venerdì 14 febbraio 2020

Santi Cirillo e Metodio



14 febbraio


SANTI CIRILLO, monaco e METODIO, vescovo (sec. IX)

Patroni d'Europa 




Preghiera del mattino


 O Santi Cirillo e Metodio, che con ammirevole dedizione avete portato ai popoli assetati di verità e di luce la fede: fate che la Chiesa tutta proclami sempre il Cristo crocifisso e risorto, Redentore dell’uomo!



O Santi Cirillo e Metodio, che nel vostro difficile e duro apostolato missionario siete rimasti sempre profondamente legati alla Chiesa di Costantinopoli e alla Sede Romana di Pietro: fate che le due Chiese sorelle, la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa, superati nella carità e nella verità gli elementi di divisione, possano raggiungere la piena unione auspicata!



O Santi Cirillo e Metodio, che, con sincero spirito di fraternità, avete avvicinato i popoli diversi per portare a tutti il messaggio di amore universale predicato da Cristo: fate che i popoli del Continente Europeo, consapevoli del loro comune patrimonio cristiano, vivano nel reciproco rispetto dei giusti diritti e nella solidarietà e siano operatori di pace tra tutte le nazioni del mondo!
 

Cirillo e Metodio, fratelli, nativi di Salonicco, inviati in missione presso gli Slavi dalla Chiesa di Bisanzio, compirono la loro missione traducendo la Bibbia in lingua slava e celebrando in tale lingua la liturgia. Gettarono così le basi di una vera cultura cristiana popolare. Gravi difficoltà, in particolare le lotte violente fra Germani e Slavi, ostacolarono il loro apostolato. Poiché Bisanzio non sosteneva sufficientemente i suoi missionari impegnati in tali problemi, essi cercarono personalmente appoggio a Roma. Papa Adriano II autenticò la loro missione e accettò il loro metodo apostolico, specialmente la loro liturgia.
Cirillo morì a Roma; Metodio, fatto vescovo dal papa, continuò la missione fra crescenti difficoltà, come Legato apostolico.
Calunniato per le sue iniziative, e ostacolato dalle opposizioni tra Oriente e Occidente e dai conflitti fra principi slavi e germanici, non si scostò mai dalle regole essenziali dell’apostolato cristiano: adattamento del messaggio alla cultura del popolo, valorizzazione dei punti di aggancio del Vangelo con la mentalità della gente, rigetto della uniformità nella ricerca dell’unità.
Dalla «Vita» in lingua slava di Costantino  (Cap. 18; Denkschriften der kaiserl. Akademie der Wissenschaften, 19, Vienna 1870, p. 246)  
Costantino Cirillo, stanco dalla molte fatiche, cadde e malato e sopportò il proprio male per molti giorni. Fu allora ricreato da una visione di Dio, e cominciò a cantare così. Quanto mi dissero: «andremo alla casa del Signore», il mio spirito si è rallegrato e il mio cuore ha esultato (cfr. Sal 121, 1).
Dopo aver indossato le sacre vesti, rimase
per tutto il giorno ricolmo di gioia e diceva: «Da questo momento non sono più servo né dell'imperatore né di alcun uomo sulla terra, ma solo di Dio onnipotente. Non esistevo, ma ora esisto ed esisterò in eterno. Amen».

Il giorno dopo vestì il santo abito messianico e aggiungendo luce a luce si impose il nome di Cirillo. Così vestito rimase cinquanta giorni.
Giunta l'ora della fine e di passare al riposo eterno, levate le mani a Dio, pregava tra le lacrime, dicendo: «Signore, Dio mio, che hai creato tutti gli ordini angelici e gli spirito incorporei, che hai steso i cieli e resa ferma le terra e hai formato dal nulla tutte le cose che esistono, tu che ascolti sempre coloro che fanno la tua volontà e ti temono e osservano i tuoi precetti; ascolta la mia preghiera e conserva nella fede il tuo gregge, a capo del quale mettesti me, tuo servo indegno ed inetto.
Liberali dalla malizia empia e pagana di quelli che ti bestemmiano; fà crescere di numero la tua Chiesa e raccogli tutti nell'unità.
Rendi santo, concorde nella vera fede e nella retta confessione il tuo popolo, e ispira nei cuori la parola della tua dottrina. E' tuo dono infatti l'averci scelti a predicare il Vangelo del tuo Cristo, a incitare i fratelli alle buone opere ed a compiere quanto ti è gradito.
Quelli che mi hai dato, te li restituisco come tuoi; guidali ora con la tua forte destra, proteggili all'ombra delle tue ali, perché tutti lodino e glorifichino il tuo nome di Padre e Figlio e Spirito Santo. Amen».
Avendo poi baciato tutti col bacio santo, disse: «Benedetto Dio, che non ci ha dato in pasto ai denti dei nostri invisibili avversari, ma spezzò la loro rete e ci ha salvati dalla loro voglia di mandarci in rovina».
E così, all'età di quarantadue anni, si addormentò nel Signore.
Il papa comandò che tutti i Greci che erano a Roma ed i Romani si riunissero portando ceri e cantando e che gli dedicassero onori funebri non diversi da quelli che avrebbero tributato al papa stesso; e così fu fatto.

 
 
MESSALE
Antifona d'Ingresso
Questi soni i santi, amici di Dio,
gloriosi araldi del Vangelo.


Isti sunt viri sancti facti amíci Dei, divínæ veritátis præcónio gloriósi.
 
Colletta
O Dio, ricco di misericordia, che nella missione apostolica dei santi fratelli Cirillo e Metodio hai donato ai popoli slavi la luce del vangelo, per la loro comune intercessione fa' che tutti gli uomini accolgano la tua parola e formino il tuo popolo santo concorde nel testimoniare la vera fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

Deus, qui per beátos fratres Cyríllum et Methódium Slavóniæ gentes illuminásti, da córdibus nostris tuæ doctrínæ verba percípere, nosque pérfice pópulum in vera fide et recta confessióne concórdem. Per Dóminum.
  
    
LITURGIA DELLA PAROLA
 
Prima Lettura  At 13,46-49
Noi ci rivolgiamo ai pagani.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, [ad Antiòchia di Pisìdia] Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono [ai Giudei]: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore:
“Io ti ho posto per essere luce delle genti,
perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.


Oppure, in Quaresima:
 
Is 52,7-10
Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

Dal
libro del profeta Isaia
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio
    
Salmo Responsoriale  Salmo 116
Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo.
   
Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti, cantate la sua lode.

Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura per sempre.
  

Canto al Vangelo   Lc 4,18
Alleluia, alleluia.
Oppure in tempo di Quaresima: Lode e onore a te, Signore Gesù.
Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione.
Alleluia.
  

    Nel 1880 Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci, 1878-1903) con l’enciclica “Grande Munus” ricordò a tutta la Chiesa gli straordinari meriti dei SS. Cirillo e Metodio per l'evangelizzazione degli slavi.
     Il 31 dicembre del 1980 con la lattera apostolica Egregiae virtutis Giovanni Paolo II proclamò i Santi Cirillo e Metodio i Patroni d'Europa

Per approfondimenti, leggere la Catechesi di Papa Benedetto XVI:

LETTERA APOSTOLICA EGREGIAE VIRTUTIS di GIOVANNI PAOLO II

 
 
 
LETTERA APOSTOLICA EGREGIAE VIRTUTIS DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO IICON LA QUALE I SANTI CIRILLO E METODIO
VENGONO PROCLAMATI COMPATRONI D'EUROPA


1. Alle illustri figure dei santi Cirillo e Metodio si rivolgono di nuovo i pensieri ed i cuori in quest'anno in cui ricorrono due centenari particolarmente significativi. Si compiono infatti cent'anni dalla pubblicazione della lettera enciclica «Grande Munus» del 30 settembre 1880, con la quale il grande pontefice Leone XIII ricordava a tutta la Chiesa le figure e l'attività apostolica di questi due santi e, al tempo stesso, ne introduceva la festività liturgica nel calendario della Chiesa cattolica [1]. Ricorre inoltre l'XI centenario della lettera «Industriae Tuae» [2], inviata dal mio predecessore Giovanni VIII al principe Svatopluk nel giugno dell'anno 880, nella quale veniva lodato e raccomandato l'uso della lingua slava nella liturgia, affinché «in quella lingua fossero proclamate le lodi e le opere di Cristo nostro Signore» [3].
Cirillo e Metodio, fratelli, greci, nativi di Tessalonica, la città dove visse e operò san Paolo, fin dall'inizio della loro vocazione, entrarono in stretti rapporti culturali e spirituali con la Chiesa patriarcale di Costantinopoli, allora fiorente per cultura e attività missionaria alla cui alta scuola essi si formarono [4]. Entrambi avevano scelto lo stato religioso unendo i doveri della vocazione religiosa con il servizio missionario, di cui diedero una prima testimonianza recandosi ad evangelizzare i Cazari della Crimea.
La loro preminente opera evangelizzatrice fu, tuttavia, la missione nella Grande Moravia tra i popoli, che abitavano allora la penisola balcanica e le terre percorse dal Danubio; essa fu intrapresa su richiesta del principe di Moravia Roscislaw, presentata all'imperatore e alla Chiesa di Costantinopoli. Per corrispondere alle necessità del loro servizio apostolico in mezzo ai popoli slavi tradussero nella loro lingua i libri sacri a scopo liturgico e catechetico, gettando con questo le basi di tutta la letteratura nelle lingue dei medesimi popoli. Giustamente perciò essi sono considerati non solo gli apostoli degli slavi ma anche i padri della cultura tra tutti questi popoli e tutte queste nazioni, per i quali i primi scritti della lingua slava non cessano di essere il punto fondamentale di riferimento nella storia della loro letteratura.
Cirillo e Metodio svolsero il loro servizio missionario in unione sia con la Chiesa di Costantinopoli, dalla quale erano stati mandati, sia con la sede romana di Pietro, dalla quale furono confermati, manifestando in questo modo l'unità della Chiesa, che durante il periodo della loro vita e della loro attività non era colpita dalla sventura della divisione tra l'oriente e l'occidente, nonostante le gravi tensioni, che, in quel tempo, segnarono le relazioni fra Roma e Costantinopoli.
A Roma Cirillo e Metodio furono accolti con onore dal Papa e dalla Chiesa romana e trovarono approvazione e appoggio per tutta la loro opera apostolica ed anche per la loro innovazione di celebrare la liturgia nella lingua slava, osteggiata in alcuni ambienti occidentali. A Roma concluse la sua vita Cirillo (14 febbraio 869) e fu sepolto nella Chiesa di san Clemente, mentre Metodio fu dal Papa ordinato arcivescovo dell'antica sede di Sirmio e fu inviato in Moravia per continuarvi la sua provvidenziale opera apostolica, proseguita con zelo e coraggio insieme ai suoi discepoli e in mezzo al suo popolo sino al termine della sua vita (6 aprile 885).
2. Cento anni fa il papa Leone XIII con l'enciclica «Grande Munus» ricordò a tutta la Chiesa gli straordinari meriti dei santi Cirillo e Metodio per la loro opera di evangelizzazione degli slavi. Dato però che in quest'anno la Chiesa ricorda solennemente il 1500° anniversario della nascita di san Benedetto, proclamato nel 1964 dal mio venerato predecessore, Paolo VI, patrono d'Europa, è parso che questa protezione nei riguardi di tutta l'Europa sarà meglio messa in risalto, se alla grande opera del santo patriarca d'occidente aggiungeremo i particolari meriti dei due santi fratelli, Cirillo e Metodio. A favore di questo ci sono molteplici ragioni di natura storica, sia di quella passata come di quella contemporanea, che hanno la loro garanzia sia teologica che ecclesiale, come pure culturale nella storia del nostro continente europeo. E perciò prima ancora che si chiuda quest'anno dedicato al particolare ricordo di san Benedetto, desidero che per il centenario della enciclica leoniana, si valorizzino tutte queste ragioni, mediante la presente proclamazione dei santi Cirillo e Metodio a compatroni d'Europa.
3. L'Europa, infatti, nel suo insieme geografico è per così dire frutto dell'azione di due correnti di tradizioni cristiane, alle quali si aggiungono anche due diverse, ma al tempo stesso profondamente complementari, forme di cultura. San Benedetto, il quale con il suo influsso ha abbracciato non solo l'Europa, prima di tutto occidentale e centrale, ma mediante i centri benedettini è arrivato anche negli altri continenti, si trova al centro stesso di quella corrente che parte da Roma, dalla sede dei successori di san Pietro. I santi fratelli da Tessalonica mettono in risalto prima il contributo dell'antica cultura greca e, in seguito, la portata dell'irradiazione della Chiesa di Costantinopoli e della tradizione orientale, la quale si è così profondamente iscritta nella spiritualità e nella cultura di tanti popoli e nazioni nella parte orientale del continente europeo.
Poiché oggi, dopo secoli di divisione della Chiesa tra oriente e occidente, tra Roma e Costantinopoli a partire dal Concilio Vaticano II sono stati intrapresi passi decisivi nella direzione della piena comunione, pare che la proclamazione dei santi Cirillo e Metodio a compatroni d'Europa, accanto a san Benedetto, corrisponda pienamente ai segni del nostro tempo. Specialmente se ciò avviene nell'anno nel quale le due Chiese, cattolica ed ortodossa, sono entrate nella tappa di un decisivo dialogo, che si è iniziato nell'isola di Patmos, legata alla tradizione di san Giovanni apostolo ed evangelista. Pertanto questo atto intende anche rendere memorabile tale data.
Questa proclamazione vuole in pari tempo essere una testimonianza, per gli uomini del nostro tempo, della preminenza dell'annuncio del Vangelo, affidato da Gesù Cristo alle Chiese, per il quale hanno faticato i due fratelli apostoli degli slavi. Tale annuncio è stato via e strumento di reciproca conoscenza e di unione fra i diversi popoli dell'Europa nascente, ed ha assicurato all'Europa di oggi un comune patrimonio spirituale e culturale.
4. Auspico, quindi, che per opera della misericordia della santissima Trinità, per l'intercessione della Madre di Dio e di tutti i santi, sparisca ciò che divide le Chiese come pure i popoli e le nazioni; e le diversità di tradizioni e di cultura dimostrino invece il reciproco completamento di una comune ricchezza.
Che la consapevolezza di questa spirituale ricchezza, diventata su strade diverse patrimonio delle singole società del continente europeo, aiuti le generazioni contemporanee a perseverare nel reciproco rispetto dei giusti diritti di ogni nazione e nella pace, non cessando di rendere i servizi necessari al bene comune di tutta l'umanità e al futuro dell'uomo su tutta la terra.
Pertanto, con sicura cognizione e mia matura deliberazione, nella pienezza della potestà apostolica, in forza di questa lettera ed in perpetuo costituisco e dichiaro celesti compatroni di tutta l'Europa presso Dio i santi Cirillo e Metodio, concedendo inoltre tutti gli onori ed i privilegi liturgici che competono, secondo il diritto, ai patroni principali dei luoghi.
Pace agli uomini di buona volontà!

Dato a Roma, presso san Pietro, sotto l'«anello del pescatore», il giorno 31 del mese di dicembre dell'anno 1980, terzo di Pontificato.


[1] Leonis XIII «Acta», vol. II, pp. 125-137.
[2] Cfr. Magna Moraviae Fontes Historici, t. III, Brno 1969, pp. 197-208
[3] ibid, p. 207.
[4] cfr. Costantinus et Methodius Thessalonicenses, Fontes,  ed  F. Grivec - F. Tomšič: Radovi Staraslovenskog, Instituta IV, Zagabria, 1960.


 http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1980/documents/hf_jp-ii_apl_31121980_egregiae-virtutis.html

LEONE PP. XIII LETTERA ENCICLICA GRANDE MUNUS sui Santi Cirillo e Metodio





GRANDE MUNUS

LETTERA ENCICLICA

DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII


A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati,


Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico

che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.


  Il grande compito di diffondere il nome cristiano, affidato in modo particolare al Beato Pietro, Principe degli Apostoli, ed ai suoi successori, spinse i Pontefici Romani a mandare annunziatori del Santo Vangelo in tempi diversi ai vari popoli della terra, come era richiesto dalle circostanze e dalla volontà del misericordioso Iddio. Pertanto, come destinarono Agostino curatore di anime presso gli Inglesi, Patrizio presso gli Irlandesi, Bonifacio presso i Germani, Villebrordo presso i Frisii, i Batavi e i Belgi, ed altri sovente presso altri popoli, così concessero a Cirillo e a Metodio, uomini santissimi, di esercitare l’apostolico ministero presso i popoli Slavi, i quali, grazie alla loro premura e al loro impegno, conobbero la luce del Vangelo, e da una vita selvatica furono condotti ad una società umana e civile.
   Se gli Slavi, memori dei benefici, non cessarono mai di celebrare Cirillo e Metodio, Apostoli nobilissimi, con non minore studio la Chiesa Romana li ebbe sempre in grande culto, rendendo onore all’uno e all’altro in molte occasioni mentre vissero, e custodendo le ceneri di uno di essi quando morì.  
   Fin dall’anno 1863 agli Slavi della Boemia, Moravia e Croazia, i quali solevano festeggiare ogni anno Cirillo e Metodio il 9 marzo, fu concesso dalla benignità di Pio IX, Nostro Predecessore di immortale memoria, di celebrare per l’avvenire quella festa il 5 luglio, e di onorare la memoria di Cirillo e Metodio con la sacra officiatura. Né passò molto tempo che, all’epoca del grande Concilio Vaticano, molti Vescovi supplicarono questa Sede Apostolica affinché il culto di quei Santi e la decretata solennità si estendessero a tutta la Chiesa. Ma poiché la proposta fino ad oggi non ha avuto seguito, ed essendosi in quelle contrade mutato lo stato della cosa pubblica, Ci parve giunta l’opportunità di soddisfare i popoli Slavi, della cui incolumità e salute siamo grandemente solleciti. Dunque, poiché non possiamo permettere che in alcuna cosa venga meno ad essi la Nostra paterna carità, vogliamo ampiamente estendere ed accrescere il culto religioso di quegli uomini santissimi, i quali, come una volta, spargendo il seme della fede cattolica tra le genti Slave, le richiamarono dalla morte alla salvezza, così ora col celeste loro patrocinio le difenderanno validamente. E perché più chiaramente emerga quali sono questi personaggi che proponiamo alla venerazione ed al culto dell’orbe cattolico, Ci piace narrare brevemente la storia delle loro gesta. 
 Cirillo e Metodio, fratelli germani, nati a Tessalonica da nobilissima famiglia, in tenera età si trasferirono a Costantinopoli per imparare le umane discipline nella principale città dell’Oriente. Né stette nascosta la scintilla dell’ingegno, che già fin d’allora splendeva nei due giovanetti; infatti l’uno e l’altro impararono moltissimo e rapidamente, soprattutto Cirillo, il quale conseguì nelle scienze tale lode che in segno di onore singolare fu chiamato Filosofo. Non andò molto che Metodio si fece monaco. Cirillo fu poi ritenuto degno dall’imperatrice Teodora, su consiglio del Patriarca Ignazio, di istruire nella fede cristiana i Khazari, che abitavano oltre il Chersoneso, i quali avevano chiesto a Costantinopoli ministri idonei nelle cose sacre. Egli accettò tale incarico di buon grado. Pertanto, recatosi in Crimea tra i Tauri, studiò per qualche tempo, come alcuni affermano, la lingua di quel popolo, e nello stesso tempo gli avvenne, e fu ottimo auspicio, di trovare le ceneri di San Clemente I P. M., che non gli fu difficile riconoscere, sia per il ricordo degli anziani, sia per l’ancora con la quale quel fortissimo martire fu gettato in mare per ordine dell’imperatore Traiano e, come si sapeva, successivamente tumulato. 
 Impadronitosi di questo tesoro così prezioso, penetrò nelle città e nelle case dei Khazari; i quali, istruiti dai suoi precetti e mossi dalla grazia di Dio, distrutte le tante superstizioni, furono da lui condotti a Gesù Cristo. Ottimamente costituita questa nuova comunità cristiana, egli diede una memorabile prova di temperanza e di carità, rifiutando tutti i doni offerti dagli indigeni, eccettuato l’affrancamento degli schiavi che professassero il cristianesimo. Poscia Cirillo ritornò rapidamente a Costantinopoli e si rinchiuse nel monastero di Policrone, nel quale Metodio si era già ritirato. 
 Frattanto la fama delle cose da lui felicemente operate presso i Khazari era giunta a Ratislao, Principe della Moravia. Questi, mosso dall’esempio dei Khazari, chiese all’imperatore Michele III alcuni operai evangelici di Costantinopoli; né ebbe difficoltà ad ottenere quello che richiedeva. Pertanto la virtù nobilitata da tanti fatti e la manifesta volontà che Cirillo e Metodio avevano di giovare al prossimo fecero sì che essi venissero destinati alla missione nella Moravia. Mentre viaggiavano per la Bulgaria, già iniziata alla religione cristiana, in nessun luogo si lasciarono sfuggire l’opportunità di diffondere la religione. Incontrati ai confini del Principato da gran moltitudine di popolo, furono ricevuti in Moravia da moltissima disponibilità e con straordinaria gioia. Né tardarono un momento dall’intraprendere ad educare gli animi nelle dottrine cristiane ed a confortarli con la speranza dei beni celesti. Ciò fecero con tanta efficacia e con tanto operoso impegno, che in poco tempo il popolo Moravo abbracciò con tutto l’animo la religione di Gesù Cristo. 
 A tale opera non poco giovò la conoscenza della lingua Slava, che Cirillo aveva imparato prima, e molto servirono i libri del nuovo e dell’antico Testamento che egli aveva tradotto nella lingua di quel popolo. Per la qual cosa tutta la nazione degli Slavi deve moltissimo a questo uomo, poiché da lui ricevette non solo il beneficio della fede cristiana, ma anche quello della civiltà: infatti Cirillo e Metodio trovarono per primi quelle lettere con le quali è rappresentata ed espressa la lingua Slava, della quale, non a torto, sono ritenuti i padri. 
 Da così lontane e separate province la fama aveva recato a Roma il felice annunzio di quelle imprese. E avendo Nicolò I, Pontefice Massimo, ordinato ai due ottimi fratelli di venire a Roma, questi senza indugio obbedirono e, messisi in viaggio per Roma, portarono con sé le reliquie di San Clemente. A tale notizia, Adriano II, che era succeduto al defunto Nicolò, accompagnato dal Clero e dal popolo per testimoniare un grande onore, uscì incontro agli illustri ospiti. Il corpo di San Clemente, glorificato da improvvisi prodigi, con solenne pompa fu portato nella Basilica innalzata al tempo di Costantino sui ruderi della casa paterna del coraggiosissimo martire. Poi Cirillo e Metodio, presente il Clero, resero conto al Pontefice Massimo dell’Apostolica missione alla quale santamente e laboriosamente si erano dati. E poiché fu loro contestato che avevano operato contro il costume degli antichi e contro regole santissime, in quanto avevano usato la lingua Slava negli uffici sacri, addussero ragioni così forti e sicure che il Pontefice e tutto il Clero li lodarono ed approvarono.     Allora ambedue, dopo aver fatto, secondo la formula cattolica, la professione di fede e aver giurato che si sarebbero mantenuti fedeli al Beato Pietro e ai Romani Pontefici, furono creati e consacrati Vescovi dallo stesso Adriano, e molti loro discepoli furono iniziati a vari gradi dei sacri Ordini. 
 Era però divinamente stabilito che Cirillo finisse in Roma il corso della sua vita il 14 febbraio 869, maturo più nella virtù che negli anni. Furono fatti pubblici funerali, e con magnifico apparato, quello stesso che si usa per i Romani Pontefici; fu posto con ogni onore in quel sepolcro che Adriano aveva preparato per se stesso. Il sacro corpo del defunto, poiché il popolo romano non permise che si trasportasse a Costantinopoli, benché ne facesse accorata domanda la madre, fu portato alla Chiesa di San Clemente e sepolto vicino alle ceneri di questi, che Cirillo aveva per tanti anni custodite con venerazione. E mentre si portava la sua salma per la città, tra il canto solenne dei salmi, con una pompa piuttosto di trionfo che di funerale, parve che il popolo romano volesse tributare all’uomo santissimo un saggio degli onori celesti. 
 Ciò fatto, Metodio, per ordine e sotto gli auspici del Pontefice Massimo, ritornò Vescovo in Moravia, ad esercitarvi i consueti uffici del ministero apostolico. In quella provincia, divenuto con tutto l’animo un esemplare del gregge, si diede tutto agl’interessi cattolici con uno zelo che cresceva di giorno in giorno; resistette fortemente a faziosi innovatori, perché con insane opinioni non guastassero il nome cattolico; istruì nella religione il principe Suentopolco che era succeduto a Ratislao; ammonì il medesimo, che non curava il proprio dovere, lo riprese e infine lo punì con l’interdetto da ogni cosa sacra. Per tali motivi si attirò l’odio dell’empio e impurissimo tiranno, dal quale fu cacciato in esilio. Ma richiamato dopo poco tempo, con opportune esortazioni ottenne che il Principe desse segno di ravvedimento e comprendesse il bisogno di riacquistare con un nuovo tenore di vita l’antico comportamento. È poi meraviglioso che la vigilante carità di Metodio, superati i confini della Moravia, come già ai tempi di Cirillo era arrivata ai Croati e ai Serbi, così ora abbracciava gli Ungari, il cui Principe, di nome Cocelo, egli istruì nella religione cattolica e mantenne nella carica; i Bulgari, i quali unitamente al loro re Bogoris confermò nella fede cristiana; i Dalmati, con i quali divideva e ai quali comunicava i celesti carismi, e i Carinzi, per i quali molto operò al fine di condurli alla conoscenza ed al culto dell’unico vero Dio.  
 Ma ciò gli procurò dei guai. Infatti, alcuni della nuova comunità cristiana, portando invidia ai fatti preclari e alla virtù di Metodio, intervennero presso Giovanni VIII, successore di Adriano, accusando lui, innocente, di sospetta fede e di violata tradizione dei maggiori, i quali nelle sacre funzioni avevano solitamente usato soltanto la lingua latina o la greca, e nessun’altra. Allora il Pontefice, assai preoccupato dell’integrità della fede e dell’antica disciplina, comandò a Metodio di recarsi a Roma per difendersi e liberarsi delle accuse. Questi, sempre pronto a obbedire e confortato dalla testimonianza della propria coscienza, nell’anno 880, presentatosi dinanzi a Giovanni, ad alcuni Vescovi ed al Clero urbano, facilmente provò che egli aveva sempre professato ed insegnato quella fede che, in presenza di Adriano e con la sua approvazione, aveva dichiarato e confermato con giuramento presso il sepolcro del Principe degli Apostoli. Quanto alla lingua Slava, usata nelle sacre funzioni, lo aveva fatto per giuste ragioni, con il consenso dello stesso Pontefice Adriano, non contraddicendovi le Sacre Scritture. Con tale discorso egli si liberò da ogni sospetto, tanto che il Pontefice subito lo abbracciò, e di buon grado gli conferì la potestà arcivescovile e approvò la sua missione nella Slavonia. 
 Inoltre, scelti alcuni Vescovi che dovevano dipendere da Metodio, e della cui opera egli si sarebbe giovato nell’amministrazione delle cose sacre, il Pontefice, munitolo di lettere commendatizie, lo rimandò in Moravia con pieni poteri. Tutte queste cose il Sommo Pontefice volle poi confermare con lettere mandate a Metodio, quando di nuovo egli dovette subire l’invidia dei malevoli.  
 Pertanto, sicuro nell’animo, unito con strettissimo vincolo di carità e di fede al Sommo Pontefice e alla Chiesa Romana, Metodio perseverò con sempre maggior impegno ad espletare la missione assegnatagli; né il positivo frutto della sua opera si fece a lungo desiderare. Infatti, avendo dapprima egli stesso condotto alla fede cattolica Borzivoio, Principe dei Boemi, e poscia Ludmilla, sua moglie, con l’aiuto di un sacerdote, in breve ottenne che fra quella gente il nome cristiano si divulgasse assai e per ogni dove.  Nello stesso tempo si adoperò per introdurre la luce del Vangelo nella Polonia, dove entrò e dove fondò la sede episcopale di Leopoli, dopo avere attraversato la Galizia. Successivamente, come alcuni raccontano, recatosi nella Moscovia propriamente detta, fondò il trono pontificale di Kiev. Con questi allori non certo caduchi, tornò ai suoi in Moravia. Sentendo avvicinarsi la morte, scelse il proprio successore, e dopo avere esortato alla virtù il Clero e il popolo con le ultime raccomandazioni, placidamente uscì da quella vita che per lui era stata la via verso il cielo.  
 Come Roma pianse Cirillo, così la Moravia pianse la morte di Metodio; celebrò con dolore la sua perdita e onorò in tutti i modi i suoi funerali. 
 Di questi fatti, Venerabili Fratelli, torna a Noi graditissimo il ricordo; Ci commuoviamo non poco quando osserviamo splendidamente iniziata fin da tempi remoti l’unione delle genti Slave con la Chiesa Romana. 
 Effettivamente questi due propagatori del nome cristiano, dei quali abbiamo parlato, se ne andarono da Costantinopoli presso popoli pagani, tuttavia fu necessario che la loro missione fosse intieramente comandata da questa Sede Apostolica, centro dell’unità cattolica, o regolarmente e santamente approvata, come fu fatto più volte. Infatti qui, nella città di Roma, essi resero ragione dell’opera intrapresa e risposero alle accuse; qui, presso i sepolcri di Pietro e Paolo effettuarono il giuramento della fede cattolica e ricevettero la consacrazione episcopale, insieme con il potere di costituire la sacra gerarchia, conservando la diversità degli Ordini. 
 Infine, qui fu autorizzato l’uso della lingua Slava nei santissimi riti, e quest’anno si compie il decimo secolo dacché Giovanni VIII, Pontefice Massimo, scrisse a Suentopolco, Principe della Moravia, queste parole: "Approviamo giustamente che le lodi dovute a Dio risuonino nella lingua slava, e comandiamo che nella medesima lingua si narrino gli elogi e le opere di Gesù Cristo Signor Nostro.  Né alcunché si oppone alla sana fede o alla dottrina, sia che si cantino le messe nella stessa lingua slava, si che si leggano il santo Vangelo o le lezioni divine del Nuovo e Antico Testamento, bene tradotte ed interpretate, e si salmeggi nelle altre ore della ufficiatura". Dopo molte vicende, Benedetto XIV sanzionò tale consuetudine con lettera apostolica del 25 agosto 1754. I Pontefici Romani, poi, tutte le volte che furono richiesti di aiuto dai Principi che comandavano sui popoli convertiti al cristianesimo per opera di Cirillo e Metodio, non permisero mai che si avesse a desiderare la loro benignità nel soccorrere, la loro umanità nell’istruire, la loro benevolenza nel consigliare, la loro buona volontà in tutte le cose che potevano. Fra gli altri, Ratislao, Suentopolco, Cocelo, santa Ludmilla, Bogoris sperimentarono, secondo le circostanze e il tempo, l’insigne carità dei Nostri Predecessori. 
 Né con la morte di Cirillo e di Metodio cessò o si indebolì la paterna sollecitudine dei Romani Pontefici per i popoli Slavi, ma sempre rifulse nel tutelare presso di loro la santità della religione e nel conservare la prosperità pubblica. Infatti Nicolò I mandò da Roma, presso i Bulgari, sacerdoti che istruissero il popolo, e i Vescovi di Populonia e di Porto perché ordinassero quella nuova comunità di cristiani. Del pari, a proposito delle frequenti controversie dei Bulgari intorno al diritto sacro diede amorevolissime risposte, nelle quali anche coloro che per nulla sono favorevoli alla Chiesa Romana, lodano ed ammirano la somma prudenza. E dopo la luttuosa calamità dello scisma, è merito di Innocenzo III l’avere riconciliato con la Chiesa Cattolica i Bulgari; e poi di Gregorio IX, di Innocenzo IV, di Nicolò IV, di Eugenio IV di averli mantenuti nella compiuta riconciliazione. Similmente verso i popoli della Bosnia e dell’Erzegovina, ingannati dal contagio di prave opinioni, in modo insigne risplendette la carità dei Nostri Predecessori, cioè di Innocenzo III e di Innocenzo IV, i quali si adoperarono per sradicare l’errore dagli animi; di Gregorio IX, Clemente VI e Pio II, che si adoperarono per fermare stabilmente in quelle regioni i gradi della sacra gerarchia. 
 Né si deve credere che Innocenzo III, Nicolò IV, Benedetto XI e Clemente V abbiano rivolto piccola od ultima parte delle loro cure ai Serbi, dai quali tennero provvidissimamente lontane le frodi, escogitate astutamente per contaminarne la religione. Anche i Dalmati e i Liburni, per la costanza nella fede e per l’adempimento dei loro doveri, si meritarono singolare favore e grandi lodi da Giovanni X, Gregorio VII, Gregorio IX e Urbano IV. Infine, nella stessa Chiesa di Srijem, distrutta nel sesto secolo da invasioni barbariche e successivamente ricostruita con amorosa pietà da Santo Stefano I, re dell’Ungheria, sono molti i monumenti della benevolenza di Gregorio IX e di Clemente XIV. 
 Pertanto Ci pare doveroso rendere grazie a Dio che Ci ha offerto l’occasione opportuna di far cosa gradita alla gente Slava e di esserle utile certamente con non minore premura di quella che mostrarono in ogni tempo i Nostri Predecessori. A questo Noi miriamo, questo desideriamo unicamente: di adoperarci in ogni modo affinché tutte le genti Slave vengano istruite dal maggior numero di Vescovi e di Sacerdoti; affinché si confermino nella professione della vera fede, nell’obbedienza alla vera Chiesa di Gesù Cristo e ogni giorno di più sentano per esperienza quanta ricchezza di beni ridondino dalle istituzioni della Chiesa Cattolica sulla società domestica e su tutti gli ordini della cosa pubblica. 
 Quelle Chiese certamente esigono gran parte delle Nostre cure; né vi è cosa che più desideriamo quanto il provvedere alla loro comodità e alla loro prosperità, a unirle tutte a Noi con quel perpetuo legame di concordia che è il massimo e migliore vincolo di salute. Resta che Iddio, ricco di tutte le misericordie, arrida ai Nostri propositi e assecondi quanto abbiamo intrapreso. Frattanto Noi poniamo quali intercessori presso di Lui Cirillo e Metodio, maestri della Slavonia, dei quali, come vogliamo amplificarne il culto, così confidiamo non Ci mancherà il patrocinio celeste. 
 Pertanto ordiniamo che il 5 luglio, giorno stabilito da Pio IX di felice memoria, sia inserita nel Calendario Romano e della Chiesa universale e si faccia ogni anno la festa dei santi Cirillo e Metodio con Officio e Messa propria, di rito doppio minore, come venne approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti. 
 A Voi tutti poi, Venerabili Fratelli, ordiniamo che curiate la pubblicazione di questa Nostra Lettera e comandiate che le cose in essa prescritte siano osservate da tutti i sacri ministri che celebrano l’Ufficio divino della Chiesa Romana, ciascuno nelle proprie chiese, province, città, diocesi e case dei Regolari. Infine vogliamo che per Vostra esortazione e Vostro consiglio, in tutto il mondo si preghino Cirillo e Metodio, perché con quel favore di cui godono presso Dio, in tutto l’Oriente tutelino gli interessi cristiani, implorando costanza per i cattolici e il proposito di riconciliarsi con la vera Chiesa per i dissidenti. 
 Queste cose, come furono sopra scritte, così comandiamo siano stabili e ferme, nonostante le Costituzioni apostoliche emanate dal Pontefice San Pio V, Nostro Predecessore, e da altri sulla riforma del Breviario e del Messale romano, e nonostante gli statuti e le consuetudini, anche immemorabili, e ogni altra cosa contraria. 
 Auspice dei doni celesti e pegno della Nostra particolare benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, e a tutto il Clero e al popolo affidato ad ognuno di Voi, impartiamo con tutto l’affetto nel Signore la Benedizione Apostolica. 

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 settembre 1880, anno terzo del Nostro Pontificato.

Sui Santi Cirillo e Metodio BENEDETTO XVI nell'Udienza generale



Per la festa di Santi Cirillo e Metodio


BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 17 giugno 2009



Santi Cirillo e Metodio
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare dei Santi Cirillo e Metodio, fratelli nel sangue e nella fede, detti apostoli degli slavi. Cirillo nacque a Tessalonica dal magistrato imperiale Leone nell’826/827: era il più giovane di sette figli. Da ragazzo imparò la lingua slava. All’età di quattordici anni fu mandato a Costantinopoli per esservi educato e fu compagno del giovane imperatore Michele III. In quegli anni fu introdotto nelle diverse materie universitarie, fra le quali la dialettica, avendo come maestro Fozio. Dopo aver rifiutato un brillante matrimonio, decise di ricevere gli ordini sacri e divenne “bibliotecario” presso il Patriarcato. Poco dopo, desiderando ritirarsi in solitudine, andò a nascondersi in un monastero, ma fu presto scoperto e gli fu affidato l’insegnamento delle scienze sacre e profane, mansione che svolse così bene da guadagnarsi l’appellativo di “Filosofo”. Nel frattempo, il fratello Michele (nato nell’815 ca.), dopo una carriera amministrativa in Macedonia, verso l’anno 850 abbandonò il mondo per ritirarsi a vita monastica sul monte Olimpo in Bitinia, dove ricevette il nome di Metodio (il nome monastico doveva cominciare con la stessa lettera di quello di battesimo) e divenne igumeno del monastero di Polychron.
Attratto dall’esempio del fratello, anche Cirillo decise di lasciare l’insegnamento per recarsi sul monte Olimpo a meditare e a pregare. Alcuni anni più tardi però, (861 ca.), il governo imperiale lo incaricò di una missione presso i khazari del Mare di Azov, i quali chiedevano che fosse loro inviato un letterato che sapesse discutere con gli ebrei e i saraceni. Cirillo, accompagnato dal fratello Metodio, sostò a lungo in Crimea, dove imparò l’ebraico. Qui ricercò pure il corpo del Papa Clemente I, che vi era stato esiliato. Ne trovò la tomba e, quando col fratello riprese la via del ritorno, portò con sé le preziose reliquie. Giunti a Costantinopoli, i due fratelli furono inviati in Moravia dall’imperatore Michele III, al quale il principe moravo Ratislao aveva rivolto una precisa richiesta: “Il nostro popolo – gli aveva detto – da quando ha respinto il paganesimo, osserva la legge cristiana; però non abbiamo un maestro che sia in grado di spiegarci la vera fede nella nostra lingua”. La missione ebbe ben presto un successo insolito. Traducendo la liturgia nella lingua slava, i due fratelli guadagnarono una grande simpatia presso il popolo.
Questo, però, suscitò nei loro confronti l’ostilità del clero franco, che era arrivato in precedenza in Moravia e considerava il territorio come appartenente alla propria giurisdizione ecclesiale. Per giustificarsi, nell’867 i due fratelli si recarono a Roma. Durante il viaggio si fermarono a Venezia, dove ebbe luogo un’animata discussione con i sostenitori della cosiddetta “eresia trilingue”: costoro ritenevano che vi fossero solo tre lingue in cui si poteva lecitamente lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina. Ovviamente, a ciò i due fratelli si opposero con forza. A Roma Cirillo e Metodio furono ricevuti dal Papa Adriano II, che andò loro incontro in processione per accogliere degnamente le reliquie di san Clemente. Il Papa aveva anche compreso la grande importanza della loro eccezionale missione. Dalla metà del primo millennio, infatti, gli slavi si erano installati numerosissimi in quei territori posti tra le due parti dell’Impero Romano, l’orientale e l’occidentale, che erano già in tensione tra loro. Il Papa intuì che i popoli slavi avrebbero potuto giocare il ruolo di ponte, contribuendo così a conservare l’unione tra i cristiani dell’una e dell’altra parte dell’Impero. Egli quindi non esitò ad approvare la missione dei due Fratelli nella Grande Moravia, accogliendo e approvando l’uso della lingua slava nella liturgia. I libri slavi furono deposti sull’altare di Santa Maria di Phatmé (Santa Maria Maggiore) e la liturgia in lingua slava fu celebrata nelle Basiliche di San Pietro, Sant’Andrea, San Paolo.
Purtroppo a Roma Cirillo s’ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, volle consacrarsi totalmente a Dio come monaco in uno dei monasteri greci della Città (probabilmente presso Santa Prassede) ed assunse il nome monastico di Cirillo (il suo nome di battesimo era Costantino). Poi pregò con insistenza il fratello Metodio, che nel frattempo era stato consacrato Vescovo, di non abbandonare la missione in Moravia e di tornare tra quelle popolazioni. A Dio si rivolse con questa invocazione: “Signore, mio Dio…, esaudisci la mia preghiera e custodisci a te fedele il gregge a cui avevi preposto me… Liberali dall’eresia delle tre lingue, raccogli tutti nell’unità, e rendi il popolo che hai scelto concorde nella vera fede e nella retta confessione”. Morì il 14 febbraio 869.
Fedele all’impegno assunto col fratello, nell’anno seguente, 870, Metodio ritornò in Moravia e in Pannonia (oggi Ungheria), ove incontrò di nuovo la violenta avversione dei missionari franchi che lo imprigionarono. Non si perse d’animo e quando nell’anno 873 fu liberato si adoperò attivamente nella organizzazione della Chiesa, curando la formazione di un gruppo di discepoli. Fu merito di questi discepoli se poté essere superata la crisi che si scatenò dopo la morte di Metodio, avvenuta il 6 aprile 885: perseguitati e messi in prigione, alcuni di questi discepoli vennero venduti come schiavi e portati a Venezia, dove furono riscattati da un funzionario costantinopolitano, che concesse loro di tornare nei Paesi degli slavi balcanici. Accolti in Bulgaria, poterono continuare nella missione avviata da Metodio, diffondendo il Vangelo nella «terra della Rus’». Dio nella sua misteriosa provvidenza si avvaleva così della persecuzione per salvare l’opera dei santi Fratelli. Di essa resta anche la documentazione letteraria. Basti pensare ad opere quali l’Evangeliario (pericopi liturgiche del Nuovo Testamento), il Salterio, vari testi liturgici in lingua slava, a cui lavorarono ambedue i Fratelli. Dopo la morte di Cirillo, a Metodio e ai suoi discepoli si deve, tra l’altro, la traduzione dell’intera Sacra Scrittura, il Nomocanone e il Libro dei Padri.
Volendo ora riassumere in breve il profilo spirituale dei due Fratelli, si deve innanzitutto registrare la passione con cui Cirillo si avvicinò agli scritti di san Gregorio Nazianzeno, apprendendo da lui il valore della lingua nella trasmissione della Rivelazione. San Gregorio aveva espresso il desiderio che Cristo parlasse per mezzo di lui: “Sono servo del Verbo, perciò mi metto al servizio della Parola”. Volendo imitare Gregorio in questo servizio, Cirillo chiese a Cristo di voler parlare in slavo per mezzo suo. Egli introduce la sua opera di traduzione con l’invocazione solenne: “Ascoltate, o voi tutte genti slave, ascoltate la Parola che venne da Dio, la Parola che nutre le anime, la Parola che conduce alla conoscenza di Dio”. In realtà, già alcuni anni prima che il principe di Moravia venisse a chiedere all’imperatore Michele III l’invio di missionari nella sua terra, sembra che Cirillo e il fratello Metodio, attorniati da un gruppo di discepoli, stessero lavorando al progetto di raccogliere i dogmi cristiani in libri scritti in lingua slava. Apparve allora chiaramente l’esigenza di nuovi segni grafici, più aderenti alla lingua parlata: nacque così l’alfabeto glagolitico che, successivamente modificato, fu poi designato col nome di “cirillico” in onore del suo ispiratore. Fu quello un evento decisivo per lo sviluppo della civiltà slava in generale. Cirillo e Metodio erano convinti che i singoli popoli non potessero ritenere di aver ricevuto pienamente la Rivelazione finché non l’avessero udita nella propria lingua e letta nei caratteri propri del loro alfabeto.
A Metodio spetta il merito di aver fatto sì che l’opera intrapresa col fratello non fosse bruscamente interrotta. Mentre Cirillo, il “Filosofo”, era propenso alla contemplazione, egli era piuttosto portato alla vita attiva. Grazie a ciò poté porre i presupposti della successiva affermazione di quella che potremmo chiamare l’«idea cirillo-metodiana»: essa accompagnò nei diversi periodi storici i popoli slavi, favorendone lo sviluppo culturale, nazionale e religioso. E’ quanto riconosceva già Papa Pio XI con la Lettera apostolica Quod Sanctum Cyrillum, nella quale qualificava i due Fratelli: “figli dell’Oriente, di patria bizantini, d’origine greci, per missione romani, per i frutti apostolici slavi” (AAS 19 [1927] 93-96). Il ruolo storico da essi svolto è stato poi ufficialmente proclamato dal Papa Giovanni Paolo II che, con la Lettera apostolica Egregiae virtutis viri, li ha dichiarati compatroni d’Europa insieme con san Benedetto (AAS 73 [1981] 258-262). In effetti, Cirillo e Metodio costituiscono un esempio classico di ciò che oggi si indica col termine “inculturazione”: ogni popolo deve calare nella propria cultura il messaggio rivelato ed esprimerne la verità salvifica con il linguaggio che gli è proprio. Questo suppone un lavoro di “traduzione” molto impegnativo, perché richiede l’individuazione di termini adeguati a riproporre, senza tradirla, la ricchezza della Parola rivelata. Di ciò i due santi Fratelli hanno lasciato una testimonianza quanto mai significativa, alla quale la Chiesa guarda anche oggi per trarne ispirazione ed orientamento. 


http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090617.html

giovedì 13 febbraio 2020

La presentazione più antica nella basilica di Santa Maria Maggiore di F. Bisconti



Fabrizio Bisconti



La presentazione più antica
nella basilica di Santa Maria Maggiore

 

   All’indomani del concilio di Efeso del 431, allorquando venne proclamata la divina maternità di Maria, Madre di Dio, il pontefice Sisto III (432-440) fece costruire sull’Esquilino il primo sontuoso santuario romano, che raccoglie molti motivi di riflessione riguardo l’infanzia del Salvatore: dal presepe di Arnolfo di Cambio alle sacre e singolari reliquie della culla del Bambino, dagli straordinari mosaici dell’arco trionfale, su cui torneremo, alla suggestiva icona della Salus populi romani, tanto cara a Papa Francesco
Santa Maria Maggiore. Arco Trionfale «Il sogno di Giuseppe» (V secolo)
  Nell’area dell’Esquilino, d’altra parte, insisteva un’altra basilica paleocristiana fatta erigere da Papa Liberio (352-366), secondo quanto ricorda il Liber Pontificalis: Hic fecit basilicam nomini suo iuxta macellum Libiae, non lontana dal santuario di Papa Sisto III, che, sempre secondo la medesima fonte hic basilicam sanctae Mariae, quae ab antiquis Liberii cognominabatur, iuxta macellum Libiae.
  Il macellum Libiae (=Liviae) non era altro che un grande mercato, dedicato a Livia, la moglie di Augusto, presso la porta Esquilina della cerchia muraria serviana, presso la basilica di San Vito. In quest’area, dunque, sorgeva la grande basilica dedicata a Maria, che ancora oggi possiamo ammirare e che mostra ancora l’impianto paleocristiano, corretto, specialmente nella porzione absidale, da Papa Niccolò IV (1288-1292), che fece demolire l’antica abside, per crearne una nuova, decorata da Jacopo Torriti, nel torno di anni che dalla fine del 1280 giunge al 1295, e che comporta la maestosa incoronazione di Maria.
   La primitiva abside sistina, quindi, è andata perduta, anche se doveva accogliere sicuramente un tema mariano. A essa si agganciava la rivoluzionaria decorazione di un arco, allora absidale, che doveva trattare un vero e proprio trattato mariologico. I temi della tradizione sono supportati e ampliati dall’apporto degli scritti apocrifi, a cominciare dalla scena dell’Annunciazione, ispirata al vangelo dello Pseudo-Matteo (IX, 2), che coglie la Vergine nel momento in cui fila la porpora per il Tempio. Senza soluzione di continuità, appare Giuseppe che ascolta un angelo annunziatore secondo quanto evocato da Matteo (1, 20-21), che richiama la scena del sogno, situata all’estremità destra del registro, che racconta il momento in cui si ordina la fuga in Egitto (Matteo 2, 13).
   L’arco trionfale è campito, al centro, dal trono dell’Etimasia in clipeo, tra Pietro e Paolo. Proprio a destra di questo gruppo apocalittico, rafforzato dalla solenne epigrafe di autentica pontificia (Xystus Episcopus plebi Dei), si stende la storia della presentazione al Tempio: Maria, seguita da due angeli, in abito da sovrana, entra nel portico del Tempio di Gerusalemme. Ha il bambino tra le braccia. Giuseppe, si volge a guardare Maria e leva le braccia, nel gesto dell’accoglienza. Si riconoscono, poi, la profetessa Anna, Simeone e un gruppo di anziani. Sullo sfondo si staglia la fronte del Tempio, dinanzi al quale sono una coppia di colombe e una di tortore pronte per il sacrificio. La scena, come si diceva, si aggancia al sogno di Giuseppe.
     Nei registri inferiori sfilano le scene dell’Adorazione dei Magi, dell’incontro di Gesù con Afrodisio a Sotine, della strage degli innocenti, dei Magi dinanzi a Erode, delle rappresentazioni di Gerusalemme e Betlemme. Nella navata, entro riquadri, ancora musivi, scorrono le storie di Abramo, di Lot, di Giacobbe, di Isacco, di Esaù, di Mosè, di Giosuè.
    Il Vecchio e il Nuovo Testamento si intrecciano, la prefigurazione veterotestamentaria trova la sua soluzione nell’Infantia Salvatoris e Maria rappresenta l’anello di congiunzione di questo racconto continuo e infinito.
   Torniamo al quadro della presentazione al Tempio, che proprio nella basilica mariana trova la sua prima rappresentazione. L’episodio evangelico, narrato da Luca (2, 22-39), rievoca il momento in cui Maria e Giuseppe recano il Bambino al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la sua nascita, per “offrirlo” a Dio, in ossequio all’ordine dell’Esodo (13, 2). Simultaneamente si celebrava la purificazione della madre, con un’offerta, a cui fa già cenno il Levitico (12, 6-8). In quell’occasione, la piccola famiglia incontrò il vecchio Simeone, a cui era stato predetto che non sarebbe morto senza aver visto il Messia. Luca riferisce anche della presenza dell’anziana vedova e profetessa Anna, che, pure, riconobbe il Messia.
  L’episodio “fotografa”, simultaneamente, l’offerta del primogenito, simbolicamente effettuata con i volatili, e la purificazione della puerpera e anticipa il sacramento del battesimo.
   La presentazione al Tempio viene celebrata dalla Chiesa cattolica il 2 febbraio ed è collegata alla suggestiva festa della candelora, durante la quale si benedicono le candele, simboli di illuminazione e purificazione. Questo rito popolare, un tempo, veniva celebrato il 14 febbraio, ossia quaranta giorni dopo l’Epifania, secondo quanto ricorda la nobile pellegrina Egeria, che, nella sua Peregrinatio, racconta di una festa solenne e assai suggestiva, che si assimila al rito del “lucernario”, allorquando «si accendono tutte le lampade e i ceri, provocando, così, una luce grandissima» (Peregrinatio Aetheriae 24, 4), recuperando l’antico rito romano dei Lupercalia, che si celebrava a metà febbraio, con una grande fiaccolata, proprio con l’intenzione rigenerativa della purificazione.


http://www.osservatoreromano.va/it/news/la-presentazione-piu-antica


mercoledì 12 febbraio 2020

La fede e la teologia ai giorni nostri, del Card. Joseph Ratzinger



La fede e la teologia ai giorni nostri

del Card. Joseph Ratzinger



La crisi della teologia della liberazione
Negli anni Ottanta la teologia della liberazione, nelle sue espressioni più radicali, costituiva la provocazione più incalzante alla fede della Chiesa, con la sua richiesta di una risposta e di una chiarificazione. Essa infatti offriva una risposta nuova, plausibile e nello stesso tempo pratica, al problema fondamentale del cristianesimo: la redenzione. Il termine liberazione era destinato ad esprimere, solo in una maniera diversa e più comprensibile, ciò che nel linguaggio tradizionale della Chiesa era stato chiamato redenzione. In realtà, il problema fondamentale resta sempre lo stesso: siamo posti di fronte ad un mondo che non corrisponde alla bontà di Dio. La povertà, l'oppressione, le ingiustizie di ogni sorta, la sofferenza dei giusti e degli innocenti sono i segni del tempo, di ogni tempo. E ogni uomo soffre; nessuno può dire a questo mondo e alla propria vita: dura per sempre, perché sei così bella. La teologia della liberazione, di fronte a queste nostre esperienze, si esprimeva nel modo seguente: una tale situazione, che non può perdurare, può essere superata solo con un mutamento radicale delle strutture del nostro mondo, che sono le strutture del peccato, le strutture del male. Se quindi il peccato fa sentire la sua forza sulle strutture e da queste ne deriva necessariamente una situazione di miseria, lo si può vincere non con una conversione personale, ma solo lottando contro le strutture dell'ingiustizia. Questa lotta però, così si diceva, doveva essere di ordine politico, poiché le strutture si consolidano e si sostengono attraverso la politica.
Pertanto la redenzione diventava un processo politico, al quale la filosofia marxista forniva gli orientamenti di fondo. Essa diventava un compito che gli uomini potevano, anzi dovevano assumersi direttamente, e si trasformava perciò nello stesso tempo in una speranza del tutto pratica: la fede da "teoria" si trasformava in una prassi, in un'azione concreta e liberatrice, attraverso il processo di liberazione.
La caduta dei sistemi di governo di ispirazione marxista nell'est europeo trasformò questa teologia, fondata su una prassi liberatrice di tipo politico, in una specie di crepuscolo degli dèi: proprio dove l'ideologia marxista della liberazione era stata adottata in maniera sistematica, si era instaurata una mancanza totale di libertà, i cui orrori stavano inesorabilmente davanti agli occhi di tutti.
Quando la politica vuole essere liberatrice, promette troppo. Quando vuole sostituirsi a Dio nel suo agire, diventa non divina ma demoniaca. Gli eventi politici del 1989 hanno mutato perciò anche lo scenario teologico. Il marxismo aveva rappresentato l'ultimo tentativo di fornire una valida formula generale, che intendeva dare al corso della storia la sua giusta configurazione. Riteneva di conoscere quale fosse l'impianto della storia universale e di poter insegnare perciò come questa storia potesse essere condotta definitivamente sulla retta via. Il suo enorme fascino gli derivava dal fatto di fondarsi su metodi in apparenza strettamente scientifici e di sostituire la fede con la scienza, trasformando la scienza in azione pratica. Tutte le promesse disattese delle religioni sembravano realizzarsi tramite una prassi politica scientificamente fondata. La caduta di questa speranza era destinata a provocare un enorme disinganno, che non si è ancora placato del tutto. Ritengo senz'altro possibile che si debba assistere ancora ad altre nuove manifestazioni di una concezione marxista del mondo. Il venir meno dell'unico sistema che proponeva una soluzione dei problemi umani su base scientifica poteva lasciare spazio solo al nichilismo, o per lo meno ad un relativismo totale.

Il relativismo come filosofia dominante
Il relativismo è diventato perciò effettivamente il problema fondamentale della fede dei nostri giorni. Esso non si esprime solo come una forma di rassegnazione di fronte alla verità irraggiungibile, ma si definisce anche positivamente ricorrendo alle idee di tolleranza, conoscenza dialogica e libertà, che erano state coartate dalla concezione di una verità universalmente valida. Il relativismo si presenta inoltre come la base filosofica della democrazia, la quale si fonderebbe appunto sul fatto che nessuno può pretendere di conoscere la strada giusta, la democrazia deriverebbe cioè dal fatto che tutte le strade si riconoscono reciprocamente come tentativi parziali di raggiungere ciò che è migliore e ricercano nel dialogo una qualche comunione, alla quale arreca il proprio contributo anche la conoscenza, che però in ultima analisi non si può ricondurre ad una forma comune. Un sistema di libertà dovrebbe essere per sua natura un sistema di posizioni relative che comunicano tra loro, che dipendono inoltre da varie combinazioni storiche e restano aperte a nuovi sviluppi. Una società liberale dovrebbe essere una società relativista; solo a queste condizioni essa è in grado di rimanere libera e di mantenersi aperta.
In ambito politico questo modo di vedere è esatto fino a un certo punto. Non vi è un'opzione politica che possa dirsi esclusivamente giusta. Ciò che è relativo, ossia l'instaurazione di un'ordinata convivenza umana su basi liberali, non può essere assoluto: l'aver pensato il contrario è stato appunto l'errore del marxismo e delle teologie politiche. Certo, anche sul piano politico con il relativismo totale non si risolve nulla: vi è un'ingiustizia che non può mai diventare giusta (per esempio l'uccisione degli innocenti o il negare alle persone o ai gruppi il diritto della dignità umana e di ciò che essa comporta) e vi è una giustizia che non può mai diventare ingiustizia. In ambito politico-sociale non si può pertanto negare al relativismo una qualche legittimità. Ma il problema deriva dal fatto che esso non si pone dei limiti. Infatti viene adottato espressamente anche sul piano della religione e dell'etica. Su questo punto, posso accennare solo a qualche fattore che condiziona in tal senso il dialogo teologico. La cosiddetta teologia pluralista delle religioni si era già affermata gradualmente fin dagli anni Cinquanta, ma solo oggi ha assunto un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana (1). Per la rilevanza della sua problematica e per la sua presenza nei più diversi settori culturali essa assume ora il posto che nel decennio scorso spettava alla teologia della liberazione; del resto spesso si riallaccia a quest'ultima e tenta di presentarne un volto più nuovo ed attuale. Le sue configurazioni sono molto diverse, per cui è impossibile ridurla ad una formula unica e delinearne brevemente i tratti essenziali. Da un lato essa è un prodotto tipico del mondo occidentale e delle sue concezioni filosofiche, ma dall'altro si pone in contatto con le intuizioni filosofiche e religiose dell'Asia, soprattutto con quelle del subcontinente indiano, ed è proprio anzi il collegamento tra questi due mondi ciò che determina la sua particolare influenza sul momento storico che stiamo vivendo.

Il relativismo in teologia: l'abolizione della cristologia
Questa situazione può essere colta con particolare evidenza nelle affermazioni di uno dei fondatori ed esponenti principali di tale teologia, il presbiteriano americano J. Hick, che prende le mosse dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in grado di raggiungere la realtà ultima in se stessa, ma possiamo solo vederla con diverse "lenti" nel suo apparire, attraverso il nostro modo di percepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e propria, come è in se stessa, ma solo il suo riflesso nel nostro sistema di misura. Questo principio, che Hick in un primo tempo aveva tentato di formulare ancora in un contesto cristocentrico, dopo un soggiorno in India, durato un anno, con una rivoluzione copernicana del suo pensiero (come egli stesso afferma) è stato da lui trasformato in una nuova forma di teocentrismo. L'identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la "realtà" stessa, ossia con il Dio vivente, viene respinta come una ricaduta nel mito; Gesù viene espressamente relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l'assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, solo figure ideali che ci rinviano al totalmente altro, il quale non si può afferrare come tale nella storia. È chiaro che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come un incontro reale con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare perciò l'infinità del Dio totalmente altro.
In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura l'essenza del Credo relativista e l'opposto della "conversione" e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell'altro. Solo se suppongo veramente che l'altro abbia tanto ragione quanto me, o anche di più, sono realmente all'altezza del dialogo. Il dialogo dovrebbe essere uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo di raggiungere il massimo di cooperazione o d'integrazione tra le varie concezioni religiose (2). Il dissolvimento relativista della cristologia e quindi anche dell'ecclesiologia diventa perciò un precetto fondamentale della religione. Per tornare a Hick: la fede nella divinità di uno solo, così egli dice, condurrebbe al fanatismo e al particolarismo, alla dissociazione tra fede e amore; ma questo è appunto ciò che si deve evitare (3).

Il richiamo alle religioni asiatiche
Secondo J. Hick, che qui consideriamo in particolare come l'esponente di maggior spicco del relativismo religioso, la filosofia post-metafisica dell'Europa si collega meravigliosamente alla teologia negativa dell'Asia, per la quale il divino, in se stesso e direttamente, non può mai entrare nel mondo delle apparenze, nel quale viviamo: si mostra solo nei riflessi relativi e resta al di là di tutte le parole e al di là di ogni pensiero nella sua trascendenza assoluta (4). Queste due filosofie sono radicalmente diverse nei loro presupposti fondamentali e per i principi su cui regolano l'esistenza umana. Ma nel loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a vicenda. Il relativismo areligioso e pragmatico dell'Europa e dell'America può ricevere dall'India una specie di consacrazione religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di un timore più nobile di fronte al Mistero di Dio e dell'uomo. Viceversa, l'appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione filosofica e teologica dell'India rafforza la relativizzazione di tutte le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. Sembra perciò necessario che in India anche la teologia cristiana debba privare la figura di Cristo, considerata occidentale, del suo carattere di unicità e la debba collocare quindi sullo stesso piano dei miti indiani di salvezza: il Gesù storico (così si pensa ora) non è il Logos, come non lo è qualunque altra figura di salvatore che appartenga alla storia (5). Il fatto che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro delle culture, come la vera filosofia dell'umanità, gli conferisce (come già abbiamo accennato) una grande forza di persuasione, che in pratica non ammette rivali. Chi vi si contrappone non prende solo posizione contro la democrazia e la tolleranza, che sono i precetti fondamentali della convivenza umana, ma si irrigidisce anche ostinatamente nella preminenza della propria cultura, quella occidentale, e rifiuta l'incontro tra le culture, che è oggi l'imperativo più urgente. Chi vuol rimanere nella fede della Bibbia e della Chiesa si trova relegato anzitutto in una terra di nessuno, e deve orientarsi nuovamente nella "stoltezza di Dio" (1 Cor 1,18), per potervi riconoscere la vera sapienza.

Ortodossia e ortoprassi
Per ricercare questa sapienza, che si trova nella stoltezza della fede, possiamo tentare di chiarire, almeno per sommi capi, a che cosa serva la teoria relativista della religione, sostenuta da Hick e quali strade essa indichi all'uomo. In ultima analisi, per Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-centredness, che caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo (6). Questo è bello a parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto, come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter, ex-sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto (7). La sua proposta è quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione. In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto resta fondato su di un'unica premessa: "il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia" (8). Questa preminenza accordata alla prassi rispetto alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza diventa impossibile rimane solo l'agire. Per Knitter, l'assoluto non lo si può pensare, ma solo fare. La questione però è: È vera questa affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una luce.
È allora opportuno chiarire criticamente il concetto di ortoprassi. La storia delle religioni tradizionale aveva sostenuto che le religioni dell'India non conoscono in genere un'ortodossia, ma solo un'ortoprassi; di qui probabilmente questo concetto è passato alla teologia moderna. Ma in riferimento alle religioni dell'India esso aveva un senso ben preciso: si voleva dire per suo tramite che queste religioni non conoscono una concezione della fede che sia fondamentalmente vincolante e che l'aderirvi non è condizionato dall'accettazione di un Credo particolare. Queste religioni conoscono però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato necessario per la salvezza e distingue i "fedeli" dagli infedeli. Esso non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma dall'adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la vita. Ciò che l'ortoprassi significa, ciò che è dunque un "retto agire", viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti. Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola infatti l'elemento -dossia si riferisce a doxa, che non veniva certo inteso nel senso di "opinione" (la giusta opinione): per i Greci le opinioni sono sempre relative. Doxa era inteso invece nel senso di "gloria", "glorificazione". Essere ortodosso significa perciò conoscere e praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra l'Oriente e l'Occidente.
Ma torniamo all'adozione del termine ortoprassi nella teologia moderna. Qui non si è più pensato al fatto di seguire un rituale. La parola ha assunto un significato del tutto nuovo, che non ha nulla a che fare con le concezioni autentiche dell'India. Resta però una cosa: se l'esigenza di un'ortoprassi deve avere un suo significato e non serve solo a mascherare l'arbitrio, vi deve essere allora anche un'ortoprassi comune, riconosciuta da tutti, che va al di là di un semplice parlare dell'incentrarsi sull'Io e del relazionarsi ad un Tu. Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il termine "prassi" può essere adottato in senso etico o politico. L'ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un'etica chiaramente definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso nella discussione sull'etica di impronta relativista: non esisterebbe ciò che è bene in sé e ciò che è male in sé. Se si intende ortoprassi in senso politico-sociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba essere un retto agire politico. Le teologie della liberazione, le quali erano convinte che il marxismo ci dicesse chiaramente qual era la retta prassi politica, potevano usare il termine ortoprassi in modo corretto. In quest'ambito non esisteva ciò che non era vincolante, ma una forma di prassi corretta, valida per tutti, ossia una vera ortoprassi che si estendeva a tutta la società e ne escludeva coloro che rifiutavano il retto agire. In questo senso le teologie della liberazione di ispirazione marxista erano a loro modo logiche e coerenti. Come si può constatare, questa ortoprassi si fonda certamente su una qualche ortodossia (in senso moderno), ossia su un complesso di teorie vincolanti che definiscono la via che conduce alla libertà. Knitter resta vicino a questo assunto quando afferma che il criterio che permette di distinguere l'ortoprassi dalla pseudoprassi è la libertà (9). Ma egli deve ancora spiegarci in maniera persuasiva e pratica che cosa sia la libertà e che cosa porti alla reale liberazione dell'uomo: certo non è l'ortoprassi marxista, come abbiamo constatato. Una cosa però è chiara: le teorie relativiste sfociano necessariamente nell'arbitrio e si rendono perciò superflue, oppure emanano norme assolute che hanno valore nella pratica e creano degli assolutismi proprio là dove in realtà non possono avere alcuna consistenza. È certo comunque che oggi anche in Asia vengono divulgate palesemente delle idee fondate su una teologia della liberazione, le quali vengono presentate come forme di cristianesimo che si ritengono più aderenti allo spirito dell'Asia e che traspongono sul piano politico gli elementi essenziali dell'agire religioso. Quando il mistero viene a perdere di valore, è la politica che diventa religione. Ma proprio questo è profondamente contrario alla concezione della religione che è tipica dell'Asia.

Il New Age
Il relativismo di Hick, Knitter e teorie analoghe si fonda in ultima analisi su un razionalismo che, alla maniera di Kant, ritiene che la ragione non possa conoscere ciò che è metafisico (10); la rifondazione della religione segue una strada pragmatica che assume una tonalità più etica o più politica. Vi è però anche una reazione espressamente antirazionalista all'esperienza che "tutto è relativo", e che si riassume nell'etichetta polivalente del New Age (11). Qui la via di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo incontro di un Io con un Tu o con il Noi, ma nel superamento del soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica). Nello stesso tempo però, partendo da queste premesse, intende offrire un modello del tutto antirazionalista di religione, una moderna "mistica": l'assoluto non lo si può credere, ma sperimentare. Dio non è una persona che sta di fronte al mondo, ma l'energia spirituale che pervade il Tutto. Religione significa l'inserimento del mio Io nella totalità cosmica, il superamento di ogni divisione. K.-H. Menke descrive molto bene la svolta spirituale che ne deriva, quando afferma: "Il soggetto, che pretendeva sottomettere a sé ogni cosa, si trasfonde ora nel "Tutto"" (12). La ragione oggettivante, così ci avverte il New Age, ci sbarra la via che conduce al mistero della realtà; l'essere Io ci esclude dalla pienezza della realtà cosmica, sconvolge l'armonia del Tutto ed è la causa autentica del nostro irredentismo. La redenzione consiste nello svincolamento dell'Io, nell'immergersi nella pienezza della vita, nel ritorno nel Tutto. Si ricerca l'estasi, l'ebbrezza dell'infinito, che si può sperimentare nel suono della musica, nel ritmo, nell'eccitazione della luce e del buio, nella massa umana. Così facendo, non solo si capovolge la strada dell'epoca moderna al dominio assoluto del soggetto; al contrario l'uomo stesso, per essere liberato, deve sciogliersi nel "Tutto". Ritornano gli dei. Essi appaiono più credibili di Dio. Bisogna rinnovare i riti primordiali, con i quali l'Io viene iniziato ai misteri del Tutto e viene liberato da se stesso.
Questo rinnovarsi delle religioni e dei culti precristiani, che oggi viene praticato in molte maniere, trova diverse spiegazioni. Se non vi è una verità comune, che ha valore proprio perché è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato dall'esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso al pari di quello politico. Se nei sacramenti non si realizza un incontro di tutti gli uomini con l'unico Dio vivente, essi diventano dei riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o tutt'al più ci fanno percepire il numinoso che è presente in tutte le religioni. È più sensato cercare ciò che ci appartiene originariamente, piuttosto che lasciarci imporre ciò che è estraneo e antiquato. Ma soprattutto, se la "sobria ebbrezza" del mistero cristiano non ci può rendere ubriachi di Dio, bisogna allora evocare l'ebbrezza reale delle estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dèi almeno per un attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell'infinito e ci fa dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta l'inutilità degli assolutismi politici tanto più diventa forte l'attrattiva dell'irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano (13).

Il pragmatismo nella vita quotidiana della Chiesa
Oltre a queste soluzioni radicali e al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza alla fede e ai costumi e quindi di "democratizzare" decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da oggi? Una fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E una minoranza non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza. La fede e la sua pratica ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e l'esercizio dei sacramenti, altrimenti non esistono. Molti rinunciano a credere perché sembra loro che la fede possa essere definita da una qualche istanza burocratica, che sia cioè una specie di programma di partito, chi ne ha il potere può definire ciò che bisogna credere, e quindi tutto dipende dal fatto di giungere al potere nella Chiesa oppure, cosa più logica e più plausibile, non credere affatto.
L'altro punto, su cui voglio richiamare l'attenzione, riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica hanno fatto sorgere l'idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. Se c'è qualcosa che non si può cambiare questo riguarderebbe tutt'al più le parole della consacrazione, mentre tutto il resto lo si potrebbe fare anche diversamente. Ne deriva una conseguenza logica: se questo lo può fare un'autorità centrale, perché non anche le istituzioni locali? E se le istituzioni locali, perché allora non anche la stessa comunità? Essa dovrebbe infatti potersi esprimere e ritrovare se stessa nella liturgia. Dopo le tendenze razionaliste e puritane degli anni Settanta e anche degli anni Ottanta ci si è stancati oggi delle liturgie delle parole e si desidera una liturgia dell'esperienza, che si avvicina molto agli orientamenti del New Age: si ricerca ciò che è rumoroso ed estatico, non la "logikè latreia", la rationabilis oblatio (la liturgia secondo ragione, conforme al logos), di cui parla Paolo e con lui la liturgia romana (Rom 12, 1).
Certo, esagero un po'; quello che voglio sottolineare non si riferisce alla situazione normale delle nostre comunità. Ma queste tendenze sono comunque evidenti. Si richiede perciò una certa vigilanza, per non cadere in potere di un vangelo diverso da quello che il Signore ci ha donato, pietre invece di pane.

I compiti della teologia
Ci troviamo dunque, in sostanza, di fronte ad una strana situazione: la teologia della liberazione aveva tentato di dare al cristianesimo, stanco di dogmi, un nuovo assetto pratico, attraverso il quale la redenzione doveva diventare ancora una volta un evento. Ma questa pratica ha lasciato dietro di sé delle rovine, invece di instaurare la libertà. È rimasto quindi il relativismo e il tentativo di adeguarsi ad esso. Ma quello che ne è derivato è ancora una volta così vuoto, che le teorie relativiste cercano aiuto presso la teologia della liberazione per potere trovare attraverso di essa uno sbocco nella pratica. Il New Age giunge a dire: abbandoniamo l'avventura del cristianesimo, che è fallito, e torniamo invece agli dèi, perché lì si vive meglio. Ma sorgono allora diversi problemi. Accenniamo solo a quello più pratico: come mai la teologia classica si è mostrata così impreparata di fronte a questi eventi? Dove si trovano i punti deboli che l'hanno resa così inefficace?
Desidero solo rilevare due punti, che emergono dalle posizioni di Hick e Knitter. Questi ultimi si appellano all'esegesi per giustificare la loro distruzione della cristologia: l'esegesi avrebbe provato che Gesù non si è ritenuto il Figlio di Dio, il Dio incarnato, ma che solo in seguito i suoi seguaci lo avrebbero reso tale (14). Ambedue, anche se Hick in modo più chiaro rispetto a Knitter, si richiamano inoltre all'evidenza filosofica. Hick ci assicura che Kant avrebbe dimostrato inconfutabilmente che l'assoluto, o Colui che è l'assoluto, non può essere conosciuto nella storia e come tale non può trovarsi in essa (15). In base alla struttura della nostra conoscenza, secondo Kant, non può essere possibile quello che afferma la fede cristiana: i miracoli i misteri e i mezzi della grazia sono un illusione, così spiega Kant nella sua opera La religione entro i limiti della semplice ragione (16). Penso che il problema dell'esegesi e quello dei limiti e delle possibilità della nostra ragione, ossia delle premesse filosofiche della fede, costituiscano effettivamente il vero punto dolente dell'odierna teologia, per il quale la fede, e in misura crescente anche la fede dei semplici, entra in crisi.
Voglio solo tentare di delineare qui il compito che ne deriva per noi. Anzitutto, per quanto riguarda l'esegesi bisognerebbe dire in primo luogo che Hick e Knitter non possono certo appellarsi all'esegesi in modo globale, come tutto ciò sarebbe un risultato indiscutibile e riconosciuto da tutti gli esegeti. Ciò non è possibile nell'ambito della ricerca storica, che non conosce questo tipo di certezza. Ed è ancor meno possibile quando si tratta di un problema che non è puramente storico o letterario, ma implica delle decisioni su dei valori, le quali vanno al di là di una semplice ricostruzione del passato e di una pura interpretazione di un testo. È vero però che se si guarda all'esegesi moderna nel suo complesso si può ricavarne un'impressione che è simile a quella di Hick e Knitter.
Quale grado di certezza vi si può attribuire? Pur supponendo che la maggioranza degli esegeti pensi così (cosa che però resta da provare), rimane il problema di vedere su che cosa si fondi una tale opinione della maggioranza. La mia tesi è la seguente: se molti esegeti pensano come Hick e Knitter e ricostruiscono la storia di Gesù in modo simile, ciò è dovuto al fatto che condividono la loro filosofia. Non è l'esegesi che prova la filosofia, ma è la filosofia che produce l'esegesi (17). Se so a priori (parlando come Kant) che Gesù non può essere Dio, che i miracoli, i misteri e i mezzi della grazia sono tre forme di illusione, allora non posso neppure ricavare dai testi sacri un dato di fatto che tale non può essere. Posso solo cercare di vedere come si è giunti a simili affermazioni, come esse si sono formate gradualmente.
Ma vediamo le cose un po' più da vicino. Il metodo storico-critico è uno strumento eccellente per leggere le fonti storiche ed interpretare i testi. Ma esso racchiude anche una sua filosofia, alla quale in genere si dà poco peso per esempio quando si tratta di conoscere la storia degli imperatori medievali. Con esso infatti voglio conoscere il passato, e nulla più. Ma anche in questo caso non si può prescindere da un insieme di valori, e perciò in questo senso il metodo ha i suoi limiti. Se si prende in considerazione la Bibbia, subentrano inoltre due altri fattori. Il metodo intende conoscere il passato come passato. Vuole afferrare il più possibile ciò che è avvenuto nella sua fattualità, nel punto preciso in cui è accaduto. E ciò presuppone che la storia in linea di principio sia uniforme: l'uomo in tutta la sua varietà, il mondo in tutte le sue differenziazioni, è governato dalle medesime leggi e dai medesimi limiti per cui io sono in grado di escludere ciò che è impossibile. Quello che oggi non può accadere in nessun modo, non poteva accadere neppure ieri e non potrà accadere domani.
Se questo si applica alla Bibbia, viene a dire che un testo, un fatto, una persona resta fissato rigidamente nel suo passato. Si vuole ricavare ciò che l'autore ha detto allora o può aver detto in passato. Tutto dipende dalla "storicità", da "ciò che è accaduto allora". Perciò l'esegesi storico-critica non mi trasfonde la Bibbia nell'oggi, nella mia vita attuale. Questo resta escluso. Al contrario, essa la allontana da me e me la mostra ben ancorata nel passato. Questo è il punto su cui Drewermann ha giustamente criticato l'esegesi storico-critica, in quanto ritiene di essere autosufficiente. Per sua natura essa non parla dell'oggi, di me, ma di ciò che era ieri, di un'altra cosa. Perciò essa non può mai mostrarmi il Cristo di oggi, di domani e dell'eternità, ma soltanto, se vuole restare fedele a se stessa, del Cristo di ieri. Vi è poi il secondo presupposto, l'omogeneità del mondo e della storia, quello cioè che Bultmann chiama la moderna visione del mondo. M. Waldstein con un'approfondita analisi ha mostrato che la teoria della conoscenza di Bultmann è influenzata completamente dal neokantismo di Marburgo (18). Di qui egli ha tratto l'idea di ciò che può esserci o non esserci. Altri esegeti possono avere una coscienza filosofica meno chiara, ma i presupposti che derivano dalla teoria kantiana della conoscenza si fanno sentire ugualmente, anche se solo nel sottofondo, come una chiave ermeneutica spontanea che guida il cammino della critica. Stando così le cose, l'autorità ecclesiastica non può semplicemente imporre che si debba trovare nella Scrittura una cristologia della figliolanza divina. Essa tuttavia può e deve esortare a valutare criticamente la filosofia che soggiace al metodo che si adotta. Infine, con la rivelazione divina Egli, il Vivente e il Vero, irrompe in questo mondo e apre il carcere delle nostre teorie, con le cui sbarre tentiamo di difenderci contro questa venuta di Dio nella nostra vita. Per fortuna, nonostante la crisi della filosofia e della teologia, che stiamo vivendo, si è venuta affermando oggi nell'esegesi una nuova riflessione sui principi fondamentali, elaboratasi anche grazie ai dati emersi da un'accurata analisi storica dei testi (19). Esse ci aiutano a liberarci dal carcere di presupposti filosofici, di cui soffre l'esegesi: la parola ci si apre nuovamente in tutta la sua vastità.
Il problema dell'esegesi, come abbiamo visto, coincide ampiamente con il problema della filosofia. Le difficoltà della filosofia, ossia le difficoltà in cui si è dibattuta la ragione orientata in senso positivista, sono diventate le difficoltà della nostra fede. Quest'ultima non può divenire libera, se la ragione stessa non si apre nuovamente. Se rimane chiusa la porta della conoscenza metafisica, se restano invalicabili i confini posti da Kant alla conoscenza umana, la fede è destinata ad atrofizzarsi: le manca il respiro. Certo, il tentativo di volersi tirare fuori dalla palude dell'incertezza, per così dire prendendosi per i capelli, attraverso una ragione strettamente autonoma, che non vuole sapere nulla in fatto di fede, non può avere successo. La ragione umana infatti non è per nulla autonoma. Essa vive sempre in particolari contesti storici. Le contingenze le offuscano la vista (come possiamo constatare); perciò essa ha bisogno anche di venir soccorsa sul piano storico, per poter superare le barriere che le provengono dalla storia (20). Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Preambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da quest'ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche. Ma Barth sbagliava nel definire perciò stesso la fede come un semplice paradosso, che può sussistere solo contro la ragione e in totale indipendenza da essa. Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest'ultima, messa sulla buona strada dalla fede, possa vedere da sé. Dobbiamo sforzarci di ottenere un simile dialogo nuovo tra fede e filosofia perché esse hanno bisogno l'una dell'altra. La ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana.

Per concludere
Se si guarda all'attuale situazione religiosa, di cui ho cercato di presentare qualche elemento illustrativo, c'è addirittura da restare meravigliati che nonostante tutto si continui ancora a credere cristianamente, non solo nelle forme sostitutive di Hick, Knitter e altri, ma con la fede piena e gioiosa del Nuovo Testamento, della Chiesa di tutti i tempi. Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo. Nell'uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere. Il nostro compito è quello di servire a lui con animo umile, con tutta la forza del nostro cuore.



 -----------------------------------
NOTE
(1) Una panoramica sugli esponenti di maggior rilievo della teologia pluralista si trova in P. Schmidt-Leukel "Das Pluralistische Modell in der Theologie der Religionen. Ein Literaturbericht", in: Theologische Revue 89 (1993) 353-370. Per una critica: M. von Brück-J. Werbick, Der einzige Weg zum Heil? Die Herausforderung des christlichen Absolutheitsanspruchs durch pluralistische Religionstheologien (QD 143, Freiburg 1993), K.-H. Menke, Die Einzigkeit Jesu Christi im Horizont der Sinnfrage (Freiburg 1995), spec. 75-176. Menke offre un'eccellente introduzione alle posizioni di due rappresentanti principali di questa corrente: J. Hick e P.F. Knitter; me ne servo ampiamente per le riflessioni che seguono. Nella trattazione di questi problemi, nella seconda parte della sua opera, Menke offre degli spunti rilevanti e degni di considerazione, ma suscita anche qualche problema. Un interessante tentativo sistematico di affrontare la questione delle religioni in una prospettiva cristologica è quello di B. Stubenrauch, Dialogisches Dogma. Der christliche Auftrag zur interreligiosen Begegnung (QD 158, Freiburg 1995). Del problema della teologia pluralista delle religioni si occupa anche un documento della Commissione Teologica Internazionale in via di preparazione.
(2) Cfr in proposito l'istruttivo editoriale della Civiltà Cattolica, quaderno 1, 1996, pp. 107-120: "Il cristianesimo e le altre religioni". In esso si stabilisce un confronto serrato soprattutto con Hick, Knitter e P. Panikkar.
(3) Cfr per es. J. Hick, An Interpretation of Religion. Human Responses to Transcendent (London 1989); Menke, loc. cit. 90.
(4) Cfr E. Frauwallner, Geschichte der indischen Philosophie, 2 voll. (Salzburg 1953 e 1956); H. v. Glasenapp, Die Philosophie der Inder (Stuttgart 19854); S.N. Dasgupta, History of Indian Philosophy, 5 voll. (Cambridge 1922-1955), K.B. Ramakrishna Rao, Ontology of Advaita with special reference to Maya (Mulki 1964).
(5) Si muove decisamente in questa direzione F. Wilfred, Beyond settled foundations. The Journey of Indian Theology (Madras 1993); Id., "Some tentative reflections on the language of Christian uniqueness: An Indian Perspective", in: Pont. Cons. pro Dialogo inter Religiones. Pro Dialogo. Bulletin 85-86 (1994/1) 40-57.
(6) J. Hick, Evil and the Cod of Love (Norfolk 19754) 240s.; An Interpretation of Religion, 236-240; cfr Menke, loc. cit. 81s.
(7) L'opera principale di J. Knitter: No Other Name! A Critical Survey of Christian Attitudes towards the World Religions (New York 1985) è stata tradotta in molte lingue. Cfr in proposito Menke, loc. cit. 94-110. A. Kolping ne presenta un'accurata valutazione critica nella sua recensione in: Theologische Revue 87 (1991) 234-240.
(8) Cfr Menke, loc. cit. 95.
(9) Cfr Menke, 109.
(10) Knitter e Hick, nel rifiutare l'assoluto nella storia, si richiamano a Kant; cfr Menke 78 e 108.
(11) Il concetto di New Age, o era dell'Acquario, è stato coniato verso la metà del nostro secolo da Raul Le Cour (1937) e Alice Bailey (la quale affermò di aver ricevuto nel 1945 dei messaggi relativi ad un nuovo ordine universale e una nuova religione universale). Tra il 1960 e il 1970 è anche sorto in California l'istituto Esalen. Oggi l'esponente più famosa del New Age è Marilyn Ferguson. Michael Fuss ("New Age: Supermarkt alternativer Spiritualität", in: Communio 20, 1991, 148-157) vede nel New Age una combinazione di elementi giudeocristiani con il processo di secolarizzazione in cui confluiscono anche correnti gnostiche ed elementi delle religioni orientali. Un utile orientamento su questa tematica si trova nella lettera pastorale del Card. G. Danneels, tradotta in diverse lingue, Le Christ ou le Verseau (1990). Cfr anche Menke, loc. cit. 31-36; J. Le Bar (a cura di), Cults, Sects and the New Age (Huntington, Indiana, s.a.).
(12) Loc. cit. 33.
(13) Bisogna rilevare che si vanno configurando sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla materia e alla Madre Terra e nell'eco-femminismo si collega al femminismo.
(14) Le prove sono esposte in Menke, loc. cit. 90 e 97.
(15) Cfr nota 10.
(16) B 302.
(17) Questo si può constatare molto chiaramente nell'incontro fra A. Schlatter e A. von Harnack alla fine del secolo scorso, come è descritto accuratamente in base alle fonti in W. Neuer, Adolf Schlatter. Ein Leben fur Theologie und Kirche (Stuttgart 1996) 301ss. Ho cercato di esporre la mia opinione su questo problema nella "Quaestio disputata" da me curata: Schriftauslegung im Widerstreit (Freiburg 1989) 15-44. Cfr anche l'opera collettiva: I. de la Potterie, R. Guardini, J. Ratzinger, G. Colombo, E. Bianchi, L'esegesi cristiana oggi (Casale Monferrato 1991).
(18) M. Waldstein, "The foundations of Bultmann's work", in: Communio am. 1987, pp. 115-145.
(19) Cfr per es. il volume collettivo curato da C.E. Braaten e R. W. Jensson: Reclaiming the Bible for the Church (Cambridge, USA 1995), e in particolare il contributo di B.S. Childs, "On Reclaiming the Bible for Christian Theology", ibid. pp. 1-17.
(20) L'aver trascurato questo e l'aver voluto cercare un fondamento razionale della fede che fosse presumibilmente del tutto indipendente da essa (una posizione che non persuade per la sua pura razionalità astratta) è a mio avviso l'errore essenziale, sul piano filosofico, del tentativo compiuto da H.J. Verweyen, Gottes letztes Wort (Düsseldorf 1991), di cui parla Menke, loc. cit. 111-176, anche se quello che egli dice contiene molti elementi importanti e validi. Ritengo invece più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di J. Pieper (si veda la nuova edizione dei suoi libri: Schriften zum Philosophiebegriff, Hamburg Meiner 1995).
(12) Loc. cit. 33.
(13) Bisogna rilevare che si vanno configurando sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla materia e alla Madre Terra e nell'eco-femminismo si collega al femminismo.
(14) Le prove sono esposte in Menke, loc. cit. 90 e 97.
(15) Cfr nota 10.
(16) B 302.
(17) Questo si può constatare molto chiaramente nell'incontro fra A. Schlatter e A. von Harnack alla fine del secolo scorso, come è descritto accuratamente in base alle fonti in W. Neuer, Adolf Schlatter. Ein Leben fur Theologie und Kirche (Stuttgart 1996) 301ss. Ho cercato di esporre la mia opinione su questo problema nella "Quaestio disputata" da me curata: Schriftauslegung im Widerstreit (Freiburg 1989) 15-44. Cfr anche l'opera collettiva: I. de la Potterie, R. Guardini, J. Ratzinger, G. Colombo, E. Bianchi, L'esegesi cristiana oggi (Casale Monferrato 1991).
(18) M. Waldstein, "The foundations of Bultmann's work", in: Communio am. 1987, pp. 115-145.
(19) Cfr per es. il volume collettivo curato da C.E. Braaten e R. W. Jensson: Reclaiming the Bible for the Church (Cambridge, USA 1995), e in particolare il contributo di B.S. Childs, "On Reclaiming the Bible for Christian Theology", ibid. pp. 1-17.
(20) L'aver trascurato questo e l'aver voluto cercare un fondamento razionale della fede che fosse presumibilmente del tutto indipendente da essa (una posizione che non persuade per la sua pura razionalità astratta) è a mio avviso l'errore essenziale, sul piano filosofico, del tentativo compiuto da H.J. Verweyen, Gottes letztes Wort (Düsseldorf 1991), di cui parla Menke, loc. cit. 111-176, anche se quello che egli dice contiene molti elementi importanti e validi. Ritengo invece più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di J. Pieper (si veda la nuova edizione dei suoi libri: Schriften zum Philosophiebegriff, Hamburg Meiner 1995).
(da: L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)






Post più popolari negli ultimi 30 giorni