sabato 4 maggio 2019




Dalla Lettera agli artisti di Papa Wojtyla che reca la data del 4 aprile 1999, Pasqua di Resurrezione.



   Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all'alba della creazione, guardò all'opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l'opera del vostro estro, avvertendovi quasi l'eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.
Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio. In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell'essenza stessa sia dell'esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un'opera:  nell'uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).
Qual è la differenza tra "creatore" ed "artefice?" Chi crea dona l'essere stesso, trae qualcosa dal nulla - ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino - e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell'Onnipotente. L'artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell'uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l'uomo e la donna "a sua immagine" (cfr. Genesi, 1, 27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr. Genesi, 1, 28). Fu l'ultimo giorno della creazione (cfr. Genesi, 1, 28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell'evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l'universo. Al termine creò l'uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.
Dio ha, dunque, chiamato all'esistenza l'uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella "creazione artistica" l'uomo si rivela più che mai "immagine di Dio", e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda "materia" della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull'universo che lo circonda. L'Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all'artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l'infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il cardinale Nicolò Cusano:  "L'arte creativa, che l'anima ha la fortuna di ospitare, non s'identifica con quell'arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione".
Per questo l'artista, quanto più consapevole del suo "dono", tanto più è spinto a guardare a se stesso e all'intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l'espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita:  in un certo senso, egli deve farne un'opera d'arte, un capolavoro.
Nel modellare un'opera, l'artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell'umanità. L'artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell'arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d'espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l'artista parla e comunica con gli altri. La storia dell'arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d'arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l'originale contributo da essi offerto alla storia della cultura. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid:  "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere".
Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull'arte. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella. La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi:  kalokagathìa, ossia "bellezza-bontà". Platone scrive al riguardo:  "La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello".

https://www.ilcattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/la-potenza-del-bene-nascosta-nella-bellezza.html

domenica 28 aprile 2019

Fabrizio Bisconti, Crocifissione e Risurrezione nell'arte cristiana delle origini



Crocifissione e Risurrezione nell'arte cristiana delle origini

Il patibolo e la tomba vuota

di Fabrizio Bisconti

      La cultura figurativa paleocristiana, proverbialmente positiva e tesa a esprimere i risvolti soterici della passio Christi, non produce, nei primi secoli, un repertorio che si soffermi, se non con rare allusioni, sulle ultime tappe della vita terrena del Salvatore e anzi, non viene neppure affrontato, dal punto di vista iconografico, il tema del martirio ordinario, tanto che per venire a contatto con le prime immagini dei campioni della fede, dobbiamo attendere il momento della pace costantiniana.
     Se, infatti, possiamo considerare come un'eccezione singolare l'affresco del cimitero di Pretestato con una coronazione di spine, relativo alla prima metà del iii secolo, soltanto dagli anni centrali del secolo seguente appaiono alcuni sarcofagi cosiddetti di passione o dell'anàstasis, con l'arresto dei principi degli apostoli, del Cristo, il giudizio di Pilato e ancora la coronazione di spine, mentre un originale affresco della seconda metà del iv secolo, nell'ipogeo di via Dino Compagni, rappresenta i soldati romani che si giocano le vesti di Cristo e, di lì a qualche anno, nella celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, si fa ancora esplicito riferimento all'arresto del Salvatore e alla drammatica fine di Giuda Iscariota.
      Ma per incontrare la prima rappresentazione della crocifissione dobbiamo attendere i pontificati di Celestino i (422-432) e di Sisto iii (432-440), quando fu scolpita la porta lignea della monumentale basilica titolare di Santa Sabina, sull'Aventino. Nella splendida porta, miracolosamente giunta sino ai nostri giorni, seppure non in maniera integrale e provata da una serie infinita di restauri, si avvicendano episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, con l'intento di realizzare una sorta di concordia biblica, che trova il suo apex semantico in una formella, che vuole rappresentare il trionfo della Chiesa, raffigurata come una matrona orante fra i principi degli apostoli, in un contesto fortemente apocalittico.

     Il grande casellario ligneo prende proprio avvio da una formella, che rappresenta il momento drammatico della crocifissione, collocata contro una parete continua in opera isodoma, caratterizzata da tre timpani, che definiscono le silhouettes dei tre giustiziati, nudi, se si esclude l'esiguo subligaculum, che cinge loro i fianchi. Le tre figure del Cristo e dei ladroni sono proiettate in primo piano e mostrano un atteggiamento expansis manibus, senza che si intraveda il legno trasversale della croce, mentre soltanto i ladroni presentano le mani inchiodate. Il Cristo supera, per dimensioni, i due uomini posti ai lati di oltre un terzo, ha gli occhi spalancati, la barba e le chiome fluenti; il suo corpo, come quello dei due ladroni, è atletico e, nonostante la resa fortemente schiacciata del rilievo, rispetta i canoni della plastica classica romana.
      Questa redazione trionfale della crocifissione, nel senso che i giustiziati, con l'atteggiamento di orante, esprimono il trionfo della risurrezione, invece del dramma pietoso della morte violenta, rispetta coerentemente la tendenza della cultura figurativa romana, improntata a una visione positiva delle storie evangeliche, che è, comunque, infranta da una tavoletta eburnea del British Museum di Londra, riferibile proprio al 420-430 e prodotta da un atelier romano. Qui, l'evento del Golgota è rievocato nei momenti salienti della morte e della risurrezione del Cristo. Nella scena della crocifissione, Gesù è rappresentato nudo, issato e inchiodato alla croce - sebbene vivens - e l'iscrizione rex Iudeorum sormonta il patibolo, ai piedi del quale si dispongono i comprimari del dramma: Maria, Giovanni e Longino. Nel margine sinistro dell'avorio è rappresentata, in simultanea, la fine di Giuda Iscariota, appeso all'albero, con la borsa dei denari gettata a terra. La tavoletta eburnea è costituita da quattro formelle e, oltre alla scena di crocifissione, riporta rispettivamente un riquadro che concentra il giudizio di Pilato, il Cristo che porta la croce e la negazione di Pietro; un altro riquadro che rievoca l'incredulità di Tommaso; un ultimo pannello che raffigura il Santo Sepolcro; con la porta semiaperta, che lascia intravedere il sarcofago vuoto, le Marie e due soldati che dormono vicino all'edificio.
     La rappresentazione del Santo Sepolcro entra precocemente nel repertorio paleocristiano per tradurre in figura il racconto evangelico di Matteo (28, 1-8), Marco (16, 1-8) e Luca (24, 1-10) nell'ambito del contesto narrativo in cui si svolge la scena della visita delle pie donne, come succede nell'antico affresco del battistero della domus ecclesiae di Dura Europos, allestita nella prima metà del iii secolo, nella colonia romana situata in un'ansa dell'Eufrate, nell'attuale Siria. Qui, le figure femminili, munite di torce, passano attraverso una porta e giungono al sepolcro, che è rappresentato come una grande arca, fornita di un coperchio, che, ai lati, presenta due grandi stelle di luce, per alludere al mistero della risurrezione.
Dal momento costantiniano, il santo sepolcro viene raffigurato in maniera realistica e puntualmente aderente alla struttura che l'imperatore aveva fatto costruire, tra il 325 e il 336, sulla tomba di Cristo, isolando la roccia nella quale era scavata. Quest'ultimo elemento diventa il nucleo principale della grande basilica e viene caratterizzato da un'edicola, che suggerisce un edificio a pianta centrale, con un deambulatorio, delimitato da colonne, la cosiddetta Anàstasis, collegata, verso oriente, a un atrio che si allaccia a sua volta al martyrium, ossia a una monumentale basilica a cinque navate, cui si accedeva attraverso un'ampia scalinata e un portico trapezoidale. La restituzione architettonica del monumento, meticolosamente definita dal padre Virgilio C. Corbo dello Studium Biblicum Franciscanum, risponde perfettamente alle descrizioni di Eusebio di Cesarea (Vita Constantini, 3, 25-40), di Cirillo di Gerusalemme (Catechesi 14, 9) e della pellegrina Egeria (Peregrinatio Etheriae 24-35).
    Nell'arte paleocristiana viene rappresentata spesso la Rotonda dell'Anàstasis, anche se in maniera assai sintetica, a cominciare da un gruppo di sarcofagi provenzali del tardo iv secolo, ma trova le sue manifestazioni più particolareggiate in alcuni avori, tra i quali emerge il cosiddetto dittico Trivulzio, conservato al Castello Sforzesco di Milano e datato agli esordi del v secolo.
     L'unica valva superstite è suddivisa in due pannelli: nel quadro superiore è proprio rappresentato il Santo Sepolcro, come una struttura circolare finestrata e sormontata dai simboli degli evangelisti Matteo (l'angelo) e Luca (il toro), mentre due soldati romani, in primo piano, sono addormentati; nel registro inferiore l'angelo nimbato è seduto su una roccia, mentre annuncia alle due Marie la risurrezione di Cristo. Quest'ultima scena si svolge dinanzi alla porta semiaperta del sepolcro, i cui battenti sono decorati con formelle che riproducono tre episodi evangelici, ovvero la risurrezione di Lazzaro, la chiamata di Zaccheo e la guarigione dell'emorroissa.
   Il nostro itinerario attraverso le testimonianze iconografiche relative alle prime rappresentazioni della crocifissione e della risurrezione si può chiudere analizzando le decorazione delle fiaschette metalliche per pellegrini, conservate a Monza, offerte, secondo la tradizione, da Papa Gregorio Magno a Teodolinda, regina longobarda di professione cattolica romana, che si datano tra la metà del vi secolo e gli esordi del vii. Queste ampolle contenevano gli olii delle lampade che ardevano nei santuari dei luoghi santi e rappresentano, a stampo, i simboli degli episodi che hanno ispirato la costruzione di tali complessi monumentali. Così, in alcune di queste ampolle, vengono raffigurate simultaneamente l'anàstasis, ovvero l'annuncio dell'angelo alle donne giunte al sepolcro reso nelle forme dell'edicola costantiniana e la crocifissione, con la croce a tronco di palma, sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci. Nella sommità della croce appare il Cristo barbato, con lunghi capelli e nimbo crucigero, affiancato dai simboli del sole e della luna, per sottolineare l'atmosfera epocale che avvolge l'episodio. Ai lati della croce, sono inginocchiati due personaggi devoti che tendono le braccia verso il simbolo centrale, mentre, a destra e a sinistra, secondo la sceneggiatura della crocifissione, si dispongono i due ladroni, seminudi e appesi al loro patibolo, e, alle estremità, si riconoscono Maria e Giovanni.
    Queste rappresentazioni dimostrano come, nelle più antiche raffigurazioni della passione e della risurrezione, il concetto del dramma evocato dal patibulum è eliso dalla natura stessa della croce, che si identifica con l'albero della vita, in perfetta sintonia con la concezione trionfale che vede nell'episodio cruento della crocifissione l'antefatto e la prefigurazione della risurrezione del Cristo, evocata da quel sepolcro vuoto verso cui corrono le Marie per incontrare l'angelo che proclama il termine della storia terrena dell'Uomo, chiudendo un cerchio che si apre e che si conclude con l'annuncio dell'angelo.

(©L'Osservatore Romano - 6-7 aprile 2009)

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