giovedì 19 dicembre 2019

Paolo VI e l’arte



Paolo VI e l’arte nei ricordi di Barbara Jatta

     Un rapporto fecondo e sincero con il mondo dell’arte. Paolo VI era anche questo, come testimonia la Collezione di Arte Religiosa Moderna nei Musei Vaticani istituita nel 1973. 
     Perché Paolo VI viene considerato il Papa degli artisti? Cerchiamo di rispondere a questa domanda nell’ultima puntata del nostro WebDoc che termina nel segno della bellezza. Insieme al direttore dei Musei Vaticani Barbara Jatta ci concentriamo sull’istituzione della cosiddetta ‘Carm’, la Collezione d’Arte Religiosa Moderna. Un salto che ci porta al 23 giugno 1973, data dell’inaugurazione, quando Montini tenne un discorso davvero denso di spunti.

Artista profeta e poeta
      Nell’occasione, presso la Cappella Sistina, Paolo VI definì l’artista “profeta e poeta, a suo modo, dell’uomo d’oggi, della sua mentalità, della società moderna”. E come nelle puntate precedenti, è altamente suggestivo l’ascolto dell’audio originale del Papa tratto dagli archivi della Santa Sede. Il direttore dei Musei Vaticani ci ha spiegato che la Collezione è frutto di una raccolta di opere che Paolo VI fece personalmente durante i primi 10 anni del suo pontificato grazie a donazioni di celebri artisti e collezionisti.

   L’apertura all’arte contemporanea

   “Testimoniare la religiosità e i valori spirituali della fede cattolica”. È questo – precisa Jatta – il filo comune della Collezione che raccoglie diverse forme espressive e artisti di differenti nazionalità. “Non è vero - affermò Montini nel suo discorso - che i criteri direttivi dell’arte contemporanea siano segnati soltanto dall’impronta della follia, della passionalità, dell’astrattismo puramente cerebrale e arbitrario”. Per il direttore dei Musei Vaticani, Paolo VI è “un pontefice che solo adesso viene capito per la sua modernità e la sua profondità culturale”.

   Lo stupore dei visitatori

   Paolo VI dunque accolse volentieri gli esiti creativi di importanti artisti contemporanei mettendo fine alle lacerazioni del passato nel rapporto fra Chiesa e arti figurative. “Codesta Arte – disse il pontefice - è documento che non solo ci interessa, ma ci obbliga a conoscerla”. Ciò che ne deriva – aggiunge Jatta – è uno straordinario dialogo con la modernità. E alla direzione dei Musei Vaticani giungono costantemente messaggi di stupore da parte di visitatori che scelgono di raggiungere la Cappella Sistina passando appunto dall’appartamento Borgia dove ha sede la Carm.

 https://www.avvenire.it/multimedia/pagine/paolo-vi-il-papa-degli-artisti

mercoledì 18 dicembre 2019

Gianfranco Ravasi, San Giovanni Evangelista

   

Cardinale Gianfranco Ravasi

San Giovanni Evangelista

    Dell’apostolo Giovanni (nome ebraico che significa “Il Signore dona la sua grazia”) è nota nei Vangeli la famiglia: suo padre era Zebedeo, suo fratello l’apostolo Giacomo; di professione era pescatore, o forse membro di una società familiare di pesca a cui probabilmente collaboravano anche altri due fratelli, gli apostoli Simone Pietro e Andrea. La sua vocazione era appunto avvenuta nell’ambiente di lavoro e da quel momento Giovanni era stato cooptato da Gesù nel gruppo ristretto dei tre testimoni privilegiati comprendente anche Pietro e Giacomo. Sono loro ad assistere in esclusiva alla risurrezione della figlia di Giairo, alla trasfigurazione, alla preghiera del Getsemani.
Cristo imporrà anche un soprannome ai due fratelli, Giovanni e Giacomo, Boanerghes, “figli del tuono”, di solito collegato al loro carattere veemente ma forse da considerare in senso positivo, essendo il tuono nella Bibbia simbolo della voce potente di Dio: essi, allora, avrebbero il compito di attestare con forza e autorità la parola divina. Giovanni riappare negli Atti degli Apostoli, spesso in connessione con Pietro, e con la missione di evangelizzatore. Paolo lo colloca, invece, tra le “colonne” della Chiesa madre di Gerusalemme, insieme con Pietro e Giacomo “fratello del Signore”. In sintesi possiamo dire che Giovanni costituisce una delle figure di più alto spicco all’interno del collegio apostolico dei Dodici.
Una considerazione a parte merita la figura misteriosa del “discepolo che Gesù amava”: essa entra in scena nel quarto Vangelo solo alla fine, quando sta per compiersi l’“ora” della passione, morte e glorificazione pasquale di Cristo. È convinzione tradizionale che sia un autoritratto dello stesso apostolo Giovanni. C’è, però, una difficoltà: questo “discepolo amato”, chiamato anche “l’altro discepolo” (rispetto a Pietro), stando allo stesso racconto evangelico, “era noto al sommo sacerdote”. Come era possibile che questo accadesse a un pescatore della Galilea, seppure partecipe di un’azienda ittica propria? Tuttavia altri tentativi di identificazione risultano sostanzialmente impraticabili. Per questo si è ancora fermi alla linea tradizionale che cerca di sovrapporre il volto di Giovanni a quello del “discepolo amato” che “aveva riposato sul petto di Gesù”. Forse si potrebbe immaginare una puntualizzazione ulteriore facendo riferimento alla complessa storia della redazione del quarto Vangelo.
   Soffermiamoci, allora, su questo scritto assegnato a Giovanni e contrassegnato dal simbolo dell’aquila, sulla base dell’attribuzione tradizionale ai quattro evangelisti dei quattro esseri viventi dell’Apocalisse. Composto di 15.416 parole greche e di 879 versetti (il terzo per lunghezza dopo Luca e Matteo), questo Vangelo si caratterizza per un linguaggio teologico molto raffinato, tanto da aver meritato la definizione di “Vangelo spirituale”. Si usano, infatti, nelle sue pagine, termini con accezioni specifiche. Così, “verità” è la rivelazione che Cristo offre; “segni” e “opere” sono i miracoli (e il quarto evangelista ne seleziona sette molto originali ed emblematici); l’“ora” per eccellenza è, come si è detto, la morte e la risurrezione di Cristo, definite anche come “esaltazione” e “glorificazione”. Fitto è pure il vocabolario processuale usato per descrivere lo scontro tra Cristo e il male: “testimonianza, giustizia, giudizio, Paraclito (cioè difensore)” e così via. Termini cari a Giovanni sono anche “amore, amare, conoscere, vita, mondo, dimorare-rimanere, luce, Io sono (titolo divino biblico attribuito a Cristo)”. Sembra, quindi, che questa opera sia frutto di un’elaborazione accurata, posteriore a quella degli altri Vangeli, da collocare sullo scorcio del I secolo, forse nell’area dell’Asia Minore, dove appunto erano fiorite comunità che si riferivano alla predicazione dell’apostolo Giovanni.
    Gli studiosi hanno cercato di approfondire la genesi dello scritto, proponendo ricostruzioni molto complesse. Certo è che alla base del quarto Vangelo si ha la testimonianza dell’apostolo stesso che aveva condiviso la vita pubblica di Gesù da un angolo di visuale privilegiato. È lui a dare il via, attraverso le sue parole, a uno scritto che forse ebbe l’aiuto di un redattore qualificato che compose il Vangelo sulla base di quella testimonianza orale, ma anche con la sua esperienza, la sua preparazione spirituale e culturale, la sua abilità letteraria. Per alcuni studiosi potrebbe essere costui il “discepolo amato”, associato a Giovanni. Comunque stiano le cose, è indubbio che il quarto Vangelo rivela un’opera di formazione progressiva, tant’è vero che ci incontriamo con due finali diversi, segno almeno di un’ulteriore “riedizione”. L’insieme, però, del Vangelo rivela una sua compattezza e un’identità teologica ben netta. Per questo, esso fu particolarmente amato dalla tradizione che esaltava i grandiosi discorsi di Gesù contenuti in quelle pagine; i miracoli, “segni” del mistero profondo di Cristo; la grandiosa narrazione della Passione che vede la croce come il trono della gloria del Redentore; l’indimenticabile e stupendo prologo dove si celebra l’Incarnazione del Verbo; gli incontri di Gesù con personaggi che rappresentano altrettanti modelli di vita, come Nicodemo o la Samaritana; il tema reiterato dell’amore e così via.
Non per nulla un grande scrittore cristiano del III secolo, Origene, affermava: “Il fiore di tutta la Sacra Scrittura è il Vangelo e il fiore del Vangelo è il Vangelo trasmesso a noi da Giovanni, il cui senso profondo e riposto nessuno potrà mai pienamente cogliere”. Proprio perché Giovanni, l’apostolo, fu considerato alla sorgente di una tradizione ecclesiale, pastorale e teologica, a lui vengono ricondotte anche altre opere del Nuovo Testamento. Da un lato, ci sono le tre Lettere di Giovanni (la prima è, in realtà, uno splendido trattato sulla fede e sull’amore, mentre le altre due sono una sorta di brevi biglietti); d’altro lato, ecco quel capolavoro che è l’Apocalisse, la quale però riflette caratteristiche proprie che la rendono autonoma.
    Ma attorno a Giovanni è fiorita anche una tradizione popolare molto vivace che si è basata su testi apocrifi e su vere e proprie leggende. Secondo queste memorie Giovanni, durante la persecuzione di Domiziano, sarebbe stato condotto da Efeso a Roma ove, a Porta Latina, sarebbe stato immerso in una caldaia di olio bollente, da cui uscì illeso. Sarebbe stato allora relegato nell’isola-prigione di Patmos nell’Egeo, ove avrebbe scritto l’Apocalisse. Da lì, trasferito a Efeso, avrebbe convertito un filosofo e, costretto dagli orefici di quella città – i quali producevano ex voto per la dea Artemide – a bere una coppa di veleno, con un segno di croce l’avrebbe purificata facendone uscire una serpe. A lui verranno attribuite risurrezioni di morti, miracoli e discorsi e la sua figura entrerà trionfalmente nella storia della teologia e della pietà popolare, esaltato come “vergine” e “teologo”. Una lunga sequenza iconografica lo accompagnerà nei secoli: mentre l’Oriente lo rappresenta anziano, calvo e barbuto, l’Occidente medievale lo preferisce giovane e imberbe. Il suo Vangelo rimarrà, comunque, la stella polare della sua presenza nella storia della cristianità che lo festeggerà il 27 dicembre, in connessione col Natale da lui esaltato nella meditazione sull’Incarnazione che affiora nelle sue pagine. Il patriarca greco-ortodosso Atenagora dichiarava: “Giovanni è all’origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni, e il loro cuore s’infiamma”.
Gianfranco Ravasi

https://www.ariberti.it/irc/irc-testi/ravasi-gianfranco-san-giovanni-evangelista.html

martedì 17 dicembre 2019

ANNUNCIO DI NATALE: Dio cerca una tenda ! , di don Claudio Traverso




ANNUNCIO DI NATALE: Dio cerca una tenda !
 

di don Claudio Traverso


Cristo viene per aiutarci a vivere e crescere in meglio, perché il mondo cresca in meglio, per questo viene ogni anno. Ogni anno viene e cerca una tenda dove restare. Stringiamoci un po’ per fargli posto nella nostra tenda.
La prima condizione per poter vivere questo momento speciale è la coscienza di essere creature. Significa essere coscienti di non essere noi la fonte della verità, la ragione del bene, di non essere noi la vita che pure viviamo.
Significa avere esperienza che tutto ciò che siamo è dono, è offerta accolta: noi siamo perché siamo sostenuti…
Eppure ci illudiamo sempre: la tentazione dell’autonomia, dell’orgoglio, dei soldi, del potere…
C’è una dignità nel nostro essere creature: non è solo riconoscere la nostra povertà, la nostra insufficienza… ma è anche riconoscere la grandezza della chiamata; l’essere certi che non siamo ancora quello che dovremmo essere, ma che tutto questo è possibile perché un Amore ci avvolge, perché una Parola ci chiama, perché un messaggio vitale ci sostiene costantemente.
Se Dio viene attraverso le creature “devo” incontrare le creature ! Devo vivere la storia, ma con la coscienza che non è il posto, il potere, che non sono le cose, che non è il mio lavoro che porta la vita…
Arriviamo a comprendere che, anche attraverso le cose e le persone, solo Dio è il Vivente, solo Lui è la Verità, solo Lui è il Bene.
Abbiamo bisogno di andare oltre le apparenze. Invece ci fermiamo spesso ai messaggi superficiali. Eppure è importante entrare in sintonia profonda con la realtà, per non essere solo coloro che ripetono l’annuncio di salvezza: il cristiano è colui che “diventa annuncio”, per essere davvero apostoli, testimoni.
Se non prende corpo in qualcuno, cioè se non si fa carne, la Parola oggi non viene annunciata, il lieto messaggio non diventa vita. Per questo Gesù ha mandato degli apostoli, cioè degli uomini vivi, che sapessero cogliere il senso profondo della realtà e delle situazioni, e “con la loro vita” l’annunciassero.
Così il luogo della preghiera e dell’ascolto non è tanto il tempio, ma l’uomo ! Il luogo dove risuona la voce è il cuore dell’uomo !
Dio viene quando c’è qualcuno capace, vivendo, di vibrare così alla sua Parola, da diventare, in quel luogo, in quel tempo, la sua venuta !
Felice Natale di cuore !
                                                                                    Don Claudio


lunedì 16 dicembre 2019

Gianfranco Ravasi, La donna vestita di sole




La donna vestita di sole
Gianfranco Ravasi


    La solennità dell’Assunzione di Maria dà occasione di presentare il misterioso personaggio della donna «vestita di sole» che compare al capitolo 12 dell’Apocalisse: "Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle…». L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello dell’enorme drago rosso con sette teste e dieci corna e alle teste sette diademi», ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
   Avremo occasione di ritornare altre volte sull’Apocalisse, un libro di grande fascino ma vittima di molti equivoci nella sua corretta interpretazione.Ora fissiamo il nostro sguardo su quella tavola pittorica quale sembra essere la raffigurazione della donna ammantata della luce del sole come lo è Dio nel Salmo 104,2. Una tavola letteraria che è diventata infinite volte dipinto nella storia dell’arte. Di fronte all’immagine mirabile della donna fasciata di luce, sospesa sulla luna, coronata da una costellazione di dodici astri, allusione alle tribù d’Israele e agli apostoli, potremmo domandarci come si fa nel Cantico dei Cantici davanti a una figura simile: «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, splendente come il sole?» (6,10).
  Numerose sono le risposte date nei secoli dai lettori dell’Apocalisse.
La più comune in ambito cristiano tradizionale è quella che identifica nella donna Maria che genera il Cristo. Il primo a proporla fu sant’Epifanio, vescovo di Salamina nell’isola di Cipro, ma nato nei pressi di Gaza in Palestina attorno al 315. Petrarca inizia così una sua famosa canzone alla Vergine: «Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle, al sommo Sole / piacesti sì che ‘n te sua luce ascose…». E Savonarola in un sonetto a Maria cantava: «Salve, Regina, virgo gloriosa, ne la cui fronte e! Sol soa luce prende…». E così via in centinaia e centinaia di testimonianze della letteratura cristiana, dell’arte, della liturgia e della pietà popolare d’Occidente e d’Oriente, fino appunto alla liturgia dell’Assunzione.
In realtà il pensiero di Giovanni - che, tra l’altro, più avanti ci presenterà due altre donne, simboli di altrettante città, la Prostituta Babilonia e la Sposa Gerusalemme - è probabilmente orientato in altra direzione.
Alcuni ipotizzano che si tratti di una personificazione di Gerusalemme o della Sapienza divina oppure di Eva, la prima madre, dalla quale deriva l’intera umanità a cui è promessa la salvezza (vedi Genesi 3,15). Ma è più corretto pensare che in questa donna, per l’autore dell’Apocalisse, si intreccino due figure: da un lato, l’Israele fedele, sposa di Dio (Osea 2; Isaia 54), dalla quale proviene Gesù Messia; d’altro lato, la Chiesa che lotta per mantenersi fedele a Dio che la libera del Male: al suo interno Cristo nasce continuamente attraverso la parola evangelica e l’eucaristia. È appunto per questo che essa è raffigurata come incinta e pronta a generare un figlio contro il quale si scatenerà la violenza del drago color rosso sangue.

IL MONDO ASPETTA LA VISITA DI MARIA
     Dalla Gerusalemme ebraica moderna una strada conduce a un sobborgo immerso in un panorama dolce e fresco. Il suo nome è Am Karim, che significa “sorgente della vigna”. Da una fonte un viottolo ci porta a un santuario francescano, eretto nel 1939 su vestigia di edifici precedenti bizantini e crociati. Il nome di questo santuario evoca un episodio evangelico, la Visitazione della Vergine Maria a Elisabetta (Luca 1,39-45).
Eravamo già stati in pellegrinaggio ideale a questo luogo quando abbiamo presentato una pagina bella dei Vangeli, il Magnflcat che risuona, proprio in occasione di quella visita, sulle labbra di Maria. Siamo ritornati qui a parlare ora di altre parole “belle”: è la “benedizione” che Elisabetta pronunzia vedendo apparire davanti a sé la parente di Galilea, Maria. Incinta di Giovanni Battista, essa proclama: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!» (1,42).
Ebbene, come tutti sanno, queste parole sono state intrecciate con quelle pronunziate dall’angelo Gabriele nell’annunciazione di Maria, un episodio narrato anch’esso da Luca: «Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te» (1,28). L’intreccio ha dato origine al nucleo fondamentale della più celebre preghiera mariana, l’Ave Maria. Abbiamo voluto evocarla dopo aver puntato nelle scorse settimane la nostra attenzione alla preghiera cristiana per eccellenza, il Padre nostro. La seconda parte dell’Ave Marta - che in questo mese dedicato dalla devozione popolare al Rosario ha un significato particolare - è invece attribuita al papa Celestino I, che in occasione del Concilio di Efeso (431) difese la divina maternità di Maria contro Nestorio.
La preghiera fu definitivamente fissata nella forma che noi oggi usiamo nel XVI secolo da san Pio V, e da allora ebbe infinite trascrizioni musicali: Tomas da Victoria, Schubert, Gounod, Bruckner, Liszt (ne compose sei!), Verdi (tre, delle quali la più celebre è intonata da Desdemona nell’ultimo atto dell’Otello), Kodaly, il cantante francese Georges Brassens, Claude Ballif (Chapelet, cioè “rosario”) e così via elencando. Anche un poeta ateo come Louis Aragon nella sua opera Museo Grévin faceva ripetere l’Ave Maria ai prigionieri di Auschwitz. E tutta la storia di Maria, da quell’inizio sorprendente nella sua modesta casa di Nazaret, è stata trascritta in modo “laico” e per molti versi “scandaloso” dal film Je vous salue Maria dijean-Luc Godard (1985).
Noi, invece, sostiamo davanti alla scena dell’Annunciazione, immortalata dal Beato Angelico nell’affresco del convento di S. Marco a Firenze, con le parole di san Bernardo: «L’angelo aspetta la tua risposta, Maria! Stiamo aspettando anche noi, Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano!».

RALLEGRATI, MARIA!
    Aveva un volto bellissimo, un profilo ideale per interpretare il fra Cristoforo dei Promessi sposi: ho conosciuto a Gerusalemme padre Bellarmino Bagatti, francescano e archeologo. Fu lui a isolare all’interno di una modesta casa di Nazaret del I-Il secolo un graffito che recava le lettere greche XE MAPIA, cioè “Ave Maria”, Rallegrati Maria, le parole che l’angelo Gabriele rivolge alla futura madre di Gesù nel racconto dell’annunciazione secondo Luca (1,26-38).
     Modellata sui racconti biblici degli annunzi di nascita di personaggi importanti come Sansone o il re-Emmanuele (Isaia 7,10-17), questa pagina evangelica dolce e intensa ha al centro una vera e propria professione di fede cristologica: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce, Io chiamerai Gesù. Sarà grande e sarà chiamato figlio dell’Altissimo. Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine… Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell’Altissimo stenderà su te la sua ombra; colui che nascerà da te sarà santo e chiamato Figlio di Dio» (1,32-35).
Noi tutti abbiamo in mente la scena dell’annunciazione con i colori teneri ed estatici del Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze. Nell’ultimo dei suoi Canti spirituali il grande poeta tedesco Novalis (1772-1801) confessava però una sensazione che era di tutti: «In mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta. / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima».
     È per questo che si sono moltiplicate non solo le Annunciazioni pittoriche, ma anche quelle letterarie (ad esempio, L’annuncio a Maria di Paul Claudel, 1912) e musicali (L’Angelo a Maria di Mussorgskij e Cajkovskij, 1887).
   Il saluto dell’angelo ha generato l’Ave Maria, la preghiera mariana più popolare, ininterrottamente ripetuta nella forma che fu codificata definitivamente, così come oggi è recitata, da papa Pio V nel ‘500, preghiera musicata infinite volte.
    Una preghiera deformata in quella terribile e disperata ripresa dello scrittore americano Hemingway: «Ave, Nulla, pieno di nulla, il nulla sia con te!». Ma alla sostanza teologica che sta nel cuore di questa invocazione sono state dedicate tante riflessioni. Ne scegliamo due molto lontane tra loro, eppure entrambe suggestive.
San Bernardo nel XII secolo si rivolgeva così a Maria: «L’angelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, o Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano!».
L’altra testimonianza è del filosofo tedesco Johann G. Fichte che nel 1786 esclamava:
«Ci sembra poco che fra tutti i milioni di donne della terra soltanto Maria fosse l’unica eletta che doveva partorire l’Uomo-Dio Gesù? Ci sembra poco l’esser madre di Colui grazie al quale l’uomo sarebbe divenuto un’immagine della divinità e l’erede di tutte le sue beatitudini?».

ANNA LA STERILE CONCEPISCE MARIA

    Nell’antico santuario di Silo la folla si sta accalcando per una festa, forse quella autunnale delle Capanne, la solennità della vendemmia. Il sacerdote-capo, Eli, controlla che tutto si svolga con compostezza.
All’improvviso nota una donna che, in disparte, prega muovendo le labbra ma senza emettere voce, come è prescritto per la preghiera pubblica. La sua reazione è dura: egli sospetta che la festa dell’uva abbia avuto qualche conseguenza e apostrofa la donna con asprezza.
Le dice: “Fino a quando rimarrai ubriaca? Liberati dal vino che hai bevuto!”.
      Ma quella donna, profondamente infelice, gli replica: “No, io sono solo una donna affranta e non ho bevuto vino né altra bevanda inebriante, ma sto solo sfogandomi davanti al Signore!”. Protagonista di questo piccolo dramma, che si svolge nell’XI secolo a.C., è Anna, un nome che in ebraico evoca il chinarsi amoroso e “grazioso” di Dio sulla sua creatura.
   A prima vista questo nome sembra essere smentito dalla storia di chi lo porta: Anna è la moglie sterile di Elkana, un uomo delle montagne centrali della Terrasanta. In Oriente la donna sterile era considerata un ramo secco e inutile ed èper questo che il dolore di Anna è così intenso, anche se suo marito non le fa pesare questa sua situazione.
   Abbiamo introdotto Anna nella nostra galleria di personaggi biblici perché la liturgia di questa domenica è dominata proprio dal tema della preghiera. E Anna è una sorta di simbolo dell’orante, tant’è vero che a lei dobbiamo anche uno splendido cantico che è citato nel capitolo 2 del secondo Libro di Samuele. Sì, perché alla fine Dio si chinerà su questa sua fedele e le donerà la grazia di un figlio, compiendo in tal modo il significato del nome “Anna”. L’inno di ringraziamento intonato dalla donna è, in realtà, un salmo autonomo di taglio regale-messianico (in finale si esalta il re e il Messia).
   Tuttavia ben s’adatta alla situazione di Anna il cui grembo sterile, simile a una tomba, è fatto germogliare di vita: “La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire” (versetti 5-6).
    Ma c’è di più. Questo cantico è stato definito il Magnifìcat dell’Antico Testamento non solo per il suo avvio che lo rende simile al ben noto inno di Maria (il mio cuore esulta nel Signore…”), ma anche perché la madre di Gesù modellerà la sua preghiera di lode proprio su questo canto antico. Si legga, perciò, subito dopo il salmo di Anna, il Magnifìcat di Maria (Luca 1,45-55).
    Forse è anche per questo che la tradizione cristiana ha attribuito alla madre di Maria il nome di Anna (che festeggeremo il prossimo 26 luglio). Il figlio della prima Anna sarà il grande profeta e sacerdote Samuele e il nome “Anna” sarà portato dalla moglie di Tobia e da una vedova di 84 anni che nel tempio di Gerusalemme accoglierà il neonato Gesù (Luca 2,36-38).
    Diverrà anche un nome maschile perché in pratica Anna è in ebraico il diminutivo di “Giovanni” e “Anania”. Così, si chiamerà Anna il sommo sacerdote coinvolto nel processo di Gesù, anche se non più in carica (Giovanni 18,12-24).

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