venerdì 30 dicembre 2022

La maternità divina, principio e vertice del mistero mariano, di Michele Giulio Masciarelli



La maternità divina, principio e vertice del mistero mariano

di Michele Giulio Masciarelli





Il cristianesimo coltiva il mistero della maternità a tanti livelli. Uno di essi, il più denso e il più vasto, lo celebra in riferimento a Maria di Nazaret e di Gerusalemme: lei è la madre di Gesù, è la madre della Chiesa, è la madre del genere umano. L’essere madre di Gesù chiede la qualificazione di Madre di Dio, perché Gesù è Dio e da lei è nato l’Uomo-Dio: dal suo santo seno è uscito suo Figlio, indivisibilmente Figlio del Padre e perciò Dio. Maria Madre di Dio è il titolo natalizio dato da Dio a lei, il suo titolo più alto, il vertice del suo mistero e della sua gloria, dalla teologia da sempre considerato la prima verità mariana su cui costruire la riflessione credente su di lei.

Il culto di Maria, la vergine madre di Dio, è nato alla luce delle feste per la nascita del Signore. Testimoniato già agli inizi del V sec. a Gerusalemme, si è sviluppato dopo il Concilio di Efeso (431). A Roma, la basilica di Santa Maria Maggiore, fatta erigere da Sisto III (432-440), costituisce la prima testimonianza per l’Occidente. Benché a Gerusalemme la festa di Maria la Theotokos fosse già celebrata nel 420 il 15 agosto, data di cui si ignora l’origine, però è nel tempo di Natale che compare una festa particolare di Maria: il 26 dicembre in Oriente, il 1° gennaio a Roma (VII sec.), il 18 gennaio in Gallia, il 18 dicembre (attesa della nascita) in Spagna.

Questa festa è, per la logica dei misteri, matrice di altre feste sulla Vergine-Madre: poiché la memoria mariana del 1° gennaio era stata offuscata, in Occidente, dalla festa della circoncisione, il Medioevo, a partire dal VII-VIII sec., ha festeggiato «le quattro Madonne»: la Purificazione (2 febbraio), l’Annunciazione (25 marzo), l’Assunzione (15 agosto), la Natività (8 settembre). Due di esse dipendevano direttamente dalla festa di Natale, ed erano feste del Signore prima che di sua Madre.

La gloria più alta, la collaborazione più forte

Essendo la divina maternità il principale privilegio attribuito da Dio a Maria, questa festa, di là d’ogni considerazione storico-liturgica, è teologicamente la festa mariana più significativa e più importante. Theotokos, Madre di Dio, è il titolo più ardito, la dignità più alta che la Chiesa, nella sua sapienza credente, ha riconosciuto a Maria nel Concilio di Efeso (431). Questo eccelso titolo è stato giustificato storicamente, ed è giustificato teologicamente, da ragioni cristologiche: Gesù Cristo, Dio e uomo, persona unica, indivisibile e non moltiplicabile, è nato da Maria, che conseguentemente è Madre di Dio.a) Chi disconosce il Figlio disconosce la Madre. Maria è Madre del Figlio di Dio, secondo la natura umana. Ella non è Madre del Dio unico in tre persone, ma è la Madre del Figlio che è Dio. Questa maternità rispetto al solo Figlio è la ragione sufficiente e completa perché Maria venga chiamata Madre di Dio. Solo se Gesù non fosse Dio, Maria non sarebbe la Madre di Dio. È dunque, la verità cristologica a giustificare e ad esigere il titolo di Theotokos per Maria. Storicamente, chi ha avuto difficoltà ad affermare l’unità personale di Cristo (il nestorianesimo) ha avuto anche difficoltà a chiamare Maria Madre di Dio.

Oggi è strisciante l’errore di attribuire a Cristo una persona umana, senza concepirla come la persona divina del Figlio incarnato, ma solo come un uomo intimamente unito a Dio. È chiaramente opposta alla fede cristologica «l’affermazione secondo cui l’umanità di Gesù Cristo esisterebbe, non come assunta nella persona eterna del Figlio di Dio, ma piuttosto in se stessa come persona umana e, di conseguenza, il mistero di Gesù Cristo consisterebbe nel fatto che Dio che si rivela sarebbe sommamente presente nella persona umana di Gesù» (Congregazione per la dottrina della fede, Mysterium Filii Dei [21 febbraio 1972], n. 1).

È poco affermare, rispetto alla verità cristologica di Calcedonia, che Gesù gode della compagnia di Dio: è poco per lui ed è poco, conseguentemente, per Maria: allora non sarebbe la madre di Dio, ma solo dell’uomo di Nazaret. La verità del mistero di Cristo è la base della verità di Maria, ma, proprio per questo, il mistero mariano è garanzia del mistero di Cristo. Perciò, ogni dottrina cristologica incompatibile con il titolo di Theotokos è incompatibile con la dottrina della Chiesa.b) La maternità divina, cuore del mistero mariano. Grande è il senso del mistero della maternità divina: essa non s’arresta all’aver permesso al Figlio di Dio di assumere la natura umana, ma significa anche a quale vertice di collaborazione il Dio trinitario ha voluto chiamare una creatura; Maria, con il suo ruolo di grazia essenziale avuto nell’incarnazione, partecipa al cambio del regime dell’alleanza: anzitutto per Cristo, ma anche per mezzo di lei sono stati inaugurati i tempi nuovi; anzitutto da Cristo, ma anche per la sua mediazione materna la storia dell’approssimarsi di Dio nel mondo ha raggiunto il livello della presenza personale; soprattutto con Cristo, ma anche con la sua disponibilità l’onomastica di Dio s’è arricchita del consolantissimo nome di Emanuele.

Tutte le altre collaborazioni di Maria all’opera messianica di Gesù dipendono dall’aver accettato di divenire sua Madre: si direbbe che sono una sua espansione. Legata al mistero dell’Incarnazione, la maternità divina di Maria partecipa al ruolo fontale di quel mistero rispetto agli altri misteri cristiani.

L’incarnazione è la porta degli altri misteri vissuti da Gesù: della sua esistenza taumaturgica e di rivelatore del Padre durante la sua vita pubblica, della sua passione e della sua morte in croce, della sua risurrezione, della sua ascensione al cielo, della sua glorificazione alla destra del Padre, del suo invio dello Spirito, della sua azione salvifica immanente all’agire missionario della Chiesa, della sua futura parusia con l’esercizio del suo giudizio finale. Per così dire, alla base di tutti questi misteri c’è l’incarnazione e, perciò, anche la mediazione materna in essa esercitata dalla Vergine.

Una maternità completa

Si è soliti stabilire, e a ragione, un rapporto tra verginità mariana e fede ecclesiale. Maria, con il suo stato verginale, è vergine non solo perché non conosce uomo (cf. Lc 1,34), ma anche perché appoggia la sua vita totalmente su Dio. Vergine, infatti, è chi, non confidando in appoggi umani, nel sostegno di un’altra persona, consegna la sua intera esistenza a Dio, affidandosi a lui solo. Si capisce, allora, perché la Chiesa sia vergine per la sua fede: essa deve la sua esistenza e la sua missione a Dio solo: al Padre che l’ha suscitata generando i figli che la compongono, allo Spirito che la consola e la ispira con la luce della sua sapienza, al Cristo che l’ha istituita e la guida come permanente Pastore.a) Una maternità a più dimensioni. La maternità di Maria, lungi dall’essere un mito, è invece un concepire, un accogliere il Figlio nell’unità e nella totalità della propria persona, corpo, cuore e fede. È una vera maternità fisica. Non è scontato ricordarlo. Nella storia della fede la sottolineatura di questa dimensione è stata necessaria e urgente farla, quando, durante la lotta allo gnosticismo e al docetismo, si affermava che la carne di Cristo sarebbe stata una «carne spirituale» recata con sé dal Cielo dallo stesso Verbo e che Gesù era «nato attraverso la Vergine, non dalla Vergine, avendo nella Vergine non una madre, ma una vita» (Tertulliano, Val., 27, 1).

Nella difesa della maternità fisica contro i docetisti fa la sua comparsa il titolo di Theotokos e la Chiesa inizia a considerare la maternità divina di Maria, come «maternità metafisica» (R. Cantalamessa). Tra Maria e Cristo non viene considerata la relazione di ordine fisico, ma quella di ordine metafisico, che la colloca nell’incarnazione del Figlio a fianco del Padre: Gesù a Natale nasce quale Figlio del Padre e di Maria; a nessun altro, fuori che al Padre, può essere attribuita la di lui paternità; a nessun’altra, fuori che a Maria, può essere attribuita la di lui maternità. Con semplicità, ma anche con precisione di fede ,sant’Ignazio d’Antiochia affermava che Gesù è Figlio di Dio e di Maria (Ep. Ef., 7, 2).

La maternità esercitata da Maria nei confronti di Cristo comprende la dimensione educativa. In ogni maternità umana il compito educativo è più importante della sola generazione. La maternità divina di Maria è anche maternità educativa: ciò significa che «Maria deve essere chiamata “colei che ha educato Dio”. […] Si deve riconoscere in Maria l’educatrice del Figlio di Dio nella sua infanzia umana. […] Dell’educazione data da Maria a Gesù, ne raccogliamo i frutti nel Vangelo. È certo che il comportamento del Salvatore conservava le tracce dell’influsso materno, ma non possiamo reperire queste tracce in modo preciso» (J. Galot, Maria, la donna nell’opera di salvezza, Roma 1984, pp. 106. 197).b) La maternità divina, paradigma di fede. Maria riconduce l’atto generativo ad un’esperienza pienamente personale: la maternità fisica si completa, cioè, in una relazione materna tale per cui ella è realmente Madre della persona di Gesù, vero uomo e vero Dio. La maternità di Maria implica la totale riorganizzazione della sua vita e della sua personalità sul modulo della maternità.

A questo punto si inserisce una terza dimensione: la fede. Maria vive dunque anche una maternità spirituale: «Maria partorì nella fede colui che aveva generato nella fede» (sant’Agostino, Sermo 215, 4).

La maternità divina di Maria non è estranea a noi. È un principio vitale, fondatore e ispiratore della vita della Chiesa: è, ad esempio, paradigma di fede per la Chiesa. Ma in che senso Maria, con la sua maternità divina, è tipo della fede della Chiesa? Qual è il nesso teologico fra quella maternità e quella fede? Poiché, come insegnano i Padri, credere a livello di fede teologale consiste nel “concepire” Dio nel proprio cuore e, dacché la maternità divina ha rappresentato il pieno compimento di questo mistero, la conclusione è che la maternità divina è il compimento estremo, la perfezione della fede teologale (cf. A. Müller e R. Laurentin). Anche a livello della maternità, dunque, l’esperienza di fede di Maria si congiunge, in modo fondativo ed esemplare, con l’esperienza credente della Chiesa. Il cerchio lo si può chiudere ancora con più rigore.

Quanto detto finora fa comprendere meglio perché Maria abbia potuto vivere, senza contraddizione, il mistero di una maternità verginale: non sono, infatti, verginità e maternità che due forme dell’unica esperienza di fede. Si capisce anche, di conseguenza, che il volto della Chiesa esprimerà una fisionomia armonica solo quando recherà, ad un tempo, i tratti della maternità e quelli della verginità: quando cioè mostrerà di avere il volto della perfetta Credente. In questo senso certamente una Chiesa non mariana non si dà. Ha ragione Isacco della Stella (+ 1178) a chiamare Maria e la Chiesa una sola vergine, una sola Madre: «L’una e l’altra sono madre; l’una e l’altra, vergine. Entrambe concepiscono per opera dello Spirito Santo, non per desiderio carnale. Entrambe danno un figlio a Dio Padre senza peccato» (Sermone 51).




------------------------------------------
Fonte: http://www.settimananews.it/saggi-approfondimenti/madre-dio-2/

lunedì 26 dicembre 2022

Omelia per la Messa di Natale 2022 dell'Arcivescovo Giuseppe Baturi

 

Omelia per la Messa di Natale 2022

dell'Arcivescovo Giuseppe Baturi




C’è ancora spazio in noi per l’incanto, lo stupore di questa notte? L’abitudine delle parole che usiamo stanotte le ha rese meno sincere? Il Natale è capace ancora di generare una profonda conversione nel modo di sentire e leggere la vita?

Cari fratelli e sorelle, a Natale siamo riportati all’essenza del cristianesimo, alle verità più profonde della fede, a quel nucleo elementare che sorregge la nostra speranza. Il contenuto elementare e profondo della nostra fede si ricapitola nella persona di Gesù Cristo e nella sua presenza tra noi, perché Egli ci è contemporaneo. La sua nascita, le sue parole e opere, la sua morte e risurrezione sono di oggi, sono per noi. Tutto di Gesù Cristo ci è contemporaneo e così quando facciamo memoria dei suoi misteri, in qualche modo, parliamo anche di noi e nel nostro presente, delle nostre paure e dei nostri desideri.

«Il popolo che camminava nelle tenebre / ha visto una grande luce; / su coloro che abitavano in terra tenebrosa / una luce rifulse» (Is 9,1). Serve davvero una luce a chi cammina nelle tenebre. Nel buio la realtà non si lascia riconoscere, siamo a disagio e il fastidio si alimenta di paure. Temiamo sempre che il buio nasconda una brutta possibilità. Nelle tenebre siamo incapaci di scoprire le presenze amiche e di scorgere un orizzonte ultimo verso cui andare e nel quale collocare il nostro presente. Se manca la luce il nostro cammino si popola di fantasmi, si fa la guerra, si provocano divisioni, si odia e si fa violenza, si vive nel timore.

Pensiamo a chi soffre la tragedia della guerra ed è costretto a nascondersi nel buio di un rifugio; a chi è ammalato gravemente e non riesce a vedere cosa l’attende; a chi non gode di un amore caldo al quale abbandonarsi; a chi ha smarrito la gioia del vivere e la speranza di una meta. Vogliamo la luce così come desideriamo la serenità e la pace, come sospiriamo il volto di persone familiari e rassicuranti.

La luce è dono di Dio, è una grazia necessaria, attesa, sperata. «Hai moltiplicato la gioia, / hai aumentato la letizia» (Is 9,2). La luce è la gioia di un amore donato. «Perché un bambino è nato per noi, / ci è stato dato un figlio» (Is 9,5). Quanto volte abbiamo pensato che la luce della vita sia una persona amata, con cui spartire la speranza della felicità. Quante volte abbiamo pensato di qualcuno: Sei tu la luce dei miei occhi. Tu! Il Natale è l’annuncio lieto, è l’esperienza sorprendente che la luce capace di illuminare il nostro cammino è nato, ha il volto di un bambino amabile. È Cristo la luce del mondo. La luce, infatti, è diventata carne e ci ha raggiunti in un figlio nato per noi, a Betlemme, nei giorni del censimento disposto da Cesare Augusto; un primogenito avvolto in fasce e posto in una mangiatoia, poiché per lui non si era trovato posto nell’alloggio. La luce che rischiara il cammino è un bambino da adorare come fecero i pastori; da abbracciare, come fece Simeone; da raccontare, come fece Anna; da proteggere, come fece Giuseppe; da accudire e custodire nel cuore, come fece Maria. La luce è un bambino da accogliere e amare. Dio ha scelto la via dell’incarnazione perché potessimo incontrarlo lasciandoci attirare dalla sua bellezza, senza paura e senza vergogna.

Dio ci guarda con gli occhi di quel figlio. Anche noi, come i pastori quella notte, siamo chiamati a leggere la vita alla luce dell’evento di Gesù, a guardarla con i suoi occhi. Solo lo sguardo di Dio può rendere giustizia alla vita. Nel bambino di Betlemme siamo attirati all’amore di «Colui che ha creato il cielo e la terra, colui che è sempre stato e sempre sarà, colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita, della nostra esistenza, colui che conosce tutto, che vede nei nostri pensieri, colui che è presente a noi più che noi stessi» (San Paolo VI).

Invochiamo la tua pace, o bambino nato per noi, quella che si estende a tutti gli uomini, che ci riconcilia con la nostra storia e ci fa operatori di riconciliazione affinché ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando e ogni mantello intriso di sangue siano bruciati e dati in pasto al fuoco (cf. Is 9,4).

Ti preghiamo perché possiamo guardare gli eventi e gli incontri della vita con la profondità del tuo sguardo.

Ti domandiamo l’audacia e la semplicità di raccontare a tutti la tua bellezza.

Ti invochiamo, o figlio primogenito, perché abbiamo la capacità di stupirci ancora e di gustare sempre la gioia dell’incontro con te.



---------
Fonte:  https://www.chiesadicagliari.it/arcivescovo/giuseppe-baturi/

martedì 29 novembre 2022

Il significato dell'Avvento del Card. Joseph Ratzinger



IL SIGNIFICATO DELL'AVVENTO

del Card. Joseph Ratzinger


Trittico Portinari, Chiesa del SS. Nome di Gesù, Roma


Per comprendere il significato dell’avvento, è opportuno partire dal termine “avvento” che non significa “attesa”, ma è una traduzione del greco parusia che significa “presenza” o meglio ancora “arrivo”, cioè “presenza iniziata”.
Nell’antichità era usato abitualmente per parlare della presenza di un re o di un sovrano o del Dio del culto, che dona ai suoi il tempo della «parusia». Avvento significa quindi presenza iniziata, presenza di Dio stesso. L’avvento ci ricorda perciò due cose diverse: anzitutto, che la presenza di Dio nel mondo è già incominciata, che egli è già misteriosamente presente; in secondo luogo, che la sua presenza è appena iniziata, non è ancora completa: essa deve ancora crescere, divenire, maturare.
La sua presenza è già incominciata ed è per mezzo di noi credenti che egli vuol essere presente nel mondo. Mediante la nostra fede, la nostra speranza ed il nostro amore, egli vuol far risplendere continuamente la sua luce nella notte del mondo. Le luci, che noi accendiamo nelle notti buie di questa stagione invernale, sono conforto ed ammonimento al tempo stesso: certezza incoraggiante che «la luce del mondo» è già spuntata nell’oscurità della notte di Betlemme ed ha trasformato la notte infausta del peccato umano nella fausta notte del perdono divino di questo peccato. Ammonimento: questa vuole e può continuare a risplendere solo se splende in coloro che, in quanto cristiani, continuano l’opera di Cristo attraverso i tempi. La luce di Cristo vuole illuminare la notte del mondo mediante il nostro essere-luce. La sua presenza iniziata deve crescere ulteriormente per opera nostra.
Quando nella notte santa vengono ripetutamente fatte risuonare le parole «Hodie Christus natus est», noi dobbiamo ricordarci anche che l’inizio di Betlemme vuole e deve divenire per mezzo nostro inizio costante, che quella notte santa è e può essere veramente «oggi», dovunque un uomo permetta alla luce del bene di prorompere dal suo egoismo. Essa è «oggi» dovunque la «parola» si fa nuovamente «carne», realtà attuata. Pertanto, «Gesù bambino viene» veramente dovunque ci si comporta realmente sull’esempio dell’amore del Signore e non vengono solo scambiati dei doni.
Avvento significa arrivo già iniziato, ma anche solo iniziato, del Signore.
Due verità sono qui affermate: il cristiano non guarda solo a ciò che è passato ed è stato, ma anche a ciò che viene. In mezzo a tutte le catastrofi del mondo, egli sa con superiore certezza che il seme della luce cresce di nascosto, finché un giorno il bene vincerà definitivamente e tutto gli sarà soggetto: quando Cristo ritorna. Egli sa che la presenza di Dio, ora solo incominciata, sarà un giorno presenza completa. E questo sapere lo rende libero, gli da una sicurezza estrema.
In fondo, si è già delineato con questo l’aspetto essenziale dell’avvento.

Ma la chiesa sa che l’uomo non vive di verità astratte, ma di immagini concrete e così ci ha posto dinanzi agli occhi l’idea dell’avvento in immagini viventi.
Si può dire che la liturgia dell’avvento formi una specie di trittico.
Sulla prima tavola di questa pala in tre parti, vi è Giovanni Battista, figura davvero dominante dell’avvento.
La tavola opposta mostra Maria, la madre del Signore.
Tutte due indicano la pala centrale: Cristo stesso. Giovanni Battista e Maria sono i due grandi tipi della vita dell’avvento. Essi dominano quindi la liturgia di questo periodo.
La chiesa sa che l’uomo non vive di verità astratte, ma di immagini concrete e così ci ha posto dinanzi agli occhi l’idea dell’avvento in immagini viventi. Si può dire che la liturgia dell’avvento formi una specie di trittico.

Sulla prima tavola di questa pala in tre parti, vi è Giovanni Battista, figura davvero dominante dell’avvento.
La tavola opposta mostra Maria, la madre del Signore. Tutte due indicano la pala centrale: Cristo stesso. Giovanni Battista e Maria sono i due grandi tipi della vita dell’avvento. Essi dominano quindi la liturgia di questo periodo.
Fermiamoci a considerare anzitutto Giovanni Battista!
Esigente ed operante, egli sta dinanzi a noi, simbolo del dovere umano.
Egli chiama severamente alla metanoia. Chi vuol diventare cristiano deve continuamente«cambiare opinione». Il nostro atteggiamento naturale ci porta a voler affermare noi stessi… Chi vuol trovare Dio, deve continuamente convertirsi interiormente, andare in direzione diversa. E questo vale per tutto lo stile di concepire la vita.
Ogni giorno ci imbattiamo nel mondo del visibile. Irrompe in noi sui manifesti, alla radio, nel traffico, in tutte le circostanze della vita quotidiana, con una potenza tale che siamo tentati di pensare che non ci sia altro che questo. Ma, in realtà, l’invisibile è più grande e vale più di tutto il visibile. Una sola anima – ci dice una meravigliosa espressione di Pascal – vale più di tutto l’universo visibile. Ma, per sperimentare nella vita questa verità, è necessario convertirsi, rigirarsi per così dire interiormente, superare l’illusione del visibile e divenire sensibili, attenti e delicati nei confronti dell’invisibile; considerarlo più importante di tutto ciò che ci assale così prepotentemente tutti i giorni. Metanoeite: cambiate opinione, affinché per voi la presenza di Dio sia conservata nel mondo; cambiate opinione, affinché Dio divenga presente in voi e, per mezzo di voi, nel mondo.
Neppure a Giovanni fu risparmiato questo pesante processo del cambiar opinione, del dovere della conversione, questa «alchimia dell’essere» (Lubac).
Lo vediamo già all’inizio, quando grida nel deserto e deve annunciare colui che neppure lui conosce….
La vera passione di Giovanni, questo vero e proprio processo di rifusione in Dio di tutto il suo essere, inizia solamente con l’attività di Cristo, nel periodo in cui egli era in carcere. Il buio della prigione non fu il buio più terribile che Giovanni dovette sopportare. Il suo vero buio fu ciò che Martin Buber chiama «buio di Dio», l’improvvisa incertezza nei confronti della sua missione e di colui al quale aveva cercato di preparare la strada.
Egli aveva profetizzato la venuta del giudice con espressioni cariche di infiammata potenza ed aveva dipinto il gran giorno del Signore con tinte ardenti.
Aveva descritto il Messia come il giudice che tiene in mano il ventilabro per setacciare la pula del grano e gettare la pula in un fuoco inestinguibile. Lo aveva descritto come colui che rigetta questa generazione adultera e, se necessario, fa sorgere dalle pietre figli di Abramo, al posto di questi infedeli che si dicono figli di Abramo. Lo aveva raffigurato come colui che ha già posto la scure alla radice dell’umanità, per abbattere l’albero.
In mezzo soprattutto alla spaventosa ambiguità di questo mondo, in cui attendiamo ed aspettiamo costantemente nella tenebra, egli aveva sperato ed annunciato l’assoluta chiarezza: verrà alla fine il giorno in cui si dileguerà questo buio fitto, che getta continuamente l’uomo di qua e di là, così che questi non sa più dove battere la testa. Arriverà l’assoluta chiarezza, di modo che l’uomo non procederà più a tastoni come attraverso una nebbia interminabile, ma ci sarà luce: questa, e non altra, è la chiara pretesa di Dio nei confronti dell’uomo; così, e non altrimenti, stanno le cose per quanto riguarda l’uomo e Dio.
Frattanto, però, era arrivato colui che, per incarico divino, il suo dito profetico doveva indicare:
«Ecco l’agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo»!
La presenza di Dio era incominciata… Ma quanto diversamente da come se l’era immaginata! Non cadde un fuoco dal cielo per consumare i peccatori e dare ai credenti la conferma definitiva; nulla propriamente mutava nel mondo.
Gesù passava per il mondo predicando e compiendo opere buone. L’ambiguità rimaneva. La vita umana continuava ad essere il mistero oscuro che l’uomo deve aver il coraggio di vivere, credendo e sperando, nell’oscurità del mondo. È chiaro che era quest’aspetto tutto diverso di Gesù che lo tormentava fin nel più profondo dell’animo, nelle lunghe notti del suo carcere. Questo persistere del buio di Dio; l’oscurità di Dio e l’imperturbabile procedere di una storia del mondo che così spesso è in stridente contrasto con la fede.
Pressato da questa situazione, manda l’ambasciata al Signore: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro»? È una domanda che, durante le notti dei bombardamenti dell’ultima guerra e in tutte le miserie della nostra stessa vita, ci è venuto spontaneo porre ripetutamente a Gesù: Sei tu veramente la redenzione del mondo? Ma lo sei davvero? Era questo allora tutto ciò che Dio aveva da dirci?
Nella sua risposta, Gesù si richiama al profeta Isaia, che aveva profetizzato proprio questo Messia tranquillo e soccorritore, che «non grida e non fa chiasso per le strade», ma procede predicando e compiendo buone opere, e, per completare il quadro, pronuncia la significativa espressione: «Beato chi non si scandalizza per causa mia». Ciò vuol dire che ci si può scandalizzare per lui. Significa che non si vien posti in una chiarezza assoluta, che toglie ad uno ogni problema e risolve ogni enigma, ma ci si può scandalizzare.
Si aggiunge: Beato chi non si scandalizza. Beato quindi chi smette di chiedere segni ed una certezza definitiva. Beato chi si raccapezza, in questo buio, a proseguire il suo cammino, credendo ed amando. Fu proprio questo il compito ultimo, dato al Battista nella sua prigionia: raggiungere la Beatitudine in quest’indiscussa accettazione della volontà di Dio; arrivare a non desiderare più un’evidenza ed una chiarezza esteriori, ma scoprire Dio proprio nell’oscurità del mondo e della propria vita, ed essere così beati fino in fondo….
Non si può vedere Dio come si vede…. una pubblicità luminosa, in maniera esteriore, senza attività interna. Lo possiamo vedere solo divenendo noi stessi simili a Dio, mettendoci sul piano in cui egli si trova. L’uomo deve liberarsi di se stesso, liberandosi degli dèi opposti: la caccia alla concupiscenza, al piacere, al possesso, al guadagno. Tra noi e Dio vi è, in definitiva, il nostro io. Si può vedere Dio solo cambiando vita, smettendo di cercarlo come si possono cercare dei cartelli stradali o delle banconote, cominciando a distogliere l’occhio dal visibile per rivolgerlo all’invisibile. Così Giovanni stesso, in carcere, deve realizzare ancor una volta la sua richiesta del metanoein, per conoscere il suo Dio nella notte di tutto ciò che è terreno. «Beato chi non si scandalizza per causa mia».
Anche al cristiano di oggi non può essere indicata altra strada, che conduce all’accordo con Dio, se non quella di smettere di ricercare un’assoluta chiarezza esteriore e di ricominciare a distogliere lo sguardo dal visibile, per rivolgerlo all’invisibile, e trovare così realmente il Signore, che regge e conserva la nostra vita.
Solo in questo modo, anche l’altra parola del Battista, la sua più grande parola, acquista il suo senso pieno: «Egli deve crescere, io devo diminuire». Conosceremo Dio nella misura in cui diverremo liberi da noi stessi, faremo spazio alla sua presenza.

La seconda tavola del trittico d’avvento mostra Maria, la pura serva del Signore. A prima vista, il suo messaggio è di natura completamente diversa: non è il tipo dell’agire maschile, ma della femminile disposizione a ricevere.
Ogni giorno, da noi, nel «Rorateamt» viene letto il vangelo dell’annunciazione a Maria e della miracolosa concezione del Figlio di Dio.
«L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea che ha nome Nazareth, a una vergine fidanzata a un uomo di nome Giuseppe, della casa di David, e il nome della vergine era Maria. Entrato da lei, disse: ‘Salve piena di grazia…!». Un’ora fatale per la storia del mondo; qui, a questo punto, infatti, è veramente incominciata in senso pieno la presenza di Dio tra gli uomini. Qui si è verificato realmente un «avvento». Ma riflettiamo: quest’ora fatale della storia mondiale fu, al tempo stesso, una delle sue ore più silenziose e quiete. Un’ora dimenticata, che nessun giornale ha segnalato e della quale nessuna rivista ha fatto o avrebbe fatto menzione, se già allora ci fosse stato qualcosa del genere. Pertanto, ciò che qui ci vien detto, è innanzitutto, un mistero di silenzio. Quello che è veramente grande cresce inosservato ed il silenzio è più fruttuoso, a suo tempo, di un ininterrotto attivismo, che troppo facilmente si riduce ad un insulso correre a vuoto. Noi tutti, in questa epoca dell’americanizzazione della vita pubblica, siamo ossessionati da una strana irrequietezza, che subodora una perdita di tempo ad ogni momento di silenzio e di tranquillità. È calcolato e ponderato ogni grammo di tempo e così noi dimentichiamo il vero segreto del tempo, il vero segreto della crescita e dell’azione: la quiete…
Anche in campo religioso è così: attendiamo e speriamo tutto dalla nostra opera; con ogni sorta di imprese e di progetti scansiamo, senza accorgercene, quello che è il vero segreto della crescita interiore dinanzi a Dio.
Eppure, in campo religioso, il ricevere ha per lo meno importanza pari al fare. Quest’osservazione ci conduce ad un secondo aspetto: il mistero dell’annunciazione a Maria non è soltanto un mistero di silenzio, è prima di tutto ed ancor più un mistero di grazia.
Ci si deve chiedere infatti: perché Cristo volle proprio nascere da una vergine?
Per sé sarebbe stato possibilissimo che fosse nato da un matrimonio normale: non avrebbe affatto pregiudicato la sua filiazione divina, che è indipendente dalla sua nascita verginale e sarebbe stata concepibile anche altrimenti. Non si tratta qui della svalutazione del matrimonio e della comunità matrimoniale; neppure si vuol significare che soltanto così la filiazione divina sarebbe stata assicurata. Di che si tratta allora?
Lo si capisce se si apre il Vecchio Testamento e si vede che qui il mistero di Maria è stato preannunciato e preparato in molti momenti importanti della storia della salvezza. Si inizia con Sara, la madre di Isacco, che è sterile e solo nella avanzata vecchiaia, quando le sue forze vitali si sono spente, per opera di Dio diviene madre di Isacco e, quindi, del popolo eletto. Si prosegue con Anna, la madre di Samuele, che, pur essendo sterile, riesce a partorire. Lo stesso dicasi della madre di Sansone e, poi, di Elisabetta, la madre di Giovanni Battista. In tutti questi casi, il significato dell’evento è uguale: la salvezza non viene mai dall’uomo e dai suoi poteri, ma soltanto da Dio, dalla sua azione di grazia. Pertanto, Dio interviene là dove umanamente non c’è più nulla da fare, nel vuoto assoluto. Egli suscita il portatore della promessa dal grembo spento di Sara ed attua questa legge fino alla nascita del Signore dalla Vergine.
Questa legge è formulata per esteso in Is. 54,1 (= Gal. 4,27): «Esulta, o sterile che non hai partorito, giubila, esulta e tripudia, tu che non hai provato le doglie, perché i figli della derelitta sono più numerosi dei figli della maritata», dice il Signore. Il senso di tutto ciò – ripetiamolo ancora una volta – è (in Rom. 4 chiaramente sottolineato) che la salvezza del mondo è pura azione di Dio e sorge quindi dalla debolezza e dall’impossibilità dell’umano.
Nella visione biblica, la nascita verginale non vuole in definitiva, affermare altro che la pura gratuità di ciò che qui accade. È il simbolo della grazia, la più concreta realizzazione della parola di Maria: «Ha rovesciato i superbi dai loro troni ed innalzato gli umili». Ma, grazie a questo mistero di grazia, realizzatesi in lei, Maria non viene allontanata da noi, resa inavvicinabile, semplice (e perciò anche vuoto, inutile) prodigio, ma diviene segno incoraggiante della grazia: annuncia il Dio, la cui luce illuminò i pastori ignoranti e la cui misericordia sollevò i piccoli in Israele e nel mondo. Annuncia il Dio che «è più grande del nostro cuore» (1Gv. 3,20) e la cui grazia è più forte di ogni nostra debolezza che egli ha già anticipatamente superato e-vinto. E se Giovanni rappresenta la severità scuotitrice della richiesta divina, Maria ne esprime la gioia nascosta, ma profonda. «Gioite nel Signore sempre! Di nuovo ve lo dico: gioite!».

Quello della gioia è un concetto fondamentale del cristianesimo in genere, il quale è e vuole essere, per sua essenza, «evangelo», lieta novella. Eppure, il mondo ha perso la fiducia nel vangelo, in Cristo, e lascia la chiesa in nome di quella gioia che sarebbe sottratta all’uomo dal cristianesimo stesso, a causa di tutte le sue innumerevoli prescrizioni e divieti. Certo, questo è vero: la gioia di Cristo non è così facile da trovare come il piacere banale che deriva da un qualsiasi diletto. Sarebbe sbagliato, tuttavia, interpretare le parole «Gioia nel Signore» come si volesse affermare «Gioia, ma nel Signore», quasi che nella proposizione coordinata fosse revocato ciò che è detto nella prima. Si dice semplicemente «Gioite nel Signore», poiché l’apostolo crede evidentemente che ogni gioia vera è racchiusa nel Signore e che al di fuori di lui non esiste gioia vera. Ed è altrettanto vero che, in concreto, ogni gioia, che si verifica al di fuori o contro di lui, non soddisfa, ma spinge continuamente l’uomo in un vortice, nel quale finisce col non trovare più un momento di gioia. Così, abbiamo qui bisogno di sentirci dire che solamente con Cristo è apparsa la gioia vera e che, nella nostra vita, non importa altro che imparare a vedere e a comprendere Cristo, il Dio della grazia, la luce e la gioia del mondo. La nostra gioia sarà vera, infatti, solo se non si fonda più sulle cose, che ci possono esser tolte e rovinate, ma se getta le radici nell’intima profondità della nostra esistenza, quella profondità che nessuna potenza del mondo può sottrarci. Ed ogni perdita esteriore dovrebbe trasformarsi per noi in un’introduzione a questa interiorità e renderci più maturi per la nostra vera vita.

Appare chiaro allora che le due tavole laterali del trittico d’avvento, Giovanni e Maria, richiamano e rimandano ambedue alla tavola centrale, a Cristo: solo partendo da lui e riferendosi a lui esse sono comprensibili. Celebrare l’avvento significa – lo ripetiamo – ridestare in se stessi la presenza nascosta di Dio. Come ciò avvenga, ce lo mostrano Giovanni e Maria.

Basta percorrere la strada del cambiamento di vita, del mutamento d’opinione, liberarci dal visibile per l’invisibile. Così facendo, apriremo gli occhi al prodigio della grazia ed impareremo che per l’uomo e per il mondo non vi può essere gioia più luminosa di quella della grazia apparsa in Cristo. Il mondo non è un congegno di fatica e di sofferenza, vuoto di speranza, ma ogni sua pena è al sicuro, in un’amorosa pietà, è captata e superata dalla clemenza misericordiosa e salvatrice del nostro Dio.
Chi celebra così l’avvento, potrà con diritto parlare del lieto e santo tempo di natale, portatore di grazia. 



-----------------------
Fonte: https://www.cercoiltuovolto.it/index.php/joseph-ratzinger-il-senso-dellavvento/
tratto da Joseph RATZINGER, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974.


mercoledì 28 settembre 2022

Messaggio di padre Rogério Gomes Superiore Generale Redentorista, C.Ss.R. del 27/09/2022

 



Messaggio del neoeletto Superiore Generale Redentorista padre Rogério Gomes, C.Ss.R. del 27/09/2022


PRIMO MESSAGGIO ALLA CONGREGAZIONE REDENTORISTA del SUPERIORE GENERALE

La pace del Signore sia con tutti voi!

Desidero rivolgermi a voi con il mio primo semplice messaggio:

A tutti i confratelli capitolari,
Ai confratelli di ogni Conferenza, in particolare a coloro che vivono in situazioni di guerra, di persecuzione e di dolore e sofferenza nella loro vita, i nostri anziani,
A tutti i nostri candidati alla formazione e a quelli in formazione: Vi voglio molto bene! Ieri abbiamo ricordato il nostro caro Beato Gaspar. Nella sua figura, ricordo tutti i nostri formatori,
Alla famiglia redentorista,
Alle suore redentoriste,
Agli Oblati, ai laici e alle donne associati alla nostra missione,
Ai nostri ex seminaristi redentoristi.

Oggi è un giorno speciale per noi: il 27 settembre 1696 nasceva a Marianella, Napoli, Sant’Alfonso M. de’ Liguori. Ieri sera, mentre scrivevo questo messaggio, pensavo al significato di questa nuova missione che coincide con la nascita del nostro santo fondatore. Dio ha il suo linguaggio!

Vi ringrazio per la vostra fiducia nel chiedermi di intraprendere questo arduo e impegnativo servizio alla Congregazione. Non sarò solo, potrò contare sul mio Consiglio e anche sui superiori maggiori della Congregazione. Sono in pace! Perché credo piamente e profondamente nello Spirito Santo, il timoniere della storia, Colui che era presente alla creazione del mondo, su Gesù nella sinagoga, nella risurrezione, nella Pentecoste, su Alfonso nella fondazione della Congregazione, nella vita dei nostri Santi, Beati, Martiri, Venerabili e in ognuno di noi presente qui oggi, in questo Capitolo. Lo Spirito Santo è qui! Oggi è la nostra Pentecoste!

Credo nel lavoro di squadra. Fin dai tempi della scuola ho sempre lavorato in gruppo. Era più facile lavorare individualmente, per ottenere voti migliori, ma mi piaceva lavorare in questo modo, dialogare, imparare insieme, condividere.

Credo nella persona umana. Ho una fede antropologica. Per me le persone sono al di sopra delle strutture. Le strutture hanno la loro importanza, ma considerate in termini di persone e di missione. E la persona umana è sempre nuova. Ogni giorno si rinnova, si sorprende con le sue potenzialità e le sue debolezze, e questo mi affascina!

Credo nel misticismo. Una leadership che non fa esperienza di Dio è vuota e non può vedere le persone. È solo un ingranaggio per far funzionare gli ingranaggi e usurpa la sua funzione di cura, di incoraggiamento per un tornaconto personale.

La sfida. Mi piace. Non ho paura. Ho un coraggio prudente. Una volta un insegnante mi ha detto che mi piacciono le cose difficili. Non è un gusto personale, ma non vedo mai la sfida come qualcosa di negativo. Per me è qualcosa che richiede una risposta, una soluzione. E se non c’è una soluzione, almeno è stata presa in considerazione. Preferisco sbagliare che rimanere in una situazione stagnante che, a poco a poco, marcisce e muore.

Nella mia semplicità, come contadino, come agricoltore, con la pazienza necessaria, darò generosamente il meglio di me stesso in questo servizio, tutto ciò che è mio. Lavorerò per fare del Governo Generale un organismo missionario per l’animazione della vita apostolica della Congregazione. C’è molto lavoro da fare, molte sfide da superare. Vi chiedo un po’ di pazienza, soprattutto in questo primo anno. Come Congregazione dobbiamo ricordare che siamo un corpo missionario che lavora collegialmente (cfr. Cost 2) ed è questo corpo missionario che non ci permette di frammentarci! Chiederò la vostra collaborazione.

In questi giorni stiamo affrontando le sfide che toccano la nostra vita redentorista: identità, missione, vita consacrata redentorista, formazione per la missione e leadership per la missione. Si tratta di sfide. “Il termine sfida ha un carattere teologico. È un segno di Dio che chiede la nostra fedeltà. In questa prospettiva, dobbiamo scoprire e accogliere la presenza dello Spirito che, mentre ci mostra i suoi doni, ci spinge a continuare a crescere”, dice Aquilino Bocos.[1]

In questi giorni abbiamo parlato molto della crisi della leadership. Per me, la crisi della leadership inizia quando coloro che dovrebbero prendersi cura, si appropriano del loro ruolo di cura per un tornaconto personale. La funzione della leadership è kenotica e non consiste nell’opprimere gli altri, ma nell’essere un buon samaritano.

In questi ultimi tempi, a causa di tanti cambiamenti nel nostro mondo, potremmo essere come la comunità di Pentecoste con le porte chiuse per paura dei pericoli del mondo in crisi. Ma il Redentore ci prende per mano e dice a ciascuno di noi: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo” (cfr. Gv 16,33). Ci chiede: “Tu mi ami? Ci invita a nutrire le sue pecore e i suoi agnelli, a essere una cosa sola con lui e a seguirlo. Pertanto, non dobbiamo avere paura delle crisi! Dovremmo preoccuparci quando non ci sono crisi. Questo è il nostro tempo. È il dono del Signore per noi. Questo è il nostro tempo (cfr. Cost. 3), è il kairos e in esso annunceremo la copiosa apud eum redemptio. Il Signore ci chiama: seguitemi!

Coraggio, fratelli! Non abbiate paura. Il Signore Pastore e Padrone del gregge ha chiamato ciascuno di noi, siamo missionari della speranza! Ogni confratello sta dando il meglio di sé nelle diverse opere. Nelle nostre vene scorre sangue redentorista. Non siamo morti. Lo Spirito del Signore ci conferma. Cosa dice il Redentore nel cuore di ognuno di noi oggi, in questo momento storico! Non abbiate paura, non abbiate paura dei poveri! Vorrei che ogni Redentorista sentisse l’odore delle pecore ed emanasse l’odore di Cristo Redentore.

Vorrei che ogni confratello lasciasse questo capitolo gioioso ed entusiasta, come i discepoli di Gesù se ne andarono dopo la Pentecoste, con un cuore ardente e coraggioso. Quando tornerete alla vostra Unità, potrete iniziare a mettere vino nuovo in otri nuovi (cfr. Mc 2,22) e a incantare nuovamente gli altri confratelli.

Non abbiate paura della fedeltà creativa che ci rende fedeli allo Spirito, ci permette di reimmaginare cose nuove, di intuire nuove vie di evangelizzazione; di sbagliare e di imparare dai nostri errori e di non rimanere pietrificati. Lo Spirito che ha unto Gesù, Alfonso, i nostri santi, martiri, beati e venerabili, è lo stesso Spirito che è qui e ci accompagna, lo stesso Spirito che ci provoca e ci aiuta in questo tempo di ristrutturazione e che ci ama senza paura! Non abbiamo paura della ristrutturazione: sarà il nostro vino nuovo alle nozze di Cana! (La ristrutturazione è per noi la festa delle nozze di Cana; è l’ora di Gesù nella nostra Congregazione, che diventa vino nuovo! I nostri santi, beati, martiri e venerabili hanno sempre ristrutturato, hanno sempre avuto paura, ma hanno sempre creduto nello Spirito e nella loro consacrazione al Redentore. Possiamo avere la migliore struttura, una formazione con i migliori contenuti, ma se non viviamo un esodo non andremo molto lontano. La vita consacrata è esodale nella sua origine. Teologicamente è radicata nella kenosi di Cristo.

Vi ringrazio di cuore per il servizio che svolgete nell’animazione e nella cura dei confratelli. A tempo debito conterò sulla vostra solidarietà per le necessità di personale che abbiamo presso la Curia generale. I confratelli che lavorano a Roma non servono solo la loro provincia, ma tutta la Congregazione.

Infine, vorrei che il vostro rapporto con me fosse quello di un fratello, un confratello che cammina insieme, che ascolta, consola, incoraggia e ama la Congregazione e voi e chi è chiamato a un servizio di animazione in vista del bene comune della Congregazione. Niente di più!

Il Signore benedica tutti i presenti e tutti i confratelli del mondo. Infine, vorrei affidare tutta la Congregazione, ogni confratello e tutti i nostri laici, tutti coloro che hanno un’impronta redentorista nel cuore, alla Madonna del Perpetuo Soccorso. Lei è la nostra Madre Generale.

Dopo la professione di fede, vi invito a cantare insieme il canto “Anima missionaria”. Con questo canto voglio abbracciare i confratelli e i laici di tutta la Congregazione. Che lo Spirito Santo ci guidi! Non abbiate paura! Amiamoci l’un l’altro!

P. Rogério Gomes, C.Ss.R

Il Carmelo, Ciampino, 27 settembre 2022.


________________________________________

[1] BOCOS, Aquilino. Rethinking Restructuring. Provincial and community structures. Redemptorist Spirituality Service. Bogotá, Colombia, n. 01, p. 4-5, April 2018.


mercoledì 14 settembre 2022

Decalogo della Docilità allo Spirito Santo, di padre Gasparino


Decalogo della Docilità allo Spirito Santo

di padre Andrea Gasparino







1. LO SPIRITO PARLA SOTTOVOCE

Lo Spirito è rispettosissimo della tua libertà; è un amore forte e discreto quello dello Spirito, basta un po' di orgoglio e di superficialità e la Sua voce non ti raggiunge più. Lo Spirito tace, tace e attende.
Il Papa nell'enciclica sullo Spirito Santo dice: “Lo Spirito è la suprema guida dell'uomo, la luce dello spirito umano”.


2. SE LO SPIRITO MARTELLA C'E' UN PROBLEMA CHE SCOTTA

Quando lo Spirito insiste è perché ci segnala una piaga, bisogna aprire gli occhi. Ogni ritardo ad accogliere la Sua voce fa gravi danni alla tua vita spirituale; ogni prontezza nel rispondere ti rinnova e ti apre a percepire meglio la Sua luce. Ma quante volte lo Spirito martella: "Lascia quell' amicizia. Lascia quell'occasione, lascia quel vizio". E allora quando lo Spirito martella bisogna partire.
Il Papa nell'enc. dice: “Sotto l'influsso dello Spirito matura e si rafforza l'uomo interiore. Lo Spirito costruisce in noi l'uomo interiore, lo fa crescere e lo rafforza”.


3. IL SEGRETO DELLA GIOIA E' DARE CONTINUE GIOIE ALLO SPIRITO SANTO

Ma bisogna partire dalla concretezza, dalle piccole cose. Ogni atto di umiltà, ogni atto di generosità alimenta la gioia che lo Spirito Santo semina in noi. Quando fate un atto di bontà, voi, se non state attenti, dopo vi inorgoglite un po'. Quando fate un atto di bontà adesso non fate più così; fermatevi e dite: “Grazie, Spirito Santo”. Io ho inventato per me questa preghiera; quando faccio una gentilezza adesso dico: “Grazie, Spirito Santo, ancora, ancora”, per dirgli: "Continua a ispirarmi la bontà, continua a mettermi un' occasione di fare qualcosa di bello per te". Ecco, continuamente lo Spirito Santo è all' opera, ma bisogna lasciarlo operare.
Il Papa nell'enc. al numero 67 dice: “La gioia che nessuno può togliere è dono dello Spirito Santo”.


4. LO SPIRITO NON SI STANCA DI PARLARTI, DI ISTRUIRTI, DI FORMARTI

Lo Spirito, voglio dire, è la fedeltà dell'amore e usa i mezzi più semplici: ispirazioni, consigli di persone che ti amano, esempi, testimonianze, letture, incontri, avvenimenti…
Il Papa nell'enc. al numero 58 dice: “Lo Spirito Santo è l'incessante donarsi di Dio”.


5. LA PAROLA DI DIO E' LA PRIMA ANTENNA DELLO SPIRITO SANTO

Voglio dire: impara a leggere la Parola di Dio implorando lo Spirito; non leggere mai la Parola senza lo Spirito. Nutriti della Parola invocando lo Spirito. Prega la Parola nello Spirito. Quando prendi in mano la Parola, primo: alza l' antenna dell' ascolto dello Spirito; poi prega, prega lo Spirito. E' con la Parola e la preghiera che impari a distinguere la voce dello Spirito.
Il Papa nell'enc. al numero 25 dice: “Con la forza del Vangelo lo Spirito Santo rinnova costantemente la Chiesa”. Vedete, la Parola di Dio è l'antenna costante che rinnova la Chiesa, per cui la Chiesa si collega con lo Spirito Santo.




6. NON CESSARE DI RINGRAZIARE LO SPIRITO PER QUELLO CHE FA PER TE

La tua vita è un intreccio misterioso e continuo di doni dello Spirito Santo: dal Battesimo fino alla morte. Dalla tua nascita fino alla morte c'è un filo d' oro: i doni dello Spirito; un filo d'oro che percorre tutta la tua vita. Tu percepisci appena alcuni doni, ma devi sforzarti di trovarne tanti. E dei doni che percepisci comincia a ringraziare.
Il Papa nell'enc. al numero 67 dice: “Davanti allo Spirito io mi inginocchio per riconoscenza”.




7. IL MALIGNO COPIA DALLO SPIRITO E FA DI TUTTO PER CONTRASTARE LA SUA OPERA

Satana è la scimmia di Dio, copia da Dio. Anche lui manda le sue ispirazioni, anche lui manda i suoi messaggi, manda i suoi messaggeri. Certe volte, quando aprite i mass media c'è il messaggero che vi aspetta, ma la potenza dello Spirito Santo sbaraglia con un soffio Satana. Basta affidarci a Lui totalmente e prontamente; poi vinciamo qualunque seduzione di Satana se siamo ben legati allo Spirito Santo.
Incontro sempre più persone che sono impaurite di Satana: non c'è da aver paura di Satana perché abbiamo lo Spirito Santo. Quando ci leghiamo allo Spirito Santo, Satana non può più nulla. Quando invochiamo lo Spirito Santo, Satana è bloccato. Quando sulle persone imploriamo lo Spirito Santo Satana è inefficace.
Il Papa nell'enc. al numero 38 ha scritto: “Satana, il perverso genio del sospetto, sfida l'uomo a diventare l'avversario di Dio”.


8. UN'OFFESA FREQUENTE ALLO SPIRITO E' NON RAPPORTARTI A LUI COME UNA PERSONA

Insisterò sempre su questo punto, perché noi non trattiamo lo Spirito Santo come una persona.
Eppure Gesù ci ha affidati a Lui e ha detto che "Vi insegnerà ogni cosa, vi ricorderà quello che vi ho detto", ci accompagnerà, ci convincerà sul peccato, ci strapperà cioè dal peccato.
Gesù ci ha affidati a Lui e ha detto che è il nostro sostegno, il nostro maestro, eppure molto spesso noi non ci rapportiamo a Lui come una persona viva, viva che vive in mezzo a noi. Lo consideriamo una realtà lontana, sfuggente, irreale.
Il Papa ha detto queste bellissime parole, al numero 22 dell'enc.: “Lo Spirito è non solo un dono alla persona ma è la Persona dono”. La Persona che si fa dono, il donarsi incessante a Dio.
E allora abituatevi a cominciare sempre la giornata dicendo: “Buongiorno, Spirito Santo”, che è vicino a voi, in voi, e a terminare la giornata dicendo: “Buonanotte Spirito Santo”, che è in voi e che guida anche il vostro riposo.


9. GESU' HA PROMESSO CHE IL PADRE DA' LO SPIRITO A CHIUNQUE LO CHIEDE.

Non ha detto che il Padre dà lo Spirito a chi lo merita; ha detto che dà lo Spirito a chi lo chiede. Allora bisogna chiederlo con fede e con costanza.
Il Papa al numero 65 dell'enc. dice: “Lo Spirito Santo è il dono che viene nel cuore dell'uomo insieme con la preghiera”.


10. LO SPIRITO E' L'AMORE DI DIO EFFUSO NEI NOSTRI CUORI

Più viviamo nell'amore, più viviamo nello Spirito Santo. Più seguiamo il nostro egoismo più ci allontaniamo dallo Spirito Santo. Però lo Spirito non si arrende mai, continuamente ci stimola nell'amore.
Il Papa nell'enc. dice: “Lo Spirito Santo è Persona-Amore, in Lui la vita intima di Dio si fa dono”.
Mi dona incessante la Sua vita intima, perché l'amore di Dio effuso nei nostri cuori è lo Spirito Santo.





---------------
Fonte: https://www.qumran2.net/materiale/anteprima.php?file=880&anchor=documento_104&ritorna=%2Findice.php%3Fid%3D8&width=1366&height=600

Note biografiche su p. Andrea Gasparino  www.santiebeati.it/dettaglio/96553

Lettera Enciclica Dominum et Vivificantem (1986) di Papa Giovanni Paolo II  

domenica 4 settembre 2022

Lettera Apostolica Desiderio Desideravi di Papa Francesco

 

LETTERA APOSTOLICA

DESIDERIO DESIDERAVI

DEL SANTO PADRE

FRANCESCO

AI VESCOVI, AI PRESBITERI E AI DIACONI,
ALLE PERSONE CONSACRATE
E AI FEDELI LAICI

SULLA FORMAZIONE LITURGICA
DEL POPOLO DI DIO

Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar
 (Lc 22,15).


1.
 Carissimi fratelli e sorelle,

con questa lettera desidero raggiungere tutti – dopo aver già scritto ai soli vescovi in seguito alla pubblicazione del Motu Proprio Traditionis custodes – per condividere con voi alcune riflessioni sulla Liturgia, dimensione fondamentale per la vita della Chiesa. Il tema è molto vasto e merita un’attenta considerazione in ogni suo aspetto: tuttavia, con questo scritto non intendo trattare la questione in modo esaustivo. Voglio semplicemente offrire alcuni spunti di riflessione per contemplare la bellezza e la verità del celebrare cristiano.

La Liturgia: “oggi” della storia della salvezza

2. “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15). Le parole di Gesù con le quali si apre il racconto dell’ultima Cena sono lo spiraglio attraverso il quale ci viene data la sorprendente possibilità di intuire la profondità dell’amore delle Persone della Santissima Trinità verso di noi.

3. Pietro e Giovanni erano stati mandati a preparare per poter mangiare la Pasqua, ma, a ben vedere, tutta la creazione, tutta la storia – che finalmente stava per rivelarsi come storia di salvezza – è una grande preparazione di quella Cena. Pietro e gli altri stanno a quella mensa, inconsapevoli eppure necessari: ogni dono per essere tale deve avere qualcuno disposto a riceverlo. In questo caso la sproporzione tra l’immensità del dono e la piccolezza di chi lo riceve, è infinita e non può non sorprenderci. Ciò nonostante – per misericordia del Signore – il dono viene affidato agli Apostoli perché venga portato ad ogni uomo.

4. A quella Cena nessuno si è guadagnato un posto, tutti sono stati invitati, o, meglio, attratti dal desiderio ardente che Gesù ha di mangiare quella Pasqua con loro: Lui sa di essere l’Agnello di quella Pasqua, sa di essere la Pasqua. Questa è l’assoluta novità di quella Cena, la sola vera novità della storia, che rende quella Cena unica e per questo “ultima”, irripetibile. Tuttavia, il suo infinito desiderio di ristabilire quella comunione con noi, che era e che rimane il progetto originario, non si potrà saziare finché ogni uomo, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5,9) non avrà mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue: per questo quella stessa Cena sarà resa presente, fino al suo ritorno, nella celebrazione dell’Eucaristia.

5. Il mondo ancora non lo sa, ma tutti sono invitati al banchetto di nozze dell’Agnello (Ap 19,9). Per accedervi occorre solo l’abito nuziale della fede che viene dall’ascolto della sua Parola (cfr. Rm 10,17): la Chiesa lo confeziona su misura con il candore di un tessuto lavato nel Sangue dell’Agnello (cfr. Ap 7,14). Non dovremmo avere nemmeno un attimo di riposo sapendo che ancora non tutti hanno ricevuto l’invito alla Cena o che altri lo hanno dimenticato o smarrito nei sentieri contorti della vita degli uomini. Per questo ho detto che “sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (Evangelii gaudium, n. 27): perché tutti possano sedersi alla Cena del sacrificio dell’Agnello e vivere di Lui.

6. Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c’è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi. Da parte nostra, la risposta possibile, l’ascesi più esigente, è, come sempre, quella dell’arrendersi al suo amore, del volersi lasciare attrarre da lui. Per certo ogni nostra comunione al Corpo e al Sangue di Cristo è stata da Lui desiderata nell’ultima Cena.

7. Il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù, il suo sacrificio in obbedienza d’amore al Padre. Se non avessimo avuto l’ultima Cena, vale a dire l’anticipazione rituale della sua morte, non avremmo potuto comprendere come l’esecuzione della sua condanna a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’unico vero atto di culto. Poche ore dopo, gli Apostoli avrebbero potuto vedere nella croce di Gesù, se ne avessero sostenuto il peso, che cosa voleva dire “corpo offerto”, “sangue versato”: ed è ciò di cui facciamo memoria in ogni Eucaristia. Quando torna risorto dai morti per spezzare il pane per i discepoli di Emmaus e per i suoi tornati a pescare pesce – e non uomini – sul lago di Galilea, quel gesto apre i loro occhi, li guarisce dalla cecità inferta dall’orrore della croce, rendendoli capaci di “vedere” il Risorto, di credere alla Risurrezione.

8. Se fossimo giunti a Gerusalemme dopo la Pentecoste e avessimo sentito il desiderio non solo di avere informazioni su Gesù di Nazareth, ma di poterlo ancora incontrare, non avremmo avuto altra possibilità se non quella di cercare i suoi per ascoltare le sue parole e vedere i suoi gesti, più vivi che mai. Non avremmo avuto altra possibilità di un incontro vero con Lui se non quella della comunità che celebra. Per questo la Chiesa ha sempre custodito come il suo più prezioso tesoro il mandato del Signore: “fate questo in memoria di me”.

9. Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di “mettere in scena” – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti. [1]

La Liturgia: luogo dell’incontro con Cristo

10. Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un’idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è.

11. La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti. Io sono Nicodemo e la Samaritana, l’indemoniato di Cafarnao e il paralitico in casa di Pietro, la peccatrice perdonata e l’emorroissa, la figlia di Giairo e il cieco di Gerico, Zaccheo e Lazzaro, il ladrone e Pietro perdonati. Il Signore Gesù che immolato sulla croce, più non muore, e con i segni della passione vive immortale [2] continua a perdonarci, a guarirci, a salvarci con la potenza dei sacramenti. È il modo concreto, per via di incarnazione, con il quale ci ama; è il modo con il quale sazia quella sete di noi che ha dichiarato sulla croce (Gv 19,28).

12. Il nostro primo incontro con la sua Pasqua è l’evento che segna la vita di tutti noi credenti in Cristo: il nostro battesimo. Non è un’adesione mentale al suo pensiero o la sottoscrizione di un codice di comportamento da Lui imposto: è l’immergersi nella sua passione, morte, risurrezione e ascensione. Non un gesto magico: la magia è l’opposto della logica dei sacramenti perché pretende di avere un potere su Dio e per questa ragione viene dal tentatore. In perfetta continuità con l’incarnazione, ci viene data la possibilità, in forza della presenza e dell’azione dello Spirito, di morire e risorgere in Cristo.

13. Il modo in cui accade è commovente. La preghiera di benedizione dell’acqua battesimale [3] ci rivela che Dio ha creato l’acqua proprio in vista del battesimo. Vuol dire che mentre Dio creava l’acqua pensava al battesimo di ciascuno di noi e questo pensiero lo ha accompagnato nel suo agire lungo la storia della salvezza ogni volta che, con preciso disegno, ha voluto servirsi dell’acqua. È come se, dopo averla creata, avesse voluto perfezionarla per arrivare ad essere l’acqua del battesimo. E così l’ha voluta riempire del movimento del suo Spirito che vi aleggiava sopra (cfr. Gen 1,2) perché contenesse in germe la forza di santificare; l’ha usata per rigenerare l’umanità nel diluvio (cfr. Gen 6,1-9,29); l’ha dominata separandola per aprire una strada di liberazione nel Mar Rosso (cfr. Es 14); l’ha consacrata nel Giordano immergendovi la carne del Verbo intrisa di Spirito (cfr. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22). Infine, l’ha mescolata con il sangue del suo Figlio, dono dello Spirito inseparabilmente unito al dono della vita e della morte dell’Agnello immolato per noi, e dal costato trafitto l’ha effusa su di noi (Gv 19,34). È in quest’acqua che siamo stati immersi perché per la sua potenza potessimo essere innestati nel Corpo di Cristo e con Lui risorgere alla vita immortale (cfr. Rm 6,1-11).

La Chiesa: sacramento del Corpo di Cristo

14. Come il Concilio Vaticano II ci ha ricordato (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 5) citando la Scrittura, i Padri e la Liturgia – le colonne della vera Tradizione – dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa[4] Il parallelo tra il primo e il nuovo Adamo è sorprendente: come dal costato del primo Adamo, dopo aver fatto scendere su di Lui un torpore, Dio trasse Eva, così dal costato del nuovo Adamo, addormentato nel sonno della morte, nasce la nuova Eva, la Chiesa. Lo stupore è per le parole che possiamo pensare che il nuovo Adamo faccia sue guardando la Chiesa: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (Gen 2,23). Per aver creduto alla Parola ed essere scesi nell’acqua del battesimo, noi siamo diventati osso dalle sue ossa, carne dalla sua carne.

15. Senza questa incorporazione non vi è alcuna possibilità di vivere la pienezza del culto a Dio. Infatti, uno solo è l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’obbedienza del Figlio la cui misura è la sua morte in croce. L’unica possibilità per poter partecipare alla sua offerta è quella di diventare figli nel Figlio. È questo il dono che abbiamo ricevuto. Il soggetto che agisce nella Liturgia è sempre e solo Cristo-Chiesa, il Corpo mistico di Cristo.

Il senso teologico della Liturgia

16. Dobbiamo al Concilio – e al movimento liturgico che l’ha preceduto – la riscoperta della comprensione teologica della Liturgia e della sua importanza nella vita della Chiesa: i principi generali enunciati dalla Sacrosanctum Concilium così come sono stati fondamentali per l’intervento di riforma, continuano ad esserlo per la promozione di quella partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa alla celebrazione (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 1114), “prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano” ( Sacrosanctum Concilium, n. 14). Con questa lettera vorrei semplicemente invitare tutta la Chiesa a riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana. Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa, non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia. La preghiera sacerdotale di Gesù nell’ultima Cena perché tutti siano una cosa sola (Gv 17,21), giudica ogni nostra divisione attorno al Pane spezzato, sacramento di pietàsegno di unitàvincolo di carità[5]

La Liturgia: antidoto al veleno della mondanità spirituale

17. Ho più volte messo in guardia rispetto ad una pericolosa tentazione per la vita della Chiesa che è la “mondanità spirituale”: ne ho parlato diffusamente nell’Esortazione Evangelii gaudium (nn. 93-97), individuando nello gnosticismo e nel neo-pelagianesimo i due modi tra loro connessi che la alimentano.

Il primo riduce la fede cristiana in un soggettivismo che chiude l’individuo “nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti” (Evangelii gaudium, n. 94).

Il secondo annulla il valore della grazia per confidare solo sulle proprie forze, dando luogo “ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare” (Evangelii gaudium, n. 94).

Queste forme distorte del cristianesimo possono avere conseguenze disastrose per la vita della Chiesa.

18. Da quanto ho voluto sopra ricordare risulta evidente che la Liturgia è, per la sua stessa natura, l’antidoto più efficace contro questi veleni. Ovviamente parlo della Liturgia nel suo senso teologico e non certo – già Pio XII lo affermava – come cerimoniale decorativo o mera somma di leggi e di precetti che regolano il culto. [6]

19. Se lo gnosticismo ci intossica con il veleno del soggettivismo, la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autoreferenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo. La Liturgia non dice “io” ma “noi” e ogni limitazione all’ampiezza di questo “noi” è sempre demoniaca. La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo.

20. Se il neo-pelagianesimo ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze, la celebrazione liturgica ci purifica proclamando la gratuità del dono della salvezza accolta nella fede. Partecipare al sacrificio eucaristico non è una nostra conquista come se di questo potessimo vantarci davanti a Dio e ai fratelli. L’inizio di ogni celebrazione mi ricorda chi sono chiedendomi di confessare il mio peccato e invitandomi a supplicare la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e tutti i fratelli e le sorelle, di pregare per me il Signore: non siamo certo degni di entrare nella sua casa, abbiamo bisogno di una sua parola per essere salvati (cfr. Mt 8,8). Non abbiamo altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. Gal 6,14). La Liturgia non ha nulla a che vedere con un moralismo ascetico: è il dono della Pasqua del Signore che, accolto con docilità, fa nuova la nostra vita. Non si entra nel Cenacolo se non che per la forza di attrazione del suo desiderio di mangiare la Pasqua con noi: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).

Riscoprire ogni giorno
la bellezza della verità della celebrazione cristiana

21. Dobbiamo però fare attenzione: perché l’antidoto della Liturgia sia efficace ci viene chiesto di riscoprire ogni giorno la bellezza della verità della celebrazione cristiana. Mi riferisco ancora una volta al suo senso teologico, come il n. 7 della Sacrosanctum Concilium ha mirabilmente descritto: la Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo.

22. La continua riscoperta della bellezza della Liturgia non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale. Ovviamente questa affermazione non vuole in nessun modo approvare l’atteggiamento opposto che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico.

23. Intendiamoci: ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, …) e ogni rubrica deve essere osservata: basterebbe questa attenzione per evitare di derubare l’assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce. Ma anche se la qualità e la norma dell’azione celebrativa fossero garantite, ciò non sarebbe sufficiente per rendere piena la nostra partecipazione.

Lo stupore per il mistero pasquale:
parte essenziale dell’atto liturgico

24. Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione. Non sono sufficienti i pur lodevoli sforzi a favore di una migliore qualità della celebrazione e nemmeno un richiamo all’interiorità: anche quest’ultima corre il rischio di ridursi ad una vuota soggettività se non accoglie la rivelazione del mistero cristiano. L’incontro con Dio non è frutto di una individuale ricerca interiore di Lui ma è un evento donato: possiamo incontrare Dio per il fatto nuovo dell’incarnazione che nell’ultima Cena arriva fino all’estremo di desiderare di essere mangiato da noi. Come ci può accadere la sventura di sottrarci al fascino della bellezza di questo dono?

25. Dicendo stupore per il mistero pasquale non intendo in nessun modo ciò che a volte mi pare si voglia esprimere con la fumosa espressione “senso del mistero”: a volte tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica vi è anche quello di averlo – si dice – eliminato dalla celebrazione. Lo stupore di cui parlo non è una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è, al contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù (cfr. Ef 1,3-14) la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti. Resta pur vero che la pienezza della rivelazione ha, rispetto alla nostra finitezza umana, una eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà. Se lo stupore è vero non vi è alcun rischio che non si percepisca, pur nella vicinanza che l’incarnazione ha voluto, l’alterità della presenza di Dio. Se la riforma avesse eliminato quel “senso del mistero” più che un capo di accusa sarebbe una nota di merito. La bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all’adorazione.

26. Lo stupore è parte essenziale dell’atto liturgico perché è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa.

La necessità di una seria e vitale formazione liturgica

27. La questione fondamentale è, dunque, questa: come recuperare la capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? La riforma del Concilio ha questo come obiettivo. La sfida è molto impegnativa perché l’uomo moderno – non in tutte le culture allo stesso modo – ha perso la capacità di confrontarsi con l’agire simbolico che è tratto essenziale dell’atto liturgico.

28. La post-modernità – nella quale l’uomo si sente ancor più smarrito, senza riferimenti di nessun tipo, privo di valori perché divenuti indifferenti, orfano di tutto, in una frammentazione nella quale sembra impossibile un orizzonte di senso – è ancora gravata dalla pesante eredità che l’epoca precedente ci ha lasciato, fatta di individualismo e soggettivismo (che ancora una volta richiamano pelagianesimo e gnosticismo) come pure di uno spiritualismo astratto che contraddice la natura stessa dell’uomo, spirito incarnato e, quindi, in se stesso capace di azione e di comprensione simbolica.

29. È con la realtà della modernità che la Chiesa riunita in Concilio ha voluto confrontarsi, riaffermando la consapevolezza di essere sacramento di Cristo, luce delle genti (Lumen gentium), mettendosi in religioso ascolto della parola di Dio (Dei Verbum) e riconoscendo come proprie le gioie e le speranze (Gaudium et spes) degli uomini d’oggi. Le grandi Costituzioni conciliari non sono separabili e non è un caso che quest’unica grande riflessione del Concilio Ecumenico – la più alta espressione della sinodalità della Chiesa della cui ricchezza io sono chiamato ad essere, con tutti voi, custode – abbia preso l’avvio dalla Liturgia (Sacrosanctum Concilium).

30. Chiudendo la seconda sessione del Concilio (4 dicembre 1963) san Paolo VI così si esprimeva:

«Del resto, questa discussione appassionata e complessa non è stata affatto senza un frutto copioso: infatti quel tema che è stato prima di tutto affrontato, e che in un certo senso nella Chiesa è preminente, tanto per sua natura che per dignità – vogliamo dire la sacra Liturgia – è arrivato a felice conclusione, e viene oggi da Noi con solenne rito promulgato. Per questo motivo il Nostro animo esulta di sincera gioia. In questo fatto ravvisiamo infatti che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi dev’essere fatto al popolo cristiano, unito a noi nella fede e nell’assiduità alla preghiera; infine, il primo invito all’umanità a sciogliere la sua lingua muta in preghiere sante e sincere ed a sentire quell’ineffabile forza rigeneratrice dell’animo che è insita nel cantare con noi le lodi di Dio e nella speranza degli uomini, per Gesù Cristo e nello Spirito Santo». [7]

31. Non posso in questa lettera intrattenermi sulla ricchezza delle singole espressioni che lascio alla vostra meditazione. Se la Liturgia è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (Sacrosanctum Concilium, n. 10), comprendiamo bene che cosa è in gioco nella questione liturgica. Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium. Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1).

La non accoglienza della riforma, come pure una sua superficiale comprensione, ci distoglie dall’impegno di trovare le risposte alla domanda che torno a ripetere: come crescere nella capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? Come continuare a stupirci di ciò che nella celebrazione accade sotto i nostri occhi? Abbiamo bisogno di una seria e vitale formazione liturgica.

32. Torniamo ancora nel Cenacolo a Gerusalemme: il mattino di Pentecoste nasce la Chiesa, cellula iniziale dell’umanità nuova. Solo la comunità di uomini e donne riconciliati perché perdonati, vivi perché Lui è vivo, veri perché abitati dallo Spirito di verità, può aprire lo spazio angusto dell’individualismo spirituale.

33. È la comunità della Pentecoste che può spezzare il Pane nella certezza che il Signore è vivo, risorto dai morti, presente con la sua parola, con i suoi gesti, con l’offerta del suo Corpo e del suo Sangue. Da quel momento la celebrazione diventa il luogo privilegiato, non l’unico, dell’incontro con Lui. Noi sappiamo che solo grazie a questo incontro l’uomo diventa pienamente uomo. Solo la Chiesa della Pentecoste può concepire l’uomo come persona, aperto ad una relazione piena con Dio, con il creato e con i fratelli.

34. Qui si pone la questione decisiva della formazione liturgica. Dice Guardini: «Così è delineato anche il primo compito pratico: sostenuti da questa trasformazione interiore del nostro tempo, dobbiamo nuovamente imparare a porci di fronte al rapporto religioso come uomini in senso pieno». [8] È questo che la Liturgia rende possibile, a questo dobbiamo formarci. Lo stesso Guardini non esita ad affermare che senza formazione liturgica, “le riforme nel rito e nel testo non aiutano molto”. [9] Non intendo ora trattare in modo esaustivo il ricchissimo tema della formazione liturgica: vorrei solo offrire alcuni spunti di riflessione. Penso che possiamo distinguere due aspetti: la formazione alla Liturgia e la formazione dalla Liturgia. Il primo è funzionale al secondo che è essenziale.

35. È necessario trovare i canali per una formazione come studio della liturgia: a partire dal movimento liturgico molto in tal senso è stato fatto, con contributi preziosi di molti studiosi ed istituzioni accademiche. Occorre tuttavia diffondere queste conoscenze al di fuori dell’ambito accademico, in modo accessibile, perché ogni fedele cresca in una conoscenza del senso teologico della Liturgia – è la questione decisiva e fondante ogni conoscenza e ogni pratica liturgica – come pure dello sviluppo del celebrare cristiano, acquisendo la capacità di comprendere i testi eucologici, i dinamismi rituali e la loro valenza antropologica.

36. Penso alla normalità delle nostre assemblee che si radunano per celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, domenica dopo domenica, Pasqua dopo Pasqua, in momenti particolari della vita dei singoli e delle comunità, nelle diverse età della vita: i ministri ordinati svolgono un’azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua. Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote. La conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo per poter entrare nel mistero celebrato. È evidente che per poter condurre i fratelli e le sorelle, i ministri che presiedono l’assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di una esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera, di certo non solo come impegno da assolvere. Nel giorno dell’ordinazione ogni presbitero si sente dire dal vescovo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». [10]

37. Anche l’impostazione dello studio della Liturgia nei seminari deve dare conto della straordinaria capacità che la celebrazione ha in se stessa di offrire una visione organica del sapere teologico. Ogni disciplina della teologia, ciascuna secondo la sua prospettiva, deve mostrare la propria intima connessione con la Liturgia, in forza della quale si rivela e si realizza l’unità della formazione sacerdotale (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 16). Una impostazione liturgico-sapienziale della formazione teologica nei seminari avrebbe certamente anche effetti positivi nell’azione pastorale. Non c’è aspetto della vita ecclesiale che non trovi in essa il suo culmine e la sua fonte. La pastorale d’insieme, organica, integrata, più che essere il risultato di elaborati programmi è la conseguenza del porre al centro della vita della comunità la celebrazione eucaristica domenicale, fondamento della comunione. La comprensione teologica della Liturgia non permette in nessun modo di intendere queste parole come se tutto si riducesse all’aspetto cultuale. Una celebrazione che non evangelizza non è autentica, come non lo è un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita (cfr. 1Cor 13,1).

38. Per i ministri e per tutti i battezzati, la formazione liturgica in questo suo primo significato, non è qualcosa che si possa pensare di conquistare una volta per sempre: poiché il dono del mistero celebrato supera la nostra capacità di conoscenza, questo impegno dovrà per certo accompagnare la formazione permanente di ciascuno, con l’umiltà dei piccoli, atteggiamento che apre allo stupore.

39. Un’ultima osservazione sui seminari: oltre allo studio devono anche offrire la possibilità di sperimentare una celebrazione non solo esemplare dal punto di vista rituale, ma autentica, vitale, che permetta di vivere quella vera comunione con Dio alla quale anche il sapere teologico deve tendere. Solo l’azione dello Spirito può perfezionare la nostra conoscenza del mistero di Dio, che non è questione di comprensione mentale ma di relazione che tocca la vita. Tale esperienza è fondamentale perché una volta divenuti ministri ordinati, possano accompagnare le comunità nello stesso percorso di conoscenza del mistero di Dio, che è mistero d’amore.

40. Quest’ultima considerazione ci porta a riflettere sul secondo significato con il quale possiamo intendere l’espressione “formazione liturgica”. Mi riferisco all’essere formati, ciascuno secondo la sua vocazione, dalla partecipazione alla celebrazione liturgica. Anche la conoscenza di studio di cui ho appena detto, perché non diventi razionalismo, deve essere funzionale al realizzarsi dell’azione formatrice della Liturgia in ogni credente in Cristo.

41. Da quanto abbiamo detto sulla natura della Liturgia risulta evidente che la conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di una idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. In tal senso la Liturgia non riguarda la “conoscenza” e il suo scopo non è primariamente pedagogico (pur avendo un grande valore pedagogico: cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 33) ma è la lode, il rendimento di grazie per la Pasqua del Figlio la cui forza di salvezza raggiunge la nostra vita. La celebrazione riguarda la realtà del nostro essere docili all’azione dello Spirito che in essa opera, finché non sia formato Cristo in noi (cfr. Gal 4,19). La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui. Questo è lo scopo per il quale è stato donato lo Spirito la cui azione è sempre e solo quella di fare il Corpo di Cristo. È così con il pane eucaristico, è così per ogni battezzato chiamato a diventare sempre più ciò che ha ricevuto in dono nel battesimo, vale a dire l’essere membro del Corpo di Cristo. Scrive Leone Magno: «La nostra partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo». [11]

42. Questo coinvolgimento esistenziale accade – in continuità e coerenza con il metodo dell’incarnazione – per via sacramentale. La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce. Tutta la creazione è manifestazione dell’amore di Dio: da quando lo stesso amore si è manifestato in pienezza nella croce di Gesù tutta la creazione ne è attratta. È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre. Così come canta la preghiera sull’acqua per il fonte battesimale, ma anche quella sull’olio per il sacro crisma e le parole della presentazione del pane e del vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo.

43. La liturgia dà gloria a Dio non perché noi possiamo aggiungere qualcosa alla bellezza della luce inaccessibile nella quale Egli abita (cfr. 1Tm 6,16) o alla perfezione del canto angelico che risuona eternamente nelle sedi celesti. La Liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua: noi, che da morti che eravamo per le colpe, per grazia, siamo stati fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5), siamo la gloria di Dio. Ireneo, doctor unitatis, ce lo ricorda: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre attraverso il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio!». [12]

44. Scrive Guardini: «Con ciò si delinea il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli». [13] Questo impegno riguarda tutti, ministri ordinati e fedeli. Il compito non è facile perché l’uomo moderno è diventato analfabeta, non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade anche con il simbolo del nostro corpo. È simbolo perché intima unione di anima e corpo, visibilità dell’anima spirituale nell’ordine del corporeo e in questo consiste l’unicità umana, la specificità della persona irriducibile a qualsiasi altra forma di essere vivente. La nostra apertura al trascendente, a Dio, è costitutiva: non riconoscerla ci porta inevitabilmente ad una non conoscenza oltre che di Dio, anche di noi stessi. Basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato il corpo, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto ad una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante.

Non abbiamo più lo sguardo di san Francesco che guardava il sole – che chiamava fratello perché così lo sentiva – lo vedeva bellu e radiante cum grande splendore, e, pieno di stupore, cantava: de te Altissimu, porta significatione[14] L’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della Liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno. Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione, come ho appena detto, è costitutiva e, nonostante i mali del materialismo e dello spiritualismo – entrambi negazione dell’unità corpo e anima – è sempre pronta a riemergere, come ogni verità.

45. La domanda che ci poniamo è, dunque, come tornare ad essere capaci di simboli? Come tornare a saperli leggere per poterli vivere? Sappiamo bene che la celebrazione dei sacramenti è – per grazia di Dio – efficace in se stessa (ex opere operato) ma questo non garantisce un pieno coinvolgimento delle persone senza un adeguato modo di porsi di fronte al linguaggio della celebrazione. La lettura simbolica non è un fatto di conoscenza mentale, di acquisizione di concetti ma è esperienza vitale.

46. Anzitutto dobbiamo riacquistare fiducia nei confronti della creazione. Intendo dire che le cose – con le quali i sacramenti “sono fatti” – vengono da Dio, a Lui sono orientate e da Lui sono state assunte, in modo particolare con l’incarnazione, perché diventassero strumenti di salvezza, veicoli dello Spirito, canali di grazia. Qui si avverte tutta la distanza sia dalla visione materialista sia da quella spiritualista. Se le cose create sono parte irrinunciabile dell’agire sacramentale che opera la nostra salvezza, dobbiamo predisporci nei loro confronti con uno sguardo nuovo non superficiale, rispettoso, grato. Fin dall’origine esse contengono il germe della grazia santificante dei sacramenti.

47. Altra questione decisiva – sempre riflettendo su come la Liturgia ci forma – è l’educazione necessaria per poter acquisire l’atteggiamento interiore che ci permette di porre e di comprendere i simboli liturgici. Lo esprimo in modo semplice. Penso ai genitori e, ancor più, ai nonni, ma anche ai nostri parroci e catechisti. Molti di noi hanno appreso la potenza dei gesti della liturgia – come ad esempio il segno della croce, lo stare in ginocchio, le formule della nostra fede – proprio da loro. Forse non ne abbiamo il ricordo vivo, ma facilmente possiamo immaginare il gesto di una mano più grande che prende la piccola mano di un bambino e la accompagna lentamente nel tracciare per la prima volta il segno della nostra salvezza. Al movimento si accompagnano le parole, anch’esse lente, quasi a voler prendere possesso di ogni istante di quel gesto, di tutto il corpo: «Nel nome del Padre … e del Figlio … e dello Spirito Santo … Amen». Per poi lasciare la mano del bambino e guardarlo ripetere da solo, pronti a venire in suo aiuto, quel gesto ormai consegnato, come un abito che crescerà con Lui, vestendolo nel modo che solo lo Spirito conosce. Da quel momento quel gesto, la sua forza simbolica, ci appartiene o, sarebbe meglio dire, noi apparteniamo a quel gesto, ci dà forma, siamo da esso formati. Non servono troppi discorsi, non è necessario aver compreso tutto di quel gesto: occorre essere piccoli sia nel consegnarlo sia nel riceverlo. Il resto è opera dello Spirito. Così siamo stati iniziati al linguaggio simbolico. Di questa ricchezza non possiamo farci derubare. Crescendo potremo avere più mezzi per poter comprendere, ma sempre a condizione di rimanere piccoli.

Ars celebrandi

48. Un modo per custodire e per crescere nella comprensione vitale dei simboli della Liturgia è certamente quello di curare l’arte del celebrare. Anche questa espressione è oggetto di diverse interpretazioni. Essa si chiarisce se viene compresa avendo come riferimento il senso teologico della Liturgia descritto in Sacrosanctum Concilium al n. 7 e che abbiamo più volte richiamato. L’ars celebrandi non può essere ridotta alla sola osservanza di un apparato rubricale e non può nemmeno essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole. Il rito è per se stesso norma e la norma non è mai fine a se stessa, ma sempre a servizio della realtà più alta che vuole custodire.

49. Come ogni arte, richiede diverse conoscenze.

Anzitutto la comprensione del dinamismo che descrive la Liturgia. Il momento dell’azione celebrativa è il luogo nel quale attraverso il memoriale si fa presente il mistero pasquale perché i battezzati, in forza della loro partecipazione, possano farne esperienza nella loro vita: senza questa comprensione facilmente si cade nell’esteriorismo (più o meno raffinato) e nel rubricismo (più o meno rigido).

Occorre, poi, conoscere come lo Spirito Santo agisce in ogni celebrazione: l’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito. Solo così sarà libera da soggettivismi, che sono il frutto del prevalere di sensibilità individuali, e da culturalismi, che sono acquisizioni acritiche di elementi culturali che non hanno nulla a che vedere da un corretto processo di inculturazione.

È necessario, infine, conoscere le dinamiche del linguaggio simbolico, la sua peculiarità, la sua efficacia.

50. Da questi brevi cenni, risulta evidente che l’arte del celebrare non si può improvvisare. Come ogni arte richiede applicazione assidua. Ad un artigiano basta la tecnica; ad un artista, oltre alle conoscenze tecniche, non può mancare l’ispirazione che è una forma positiva di possessione: l’artista, quello vero, non possiede un’arte ne è posseduto. Non si impara l’arte del celebrare perché si frequenta un corso di public speaking o di tecniche di comunicazione persuasiva (non giudico le intenzioni, vedo gli effetti). Ogni strumento può essere utile ma deve sempre essere sottomesso alla natura della Liturgia e all’azione dello Spirito. Occorre una diligente dedizione alla celebrazione lasciando che sia la celebrazione stessa a trasmetterci la sua arte. Scrive Guardini: «Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande della preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mète è la disciplina, la rinuncia ad una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso». [15] È così che si impara l’arte del celebrare.

51. Parlando di questo tema siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere. Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all’assemblea: il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo (Ne 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme ad una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea. È una uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa i singoli fedeli a scoprire l’unicità autentica della propria personalità non in atteggiamenti individualistici ma nella consapevolezza di essere un solo corpo. Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti. Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo.

52. Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Più volte è espressamente prescritto nelle rubriche: tutta la celebrazione eucaristica è immersa nel silenzio che precede il suo inizio e segna ogni istante del suo svolgersi rituale. Infatti è presente nell’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera; nella liturgia della Parola (prima delle letture, tra le letture e dopo l’omelia); nella preghiera eucaristica; dopo la comunione. [16] Non si tratta di un rifugio nel quale nascondersi per un isolamento intimistico, quasi patendo la ritualità come se fosse una distrazione: un tale silenzio sarebbe in contraddizione con l’essenza stessa della celebrazione. Il silenzio liturgico è molto di più: è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale. Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione. Così, ripercorrendo i momenti che ho sopra ricordato, il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma.

53. Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita. Mi spiego con un solo semplice esempio. Ci inginocchiamo per chiedere perdono; per piegare il nostro orgoglio; per consegnare a Dio il nostro pianto; per supplicare un suo intervento; per ringraziarlo di un dono ricevuto: è sempre lo stesso gesto che dice essenzialmente il nostro essere piccoli dinanzi a Dio. Tuttavia, compiuto in momenti diversi del nostro vivere, plasma la nostra interiorità profonda per poi manifestarsi all’esterno nella nostra relazione con Dio e con i fratelli. Anche l’inginocchiarsi va fatto con arte, vale a dire con una piena consapevolezza del suo senso simbolico e della necessità che noi abbiamo di esprimere con questo gesto il nostro modo di stare alla presenza del Signore. Se tutto questo è vero per questo semplice gesto, quanto più lo sarà per la celebrazione della Parola? Quale arte siamo chiamati ad apprendere nel proclamare la Parola, nell’ascoltarla, nel farla ispirazione della nostra preghiera, nel farla diventare vita? Tutto questo merita la massima cura, non formale, esteriore, ma vitale, interiore, perché ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità.

54. Se è vero che l’ars celebrandi riguarda tutta l’assemblea che celebra, è altrettanto vero che i ministri ordinati devono avere per essa una particolare cura. Nel visitare le comunità cristiane ho spesso notato che il loro modo di vivere la celebrazione è condizionato – nel bene e, purtroppo, anche nel male – da come il loro parroco presiede l’assemblea. Potremmo dire che vi sono diversi “modelli” di presidenza. Ecco un possibile elenco di atteggiamenti che, pur essendo tra loro opposti, caratterizzano la presidenza in modo certamente inadeguato: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. Pur nell’ampiezza di questa gamma, penso che l’inadeguatezza di questi modelli abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo. Spesso ciò acquista maggior evidenza quando le nostre celebrazioni vengono trasmesse in rete, cosa non sempre opportuna e sulla quale dovremmo riflettere. Intendiamoci, non sono questi gli atteggiamenti più diffusi, ma non di rado le assemblee subiscono questi “maltrattamenti”.

55. Molto si potrebbe dire sull’importanza e sulla delicatezza del presiedere. In più occasioni mi sono soffermato sul compito impegnativo del tenere l’omelia. [17] Mi limito ora ad alcune considerazioni più ampie, sempre volendo riflettere con voi su come veniamo formati dalla Liturgia. Penso alla normalità delle Messe domenicali nelle nostre comunità: mi riferisco, quindi, ai presbiteri ma implicitamente a tutti i ministri ordinati.

56. Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza. Come tutti gli uffici che è chiamato a svolgere, non si tratta primariamente di un compito assegnato dalla comunità, quanto, piuttosto, della conseguenza dell’effusione dello Spirito Santo ricevuta nell’ordinazione che lo abilita a tale compito. Anche il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra.

57. Perché questo servizio venga fatto bene – con arte, appunto – è di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto. Il ministro ordinato è egli stesso una delle modalità di presenza del Signore che rendono l’assemblea cristiana unica, diversa da ogni altra (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo fatto dà spessore “sacramentale” – in senso ampio – a tutti i gesti e le parole di chi presiede. L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è, dunque, il protagonista, non lo sono di sicuro le nostre immaturità che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere. Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele, l’oggetto del suo amore. Presiedere l’Eucaristia è stare immersi nella fornace dell’amore di Dio. Quando ci viene dato di comprendere, o anche solo di intuire, questa realtà, non abbiamo di certo più bisogno di un direttorio che ci imponga un comportamento adeguato. Se di questo abbiamo bisogno è per la durezza del nostro cuore. La norma più alta, e, quindi, più impegnativa, è la realtà stessa della celebrazione eucaristica che seleziona parole, gesti, sentimenti, facendoci comprendere se sono o meno adeguati al compito che devono svolgere. È evidente che anche questo non si improvvisa: è un’arte, chiede al presbitero applicazione, vale a dire una frequentazione assidua del fuoco di amore che il Signore è venuto a portare sulla terra (cfr. Lc 12,49).

58. Quando la prima comunità spezza il pane in obbedienza al comando del Signore, lo fa sotto sguardo di Maria che accompagna i primi passi della Chiesa: “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù” (At 1,14). La Vergine Madre “sorveglia” i gesti del suo Figlio affidati agli Apostoli. Come ha custodito nel suo grembo, dopo aver accolto le parole dell’angelo Gabriele, il Verbo fatto carne, la Vergine custodisce ancora una volta nel grembo della Chiesa quei gesti che fanno il corpo del Figlio suo. Il presbitero, che in forza del dono ricevuto con il sacramento dell’Ordine ripete quei gesti, è custodito nel grembo della Vergine. Serve una norma per dirci come ci si deve comportare?

59. Divenuti strumenti per far divampare il fuoco del suo amore sulla terra, custoditi nel grembo di Maria, Vergine fatta Chiesa (come cantava san Francesco), i presbiteri si lasciano lavorare dallo Spirito che vuole portare a compimento l’opera che ha iniziato nella loro ordinazione. L’azione dello Spirito offre a loro la possibilità di esercitare la presidenza dell’assemblea eucaristica con il timore di Pietro, consapevole del suo essere peccatore (cfr. Lc 5,1-11), con l’umiltà forte del servo sofferente (cfr. Is 42 ss), con il desiderio di “farsi mangiare” dal popolo a loro affidato nell’esercizio quotidiano del ministero.

60. È la celebrazione stessa che educa a questa qualità di presidenza, non è, lo ripetiamo, un’adesione mentale, anche se tutta la nostra mente, come pure la nostra sensibilità, viene in essa coinvolta. Il presbitero è, dunque, formato alla presidenza dalle parole e dai gesti che la liturgia mette sulle sue labbra e nelle sue mani.

Non siede su di un trono [18] perché il Signore regna con l’umiltà di chi serve.

Non ruba la centralità all’altare, segno di Cristo dal cui fianco squarciato scaturirono l’acqua e il sangue fonte dei sacramenti della Chiesa, centro della nostra lode e del comune rendimento di grazie[19]

Accostandosi all’altare per l’offerta il presbitero è educato all’umiltà e al pentimento dalle parole: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te». [20]

Non può presumere di se stesso per il ministero a Lui affidato perché la Liturgia lo invita a chiedere di essere purificato, nel segno dell’acqua: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». [21]

Le parole che la liturgia mette sulle sue labbra hanno contenuti, diversi che chiedono specifiche tonalità: per l’importanza di queste parole al presbitero è chiesta una vera ars dicendi. Esse danno forma ai suoi sentimenti interiori, ora nella supplica al Padre a nome dell’assemblea, ora nell’esortazione rivolta all’assemblea, ora nell’acclamazione ad una sola voce con tutta l’assemblea.

Con la preghiera eucaristica – nella quale anche tutti i battezzati partecipano ascoltando con riverenza e silenzio e intervenendo con le acclamazioni [22] – chi presiede ha la forza, a nome di tutto il popolo santo, di ricordare al Padre l’offerta del Figlio suo nell’ultima Cena, perché quel dono immenso si renda nuovamente presente sull’altare. A quell’offerta partecipa con l’offerta di se stesso. Il presbitero non può narrare al Padre l’ultima Cena senza esserne partecipe. Non può dire: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il popolo a lui affidato. È ciò che avviene nell’esercizio del suo ministero.

Da tutto questo, e da molto altro, il presbitero viene continuamente formato nell’azione celebrativa.

* * *

61. Ho voluto semplicemente offrire alcune riflessioni che certamente non esauriscono l’immenso tesoro della celebrazione dei santi misteri. Chiedo a tutti i vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai formatori dei seminari, agli insegnanti delle facoltà teologiche e delle scuole di teologia, a tutti i catechisti e le catechiste, di aiutare il popolo santo di Dio ad attingere a quella che da sempre è la fonte prima della spiritualità cristiana. Siamo chiamati continuamente a riscoprire la ricchezza dei principi generali esposti nei primi numeri della Sacrosanctum Concilium comprendendo l’intimo legame tra la prima delle Costituzioni conciliari e tutte le altre. Per questo motivo non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio. Per questo motivo ho scritto Traditionis Custodesperché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità. [23] Questa unità, come già ho scritto, intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.

62. Vorrei che questa lettera ci aiutasse a ravvivare lo stupore per la bellezza della verità del celebrare cristiano, a ricordare la necessità di una formazione liturgica autentica e a riconoscere l’importanza di un’arte della celebrazione che sia a servizio della verità del mistero pasquale e della partecipazione di tutti i battezzati, ciascuno con la specificità della sua vocazione.

Tutta questa ricchezza non è lontana da noi: è nelle nostre chiese, nelle nostre feste cristiane, nella centralità della domenica, nella forza dei sacramenti che celebriamo. La vita cristiana è un continuo cammino di crescita: siamo chiamati a lasciarci formare con gioia e nella comunione.

63. Per questo desidero lasciarvi ancora una indicazione per proseguire nel nostro cammino. Vi invito a riscoprire il senso dell’anno liturgico e del giorno del Signore: anche questa è una consegna del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 102-111).

64. Alla luce di quanto abbiamo sopra ricordato, comprendiamo che l’anno liturgico è per noi la possibilità di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo, immergendo la nostra vita nel mistero della sua Pasqua, in attesa del suo ritorno. È questa una vera formazione continua. La nostra vita non è un susseguirsi casuale e caotico di eventi ma un percorso che, di Pasqua in Pasqua, ci conforma a Lui nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo[24]

65. Nello scorrere del tempo fatto nuovo dalla Pasqua, ogni otto giorni la Chiesa celebra nella domenica l’evento della salvezza. La domenica, prima di essere un precetto, è un dono che Dio fa al suo popolo (per questo motivo la Chiesa lo custodisce con un precetto). La celebrazione domenicale offre alla comunità cristiana la possibilità di essere formata dall’Eucaristia. Di domenica in domenica, la Parola del Risorto illumina la nostra esistenza volendo operare in noi ciò per cui è stata mandata (cfr. Is 55,10-11). Di domenica in domenica, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo vuole fare anche della nostra vita un sacrificio gradito al Padre, nella comunione fraterna che si fa condivisione, accoglienza, servizio. Di domenica in domenica, la forza del Pane spezzato ci sostiene nell’annuncio del Vangelo nel quale si manifesta l’autenticità della nostra celebrazione.

Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi. Sotto lo sguardo di Maria, Madre della Chiesa.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 29 giugno, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 2022, decimo del mio pontificato.

 

FRANCESCO

__________________________________________________

Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti,
quando sull’altare, nella mano del sacerdote,
è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo.
O ammirabile altezza e stupenda degnazione!
O umiltà sublime! O sublimità umile,
che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio,
si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza,
sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio,
e aprite davanti a Lui i vostri cuori;
umiliatevi anche voi, perché siate da Lui esaltati.
Nulla, dunque, di voi trattenete per voi,
affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre.

 

San Francesco d’Assisi
Lettera a tutto l’Ordine II, 26-29


___________________________________________________

 

[1] Cfr. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II,1: «quod [...] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».

[2] Præfatio paschalis IIIMissale Romanum (2008) p. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».

[3] Cfr. Missale Romanum (2008) p. 532.

[4] Cfr. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2Oratio post septimam lectionemVigilia paschalisMissale Romanum (2008) p. 359; Super oblataPro Ecclesia (B) , Missale Romanum (2008) p. 1076.

[5] Cfr. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.

[6] Cfr. Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.

[7] AAS 56 (1964) 34.

[8] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 69.

[9] R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14; trad. it. L’atto di culto e il compito attuale della formazione liturgica. Una lettera (1964) in Formazione liturgica (Brescia 2022) p. 33.

[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».

[11] Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III,7.

[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.

[13] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 60.

[14] Cantico delle Creature, Fonti Francescane, n. 263.

[15] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 139.

[16] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.

[17] Vedi Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 135-144.

[18] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, n. 310.

[19] Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.

[20] Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».

[21] Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».

[22] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 78-79.

[23] Cfr. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.

[24] Missale Romanum (2008) p. 598: « … exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».


----------------------------------

Fonte: www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/20220629-lettera-ap-desiderio-desideravi.html


Post più popolari negli ultimi 30 giorni