domenica 20 aprile 2025

Messaggio "URBI ET ORBI" di Papa Francesco Pasqua 2025


MESSAGGIO «URBI ET ORBI»
DEL SANTO PADRE FRANCESCO

PASQUA 2025

Piazza San Pietro
Domenica, 20 aprile 2025



Cristo è risorto, alleluia!

Fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Oggi nella Chiesa finalmente risuona l’alleluia, riecheggia di bocca in bocca, da cuore a cuore, e il suo canto fa piangere di gioia il popolo di Dio nel mondo intero.

Dal sepolcro vuoto di Gerusalemme giunge fino a noi l’annuncio inaudito: Gesù, il Crocifisso, «non è qui, è risorto» (Lc 24,6). Non è nella tomba, è il vivente!

L’amore ha vinto l’odio. La luce ha vinto le tenebre. La verità ha vinto la menzogna. Il perdono ha vinto la vendetta. Il male non è scomparso dalla nostra storia, rimarrà fino alla fine, ma non ha più il dominio, non ha più potere su chi accoglie la grazia di questo giorno.

Sorelle e fratelli, specialmente voi che siete nel dolore e nell’angoscia, il vostro grido silenzioso è stato ascoltato, le vostre lacrime sono state raccolte, nemmeno una è andata perduta! Nella passione e nella morte di Gesù, Dio ha preso su di sé tutto il male del mondo e con la sua infinita misericordia l’ha sconfitto: ha sradicato l’orgoglio diabolico che avvelena il cuore dell’uomo e semina ovunque violenza e corruzione. L’Agnello di Dio ha vinto! Per questo oggi esclamiamo: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale).

Sì, la risurrezione di Gesù è il fondamento della speranza: a partire da questo avvenimento, sperare non è più un’illusione. No. Grazie a Cristo crocifisso e risorto, la speranza non delude! Spes non confundit! (cfr Rm 5,5). E non è una speranza evasiva, ma impegnativa; non è alienante, ma responsabilizzante.

Quanti sperano in Dio pongono le loro fragili mani nella sua mano grande e forte, si lasciano rialzare e si mettono in cammino: insieme con Gesù risorto diventano pellegrini di speranza, testimoni della vittoria dell’Amore, della potenza disarmata della Vita.

Cristo è risorto! In questo annuncio è racchiuso tutto il senso della nostra esistenza, che non è fatta per la morte ma per la vita. La Pasqua è la festa della vita! Dio ci ha creati per la vita e vuole che l’umanità risorga! Ai suoi occhi ogni vita è preziosa! Quella del bambino nel grembo di sua madre, come quella dell’anziano o del malato, considerati in un numero crescente di Paesi come persone da scartare.

Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti!

In questo giorno, vorrei che tornassimo a sperare e ad avere fiducia negli altri, anche in chi non ci è vicino o proviene da terre lontane con usi, modi di vivere, idee, costumi diversi da quelli a noi più familiari, poiché siamo tutti figli di Dio!

Vorrei che tornassimo a sperare che la pace è possibile! Dal Santo Sepolcro, Chiesa della Risurrezione, dove quest’anno la Pasqua è celebrata nello stesso giorno da cattolici e ortodossi, s’irradi la luce della pace su tutta la Terra Santa e sul mondo intero. Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo. In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!

Preghiamo per le comunità cristiane in Libano e in Siria che, mentre quest’ultimo Paese sperimenta un passaggio delicato della sua storia, ambiscono alla stabilità e alla partecipazione alle sorti delle rispettive Nazioni. Esorto tutta la Chiesa ad accompagnare con l’attenzione e con la preghiera i cristiani dell’amato Medio Oriente.

Un pensiero speciale rivolgo anche al popolo dello Yemen, che sta vivendo una delle peggiori crisi umanitarie “prolungate” del mondo a causa della guerra, e invito tutti a trovare soluzioni attraverso un dialogo costruttivo.

Cristo Risorto effonda il dono pasquale della pace sulla martoriata Ucraina e incoraggi tutti gli attori coinvolti a proseguire gli sforzi volti a raggiungere una pace giusta e duratura.

In questo giorno di festa pensiamo al Caucaso Meridionale e preghiamo affinché si giunga presto alla firma e all’attuazione di un definitivo Accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian, che conduca alla tanto desiderata riconciliazione nella Regione.

La luce della Pasqua ispiri propositi di concordia nei Balcani occidentali e sostenga gli attori politici nell’adoperarsi per evitare l’acuirsi di tensioni e crisi, come pure i partner della Regione nel respingere comportamenti pericolosi e destabilizzanti.

Cristo Risorto, nostra speranza, conceda pace e conforto alle popolazioni africane vittime di violenze e conflitti, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan, e sostenga quanti soffrono a causa delle tensioni nel Sahel, nel Corno d’Africa e nella Regione dei Grandi Laghi, come pure i cristiani che in molti luoghi non possono professare liberamente la loro fede.

Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui.

Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura gli uni degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona umana.

In questo tempo non manchi il nostro aiuto al popolo birmano, già tormentato da anni di conflitto armato, che affronta con coraggio e pazienza le conseguenze del devastante terremoto a Sagaing, causa di morte per migliaia di persone e motivo di sofferenza per moltissimi sopravvissuti, tra cui orfani e anziani. Preghiamo per le vittime e per i loro cari e ringraziamo di cuore tutti i generosi volontari che svolgono le attività di soccorso. L’annuncio del cessate-il-fuoco da parte di vari attori nel Paese è un segno di speranza per tutto il Myanmar.

Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma a usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere la fame e favorire iniziative che promuovano lo sviluppo. Sono queste le “armi” della pace: quelle che costruiscono il futuro, invece di seminare morte!

Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano. Davanti alla crudeltà di conflitti che coinvolgono civili inermi, attaccano scuole e ospedali e operatori umanitari, non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli, ma persone con un’anima e una dignità.

E in quest’anno giubilare, la Pasqua sia anche l’occasione propizia per liberare i prigionieri di guerra e quelli politici!

Cari fratelli e sorelle,

nella Pasqua del Signore, la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello, ma il Signore ora vive per sempre (cfr Sequenza pasquale) e ci infonde la certezza che anche noi siamo chiamati a partecipare alla vita che non conosce tramonto, in cui non si udranno più fragori di armi ed echi di morte. Affidiamoci a Lui che solo può far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5)!

Buona Pasqua a tutti!




---------- 

sabato 19 aprile 2025

Messaggio del Patriarca Ecumenico Bartolomeo Pasqua 2025

 



† B A R T O L O M E O

PER MISERICORDIA DI DIO
ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI – NUOVA ROMA
E PATRIARCA ECUMENICO
A TUTTO IL PLEROMA DELLA CHIESA GRAZIA, PACE E MISERICORDIA
DA CRISTO GLORIOSAMENTE RISORTO

***
Venerabilissimi Fratelli Vescovi e figli amati nel Signore,

Per la misericordia e la potenza di Dio, avendo attraversato in preghiera e digiuno il mare della Santa e Grande Quaresima, ed essendo giunti alla Pasqua splendente, glorifichiamo Colui che è disceso fino ai recessi dell’Ade e che, con la Sua Risurrezione dai morti, “ha reso di nuovo accessibile a tutti il Paradiso”, il Signore della gloria.

La Risurrezione non è ricordo di un avvenimento del passato, ma un “bel cambiamento” della nostra esistenza, “una nuova nascita, un modo di vivere diverso, un altro tipo di vita, una trasformazione della nostra stessa natura.”[1] Nel Cristo Risorto viene rinnovata, insieme all’uomo, l’intera creazione. Quando cantiamo la terza ode del Canone pasquale: «Ora tutto è ricolmo di luce: il cielo e la terra e le regioni sotterranee; festeggi così tutto il creato, la risurrezione di Cristo, nella quale è stato rafforzato», allora proclamiamo che l’universo intero è reso saldo e colmato di una luce senza tramonto. Non solo per la storia del genere umano, ma anche per tutta la creazione vale il “prima di Cristo” e il “dopo Cristo”.

La Risurrezione dai morti del Signore costituisce il nucleo del Vangelo, il punto fermo di riferimento di tutti gli scritti del Nuovo Testamento, ma anche della vita liturgica e della pietà degli Ortodossi. In verità, nel «Cristo è risorto» si riassume la teologia della Chiesa. Vivere la sconfitta del potere della morte è fonte di gioia indicibile, “libera dai legami di questo mondo”. «Tutto è pieno di gioia, avendo ricevuto l’esperienza della Risurrezione». Boato di “grande gioia”, la Resurrezione permea l’intera vita ecclesiale, l’ethos e l’azione pastorale, come assaggio della pienezza della vita, della conoscenza e della gioia del Regno eterno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Fede ortodossa e pessimismo sono realtà inconciliabili.

La Pasqua è, per l’essere umano, festa di libertà e vittoria contro le forze ostili; è fare chiesa la nostra esistenza, chiamata alla sinergia per la trasfigurazione del mondo. La storia della Chiesa diventa “una grande Pasqua”, in quanto cammino verso “la libertà della gloria dei figli di Dio”[2]. L’esperienza vissuta della Risurrezione rivela il centro e la dimensione escatologica della libertà in Cristo. Le testimonianze bibliche sulla Risurrezione del Salvatore mettono in luce la potenza della libertà dei credenti, nella quale e solo si manifesta il “grande miracolo”, che resta inaccessibile a ogni forma di costrizione. “Il mistero della salvezza, infatti, è per coloro che vogliono, non per coloro che sono dominati.”[3] L’accoglienza del dono divino come passaggio del credente verso Cristo è la reale risposta libera all’amoroso e salvifico passaggio del Risorto verso l’uomo: “Senza di me non potete far nulla.”[4]

Il mistero della Risurrezione del Signore continua ancora oggi a scuotere le certezze positiviste di coloro che negano Dio, così come “della negazione della libertà umana”, scuote i fautori della “illusione dell’auto-realizzazione senza Dio” e gli ammiratori dell’“uomo-dio” contemporaneo. Il futuro non può essere ingabbiato in un presente autocompiacente, autoreferenziale e chiuso. Non esiste vera libertà senza Risurrezione, senza una prospettiva di eternità.

Fonte di gioia pasquale per la Santa e Grande Chiesa di Cristo è quest’anno anche il comune festeggiamento della Pasqua da parte di tutto il mondo cristiano, che coincide con il 1700º anniversario del Primo Concilio Ecumenico di Nicea, il quale ha condannato l’errata opinione di Ario – colui che “ridusse uno della Trinità, il vero Figlio e Logos di Dio” – e ha stabilito il criterio per la determinazione della data della festa della Risurrezione del Salvatore.

Il Concilio di Nicea inaugura una nuova epoca nella storia sinodale della Chiesa, il passaggio dal livello sinodale locale a quello ecumenico. Com’è noto, il Primo Concilio Ecumenico introdusse il termine “non scritturistico” “consustanziale” (ὁμοούσιος) nel Simbolo della fede, con una chiara valenza soteriologica, che ancora oggi rimane la caratteristica essenziale dei dogmi della Chiesa. In questo senso, i festeggiamenti di questo grande anniversario non sono un volgersi al passato, giacché lo “spirito di Nicea” è presente ininterrottamente nella vita della Chiesa, la cui unità è legata alla retta comprensione e sviluppo della sua identità sinodale. Parlando del Primo Concilio Ecumenico di Nicea, si richiamano i comuni archetipi cristiani e l’importanza della lotta contro le distorsioni della nostra immacolata fede e ci esorta a volgere lo sguardo verso la profondità e l’essenza stessa della Tradizione della Chiesa.

Il comune festeggiamento, quest’anno, del “Santissimo giorno di Pasqua” mette in luce l’attualità della questione, la cui soluzione non solo esprime il rispetto della Cristianità verso le decisioni del Concilio di Nicea, ma anche la consapevolezza che “non è opportuno che vi sia una qualche differenza in una festa di tale santità.”

Con questi sentimenti, ricolmi della luce e della gioia della Risurrezione, e acclamando il gioioso annuncio al mondo “Cristo è risorto!”, onoriamo il giorno santo e dell’adunanza di Pasqua con la confessione sincera della nostra fede nel Redentore, colui che con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a tutti gli uomini e all’intera creazione, attraverso la fedeltà alle sante tradizioni della Grande Chiesa e mediante un amore sincero verso il prossimo, affinché in ciascuno di noi sia glorificato il nome sovraceleste del Signore della gloria.

Fanar, Santa Pasqua 2025

Il Patriarca di Costantinopoli
fervente intercessore presso il Cristo Risorto
per tutti noi.




***

1. Gregorio di Nissa, Discorsi sulla Resurrezione di Cristo, PG 46, 604.
2. Rom. 8,21
3. Massimo il Confessore, Commento al Padre Nostro, PG 90, 880.
4. Gv. 15,5

________

Foto : Nicola Papachristou

venerdì 18 aprile 2025

Il significato della risurrezione di Cristo, Franco Ardusso


Il significato della risurrezione di Cristo

di Franco Ardusso




Le testimonianze del Nuovo Testamento, con linguaggi diversi, parlano della risurrezione di Cristo. Prima di interrogarci sul significato della risurrezione, dobbiamo rispondere a una domanda preliminare e ineludibile: la risurrezione di Cristo è un avvenimento storico, realmente accaduto? È una domanda di capitale importanza poiché – come dice Paolo – «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Il problema della storicità della risurrezione è delicato, perché la risurrezione di Gesù non è solo un fatto straordinario, ma è anche un mistero di salvezza. E il mistero è qualcosa che va al di là della storia e dei suoi metodi di ricerca. Secondo il Nuovo Testamento, Gesù risorto non muore più. Egli vive per sempre nella gloria del Padre, è esaltato in cielo, è il Signore della storia, contemporaneo a tutti gli uomini e a tutti i tempi. Usando termini difficili, si dice che la risurrezione di Cristo è un avvenimento escatologico, l'avvenimento escatologico per eccellenza.

È difficile esprimere con parole umane la realtà del mistero. Eppure bisogna tentare di farlo perché la nostra fede non è una fede muta. E neppure bisogna rifugiarsi in una fede che abbia paura di fare i conti con la storia, intendendo la fede come puro «rischio» senza alcun fondamento e garanzia. La testimonianza del Nuovo Testamento afferma chiaramente che:

– la risurrezione di Cristo è un fatto reale, riguardante il Cristo stesso, e non soltanto la nostra fede in lui;

– il Cristo risorto è lo stesso Gesù storico, sebbene in una condizione assolutamente nuova.

Siamo lontani dall'interpretazione di R. Bultmann, al quale interessa solo il Cristo della fede, Cristo che perde la sua consistenza storica al punto che talora sembra dissolversi nell'annuncio, oppure nella fede dei discepoli. Siamo pure lontani dalla posizione di W. Marxsen, al quale interessa solo il Gesù storico, prima di Pasqua, un Gesù che diventa solo norma di comportamento e modello da seguire perché «la sua causa continua».

Quando ci si interroga sulla storicità della risurrezione di Cristo, molte ambiguità derivano dal non chiarito significato dell'aggettivo «storico». Per evitare tale ambiguità sarebbe opportuno servirsi di due aggettivi diversi: «storico» e «reale». Storico è ciò che si realizza nel tempo e può essere descritto e analizzato coi metodi di indagine storica, stabilendo relazioni di causa ed effetto di tipo empirico. Storico è ciò che trova analogie all'interno della storia stessa.

Ci sono però realtà che è difficile toccare, vedere o scandagliare servendosi dei metodi storici. Pensiamo, ad esempio, all'amore fra due persone. «L'amore tra due creature è qualcosa di molto "reale" che fa parte della loro storia. Ma è "storico" visibile, misurabile? Certo, ci sono segni "storici" di questo amore, tracce visibili, il loro abbracciarsi, il vivere insieme... Ma queste tracce storiche sono, in sé, ambigue. Bisogna interpretarle rifacendosi alla "realtà" invisibile» [1].

Ecco allora l'opportunità di distinguere fra «storico» e «reale». «Se riserviamo la parola "storico" alla conoscenza, alla certezza che possiamo ottenere di questo o di quel fatto, attraverso i metodi storici, diremo che tutto ciò che è storico è certamente accaduto, ma non tutto ciò che è accaduto è necessariamente storico. Tutto ciò che è accaduto, in una parola il "reale", ha maggior estensione dello "storico"» (E. Pousset) [2].

Le testimonianze del Nuovo Testamento vogliono dirci che la risurrezione di Gesù è un fatto reale, un avvenimento carico di significato, che tuttavia va al di là di ciò che è «storico» nel senso spiegato sopra. La risurrezione di Gesù, infatti, non si spiega col gioco delle cause empiriche. Essa è il frutto della straordinaria potenza di Dio. La risurrezione non ha analogie con le nostre esperienze, è qualcosa di assolutamente nuovo come la creazione. La risurrezione di Cristo ha lasciato però tracce, mediante le quali entra nella storia. Si tratta delle apparizioni, della profonda trasformazione dei discepoli, della nascita della comunità cristiana.

Tutte le testimonianze sulla risurrezione di Cristo in nostro possesso sono attestazioni di un fatto (gli apostoli si presentano come testimoni, Paolo si appella a testimoni ancora viventi delle apparizioni). Non sono interpretazioni di un'esperienza soggettiva, giunta lentamente a maturazione, in qualche anima appassionata e amante. Anche se ammettiamo che l'amore di Pietro e degli altri discepoli per il loro Maestro avesse superato la tragedia della morte scandalosa di Gesù sulla croce approdando all'annuncio della risurrezione, resterebbe sempre da spiegare come mai tale convinzione si è potuta formare nei discepoli. Dal nulla non può nascere qualcosa.

Lo stesso Machovec, marxista ateo che si è interrogato con sincerità sulla figura di Gesù, non si nasconde la complessità storica e psicologica del problema quando si domanda: «Come mai i seguaci di Gesù... furono capaci di superare la terribile delusione, lo "scandalo della croce", approdando anzi a un'offensiva vittoriosa? Come mai un profeta, le cui predizioni non si erano avverate, è potuto diventare il punto di partenza della più grande religione del mondo?» [3].

A chi nega la risurrezione rifiutando come «non storiche» le testimonianze del Nuovo Testamento spetta di provare, storicamente e psicologicamente, come sia stato possibile che dopo la morte di Gesù sia potuto risuonare l'annuncio della sua risurrezione. Tra la conclusione infamante della vita di Gesù e la nascita del cristianesimo c'è un vuoto da colmare. Un sentimento dovette essere comune fra i discepoli all'indomani della crocifissione di Gesù: «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele!» (Lc 24,21). Delusi e frustrati, i discepoli tornarono alle loro case e ripresero il lavoro che un giorno avevano abbandonato per seguire il Maestro. Ma ben presto i discepoli dispersi tornarono a riunirsi, si formò una comunità dinamica e coraggiosa.

Bisogna spiegare in modo plausibile questo straordinario dinamismo del cristianesimo delle origini. E per spiegarlo bisogna risolvere l'enigma della morte di Gesù, avvertita non solo come insuccesso personale, ma come una catastrofe pubblica della sua opera e come sconfessione divina del suo programma.

Anche se non avessimo alcuna testimonianza sulla risurrezione, dovremmo supporre che tra la morte di Gesù e la nascita del cristianesimo dev'essere intervenuto un avvenimento capace di trasfigurare la storia tragica della sua fine sulla croce. Dev'essere intervenuto qualcosa capace di far sì che il «fallimento» della croce non solo non costituisse un ostacolo alla propaganda della nuova fede, ma diventasse addirittura un elemento basilare di questa fede e del suo annuncio. L'esperienza di questo avvenimento dovette, inoltre, essere intensa e chiara in modo da non lasciar adito a dubbi. Da un punto di vista psicologico si richiede un'esperienza la cui intensità positiva sia stata almeno tanto grande quanto lo era stata l'esperienza negativa della passione e della morte di Gesù. Come sarebbe stato possibile, diversamente, rivalutare la morte di un condannato e trasfigurarla al punto che questa morte non fosse più segno di maledizione da parte di Dio, ma strumento di salvezza? Perché allora dovremmo essere scettici di fronte all'attestazione unanime della risurrezione di Cristo presente nelle più antiche confessioni di fede (1Cor 15), nella primitiva predicazione degli apostoli (Atti), nella catechesi (vangeli) e nella prima riflessione teologica (Paolo e Giovanni)?

«Lanciare il ponte che colleghi la morte di Gesù con la nascita del cristianesimo è impresa ben più ardua di quanto vogliano far credere tutti i "critici" uniti. Tutti, infatti, si arenano al momento di gettare la passerella tra l'oscuro Gesù della storia e lo sfolgorante Cristo della fede» [4].

La negazione della risurrezione di Cristo non nasce forse spesso da pregiudizi? Non è spesso il frutto di decisioni soggettive in base alle quali si stabilisce aprioristicamente ciò che è possibile e ciò che è impossibile, e poi, in base a questi criteri soggettivi, si passa a valutare le testimonianze storiche?


La risurrezione di Cristo è un avvenimento carico di significato

1. Il significato più evidente che gli apostoli percepirono nella risurrezione fu la risposta divina all'ingiustizia umana che aveva condannato Gesù. «Voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso – dichiara Pietro nel giorno della Pentecoste –. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte» (At 2,23; cfr. At 3,14ss; 4,10; 5,30ss ecc.).

La risurrezione è così la rivelazione di Dio che sta dalla parte del debole e di chi fa della sua vita un totale dono d'amore agli altri. Con la risurrezione, Dio riabilita pubblicamente Gesù e la sua opera: «Il maestro di falsità si rivela maestro dotato di pieni poteri e dell'autorità di insegnare la via. Il profeta di menzogne, profeta veritiero. Il bestemmiatore di Dio, santo di Dio. Il seduttore, giudice finale del popolo» [5].

Nasce allora l'interesse per la storia di Gesù di Nazaret, per la sua passione (la prima sezione dei vangeli che venne messa per iscritto fu la storia della passione), per tutto ciò che egli disse e fece durante la sua vita terrena. Se Dio, risuscitando Gesù da morte, lo approva in tutto, occorre sapere di più su di lui. Sarà questo interesse a far sì che il messaggio e l'attività di Gesù vengano raccolti e narrati nei vangeli. Tutte le testimonianze su Gesù saranno filtrate attraverso l'avvenimento della risurrezione. È essa, infatti, che conferisce profondità di significato e validità perenne al parlare, all'agire, al vivere e al morire del Gesù storico. La risurrezione spiega il mutamento di prospettiva che si avverte confrontando la predicazione di Gesù e quella della Chiesa apostolica. Con la risurrezione, «colui che chiamava alla fede si è fatto contenuto della fede. Dio si è identificato per sempre con colui che si identificava con Dio... Torna così a risuonare il messaggio del regno di Dio che viene, ma in una forma nuova: con la sua morte e con la sua nuova vita Gesù è entrato nel messaggio e ora ne forma il nucleo centrale... Anziché di un generico "annunciare il regno di Dio", si parlerà oramai, sempre più incisivamente, di un "annunciare Cristo"» [6].

2. La risurrezione di Cristo è azione sovrana della potenza di Dio, il quale «dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17). Per parlare della risurrezione di Cristo, il Nuovo Testamento usa spesso verbi attivi dei quali Dio è soggetto («Dio ha risuscitato Gesù»). Talvolta si usano verbi al passivo, ma anche in questo caso l'agente è Dio («Gesù è stato risuscitato»). Più che di risurrezione bisognerebbe parlare di risuscitazione o di risuscitamento. Questo linguaggio non nega la divinità di Cristo. Semplicemente ne mette in risalto l'umanità, poiché è proprio questa umanità del Cristo che è oggetto di «risuscitamento» da parte di Dio Padre. Come soggetto attivo di risurrezione, Gesù è testimoniato dagli scritti più tardivi del Nuovo Testamento, e specialmente dal Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 10,18).

3. Con la risurrezione, Gesù è «costituito Figlio di Dio con potenza» (Rin 1,3-4). Altri testi dicono che Cristo risorto «sta alla destra del Padre» (Rm 8,34. Cfr. Eb 1,3; 12,2 ecc.). Queste espressioni indicano che Gesù è entrato in una nuova situazione. Egli, trasfigurato dallo Spirito, è associato alla potenza e alla gloria di Dio. Tutto ciò, evidentemente, riguarda l'umanità di Cristo che diventa totalmente trasparente all'azione dello Spirito e può rispondere al Padre con tutto il suo essere umano trasfigurato.

Il Cristo risorto viene anche a trovarsi in una nuova situazione di rapporti col mondo, con la Chiesa e con i suoi discepoli. Qui sta il significato profondo della risurrezione corporale. «Risurrezione corporea significa che l'intera persona del Signore si trova definitivamente presso Dio. Ma significa anche che il Risorto mantiene il suo riferimento al mondo e a noi... Il carattere corporeo della risurrezione non significa quindi altro se non che Gesù, con la sua intera persona, ora si trova definitivamente presso Dio e in mezzo a noi in modo nuovo» [7].

C'è un titolo dato a Gesù che esprime questa sua nuova situazione. È il titolo di «Signore». Esso indica sia l'uguaglianza con Dio, sia il dinamismo di salvezza che si sprigiona dal Risorto. Egli, «innalzato alla destra di Dio, dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo..., lo ha effuso» (At 2,32). D'ora in poi lo Spirito sarà chiamato «Spirito di Cristo». Donando lo Spirito, il Cristo diventa salvatore nel senso più profondo della parola. Egli può rendersi presente a tutti gli uomini con la sua forza salvifica. Non ci sono più barriere che possano ostacolare il suo cammino. L'incarnazione giunge al suo culmine perché l'umanità di Cristo è dotata della potenza salvifica di Dio stesso. Ed è anche la creazione intera che, anticipatamente, raggiunge, in Cristo risorto, la sua meta: «Con la risurrezione ed elevazione di Gesù un "frammento del mondo" è giunto definitivamente a Dio e da Dio è stato definitivamente accolto» [8]. In questo senso alcuni teologi parlano della risurrezione di Cristo come «prolessi» (anticipazione) del compimento finale del disegno di Dio.

4. La risurrezione di Cristo riguarda innanzitutto lui. Ma riguarda anche noi e tutta la vicenda umana. Ciò che è avvenuto in Cristo risorto è per noi un segno anticipatore. Nel Risorto intravediamo la meta del nostro cammino. E chi intravede la meta finale è in grado di leggere anche il significato della vicenda umana, personale, collettiva, storica. Nel Risorto «contempliamo... una vita di uomo riuscita, quale Dio l'aveva sognata per noi, il mattino della Genesi: un uomo che esiste nella trasparenza totale con se stesso, che esiste totalmente aperto verso Dio e verso gli altri, senza limitazioni, in comunione con tutti gli esseri e con l'intero universo, poiché il suo corpo spiritualizzato non è più limitazione ma mezzo di comunicazione con tutti, perché è assorbito nella gloria di Dio» [9].

Innanzitutto la morte e la sofferenza umana cessano di essere un assurdo, pur continuando a essere un mistero. Quell'assurdo così acutamente avvertito, tra gli altri, da C. Pavese che nel suo diario annota: «Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente». E più avanti: «Nulla può consolare della morte». Pavese ha però intravisto qualcosa degli orizzonti della fede, anche se il suo sguardo è solcato dal dubbio: «Forse è tutto qui: in questo tremito del "se fosse vero". Se davvero fosse vero ...» [10]. Il Cristo risorto ci assicura che è vero. E ce lo attestano innumerevoli persone che hanno camminato e continuano a camminare nella luce della risurrezione.

Teilhard de Chardin era così penetrato dal senso della risurrezione da desiderare di morire il giorno di Pasqua. Il suo desiderio sarà esaudito il giorno di Pasqua del 1955. Il pastore luterano D. Bonhoeffer, impiccato dai nazisti il 9 aprile 1945 all'età di 39 anni, si congedò dai compagni di prigionia con queste parole: «Questa è la fine». Poi prontamente soggiunse: «Per me è l'inizio della vita».

Anche i pagani compresero presto che la risurrezione di Cristo era per i cristiani motivo di speranza incrollabile nelle situazioni più disperate. Gli Atti dei martiri di Lione riferiscono che i persecutori pagani bruciarono i corpi dei martiri e gettarono le ceneri nel Rodano con questa motivazione: «Non dobbiamo lasciare ai cristiani la speranza della risurrezione. A causa di questa credenza, essi introducono tra noi una nuova religione straniera, disprezzano i supplizi e sono pronti ad affrontare gioiosamente la morte».

5. La risurrezione fonda la speranza del credente. Attendiamo da Cristo il compimento e la pienezza di quanto vediamo anticipato nella sua risurrezione gloriosa. La speranza non è attesa passiva. È impegno attivo per trasformare tutto ciò che è opaco rispetto al futuro mondo della risurrezione. «Colui che spera si rende segno attivo della speranza nella vita» [11].

La risurrezione di Cristo dischiude possibilità inedite e orizzonti sconfinati di speranza. Lo riconosce anche un non cristiano, che però nutre molta simpatia per Gesù: «Cristo è venuto per aprire una breccia a tutti i nostri limiti... Ciascuno dei miei atti liberatori e creatori implica il postulato della risurrezione. E più di ogni altro l'atto rivoluzionario» (R. Garaudy).

Credere in Cristo risorto implica non solo l'accettazione di un fatto del passato (Cristo è risorto!) e di un avvenimento futuro (anche noi risorgeremo!). La risurrezione concerne il presente. Con la risurrezione è entrata nel mondo la forza stessa di Dio che fa nascere la vita dalla morte. Il Risorto cammina con noi, lungo le strade del mondo, per infrangere tutte le barriere che impediscono la vita e soffocano la speranza.

«La risurrezione è l'espressione permanente dell'impegno irrevocabile di Dio con noi... Pertanto, credere nella risurrezione non è credere a una cosa, ...ma credere a Qualcuno che opera in noi e per noi con potere immenso, capace di far uscire la vita dalla morte, di far diventare nuovo quello che è vecchio, orientandoci verso un futuro di dimensioni smisurate» [12].

Un magnifico testo di Paolo esprime la grande speranza che il credente vede scaturire dalla risurrezione di Cristo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» (Rm 8,31-35.37).

Un altro testo, proveniente dall'ultimo libro del Nuovo Testamento, mette sulla bocca del Risorto queste parole: «Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,17-18).





NOTE

1 E. Charpentier, Gesù è risorto, Gribaudi, Torino 1979, p. 49.
2 Citato da E. Charpentier, in ivi, p. 49.
3 M. Machovec, Gesù per gli atei, Cittadella, Assisi 1973, p. 178.
4 V. Messori, Dialoghi su Gesù, Jesus, MIlano 1983, p. 163. Si veda anche J. Guitton, Il problema di Gesù. Diario di un libero pensatore, Borla, Torino 1964, pp. 163-311.
5 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, p. 431.
6 Ivi, pp. 431-432.
7 W. Kasper, Gesù il Cristo, Queriniana Brescia 1975, pp. 206-207.
8 Ivi, op. cit., p. 208.
9 E. Charpentier, Gesù è risorto, op. cit., p. 52.
10 C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, pp. 59, 159, 248.
11 W. Kasper, Gesù il Cristo, op. cit., p. 214.
12 C. Mesters, Dio, dove sei?, Queriniana, Brescia 1976, pp. 258-259.

(Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, San Paolo 1992, pp. 159-169)



------------ 

domenica 13 aprile 2025

La sfida del dialogo tra le divisioni del mondo, di di Suor Mirella Caterina Soro

 La sfida del dialogo tra le divisioni del mondo

di Suor Mirella Caterina Soro
Monastero domenicano Santa Maria della Neve e San Domenico - Pratovecchio (Arezzo)


Quando venni per la prima volta in monastero, erano ospiti della comunità anche un frate domenicano e una suora domenicana di vita attiva. Rimasi profondamente colpita dalla fraternità, dalla gioia che traspariva dal loro stare insieme. In quei giorni avevo “toccato”, senza saperlo, il “cuore” stesso di Domenico: il dono che egli aveva ricevuto dallo Spirito e trasmesso a tutti i suoi figli. Questo carisma che continua a irradiare i suoi raggi benefici, caldi e luminosi, sul mondo intero, si rivelava a me nella bellezza della gioia fraterna: in quell’aspirare a essere «un cuore solo e un’anima sola in Dio» che è il motivo stesso della nostra vita domenicana.

Per parlare di Domenico di Guzmán (1170-1221), fondatore dell’ordine dei predicatori, prendo in prestito l’esperienza di una delle più grandi donne che siano mai esistite: la domenicana santa Caterina da Siena (1347-1380), dottore della Chiesa, patrona d’Italia e d’Europa. Ciò che dirò, lo traggo dall’insegnamento di lei che è non solo la più insigne e autorevole discepola di Domenico, ma anche il “canale” femminile più efficace e autentico del carisma.

A lei Dio Padre rivelò che Domenico «fu uno lume che Io porsi al mondo col mezzo di Maria» (Caterina da Siena, Dialogo della Divina ProvvidenzaclVIII, 478-479). È straordinario come Caterina descriva il carisma dell’ordine quale dono dello Spirito alla Chiesa e al mondo col mezzo di Maria. Dietro questa piccola frase, si nasconde  il ruolo centrale che Domenico diede alla donna  in un tempo in cui la parte femminile dell’umanità era confinata ai margini di ogni vicenda umana, culturale, politica e sociale. Ciò sta a significare non solo una profonda devozione mariana, da sempre attestata nell’Ordine, e un riconoscimento del carisma quale dono specifico di Maria, ma anche che la predicazione domenicana si compie passando per il tramite della donna e che la stessa predicazione (cui i frati, primariamente, si dedicano) si attua solo col mezzo della contemplazione (nell’ordine questo compito, che è di tutti, è però affidato in maniera speciale alla donna).

Colui che ebbe a confessare, al termine della propria vita, di avere avuto la “debolezza” di preferire sempre la conversazione delle donne giovani a quella delle donne anziane (intendendo, così, manifestare la propria piena fiducia di poter trovare la freschezza del carisma proprio nelle donne giovani), iniziò la propria avventura carismatica non tanto con i frati, ma con un gruppo di donne adulte, ex eretiche che, tornate a Cristo attraverso la sua parola infuocata, desideravano donarsi tutte a Dio e sostenere la predicazione del vangelo attraverso una vita di preghiera e penitenza. Sembra che il fondatore dell’ordine dei predicatori — che il padre  Henri-Dominique Lacordaire definì «tenero come una madre e forte come un diamante — avesse compreso che solo “insieme”, uno di fronte all’altra, in una complementarità di doni e reciprocità di sostegno, l’uomo e la donna potevano essere canali di grazia, strumento di misericordia, predicatori efficaci della Parola di vita.

Domenico era un vero contemplativo. Amava restare un po’ indietro quando, insieme ai compagni, percorreva lunghi tratti di strada, e immergersi nel silenzio, tutto raccolto in Dio. Da quel silenzio scaturivano parole e gesti di vita, oltre che l’insolita capacità di captare nell’ordinarietà della vita e delle situazioni la voce di Colui che gli parlava proprio attraverso le persone e gli avvenimenti. Tutto ciò che gli accadeva era, per lui, occasione per ascoltare la sete delle persone e la voce di Dio. E nell’esperienza del silenzio e del deserto del cuore, a Fanjeaux, egli comprese che c’era bisogno di “spazio”: spazio per il “diverso”, spazio per il dialogo. Spazio perché la Parola potesse essere predicata dentro uno stile di vita fino ad allora impensato: la vita comune, la contemplazione, lo studio, la povertà volontaria. Il cuore di Domenico è un cuore ferito dal buio del mondo; la sua sete è la sete ardente di chi sente su di sé le ferite degli altri e desidera rispondere alla voce di Colui che invita: «Chi ha sete, venga a me e beva» (Gv 7, 37).

Al centro della spiritualità domenicana sta la sfida del dialogo profondo tra le vite, le esperienze e le persone, attraverso la comunione di vita. Che è una forma di “obiezione di coscienza” alle devastazioni del cuore dell’uomo, alle sue fratture interiori, alle divisioni, alle violenze e alle guerre: cerchiamo di vivere tra noi ciò che desideriamo per il mondo. Questo sforzo continuo è la nostra preghiera e la nostra preghiera è efficace solo se accompagnata da questo sforzo continuo.

L’altro, allora, è colui che mi apre la strada verso Dio. Di più: è la mia via a Dio. Perché, secondo la Santa senese, solo così è possibile ricambiare l’amore gratuito e infinito di Dio: partorendo nel prossimo le virtù concepite nella preghiera. Lo studio della verità nasce da questa profonda esperienza di unità che rende presente, vivo tra noi, il Risorto. Lui stesso è la Via che ci porta dentro la Verità del Padre attraverso la Vita nello Spirito. Quando viviamo nella comunione, Gesù, che è il ponte che congiunge il cielo e la terra, ci porta dentro la Trinità, ma solo “insieme”. Così, conosciamo le Persone divine “dal di dentro”, per esperienza e non più per sentito dire. La particolarità della via domenicana verso la santità è proprio questa: ogni passo di questo cammino io non lo faccio da sola, ma insieme all’altro. Non potrò mai essere a immagine e somiglianza di Dio e vicina a Lui né potrò conoscerlo “da sola”: l’altro è colui che mi aiuta a entrare nell’esperienza trinitaria ed è colui senza il quale io non potrò mai avere un’autentica conoscenza di Dio. Cristo è la via ed è la porta, ma l’altro è colui con il quale, soltanto, io posso “entrare” in Dio attraverso questa porta. Il domenicano inizia il suo cammino di santità insieme all’altro e insieme all’altro lo porta a compimento.

Quando chiesero a Domenico su quale libro avesse studiato egli rispose: «Sul libro della carità». Non possiamo illuderci di raggiungere le periferie del cuore di ogni persona del nostro tempo e di essere predicatori della grazia, senza “studiare” giorno e notte Cristo, scritto in Maria (cfr. Dialogo  cxlv, 1223; cliv, 107; Orazione xi). E la fecondità della predicazione non viene, secondo Caterina, dalla bellezza delle parole, ma da una vita di unione con Dio. Quanto più si ama, tanto più le parole diventano essenziali ed efficaci.

Seguire Domenico, allora, significa entrare insieme in questa “Via delle virtù”, e portare tutti gli uomini dentro l’abbraccio trinitario. Significa divenire noi stessi il “luogo” dell’abbraccio di Dio al mondo, vivendo la carità della verità e la verità dell’unità. Attraverso la meravigliosa sfida della comunione di vita.


------------- 

Fonte: www.osservatoreromano.va/it/news/2020-08/la-sfida-del-dialogo-tra-le-divisioni-del-mondo.html


sabato 12 aprile 2025

Commento alla Parola nella Domenica delle Palme /C – 13 aprile 2025 , di don Massimo Grilli


Commento alla Parola nella Domenica delle Palme /C
 – 13 aprile 2025

di don Massimo Grilli



Il tema della Domenica

Tutti i vangeli leggono la passione, morte e risurrezione di Gesù come la tappa suprema del cammino, il compimento di un disegno d’amore divino sugli esseri umani e sul mondo. Ma ciascuno dei quattro evangelisti ha una sua prospettiva, che dipende in parte dalla personale visuale teologica e in parte dalla comunità a cui fanno riferimento. L’ottica di Luca non è quella del Vangelo di Giovanni e neppure quella degli altri due Sinottici: per Luca la via della passione e morte di Gesù è la via della solidarietà di Dio con l’uomo, con ogni uomo, fino al malvagio e al malfattore. È una costante lucana, che percorre tutto il suo Vangelo: l’amore di Dio è un amore che va verso il lontano, il diverso, l’immondo! Non è un amore che guarda verso l’alto, ma verso il basso. Ed è gratuito, perché abbraccia senza chiedere compensi o benemerenze. Su questo canovaccio concettuale è innestato il racconto della passione secondo Luca.


Prima lettura: Is 50,4-7

Il brano che la liturgia odierna presenta come prima lettura è il terzo dei quattro carmi del servitore di Jhwh che si trovano nel libro di Isaia. È il servitore che parla in prima persona e racconta la sua storia di dolore. Descrive la sua sofferenza immeritata: ha operato giustizia, ma in contraccambio ha ricevuto percosse, insulti e sputi… Avrebbe potuto vendicarsi, ma non lo ha fatto, nella consapevolezza che Qualcuno gli era vicino. La sofferenza è un mistero e nessuno mai saprà spiegare il dolore degli innocenti, ma se un innocente soffre e accanto a sé trova qualcuno pronto a portare insieme il dolore… allora la sofferenza vive di una luce nuova. Quando un amico, un’amica soffre con noi, la sofferenza non è più la stessa, e l’amico vero non è colui che ha una soluzione per tutto, non è colui che ha la risposta bella e pronta, ma è colui o colei che resta con noi anche quando non ci sono soluzioni. Questo è un discorso umano, è vero, ma è anche un discorso biblico, un discorso cristiano perché sulla strada del dolore – lo sappiamo o meno – troviamo il servo di Dio sofferente come compagno di viaggio. Dio rimane accanto: questa è la bella notizia della Parola odierna. Il Dio cristiano diventa impotente e cammina con noi anche quando ogni strada si chiude. Noi siamo abituati a cantare e a pregare l’onnipotenza di Dio, ma forse dovremmo convertirci e cantare l’onnipresenza di Dio: un Dio che ci accompagna e vive con noi la sconfitta, la solitudine, le lacrime e la morte. È un Dio presente, anche quando tace. Il servitore sofferente lo dice in modo chiaro: ecco, il Signore Dio è vicino a me, mi assiste: chi mi potrà accusare? Anche quando la vita ci accusa, anche quando la sofferenza sembrerebbe dichiararci che sì, è vero, l’abbiamo meritato, Dio viene a dirci che anche lì alberga un Amore! Lo esprime meravigliosamente il filosofo danese Sören Kierkegaard in questa bella preghiera: «Padre celeste! In molti modi tu parli ad un uomo…Tu parli anche quando taci; perché parla anche colui che tace, per provare l’amato… Padre celeste… quando tutto tace, quando un uomo se ne sta solo e abbandonato e più non sente la tua voce…, quando un uomo languisce nel deserto… fa’ che egli non dimentichi che tu parli anche quando taci. Donagli… la consolazione di capire che tu taci per amore, così come parli per amore; di modo che, sia che tu taccia o parli, sei sempre il medesimo Padre, sia che ci guidi con la tua voce o ci educhi col tuo silenzio».


Il Vangelo: Lc 22,14-23,56

Il servo sofferente viene presentato da Luca come l’innocente che si fa solidale con i dannati della terra. Il dolore di Gesù non è dovuto a una colpa. Persino Pilato dichiara di non trovare in lui «alcun motivo di condanna» (23,34) e uno dei malfattori lo riconosce come un uomo giusto, apostrofando il suo compagno: «Non hai proprio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la stessa condanna? Noi giustamente, perché riceviamo la giusta pena per le nostre azioni, lui invece non ha fatto nulla di male». Il giusto sofferente è il tema fondamentale della passione secondo Luca.

La storia biblica è stracolma di storie di giusti umiliati e rigettati: Abele ucciso, Giuseppe venduto, Mosè rifiutato, i profeti perseguitati, i poveri dei salmi sottoposti a vessazioni e soprusi… Il sangue dei poveri non è prezioso a nessuno e la storia sta lì a dimostrarlo. Sembrerebbe che la storia si faccia beffe dei poveri, ma “il giusto crocifisso” apre una strada di redenzione in mezzo agli sberleffi della storia. Proprio grazie all’apparente silenzio di Dio, Gesù (e ogni giusto crocifisso con lui) impara chi è Dio e quale progetto d’amore si annida nelle profondità della terra. L’autore della lettera agli Ebrei scrive che, pur essendo Figlio, Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (5,8). Il tirocinio della sofferenza ha condotto Gesù alla comprensione del progetto di Dio, che non passa sulle vie sacre dell’onnipotenza, ma dell’impotenza. Nel seme dei giusti, calpestato e sotterrato dai persecutori, si annida un disegno d’amore, che fa germogliare la terra, rendendola di nuovo feconda.

Alla radice della cultura occidentale, fino al suo estremo esito tecnologico odierno, si è imposto il concetto di Dio quale maximum, in tutti gli ambiti e sotto tutte le dimensioni: grandezza, forza, principio e fonte di ogni certezza e di ogni verità… Insomma il Cristo dominatore e conquistatore, ben noto alla teologia e all’arte… Ci potremmo chiedere, però, se quell’immagine di Cristo rifletta lo splendore e la potenza dei sovrani imperiali che si sono succeduti nei secoli oppure il Dio cristiano, incarnato e crocifisso… Per la metafisica è assurdo che Dio possa soffrire e morire, che possa essere impotente, debole e derelitto… Il pensare kenotico appartiene alla rivelazione cristiana e non è semplicemente alternativo o complementare alla theologia gloriae, ma è un modo tutto diverso di pensare Dio… L’inaccessibile alterità del “totalmente Altro” si manifesta paradossalmente nella debolezza. Nell’inno della lettera ai Filippesi (2,1-13), il parallelismo tra forma divina e forma di servo serve a stabilire il paradosso assoluto della kenosis del Trascendente, il quale prende forma di servitore e diviene, al pari degli uomini, una parola, un Volto, un corpo… Un passo del Talmud di Babilonia afferma: «…dove tu trovi esaltata la potenza del Santo – benedetto egli sia – tu troverai anche accanto, il suo auto-abbassamento. Ciò è scritto nella Torah, ripetuto nei Profeti e poi riportato una terza volta negli Scritti».

Per noi, credenti in Cristo, questa è la verità suprema: Gesù, innocente e giusto, abbraccia la maledizione della croce, per dire che non è l’onnipotenza che salva, ma l’impotenza che ama. Per Luca Gesù vince la triplice tentazione proveniente dai capi del popolo, dai soldati e da uno degli stessi malfattori, tentazione che si esprime sempre con lo stesso invito: «salvi se stesso / salva te stesso!» (Lc 23,35.37.39). Mentre nel Vangelo di Marco si constata l’impotenza di Gesù a salvarsi, in Luca si riconosce a Gesù la possibilità di farlo e lo si esorta a sfruttarla a proprio vantaggio. Gesù non accetta questo ricatto e resta solidale con l’uomo peccatore, fino in fondo. Suonano del tutto appropriate le parole di Bonhoeffer: «la morte di Gesù crocifisso come un delinquente mostra che l’amore divino trova la strada per arrivare fino alla morte del delinquente…». Per Luca, non è più Dio che giudica l’uomo, ma è Dio che si lascia giudicare dall’uomo, rispondendo alla violenza distruttiva con un nuovo inizio, segnato dal perdono. La prima parola di Gesù in croce, secondo Luca, è una richiesta di perdono per i carnefici: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Non è trascurabile notare che l’offerta di perdono scaturisce proprio dalla posizione in mezzo ai malfattori (23,33). Questo significa che l’amore di Dio non abbandona l’uomo nemmeno là dove egli si pone contro Dio.


Don Massimo Grilli,

Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano



---------

domenica 6 aprile 2025

Radicati in Cristo insieme a Comboni, di p. Carmelo Casile



IO SONO LA VITE, VOI I TRALCI”
“Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5)

Radicati in Cristo insieme a Comboni

di  p. Carmelo Casile


«La fede è il fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per mezzo di questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

Anche noi dunque, circondati da una tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso ed il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 11, 1‑2.39‑40; 12, 1‑2).

Essere radicati o radicarsi, in senso letteraleindica il radicamento di una pianta, il fatto di mettere radici, di radicarsi saldamente nel terreno.

In senso figurato indica il radicamento di una persona, di una famiglia, in un nuovo ambiente; indica, per tanto, mutamenti di modi di vivere, di stili di vita, che rivelano il radicamento in nuove concezioni di vita che danno un nuovo volto a una persona, a una comunità, a una società…

Una persona “radicata” è una persona penetrata e saldamente fissata in abitudini, idee, ambiente, convinzioni, relazioni, che danno senso alla sua vita.

Il radicamento in senso figurato richiama l’idea di un “itinerario”, di un cammino, di un viaggio: ogni viaggio ha una partenza, un luogo e un tempo precisi per cominciare a muoversi, un punto di arrivo che indica la direzione; conosce tappe, soste, accelerazioni, svolte e punti di non ritorno. Ogni viaggio è un “andare oltre”, e così, passo dopo passo, attua un progressivo avvicinamento alla meta.

Quando la meta è spirituale, si entra in un cammino alla ricerca del volto di Dio ed è una avventura che affascina l’umanità di tutti i tempi: «In lui, infatti viviamo, ci muoviamo e siamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: 'Poiché siamo anche sua discendenza'». (Atti 17,28).

Il cammino spirituale del credente cristiano è un cammino aperto al Mistero di un Dio vivo che parla e agisce nella storia, perciò di un Dio personale, del Dio dell’Alleanza, che si lega a ciascuno dei suoi alleati con un rapporto di reciproca appartenenza. È, infatti, il Dio dei nostri padri, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè (cfr. Es 3,13-15; 20,5‑6)…, dei Profeti, che narrandoci il loro Dio, ci hanno generato alla vita dello spirito, introducendoci nel loro cammino di fede; è il Dio e Padre di Gesù, l’ultima parola di Dio, la rivelazione definitiva (Eb 1, 2), la stessa Parola di Dio fatta uomo (Gv 1,1.14; 1Gv 1,1; Ap 19,13), l’autore e perfezionatore della fede” (cfr. Eb 12,2).

Questa visione storica del cammino spirituale del credente cristiano, che ha come culmine il Signore Gesù, messa in evidenza nel Capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, ci suggerisce che:

  • la fede stabilisce un vincolo d’ordine spirituale tra persone diverse, fa di esse una nuova famiglia nata dalla fede in Dio e riunisce generazioni e razze diverse;
  • Dio affida a queste generazioni il compimento di tante promesse che nascono con la fede vissuta nel cammino della vita, perché si realizzino includendo i credenti dei tempi futuri in una grande unità, che costituisce la “Famiglia di Dio”;
  • Dio incontra l'uomo nella storia, lo salva e lo fa strumento di questa stessa salvezza attraverso una serie di mediazioni umane;
  • come membra della Chiesa terrestre camminiamo unendoci alla liturgia celeste che Cristo celebra con i fratelli e le sorelle che ci hanno preceduto nella gloria finale; per ciò, nel nostro cammino di fede missionaria con i suoi momenti di oscurità, siamo in stretta comunione, accompagnati e sorretti da Cristo glorioso e Capo del Corpo della Chiesa e da una folla di Testimoni (cf Eb 12,1) composta da quelli che ci hanno narrato il Signore e vivono con Lui, che è il Dio dei vivi e non dei morti (Mc 12,26-27; Es 3, 13-15);
  • perciò non possiamo conoscere Dio senza ascoltare le parole da Lui dette agli eletti, senza ascoltare quello che queste persone hanno detto di Lui, dopo averlo ascoltato e averne fatto l'esperienza.

Sulla scia di una tale folla di Testimoni l’itinerario spirituale del cristiano comincia con un incontro e una chiamata. Sono queste le due dimensioni da avere sempre presenti e da cui sempre ricominciare, perché tutto nasce dall’incontro con Dio in Gesù sotto la guida dello Spirito Santo.

L’itinerario spirituale, infatti, è un viaggio nelle fede, un’avventura che inizia con un “sì” a Dio che chiama. È la conseguenza di quel “sì” iniziale appena balbetto che, rinsaldato con sempre maggiore consapevolezza e audacia, gradualmente ci sradica da noi stessi, facendoci capire che, solo uscendo da noi stessi e vivendo con l’Altro e con e per gli altri, ci ritroviamo davvero e saremo noi stessi, capaci di avanzare nel viaggio della vita, fino al dono totale di sé a Dio Padre in Cristo Gesù a servizio dell’avvento del suo Regno, fino a vivere camminando “davanti a Dio per gli uomini”.

La formazione alla vita cristiana in generale e nella varietà delle sue forme – in quanto itinerario spirituale o viaggio dello spirito o dell’anima – ha le stesse caratteristiche di un viaggio, di un pellegrinaggio: senza un punto di partenza, una meta che orienta, tappe e soste che la scandiscono, non può essere un itinerario formativo, ma un solo un vuoto girare su di sé, nell’illusione di un cammino che non c’è e che perde inesorabilmente di interesse e di vigore.

Per questo, con il termine itinerario spirituale oppure viaggio dello spirito o dell’anima, si designa il processo ascetico-mistico, proposto dalle grandi tradizioni cristiane e scandito in tappe successive e ascendenti, che partono dalla dimensione più esteriore e, passando a quella più interiore, approdano a Dio, mettendosi a servizio della sua gloria e della salvezza dell’umanità. Per tanto, la nostra vita può essere, se vogliamo, un’affascinante avventura spirituale al servizio di Dio e degli uomini; la nostra vita può divenire un “cammino di fede nel mondo e per il mondo intimamente legato all’umanità e alla sua storia” (cfr. RV 16).

Si tratta dello sviluppo della proposta vocazionale di Gesù all’umanità: una proposta unica, che costituisce il cammino spirituale fondamentale per tutti i suoi seguaci: “Io sono la vite, voi i tralci”.

È il punto di partenza dell’itinerario spirituale cristiano, che si sviluppa in tre momenti o chiamate, strettamente connessi tra di essi, e a partire dalle situazioni di ogni persona o gruppo umano a cui è rivolta la chiamata. Queste situazioni esigono che i discepoli diano alla proposta vocazionale di Gesù una risposta nella maturità della fede e, per tanto, creativa e responsabile, strettamente connessa con l’umanità e la sua storia, che li faccia vivere nel mondo come segno di salvezza, come segno del Regno di Dio che viene.

Nascono così nella storia della Chiesa i vari cammini o itinerari ascetici-mistici, caratteristici di un’epoca storica, che si vanno sviluppando in modo progressivo e complementare, avendo tutti come principio e fondamento il cammino o itinerario spirituale proposto da Gesù, che è “il cammino spirituale evangelico”, cioè “la proposta vocazionale di Gesù all’umanità”.

Per noi, discepoli missionari che ispiriamo la nostra vita personale e il servizio missionario alla testimonianza di vita di san Daniele Comboni, questo cammino è orientato, mediante la contemplazione, verso il Mistero del Cuore di Cristo, Buon Pastore, per radicarci in Lui e assumere nella loro espressione più piena i suoi atteggiamenti interiori: la sua donazione incondizionata al Padre, l’universalità del suo amore per il mondo e il suo coinvolgimento nel dolore e nella povertà degli uomini (cfr. RV 1-5).

I - Il CAMMINO SPIRITUALE EVANGELICO:
PROPOSTA VOCAZIONALE DI GESÙ ALL’UMANITÀ

1. Visione d’insieme

Nella proposta vocazionale di Gesù all’umanità si possono distinguere tre momenti:

1º momento:

- Chiamata universale al banchetto o invito al Regno di Dio

- Parabole sulla vocazione: Mt 13; 20, 1-16; 21, 33-41; 22, 1-14; Lc 14, 15-20.

2º momento

- Chiamata al cambiamento di vita o alla conversione, abbandonando la situazione di peccato che è comune a tutti gli uomini

- Mc 2, 17; Rom 3, 23.

3º momento:

- Chiamata a farsi discepolo di Gesù, cioè a rimanere con Lui, e ad essere mandato da Lui nel mondo condividendoNe il destino.

- Mc 10, 17-21; Lc 9,1-6.

Le tre chiamate costituiscono gli elementi di un’unica proposta vocazionale:

  • tutti sono chiamati alla salvezza, per mezzo della conversione dallo stato di peccato, facendosi discepoli di Gesù, per essere degni e segni del Regno di Dio;
  • questa vocazione è unica, giacché nessuno dei tre elementi ha senso completo da se stesso: ognuno di essi ha un nesso intrinseco e si specifica negli altri, costituendo assieme l’unica vocazione cristiana e il conseguente cammino spirituale per realizzarla.

2. Contenuto specifico d’ogni chiamata

2.1 Chiamata universale al banchetto

L’invito al banchetto è per tutti; rimane inefficace solo quando gli invitati lo rifiutano.

Al posto dei primi invitati (= il piccolo gruppo d’Israele) sono invitati tutti i popoli, a cominciare dai poveri.

La risposta alla chiamata è impossibile senza la fede nel Vangelo. La vocazione accolta e corrisposta diviene fede e produce la salvezza.

È per mezzo della fede e nella fede che gli invitati accedono al banchetto ed entrano nell’allegrezza del regno di Dio. L’invito non è sufficiente, giacché la chiamata può rimenare inefficace a causa della mancanza di fede e dell’impegno morale dei chiamati.

Questa chiamata alla salvezza continua ad essere rivolta a tutti gli uomini d’oggi e diviene realtà per mezzo dell’adesione alla Persona di Gesù mediante la fede, il perdono e il dono dello Spirito Santo.

La Chiesa è sacramento di questa salvezza offerta a tutti: per mezzo di essa è lo stesso Gesù che chiama in nome del Padre sotto l’azione dello spirito Santo.

È una chiama forte, fondante e appassionante, che porta alla pienezza della vita; quando l’uomo la rifiuta, s’incammina verso il vuoto della vita, fino ad essere lanciato dal suo stesso rifiuto “nelle tenebre esteriori”.

2.2 La chiamata al cambiamento di vita o alla conversione

Anche questa chiamata, così sottolineata nel Vangelo, è universale, giacché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3, 23). Per questo Gesù afferma che non è venuto a chiamare giusti ma peccatori (Cf Mc 2, 17).

La chiamata al banchetto del Regno si realizza per mezzo del cambiamento di vita, che significa abbandonare la situazione di peccato, convertirsi.

Per raggiungere lo scopo, Gesù cerca di entrare in dialogo con i più lontani dal cammino di Dio, e quindi disprezzati e marginati, per attrarli a Sé, liberandoli dalla prigione del male.

Levi, nel gesto di invitare Gesù a casa sua per offrirgli un banchetto, riconosce che ha bisogno di Lui per essere salvo e diviene tipo dell’uomo peccatore, chiamato alla conversione (Cf Mc 2, 13-17).

«Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10).

Visti da Gesù, i peccatori sono membri ammalati che hanno bisogno di essere guariti. Per questo, li invita alla conversione e offre loro il perdono e la salvezza.

Visto dai peccatori, Gesù è colui che li salva.

Gli uomini siamo tutti peccatori e, perciò, tutti abbiamo bisogno della chiamata di Gesù alla conversione.

Per tanto, l’invito di Gesù, rivolto a tutti affinché entrino nel Regno, esige la conversione; senza di essa è impossibile partecipare della vita che è Gesù stesso in persona.

Questa chiamata alla conversione non ha limiti di tempo, ma è una chiamata continua, giacché il peccato sempre insidia l’uomo: Gesù chiama tutti, sempre e a tutte le ore; ma è anche una chiamata esigente, che non ammette esenzione né condizioni.

2.3 Chiama a farsi discepolo di Gesù

Nei Vangeli risalta la chiamata a farsi discepolo di Gesù: Mt 4, 18-22; Mc 3, 16-20; Gv 1, 35-51; Mt 28, 19.

Questa chiamata è presentata come un ordine categorico, che obbliga a lasciare immediatamente tutto, per seguire solo e unicamente Gesù.

Normalmente è descritta seguendo questo schema:

  1. Osserva i comandamenti
  2. va e vendi ciò che possiedi
  3. dallo ai poveri
  4. vieni e seguimi (Cf Mc 10, 17-21).

Il momento più importante e caratteristico, che definisce la natura della chiamata, è l’ultimo: il “seguimi”.

Il lasciare le cose e l’osservanza dei comandamenti non costituiscono per se stessi la chiamata a farsi discepolo di Gesù. La chiamata di Gesù è una chiamata a seguirlo, e la sequela esige un contatto personale ed una comunione di vita con Lui, oltre che la trasmissione e l’accettazione della sua dottrina e orientamento morale.

Farsi discepolo di Gesù è precisamente unirsi alla sua persona, più che aderire alla sua dottrina.

Per cogliere meglio l’originalità e l’importanza di questa situazione, è sufficiente osservare con attenzione il comportamento di Gesù. Nell’ambiente giudaico era il discepolo che sceglieva il suo maestro; con Gesù, è Lui stesso, il Maestro, che sceglie i suoi discepoli. Ciò che fonda e giustifica la vita del discepolo di Gesù è solo la chiamata del Maestro: «Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16).

Nella società giudaica i discepoli imparavano fino al momento in cui essi stessi divenivano maestri autonomi; invece, il discepolo di Gesù accetta un’unione definitiva con il suo maestro, rimanendo per sempre discepolo: nella scuola di Gesù non c’è promozione all’autonomia, né possibilità di staccarsi e passare a un altro maestro:

«Voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23, 8).

Gesù sarà in tutti i tempi l’unico Maestro dei suoi discepoli.

Seguirti, Signore Gesù, è imparare da te:
dalle tue lunghe notti
nel deserto o sul monte.
È aprire il cuore al Padre come te,
abbandonarsi nelle sue mani
e cercare di realizzare nella nostra vita
il suo progetto.
È chiedergli con insistenza:
Mostrami, Padre mio, il cammino
che hai scelto per me!


II - RISPOSTA ALLA PROPOSTA VOCAZIONALE DI GESÙ

«Voi vi chiamate, e siete!, Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. Vorrei riflettere con voi su queste parole che sono il vostro nome e la vostra identità.

Missionari. Siete servitori e messaggeri del Vangelo, specialmente per coloro che non lo conoscono o lo hanno dimenticato. All’origine della vostra missione c’è un dono: c’è l’iniziativa gratuita dell’amore di Dio che vi ha rivolto una duplice chiamata: a stare con Lui e ad andare a predicare (cfr. Mc 3,14). Alla base di tutto c’è la relazione personale con Cristo, radicata nel Battesimo, e, per alcuni, rafforzata dall’Ordinazione, così che con l’apostolo Paolo possiamo dire: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Questo vivere con Cristo determina tutto il nostro essere e il nostro agire; e si vive e si alimenta soprattutto nella preghiera, nel rimanere presso il Signore, nell’adorazione, nel colloquio cuore a cuore con Lui.

È proprio in questo spazio orante che si trova il vero «tesoro» (Lc 12,34) da donare ai fratelli mediante l’annuncio. Il missionario infatti si fa servitore del Dio-che-parla, che vuole parlare agli uomini e alle donne di oggi, come Gesù parlava a quelli del suo tempo, e conquistava il cuore della gente che veniva ad ascoltarlo da ogni parte (cfr.Mc 1,45), e restava meravigliata ascoltando i suoi insegnamenti (cfr.Mc 6,2). Questa relazione della missione ad gentes con la Parola di Dio non si colloca tanto nell’ordine del «fare» quanto dell’«essere». La missione, per essere autentica, deve riferirsi e porre al centro la grazia di Cristo che scaturisce dalla Croce: credendo in Lui si può trasmettere la Parola di Dio che anima, sostiene e feconda l’impegno del missionario. Per questo, cari fratelli, dobbiamo nutrirci sempre della Parola di Dio, per esserne eco fedele; accoglierla con la gioia dello Spirito, interiorizzarla e farla carne della nostra carne come Maria (cfr. Lc 2,19). Nella Parola di Dio c’è la saggezza che viene dall’alto, e che permette di trovare linguaggi, atteggiamenti, strumenti adatti per rispondere alle sfide dell’umanità che cambia». (Cfr. Discorso di Papa Francesco ai Capitolari del 2015)

Papa Francesco ci ricorda che il fulcro del Piano salvifico di Dio è la persona di Gesù Cristo. L’uomo, per tanto, risponde positivamente e responsabilmente alla chiamata redentrice di Dio, vivendo in una relazione spirituale personale con Cristo Gesù.

Il Cammino spirituale, cioè tutta l’attività e lo sforzo dell’uomo (= ascesi), deve convergere verso questa meta, che è l’incontro personale con il Signore Gesù. Ciò avverrà gradualmente, partendo dalla convinzione che:

  • Gesù non è solamente un esempio, cioè, un mezzo psicologico che favorisce lo sviluppo della personalità, perché offre ideali, stimoli, motivazioni che aiutano nella crescita personale. Gesù offre tutto questo e in modo eccellente, ma non può essere strumentalizzato in vista dell’autorealizzazione della persona.
  • Gesù non è solamente un grande leader dell’umanità, capace di stimolare nella crescita nel senso della solidarietà e di offrire anche all’uomo di oggi idee eccezionali che stanno alla base di movimenti politici, culturali, filantropici, religiosi, ecologici, ecc.
  • Gesù non è un semplice uomo saggio che regala perle di saggezza per “vivere bene” o non è un guru che vende buoni sentimenti.
  • Gesù non è neppure solamente una medicina contro la fragilità della persona umana (cfr. GS 13). È vero che egli aiuta potentemente la nostra fragilità morale liberandoci dal peccato e dando forza alla nostra natura ferita e debole. Tuttavia l’azione di Cristo in noi, quando gli apriamo il cuore, non si limita ad essere un supporto alle deficienze della nostra natura decaduta.
  • L’azione principale di Gesù nella nostra vita consiste nell’operare una trasformazione della nostra stessa persona nella sua. Ciò significa che la nostra vita trova il suo senso pieno nell’incontro personale con il Signore Gesù e che in questo consiste l’obiettivo fondamentale di ogni persona umana: incontrarsi e viver in comunione con Lui per essere introdotto nell’esperienza dell’amore del Padre e quindi scoprirsi fratello di tutti. In questo consiste il nucleo della nostra vocazione battesimale. Questa trasformazione si effettua sotto l’azione dello Spirito Santo: al Padre per il Figlio nello Spirito Santo.
  • Come fondamento di questo processo di cristificazione c’è il fatto che preesiste un legame profondo tra Cristo e l’essere umano. L’uomo, infatti, è l’immagine, limitata e imperfetta dell’«immagine originale» di Dio, che è Cristo. Per questa ragione l’esistenza umana tende, in virtù della sua stessa e intima struttura, all’incontro con Dio in Cristo Gesù. L’esistenza umana si realizza in pienezza nell’incontro con Cristo, perché solo a Lui il Padre affidò la missione di imprimere nel nostro essere quel salto qualitativo, che lo introduce nella vita intima d’amore e di comunione della Trinità, e lo incammina verso la sua piena realizzazione, che è precisamente la comunione con il Padre.

Se guardiamo l’umanità sotto questa prospettiva, allora in ciascun uomo o donna possiamo vedere altrettante presenze di Cristo: esattamente di un Cristo che si trova ancora limitato dalla ristrettezza della natura corrotta e che aspira a manifestarsi in modo completo.

La nostra missione di battezzati verso gli uomini di oggi e soprattutto verso i non-cristiani è, dunque, una missione rivolta a Cristo stesso. È lui che dal di dentro dei nostri fratelli chiede di prorompere e di farsi sentire in tutta l'intimità personale. È lui che chiede di essere aiutato a passare dalla potenzialità all'atto. Lo chiede a ciascuno di noi, perché per « far crescere » Cristo nei nostri fratelli, il Padre vuole servirsi proprio di noi: « Figlioli miei, io soffro per voi i dolori del parto, finché Cristo sia formato in voi » (Gal 4, 19).

A questo punto si capisce come nell’azione missionaria della Chiesa la scelta preferenziale per i poveri trova il suo fondamento nell’incontro personale con Cristo, che ci porta ai fratelli più feriti dalle conseguenze del peccato degli inizi e del rifiuto della chiamata redentrice di Dio.

Nel cammino verso questo incontro personale con Cristo, sono molto appropriate le indicazioni del Concilio Vat. II, cariche di slancio missionario:

«L'aspetto più sublime della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio» (GS 19a).

«In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Cristo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. ... Egli è «l'immagine dell'invisibile Iddio», è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. … Soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l'esempio perché seguiamo le sue orme ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato. ... E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (GS 22).

«Poiché la Chiesa ha ricevuto la missione di manifestare il mistero di Dio, il quale è il fine ultimo dell'uomo, essa al tempo stesso svela all'uomo il senso della sua propria esistenza, vale a dire la verità profonda sull'uomo. Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anche’egli più uomo» (GS 41a).

«Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l'uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, «il punto focale dei desideri della storia e della civiltà», il centro del genere umano, la gioia d'ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (GS 45b).

Gesù e l’uomo sono due realtà che si relazionano l’una con l’altra: l’uomo come colui che cerca il suo compimento; Gesù come centro trascendente e nello stesso tempo immanente, punto culminate, nel quale e per il quale il cammino dell’uomo trova il suo senso ultimo, la perfetta realizzazione. Il Piano di Dio si manifesta e si realizza in Gesù Cristo. Cristo è la pienezza della rivelazione, la Parola fatta carne; in Lui, Crocifisso/Risorto, il Piano salvifico di Dio si manifesta pienamente, si realizza ed è offerto ad ogni uomo.


III - L’ITINERARIO SPIRITUALE COMBONIANO

Cf. S 2742; Regole 1871; DC 1969, nn. 39-55; RV 2-5; AC ’91, 6.1-6.

“In quanto Comboniani del Cuore di Gesù, voi contribuite con gioia alla missione della Chiesa, testimoniando il carisma di san Daniele Comboni, che trova un punto qualificante nell’amore misericordioso del Cuore di Cristo per gli uomini indifesi”. (Cfr. Discorso di Papa Francesco ai Capitolari del 2015)

È facile renderci conto come l’avventura spirituale cristiana trovi in san Daniele Comboni un Profeta e un Testimone, sulle cui orme sono germogliate e germoglieranno altri testimoni, come dimostra la storia del beato P. Giuseppe Ambrosoli e quella di tanti altri/e missionari/e comboniani/e… (Cfr. “In Memoriam” MCCJ Bulletin).

Comboni, infatti, è uno di quei nostri antenati nella fede che costituiscono una moltitudine di testimoni approvati da Dio e che non ottennero ciò che era stato loro promesso, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi (Eb 11, 1‑2.39‑40; 12, 1‑2).

Il suo itinerario spirituale, infatti, è un punto di riferimento ben eloquente e stimolante nel cammino spirituale nella Chiesa del nostro tempo, che procede dalla visione di fede sui fatti della storia all’impegno missionario come “piccolo cenacolo di apostoli”.

Riflettendo sull’esperienza spirituale di san Daniele Comboni, ci accorgiamo che il “cammino dello spirito” (S 2712), da lui vissuto e da lui stesso proposto ai suoi missionari, è un itinerario di vita spirituale pasquale. Per Comboni, il missionario è un uomo assetato di Dio che sotterra la vita di prima e la centra in Lui solo, animato da un vivo interesse alla sua gloria e al bene dell’anime; sazia la sua sete e centra la sua vita in Dio “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”: S 2698; 2701-2702; 2720-2722.

Si tratta di un autentico sradicamento da se tesso per radicarsi in Cristo.

Il “Cammino dello spirito” di san D. Comboni raggiunge l’espressione più alta nell’evento carismatico del 15 settembre 1864.

Egli stesso narra che, mentre si trovava in preghiera nella basilica di S. Pietro, “come un lampo mi balenò il pensiero di proporre un nuovo Piano per la cristiana rigenerazione dei poveri popoli neri, i cui singoli punti mi vennero dall’alto come un’ispirazione” (S 4799).

Spinto dal fervore per tale illuminazione, Comboni formulò il contenuto nell’introduzione alla I edizione del Piano (Torino, dicembre 1864, p. 3-4):

“Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comune Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli”: S 2742-2743; 4799.

In questo testo Comboni svela nella Trinità le misteriose Sorgenti, che danno origine e sostengono il suo amore “così tenace e resistente” per l’Africa fino al sacrificio della propria vita. Il profondo “senso di Dio” vissuto abitualmente da Comboni, per la prima e unica volta diviene comunicazione di vita sul Mistero Trinitario in intima connessione con la sua passione missionaria.

Questo testo, infatti, conserva l’atto di “testimonianza” di un “avvenimento carismatico”, che configura definitivamente la sua vita come “consacrazione” senza riserve alla Nigrizia con una configurazione perfettamente trinitaria: è testimonianza del suo coinvolgimento nel Mistero di Dio-Trinità; è “confessione della Trinità” da lui vissuta, che dà ragione del suo “impeto” missionario. Comboni, assorto in preghiera, si trova come coinvolto nel dinamismo storico-salvifico del Mistero Trinitario che lo trascende e insieme lo abilita ad un preciso compito apostolico.

Il dinamismo trinitario vissuto dal Comboni è originato dall’azione dello Spirito Santo, che agisce attraverso il mistero della Croce, punto culminante della storia dell’Amore trinitario.

Tale storia ha come punto di partenza l’iniziativa del Padre che vuole abbracciare nel suo amore anche i neri dell’Africa centrale, si manifesta in pienezza nel Cuore Trafitto del Crocifisso e ritorna verso il “comun Padre su in cielo…seduto nella sua eternità” (S 2742 e 2754), cioè verso l’Amore “fontale” e finale di ogni vita umana.

L’Amore trinitario e crocifisso anche per gli Africani vissuto da Comboni, segue il seguente itinerario: nello Spirito dal Padre per mezzo del Figlio verso il Padre con gli oppressi rigenerati. La “virtù divina”, lo Spirito Santo uscito dal Cuore del Trafitto sul Golgota, fluisce vitalmente nell’attività quotidiana del missionario facendolo una cosa sola con l’amore di Gesù per gli Africani, e così lavora unicamente per riportare la Nigrizia alla comunione con il “comun Padre su in cielo”, lavora cioè “per l’eternità” (cf Regole 1871, Cap. X).

La formulazione del testo ha il sapore di una comunicazione personale, della condivisione di una esperienza mistica, nella quale l’”Io” di Comboni scompare, viene sepolto, Comboni diviene semplicemente “il cattolico”. E Comboni, divenuto “il cattolico”, manifesta quella rivelazione interiore, che garantisce che “i punti gli erano venuti dall’Alto, come un’ispirazione”. In essa traluce “il Tutto” che dà ragione della sua dedizione totale alla causa missionaria tra i popoli dell’Africa centrale (cf RV 2-3).

In Comboni lo scambio di relazione amorosa con ciascuna delle Tre Persone della Trinità è realtà di fede vissuta, che si concretizza in un impegno forte a essere servo dei popoli dell’Africa, per introdurli in questo Regno di Amore.

Comboni vive la relazione con Dio-Padre nella carità del Cuore Trafitto di Gesù, nel Mistero della sua Croce. La “Virtù divina” che scaturisce “dal costato del Crocifisso” eleva l’orante alla sua sorgente, cioè al mistero dell’ “Amore fontale”, che è il “comun Padre”, che attende il ritorno all’unico ovile del gregge disperso degli Africani.

Afferrato dall’amore e dal dinamismo del Crocifisso, egli supera ogni condizionamento della carne e del sangue e vede la Nigrizia come “una miriade infinita di fratelli; dice ‘di fratelli - non di maledetti da Dio- appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comun Padre su in cielo”. Vivendo nel dinamismo trinitario, Comboni esperimenta un Dio Padre universale segnato dalla sofferenza di tanti suoi figli, fra cui emergono gli Africani, e nel bisognoso africano scopre un fratello, uno che è come lui nelle cose più vere della vita…, ma che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato verso di Lui.

Comboni, per tanto, vive la relazione con Dio-Padre come la comune fonte di vita e di destino e l’origine della salvezza di tutti gli uomini. Questo Padre attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli che vivono in Africa ancora “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore.

L’esperienza di Dio come “comun Padre” impegnato con l’esistenza personale di Comboni stesso e con la vita dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio, lo spinge ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune” con essi, anche con il rischio della vita (cf AC ’91, 6.1).

L’avvenimento carismatico fondamentale della vita di san Daniele Comboni è, dunque, chiaramente deciso dal Mistero Cristologico-Trinitario, che è mistero della solidarietà divina con la storia e il dolore degli uomini, esperimentato da Comboni attraverso l’esperienza del Mistero del Cuore di Gesù nel Mistero della Croce (cfr. RV 3-4).

Si può dire, per tanto, che “il carisma originario che si rifà all’esperienza missionaria del Comboni è schiettamente trinitario”. La sorgente della spiritualità del Fondatore è la Trinità, che per mezzo di lui entra nell’esilio del mondo africano, affinché questo popolo di esiliati entri nella patria della comunione trinitaria.

A questo punto è possibile delineare l’attualizzazione del cammino dello spirito di san D. Comboni.

Secondo gli Atti Capitolari del 1991, il cammino dello spirito vissuto da san Daniele Comboni porta il suo seguace a un continuo passare da una visione di fede sui fatti della storia all’impegno missionario.

È una dinamica spirituale che coinvolge tutta la vita, che suppone un’intensa vita di preghiera (RV 46; 47) e in cui si possono distinguere tre momenti:

1. Abituarsi a giudicare gli avvenimenti della storia con la luce che viene dalla fede nell’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, sotto la guida dello Spirito Santo.

2. Contemplando o leggendo i fatti della storia al puro raggio della fede come “piccolo cenacolo di apostoli” (S 2648), unirsi a Dio che, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido del povero e entra con tutto il suo essere nella storia e nel dolore degli ultimi.

3. Assumere questa stessa storia e questo dolore diventandone parte e facendo “causa comune” (S 3159), anche con il rischio della propria vita (= disponibilità martiriale), per rigenerarli con l’annuncio esplicito del Vangelo di Gesù Cristo.

Cfr. AC ´91, 6; 6.1-6; RV 2-5; 46; 16; 60-61; 59; S 2742; VC 82; NMI 49.

“Quel Cuore che ha tanto amato gli uomini vi spinge alle periferie della società per testimoniare la perseveranza dell’amore paziente e fedele. Dalla contemplazione del Cuore ferito di Gesù si possa sempre rinnovare in voi la passione per gli uomini del nostro tempo, che si esprime con amore gratuito nell’impegno di solidarietà, specialmente verso i più deboli e disagiati. Così potrete continuare a promuovere la giustizia e la pace, il rispetto e la dignità di ogni persona”.
(Dal discorso di Papa Francesco ai Capitolari del 2015)

I vari itinerari spirituali che si succedono nella storia della Chiesa sono interconnessi e si arricchiscono a vicenda secondo modalità diverse nel loro sorgere e nello svilupparsi nel tempo, partendo tutti dall’incontro con Dio-Padre in Cristo sotto l’azione dello Spirito Santo.

L’itinerario comboniano nasce da questo incontro caratterizzato dal carisma di san Daniele Comboni, vissuto dai suoi discepoli nella consacrazione per la missione, alla luce dei segni dei tempi (cfr. RV 1; 16; MR 11).

Questo cammino è tracciato nella Regola di Vita del 1988, la quale “è memoria che trasferisce nell’oggi la freschezza e l’efficacia dell’esperienza del Fondatore e dell’Istituto e che mantiene sempre vivo lo stesso spirito di sequela e di apostolato” (Regola di Vita, Lettera del Consiglio Generale, 10.6.1988). 

È un cammino che possiamo definire sinodale, costituito dall’intreccio fatto di consacrazione – comunità/partecipazione – missione.

Essa è il frutto dell’impulso al rinnovamento nel cammino spirituale dato dal Concilio Vat. II e dal successivo Magistero della Chiesa. L’Istituto Comboniano ha recepito questo impulso nel Capitolo Generale del 1969 e l’ha approfondito nei successivi Capitoli Generali fino al Capitolo del 2022, dai quali è nata l’attuale Regola di Vita e la sua Rilettura e Revisione ancora in atto e in fase di conclusione…

Da questo processo nascono le priorità e le linee guida dei Documenti Capitolari del XIX Capitolo Generale del 2022, in cui al primo posto c’è la “Spiritualità, “linfa della Vite nel cuore del tralcio”, che ci mantiene “radicati in Cristo insieme a san Daniele Comboni” (n. 11). Nasce così il “cenacolo di apostoli”, la comunità comboniana, segno visibile dell’umanità nuova nata dallo Spirito, che diventa annuncio concreto di Cristo: “Siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che Tu mi hai mandato” (cfr. RV 36).

La spiritualità è la sorgente da cui scaturisce e si alimenta il Servizio Missionario delle comunità comboniane nel contesto storico del mondo di oggi e alla luce del cammino di conversione tracciato da Papa Francesco: l’ecologia integrale (LS), la fratellanza universale e l’amicizia sociale (FT), il dialogo interreligioso (Dichiarazione di Abu Dhabi) e il cammino sinodale (cfr. Introduzione, 8).

“… Se siamo come tralci ben attaccati alla vite, la linfa dello Spirito passa da Cristo in noi e qualsiasi cosa facciamo porta frutto, perché non è opera nostra, ma è l’amore di Cristo che agisce attraverso di noi. Questo è il segreto della vita cristiana, e in particolare della missione, dovunque, in Europa come in Africa e negli altri continenti. Il missionario è il discepolo che è così unito al suo Maestro e Signore, che le sue mani, la sua mente, il suo cuore sono “canali” dell’amore di Cristo”. (Cfr. Discorso di Papa Francesco ai Capitolari del 2022).

P. Carmelo Casile


-------------

Fonte: www.comboni.org/contenuti/115200

Post più popolari negli ultimi 30 giorni