra questa presenza e la carità scambievole, la dimensione ecclesiale 
che la comunità si trova ad assumere. "Il numero - egli scrive - ci sembra uno 
dei perni di tutto il Decreto, uno dei luoghi dove emerge al massimo lo spirito 
del Concilio e da cui si percepisce con più vigore la dimensione essenzialmente 
ecclesiale della vita religiosa. Fondata sull'Eucaristia e la parola di Dio, la 
comunità non è il semplice agglomerato di cristiani in cerca della perfezione 
personale ciascuno per conto suo; ma è, nella sua vita fraterna, il segno, la 
proclamazione della grande koinonia di carità che, nel Figlio, il Padre vuole 
instaurare tra gli uomini. Non crediamo di sopravvalutare la forza di questo 
numero affermando che i suoi redattori hanno reso alla vita religiosa e 
indirettamente a tutta la Chiesa di Dio un servizio inapprezzabile, mettendo 
l'accento sulla qualità misterica dello stesso essere della comunità". Infatti, 
continua più avanti, "la vita comune è l'attuazione della koinonia fraterna di 
tutti, per la presenza del Signore Gesù in persona. Se ne conclude che essa è 
nel mondo l'annuncio della venuta di Cristo. La manifestazione della carità 
fraterna, il rispetto reciproco, il desiderio di portare il peso gli uni degli 
altri non sono altro che la traduzione in atti umani della realtà profonda e 
misteriosa della comunione di vita con il Padre in Gesù saldata per mezzo del 
battesimo, radicata dall'Eucaristia, ma che tutti, per la loro professione, 
vogliono condurre alla sua pienezza". 
Il Concilio non fa altro che 
riportare in evidenza una esperienza che da sempre aveva accompagnato la storia 
della vita religiosa, anche se forse non era mai stata tematizzata e 
approfondita così come ai nostri giorni. Il monastero è stato più volte 
considerato luogo della presenza di Cristo in mezzo ai suoi discepoli. Leggiamo, 
ad esempio, in Teodoro Balsamon: "Poiché dalla divina bocca è stato detto: "dove 
sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro", è necessario che 
almeno in tre fondino un'opera, che si mette sotto la denominazione di 
monastero", Basilio più volte nell'Asketicon riferisce alla sua comunità il 
passo di Matteo 18, 20. Giovanni, vescovo di Antiochia, a sua volta così 
definisce il monastero: "Non sai forse cosa sia un monastero? È una casa tutta 
sacra, forse eretta in nome di Cristo Dio, nei cui sacri penetrali ci sono 
dipinti di Lui, dei suoi miracoli e delle sue divine sofferenze. Nel tempio ci 
sono i libri sacri e il sacro prezioso arredo. C'è la santa comunità di coloro 
che per Dio hanno rinnegato il mondo, ciò che è nel mondo e se stessi. Essi 
stanno presso Dio, sono in ascolto di Lui, giorno e notte cantano e 
salmeggiano... E lo hanno sempre in mezzo a loro, secondo la sua sicurissima e 
divina promessa: "poiché dove sono due o tre riuniti nel mio nome - Egli ha 
detto -, io sono in mezzo a loro"". 
Particolarmente vive, al 
riguardo, sono le parole che Angela Merici rivolge alle donne che devono 
custodire le vergini consacrate: "Specialmente abbiate cura che esse siano unite 
e concordi di volere, così come si legge degli Apostoli, e di altri cristiani 
della Chiesa primitiva (...). Anche voi sforzatevi di essere così con tutte le 
figlioline vostre, perché quanto più sarete unite, tanto più Gesù Cristo sarà in 
mezzo a voi a guisa di padre e buon pastore". "L'ultima parola mia, che vi dico, 
e con la quale perfino col mio sangue vi prego, è che siate concordi, unite 
insieme tutte di un solo cuore e di un solo volere. Siate legate l'una all'altra 
col legame della carità, apprezzandovi, aiutandovi, sopportandovi in Gesù 
Cristo. Poiché, se vi sforzerete di essere così, senza dubbio il Signore Iddio 
sarà in mezzo a voi". 
Quest'ultimo testo, oltre a 
confermare la visione della comunità come luogo della presenza del Risorto, fa 
risaltare la particolare natura di tale presenza. Essa esige l'apporto 
costitutivo delle persone che compongono la comunità, consistente in un 
atteggiamento concreto e radicale di amore reciproco, tale da creare un ambiente 
di comunione e di unità. Per avere la presenza del Signore risorto occorre 
infatti essere riuniti "nel suo nome". Non basta una riunione qualsiasi. Quella 
del Risorto nella comunità, ha scritto Congar, è "una presenza di alleanza, 
quella in cui Dio si è impegnato con promessa ad essere attivo, nella sua 
grazia, nelle operazioni ecclesiali, una volta poste le condizioni e rispettate 
le strutture dell'alleanza", che sono appunto la comunione fraterna, il 
radunarsi "nel suo nome". Ciò è particolarmente consono alla comunità religiosa, 
che è unita proprio nel nome di Gesù, per vivere alla sua sequela, in obbedienza 
alla sua parola, soprattutto al comandamento dell'amore reciproco. 
La comunità religiosa, allora, è 
luogo in cui Cristo si fa presente e si visibilizza la Chiesa; autentico luogo 
della sequela dove si continua l'esperienza dei Dodici e dei discepoli attorno 
al Maestro. Lui stesso si fa presente tra coloro che ha chiamato e consacrato a 
sé, costituendoli in comunità. Lui stesso vive in mezzo a loro facendosi loro 
koinonia. 
Come abbiamo rilevato 
precedentemente, l'amore tra i membri della comunità non è solo un impegno 
etico. È piuttosto il frutto dello stesso amore divino partecipato. Nella 
reciprocità dell'amore all'interno della comunità, è l'amore stesso di Cristo 
che ama. Lui è l'io che ama e il tu che riceve l'amore, così che "il Figlio di 
Dio incarnato, presente nella sua comunità umana a titolo di "io" e di "tu", vi 
forma anche un "noi"". Partendo da questa natura teologale della carità, J. 
Galot può affermare la realtà ontologica della presenza promessa da Gesù: 
"Bisogna riconoscere pieno valore all'affermazione di Gesù: "Dove sono due o tre 
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20). Sarebbe non 
comprendere il senso profondo dell'affermazione intendendola unicamente come una 
presenza morale del Cristo in ogni riunione (. . .). Questa presenza conserva 
tutta la sua realtà. È una presenza ontologica". 
M. Zago, superiore generale degli 
Oblati di Maria Immacolata, commentando la Regola del suo Istituto che presenta 
la comunità degli apostoli con Gesù come il modello di vita, mi sembra sia 
riuscito a sintetizzare efficacemente la duplice dimensione - di alleanza e 
ontologica - di questa presenza. "Non si tratta - egli spiega - di un modello 
puramente esteriore, ma dell'attuarsi della stessa realtà. Anche se il modello 
si attua in modo analogo, esso tuttavia rimane pur sempre reale. Cristo ci 
chiama, ci riunisce ed è presente. Lo seguiamo e ne diventiamo cooperatori nella 
comunità e attraverso la comunità, perché Cristo si fa presente in essa: "là 
dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20). 
La santità e la missione passano per la comunità non perché questa ne è un 
mezzo, ma perché Cristo si fa presente in essa e attraverso di essa. Certo, 
questa presenza non si realizza con una parola sacramentale come 
nell'Eucaristia, ma con il nostro stesso modo di vivere cristiano. La 
Costituzione 37 ci dà la chiave teologica e ci indica la via esperienziale per 
realizzare la comunità-missione: "Nella misura in cui cresce tra loro la 
comunione di spirito e di cuore, gli Oblati testimoniano agli uomini che Gesù 
vive in mezzo ad essi e fa la loro unità per mandarli ad annunciare il suo 
Regno"".
La medesima realtà, con accenti 
altrettanto forti, è espressa nei confronti di altre forme di vita comune. 
Madeleine Delbrel in un testo dal titolo significativo: A proposito della 
nascita di piccole comunità laiche, scrive: ""Dove due o più sono riuniti nel 
mio nome, io sarò con loro". Vivere in comunità è un esprimere per il mondo una 
sorta di sacramento. È un garantire la presenza di Gesù. La vita comune vissuta 
con spirito di carità totale è una scintilla di cui difficilmente si può fare a 
meno per accendere il fuoco con coloro che ci circondano. (...) La testimonianza 
di uno solo, che lo voglia o meno, porta soltanto la sua firma. La testimonianza 
di una comunità porta, se questa è fedele, la firma del Cristo", 
Parlando del focolare, abbiamo 
visto come Chiara Lubich abbia sottolineato la realtà ontologica della presenza 
di Gesù in mezzo e il suo carattere personale. Con il suo carisma ella ha 
contribuito notevolmente a mettere in luce questa presenza del Risorto nella 
comunità, approfondendone la natura. In alcuni versi, scritti in occasione del 
Natale, sottolinea ancora una volta quanto sia reale la presenza di Gesù in 
mezzo ai suoi: è lo stesso Gesù presente fra Maria e Giuseppe a Betlemme:
""Dove sono due o tre uniti 
nel mio nome, ci sono io 
in mezzo a loro". 
In mezzo a loro esattamente 
come duemila anni fa 
in mezzo a Maria e Giuseppe. 
Solo che la sua presenza, 
pur reale, è spirituale. 
Gesù non ama rimaner nei tabernacoli 
solamente. 
Il suo desiderio è stare fra gli uomini
e condividere con loro i pensieri, i 
progetti, 
le preoccupazioni, le gioie... 
Anche per questo è venuto sulla terra:
per darci la possibilità d'averlo 
fra noi sempre a portar il calore, 
la speranza, la luce, la concordia 
che apporta ogni Natale"
Chiara Lubich, approfondendo tale tipo di 
presenza, spiega come essa è reale, ma non locale. Dire che "Gesù è in mezzo a 
noi" significa essere tutti e ciascuno penetrati dalla realtà di Cristo e quindi 
essere fatti uno da Lui e in Lui. "Quando due anime s'incontrano in nome di 
Cristo, Cristo nasce fra di loro, cioè in loro e, mantenendo quest'unità, 
possono con sincerità dire: "Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in 
me"". 
Consapevole della realtà di tale 
presenza, la comunità religiosa può sperimentarne i suoi innumerevoli frutti. La 
presenza del Signore risorto nella comunità è infatti una presenza operante. Il 
documento della SCRIS su La dimensione contemplativa della vita religiosa, 
rivolgendosi a tutti i religiosi e le religiose, dopo aver riaffermato che "la 
comunità religiosa è in se stessa una realtà teologale, oggetto di 
contemplazione: come "famiglia unita nel nome del Signore" (PC 15)", trae la 
prima fondamentale conseguenza. Se la comunità è il luogo della presenza di Dio, 
essa "è, per natura sua, il luogo dove l'esperienza di Dio deve potersi 
particolarmente raggiungere nella sua pienezza e comunicare agli altri. La 
reciproca accoglienza fraterna, nella carità, contribuisce a "creare un ambiente 
atto a favorire il progresso di ciascuno" (ET 39)". Perché il Santo stesso è 
presente tra i membri della comunità, essi possono raggiungere la santità.
L'azione di Gesù in mezzo alla 
comunità religiosa favorisce infatti "il progresso di ciascuno" in molteplici 
modi. Cristo presente nella sua comunità opera anzitutto sul piano illuminativo. 
Come quando si pose in mezzo ai due di Emmaus, Egli, facendosi nuovamente 
presente in seno alla comunità, continua a spiegare il senso delle Scritture e a 
far ardere i cuori. Quest'azione di tipo illuminativo può essere percepita a 
vari livelli. Le verità della fede e della vita cristiana, fatte oggetto di 
comunione, colte nell'unità di persone che si amano, illuminate dallo Spirito 
che il Risorto presente comunica ai suoi, sono percepite in profondità, colte 
dal di dentro, raggiunte con un tipo di conoscenza di ordine sapienziale, 
esperienziale. Nei due di Emmaus la presentazione delle Scritture aveva avuto 
come effetto l'ardore del cuore. Era stata quindi una penetrazione amorosa del 
mistero. La vita nell'amore scambievole, a sua volta, facendo vivere in Dio e 
facendo partecipare alla vita di Dio, consente di scoprire le cose come Dio le 
vede e le vuole, quasi per connaturalità, La presenza del Signore tra i suoi 
riuniti nel suo nome porta infatti con sé l'intera presenza trinitaria e fa 
vivere a modo della Trinità. La vita spirituale, la vita liturgica, la vita di 
preghiera, la realtà della Chiesa, insomma tutte le componenti più intime e 
sostanziali della vita dei religiosi, vengono interiorizzate e diventano realtà 
vive e operanti. 
Questo vale, in particolare, 
anche per la conoscenza, la riscoperta e l'attuazione del carisma specifico 
dell'Istituto. Essendo questa, per sua natura, una grazia comunitaria, deve 
essere custodita, compresa e approfondita proprio dalla comunità come tale e non 
può essere percepita e vissuta nella sua interezza se non all'interno di una 
dinamica di comunione. 
La presenza del Risorto diventa 
inoltre garanzia di luce per quel discernimento comunitario oggi così esigito 
con urgenza da tanti. Davanti al compito che la comunità ha di valutare il 
proprio progetto di vita, le scelte pastorali, le decisioni da prendere, Cristo 
stesso, con la sua azione illuminatrice, si fa interprete del disegno del Padre 
sull'intera comunità.
Lui presente nella comunità 
illumina infine le coscienze a livello personale. La presenza del Signore, è 
stato detto, è come un "altoparlante di Gesù in ciascuna anima", che 
"ingigantisce la sua voce dentro di noi e ci rende più atti a coglierla: a 
cogliere (e a vivere di conseguenza) l"'uomo nuovo" in noi". Nell'unità si 
percepisce meglio ciò che Dio chiede a ciascuno e si è più disponibili a 
conformarsi al suo volere. Appaiono con maggiore immediatezza i difetti da 
eliminare, i passi in avanti da compiere, le scelte da operare. 
L'azione del Maestro nella sua 
comunità, oltre a essere illuminativa, è volta a rafforzare la volontà portando 
a compimento ciò che si è percepito. Comunica il coraggio, la parrhesia, la 
forza per intraprendere il cammino di santità e per affrontare le difficoltà 
inerenti alla crescita spirituale: le contraddizioni esterne, le prove 
interiori, gli scoraggiamenti. Infonde gioia, e porta la pace anche in mezzo 
alle situazioni più difficili. "Grande è la forza proveniente dall'essere 
riuniti - scrive in proposito Giovanni Crisostomo commentando la sentenza dei 
Proverbi: "Il fratello aiutato dal fratello è come una città forte" (18,19) - 
perché, stando riuniti insieme, cresce la carità: e, se cresce la carità, 
necessariamente cresce [fra noi] la realtà di Dio". Si intravede in queste 
parole anche l'aspetto di protezione contro il male. Il Signore presente tra 
fratelli uniti difende dalla tentazione, dal pericolo, dalle avversità. 
Ma queste sono solo alcune 
espressioni di ciò che compie il Signore presente nella comunità. Si potrebbe 
parlare della vita di preghiera: non è Lui che tra quanti pregano si fa 
preghiera al Padre? Si potrebbe parlare del sostentamento materiale: Gesù non ci 
ha detto di cercare prima di tutto il Regno di Dio, sicuri che così facendo 
tutto il resto ci sarebbe venuto in sovrappiù? Ma il "Regno di Dio è in mezzo a 
voi" (Lc 17, 21). E Lui, quindi, reso presente e vivo nella comunità, che attira 
la provvidenza del Padre. E ancora: non è Lui che irradia la luce e permette 
quella testimonianza di vita che incide su quanti vengono a contatto con la 
comunità? Potremmo continuare. In definitiva, la vita di unità fa vivere ogni 
membro della comunità e gli permette di crescere in ogni espressione della vita.
La comunità inoltre - e siamo a 
un altro degli effetti del Signore vivente in essa - non vive per se stessa. 
Cristo la apre e la pone in atteggiamento di servizio, la rende strumento della 
sua diaconia e testimonianza di vita nuova, la lancia ad annunciare e a 
trasmettere il mistero che l'ha salvata. Il Risorto che vive in essa la rende 
testimone della sua risurrezione. Come il Risorto invia gli apostoli nel mondo 
intero il giorno dell'Ascensione, e come lo Spirito proietta la prima comunità 
cristiana al di fuori del Cenacolo il giorno della Pentecoste, così ogni 
comunità religiosa, fatta autentica comunità pneumatica del Risorto, è 
proiettata verso il mondo, apparendo intrinsecamente apostolica per natura.
Il Signore presente in mezzo ai 
suoi informa tutti gli aspetti della vita della comunità. Ai religiosi non 
rimane che vivere nell'amore vicendevole, di quell'amore che egli infonde 
donando il proprio Spirito. "Come il Padre e il Figlio amandosi (similmente a 
due legni che ardono incrociati) mandano un'unica fiamma: lo Spirito Santo", 
così noi, amandoci come loro, "bruciando come tanti legni sovrapposti, dalla 
nostra morte totale sprigioneremo un'unica fiamma: lo Spirito Santo, lo Spirito 
del Risorto in mezzo a noi...". 
Ci introduciamo così alla 
conclusione della contemplazione del mistero pasquale: lo Spirito dato dal 
Risorto alla sua comunità. Il dono dello Spirito è infatti componente intrinseca 
del mistero pasquale. Morte, risurrezione e invio dello Spirito sono l'unico 
mistero, che per noi si storicizza nel tempo in una successione di momenti.
LA CARITÀ DONO DELLO SPIRITO
Il brano del Perfectae caritatis che 
abbiamo letto precedentemente (n. 15), univa strettamente la realtà della 
carità, dello Spirito e della presenza del Risorto nella comunità religiosa: 
"Con l'amore di Dio diffuso nel cuore per mezzo dello Spirito Santo la comunità 
come una famiglia unita nel nome del Signore gode della Sua presenza". 
La comunità possiede la carità 
come dono portato dallo Spirito. La carità a sua volta consente che si 
stabiliscano le condizioni perché il Signore sia efficacemente presente. Essa fa 
sì che la comunità non sia una qualsiasi riunione di persone, ma una riunione 
"nel nome di Gesù". E un processo, questo, che suppone l'invio dello Spirito 
alla comunità. E tale è l'azione che Cristo compie nell'evento pasquale e come 
momento culminante di esso: manda lo Spirito. Il Risorto si pone così 
all'origine della comunità, perché le invia lo Spirito che comunica l'agape 
divina, e si pone come suo compimento non solo facendosi presente in essa come 
frutto della reciprocità dell'amore, ma anche consentendo alla comunità di 
"godere" in modo cosciente della propria presenza. Passando attraverso l'ascesi 
che l'amore scambievole comporta - ricordiamo la realtà della kenosi -, la 
comunità è chiamata ad accedere alla dimensione mistica, sperimentando in sé la 
presenza del Risorto. 
Torniamo così al punto da cui 
siamo partiti nella nostra riflessione sulla comunità: Dio Amore. La vita che il 
Risorto comunica inviando lo Spirito è la vita stessa di Dio Amore, è agape. 
Siamo veramente fatti "partecipi della natura divina" (2 Pt 1, 4). 
Se la consacrazione religiosa è 
la radicalizzazione del battesimo, essa è vita di carità vissuta in pienezza. 
Nel battesimo infatti ci è stato comunicato lo Spirito Santo nel quale il Padre 
e il Figlio si amano e amano gli uomini. "Sarete battezzati in Spirito Santo", 
aveva detto Gesù prima della sua ascensione (At 1, 5;11, 16). Il battesimo, 
ossia l'immersione nello Spirito, significa che lo Spirito ci permea totalmente, 
fino alla radice dell'essere, tanto da far dire a Paolo che nel battesimo "tutti 
ci siamo abbeverati a un solo Spirito" (1 Cor 12, 13). Lo Spirito Santo, datoci 
da Cristo morto sulla croce e risorto, è il principio della nuova vita in Cristo 
e l'amore di Dio, quello con il quale Dio ama, è diffuso nei nostri cuori. Il 
battesimo ci ha uniti a Cristo morto e risorto, ossia a quell'atto di libertà 
mediante il quale Egli ci ha supremamente amato dando la sua vita per noi, a 
quella carità insigne nella quale la sua morte lo ha in qualche modo fissato.
La comunità religiosa è chiamata 
a rivivere in pienezza tale realtà battesimale. Essa vive, per la forza dello 
Spirito del Risorto, relazioni fondate su un amore che non è di origine umana, 
ma divina (cf. Rm 55; 1 Ts 4, 9;1 Gv 4, 7). Essa vive del dono di Dio. Solo 
grazie a questa carità teologale possiamo adempiere al comandamento nuovo 
dell'amore reciproco. Solo grazie a questo dono dall'Alto si può costituire la 
comunità, vista come insieme di relazioni d'amore, modellate sulle relazioni 
trinitarie. 
Possiamo allora cogliere il 
perché dell'esortazione che Giovanni Paolo II, nella Redemptoris donum, ha 
rivolto ai religiosi, invitandoli a vivere con coerenza la vocazione religiosa 
come particolare partecipazione all'amore di Dio. Dopo aver attestato che la 
consacrazione e la professione dei consigli evangelici "sono una particolare 
testimonianza d'amore", egli continua: "Proprio così pregava l'Apostolo nella 
sua lettera ai Filippesi: "Che la vostra carità si arricchisca sempre più 
(....)" (Fil 1, 9-11). Per opera della redenzione di Cristo "l'amore di Dio è 
stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato 
dato" (Rm 5, 5). Chiedo incessantemente allo Spirito Santo di concedere a 
ciascuno e a ciascuna di voi, "secondo il proprio dono" (cf. 1 Cor 7, 7), di 
dare una particolare testimonianza di quest'amore. Vinca in voi, in modo degno 
della vostra vocazione, "la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù...", 
quella legge che ci ha "liberati dalla legge... e dalla morte" (Rm 8, 2). Vivete 
dunque di questa vita nuova a misura della vostra consacrazione ed anche a 
misura dei diversi doni di Dio che corrispondono alla vocazione delle singole 
famiglie religiose. (...) Proprio di questa testimonianza d'amore hanno bisogno 
il mondo d'oggi e l'umanità. Essi hanno bisogno della testimonianza della 
redenzione, così come questa è impressa nella professione dei consigli 
evangelici" (n. 14). 
Ciò che costituisce una comunità 
non è una casa, un determinato numero di persone, un ordinamento comune, la 
partecipazione ad atti comuni. Questi sono elementi che possono eventualmente 
esprimere la reciproca comunione raggiunta, e insieme possono essere i mezzi per 
realizzarla, ma non la costituiscono. Ciò che costituisce la comunità è il 
reciproco amore tra tutti i suoi membri un amore che, sull'esempio di quello di 
Cristo, è pronto a dare la vita in una reale kenosi; la presenza del Signore 
risorto; lo Spirito che la anima rendendola partecipe dell'amore trinitario.
Fonte testo : http://www.clerus.org
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