sabato 7 dicembre 2019

OMELIA DI PAOLO VI, Solennità dell'Immacolata Concezione




I ANNIVERSARIO DELLA CHIUSURA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

OMELIA DI PAOLO VI

Solennità dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Giovedì, 8 dicembre 1966
 
Quanti pensieri affollano il Nostro spirito in questa festa dolcissima di Maria Immacolata, nel primo anniversario della conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, in questa Basilica, che ne ospitò la celebrazione sulla tomba dell’Apostolo Pietro, posto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, presenti, oggi, le schiere delle Religiose di Roma, quasi per tradurre qua in immagine di spirituale bellezza e di biblica reminiscenza quel Popolo di Dio, che il Concilio descrisse e cantò, e che noi non vanamente aspiriamo ad essere, mentre il ricordo del mondo, in cui siamo, della storia, che stiamo vivendo, dinamica, formidabile, tremenda, non mai ci abbandona!
NEGLI SPLENDORI DI MARIA IMMACOLATA
L’INNO ALLA «MATER ECCLESIAE»
Quanti pensieri! Ci basti metterli in fila, e presentarli semplicemente alla vostra considerazione, che saprà prolungarli in meditazione, oltre quest’ora benedetta, per l’avvenire, per la vita.
Diciamo dunque che oggi la nostra pietà onora il mistero della Immacolata Concezione di Maria: il mistero del privilegio, il mistero dell’unicità, il mistero della perfezione di Maria Santissima. Maria, la sola creatura umana, che per divino disegno (quanta sapienza, quanto amore esso contiene!), in virtù dei meriti di Cristo, unica sorgente della nostra salvezza, fu preservata da ogni imperfezione, da ogni contagio della colpa originale, da ogni deformazione del modello primigenio dell’umanità; la sola perciò in cui l’idea creatrice di Dio si rispecchia fedelmente ed in cui la definizione intatta ed autentica dell’uomo si realizza: immagine di Dio! Luce, intelligenza, dolcezza, profondità d’amore, bellezza, in una parola, sono sul volto candido e innocente della Madonna, che noi onoriamo: Tota pulchra es, Maria! Basterebbe questo pensiero per inebriare i nostri spiriti, che tanto più sono avidi di umana bellezza, quanto più falsa, più impudica, più deforme, più dolente, la sembianza umana ci è oggi presentata nella molteplice e quasi ossessionante visione dell’arte figurativa. Si fermi a questo pensiero chi vuole, per restaurare la scienza della bellezza e per scoprirne i suoi trascendenti rapporti, e per il gaudio interiore e per il costume esteriore ritrovi in Maria la più alta, la più vera, la più tipica figura dell’estetica spirituale umana.
Per noi ora è sufficiente ristorare a questa fontana purissima la nostra sete di umanità buona e bella ad un tempo, di umanità, in cui la grazia opera il suo prodigio rigeneratore, di umanità cristiana, in una parola. E siamo al Nostro secondo pensiero, quello che ci richiama all’anniversario del Concilio, che di questa economia della salvezza fu grande discorso, quasi un poema.
BRILLA IL CONCILIO
FRA I GRANDI AVVENIMENTI DEL CRISTIANESIMO
Ad un anno di distanza noi cominciamo a meglio comprenderne l’enorme importanza; esso si iscrive fra i grandi avvenimenti del cristianesimo, anzi della vita religiosa dell’umanità, per la sua coerenza storica, per la sua felice celebrazione, per la sua ricchezza dottrinale, per la sua fecondità pratica, per la sua profondità spirituale, per la sua apertura universale. Non dobbiamo chiudere gli occhi su fatto di tale natura e di tale rilievo; non lo possiamo classificare fra le cose passate, quando per ogni verso ci segue, ci stimola, ci illumina, ci impegna. Perciò, mentre lo stupore per il suo carattere straordinario e la comprensione per il suo valore ecclesiale vanno crescendo nei nostri spiriti, un primo dovere avvertiamo da ciò derivare: quello di ringraziare il Signore che ci ha concesso di partecipare e di assistere a questo grande episodio dei suoi provvidenziali disegni nella storia della salvezza; e il rito, che stiamo celebrando, ancor più che semplicemente commemorativo, vuol essere espressivo della nostra riconoscenza al Signore, che ha guidato la sua Chiesa alla testé compiuta celebrazione conciliare.
Un secondo dovere succede a quello della riconoscenza, ed anche questo subito noi promettiamo di compiere; ed è la fedeltà al Concilio. Esso ci impegna. Dobbiamo comprenderlo; dobbiamo seguirlo. E, professando questo proposito di fedeltà a quanto il Concilio c’insegna e ci prescrive, sembra a Noi doversi evitare due possibili errori: primo quello di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbitrarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizione storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Giovanni XXIII. Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa; esso non la interrompe, non la deforma, non la inventa; ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona, la «aggiorna».
RICCHEZZA DI INSEGNAMENTI
E PROVVIDENZIALE FECONDITÀ RINNOVATRICE
E altro errore, contrario alla fedeltà che dobbiamo al Concilio, sarebbe quello di disconoscere l’immensa ricchezza di insegnamenti e la provvidenziale fecondità rinnovatrice che dal Concilio stesso ci viene. Volentieri dobbiamo attribuire ad esso virtù di principio, piuttosto che compito di conclusione; perché, se è vero ch’esso storicamente e materialmente si pone come epilogo complementare e logico del Concilio Ecumenico Vaticano Primo, in realtà esso rappresenta altresì un atto nuovo e originale di coscienza e di vita della Chiesa di Dio; atto che apre alla Chiesa stessa, per il suo interno sviluppo, per i rapporti con i Fratelli tuttora da noi disgiunti, per le relazioni con i seguaci d’altre religioni, col mondo moderno quel è, - magnifico e complesso, formidabile e tormentato -, nuovi e meravigliosi sentieri.
Ed è questa avvertenza della Chiesa viva che ci richiama in questa circostanza, ad un altro dovere verso il Concilio, quello della nostra interiore e personale riforma mediante la quale la professione della religione cristiana, a cui tutto il Concilio si riferisce, diventa per ogni singolo fedele una sincera ragione di vita, diventa un ritorno al Vangelo, diventa un incontro con Cristo, diventa un combattimento per la santità.
Ed eccoCi allora con voi, Religiose qui presenti, Nostre dilette figlie in Cristo. Voi Ci documentate, con la vostra vita ed oggi, qui, con la vostra assistenza, che vi sono anime nella Chiesa di Dio, le quali, al suo invito di fare della vita presente un perpetuo tirocinio alla santità, a cui appunto il Concilio esorta il Popolo di Dio, rispondono un sì totale, un sì assoluto, un sì definitivo; anime perciò che realizzano, tendenzialmente almeno, una pienezza di sapienza, di generosità, di carità, che illumina, che edifica, che conforta, che purifica, che santifica tutta la comunità ecclesiale. 

SALUTO ALLE ANIME
CONSACRATE AL SERVIZIO GENEROSO DEL SIGNORE
Beate voi, figlie in Cristo carissime, che tale posizione, tale missione avete assunto nella Chiesa. Voi, le seguaci umili ed ardite, che tutto avete osato per seguire, come le donne del Vangelo, i passi frettolosi e ardimentosi di Cristo; voi, le generose, che non solo le vostre cose, i vostri nomi e i vostri servizi gli avete offerto, ma i vostri cuori, le vostre vite; voi, le vergini consacrate, che S. Ambrogio chiama «piae hostias castitatis», vittime della pia castità (Exhortatio virginitatis, 94), e dell’amore avete fatto pieno a Cristo olocausto; voi, le piissime, le oranti, le silenziose, le contemplative, non mai tarde a pregare e ad intessere con Gesù l’interiore colloquio; voi, le ancelle sollecite, voi, le api «argumentosae», instancabili ad ogni cura, ad ogni assistenza, ad ogni umana e cristiana pietà, ad ogni fatica scolastica e ospedaliera; voi, le discepole e le apostole, docili, sagge e forti, che vediamo presenti e operanti dove Cristo è predicato, nelle attività benefiche ed apostoliche, nelle parrocchie, nelle missioni; voi, perciò quasi le ultime, e voi perciò quasi le prime nella comunità ecclesiale, siate salutate, siate benedette. Cantando oggi alla Madonna, la benedetta fra voi tutte, le acclamazioni bibliche: «Tu gloria Ierusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri»; sembra a Noi di veder scendere su di voi stesse queste lodi, come se il manto di Maria tutte vi coprisse della sua bontà, della sua bellezza, della sua dignità, della sua santità. Siate tutte salutate, siate benedette!
Né la candida visione di questo giardino di anime fedeli distoglie dal Nostro spirito un altro pensiero, il pensiero del mondo, che ci circonda e di cui tutti facciamo parte. Due circostanze specialmente ravvivano in Noi questo pensiero: il Natale che viene, e la guerra, che in un angolo remoto del mondo, ma per tutto il mondo dolorosa e minacciosa, la guerra che continua. Come sono incompatibili questi due termini, questi due fatti: il Natale e la guerra!
LA PACE VERA PORTATA DA CRISTO
È OPERA DELLA GIUSTIZIA
Noi non possiamo dimenticare, in questo momento ed in questo luogo, che i Padri del Concilio, sul punto di lasciare Roma, dopo anni di preghiera e di studio, hanno desiderato di rivolgere un rispettoso saluto ed una parola anche a «coloro che sono i depositari del potere temporale» per invitarli ad essere promotori dell’ordine e della pace, chiedendo loro, in pari tempo, per la Chiesa, la libertà di diffondere «ovunque e senza ostacoli» la, «buona novella di Cristo». Questo Messaggio evangelico, «in armonia con le aspirazioni e gli ideali più elevati del genere umano, risplende in questa nostra epoca di rinnovato fulgore, poiché esso proclama beati i promotori della pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Gaudium et Spes, 77 Pass.). Ma la pace, la pace vera che Cristo ha portato al mondo - «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis» (Io. 14, 27) - è opera della giustizia. Essa è ancora - proclama il Concilio Vaticano II rifacendosi alla definizione di S. Agostino - frutto di quell’ordine che è stato impresso nell’umana società dal suo stesso Creatore, e che potrà essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta, fondata nella decisa volontà di rispettare la libertà e la dignità dei popoli e degli individui (Gaudium et Spes, 78). Quanto a Noi, chiamati da Cristo a governare la sua Chiesa, fin dall’inizio del Nostro apostolico ministero, nulla abbiamo trascurato per sostenere e promuovere, nella misura delle Nostre possibilità, la causa della pace, e per invitare insistentemente a comporre dissidi e divergenze tra le nazioni mediante sincere e leali trattative, senza che alcun indebito egoismo nazionale ed alcuna ambizione di supremazia abbia a prevalere, mentre profondo rispetto è dovuto a tutta la umanità, avviata ormai così laboriosamente verso una maggiore unità.
Era perciò Nostra intenzione profittare di questa ricorrenza per rinnovare il Nostro invito ad entrambe le parti contendenti a deporre le armi, almeno durante le feste natalizie, restituendo ad esse il senso morale e religioso che esse hanno e devono avere ormai universalmente nella coscienza dell’umanità.
Ma siamo stati prevenuti, felicemente prevenuti, come voi tutti sapete. La tregua d’armi nel Vietnam, da una parte e dall’altra, è già stata annunciata! La Nostra voce, tante volte piangente e implorante, si fa esultante e riconoscente. Noi vogliamo gridare il Nostro plauso, il Nostro ringraziamento. Sentiamo d’interpretare il sentimento del mondo. Mandiamo ai Capi responsabili, che hanno il merito di questo atto pio e cavalleresco, l’espressione dell’universale compiacenza. 

LA PROSSIMA TREGUA NEL VIETNAM
SI TRASFORMI IN ARMISTIZIO E QUINDI IN LEALI TRATTATIVE
Tuttavia questa temporanea sospensione non soddisfa del tutto l’attesa dell’umanità, perché essa è breve, perché è passeggera, perché lascia intravedere, con maggiore rammarico, la ripresa delle ostilità. Ci sia pertanto concesso di augurare che la tregua si trasformi in armistizio, che l’armistizio offra l’opportunità a leali trattative e che queste conducono alla pace. Più che augurare: chiedere, supplicare. Se, come è annunciato, dopo la tregua natalizia un’altra poco dopo sarà parimente concessa, perché non saldare da entrambe le parti in conflitto l’una tregua con l’altra, in un solo spazio continuato di tempo, in modo che possano essere esplorate nuove vie per un’intesa onorifica e risolutiva del conflitto?
Noi sappiamo che a questa ipotesi non manca il suffragio di uomini autorevoli; perché non dovrebbe essa raccogliere l’adesione di tutti? Quanto ciò sarebbe meritorio e glorioso per tutti, altrettanto sarebbe grave di responsabilità e di pericoli perdere la buona occasione per superare questo doloroso episodio della storia contemporanea.
Non permetta il Signore che cada nel vuoto il Nostro invito, a cui fanno eco l’ansia, le aspirazioni ed i voti dei fratelli cristiani, da Noi separati, i quali, come tutti i fedeli cattolici, auspicano per il diletto popolo vietnamita il ritorno alla tranquillità ed all’ordine.
Per questo, dilette figlie, vi invitiamo ad elevare con Noi nuove suppliche, perché il Signore datore di ogni bene ispiri nelle menti dei governanti saggi pensieri e propositi di pace, e dia loro la forza di seguire con coraggio la via che porterà al raggiungimento della pace.
E perché la nostra preghiera sia più efficace, affidiamola alla Vergine Immacolata, Madre di Dio e degli uomini, e Regina della pace. Ella, che è «segno di sicura speranza e di consolazione per il Popolo di Dio fino a quando verrà il giorno del Signore» (Lumen Gentium, VIII, 68), interceda presso il Trono del Figlio suo e ci ottenga che tutti i popoli della terra, nella giustizia, nella libertà e nella pace, formino una sola famiglia, quale è nei disegni del Padre di tutte le genti.

La donna vestita di sole e il suo feroce avversario




   La donna vestita di sole e il suo feroce avversario


   Cari fratelli e sorelle!La grande festa di Maria Immacolata ci invita ogni anno a ritrovarci qui, in una delle piazze più belle di Roma, per rendere omaggio a Lei, alla Madre di Cristo e Madre nostra. Con affetto saluto tutti voi qui presenti, come pure quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione. E vi ringrazio per la vostra corale partecipazione a questo mio atto di preghiera.Sulla sommità della colonna a cui facciamo corona, Maria è raffigurata da una statua che in parte richiama il passo dell’Apocalisse appena proclamato: “Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle” (Ap 12,1). Qual è il significato di questa immagine? Essa rappresenta nello stesso tempo la Madonna e la Chiesa.Anzitutto la “donna” dell’Apocalisse è Maria stessa. Ella appare “vestita di sole”, cioè vestita di Dio: la Vergine Maria infatti è tutta circondata dalla luce di Dio e vive in Dio. Questo simbolo della veste luminosa chiaramente esprime una condizione che riguarda tutto l’essere di Maria: Lei è la “piena di grazia”, ricolma dell’amore di Dio. E “Dio è luce”, dice ancora san Giovanni (1 Gv 1,5). Ecco allora che la “piena di grazia”, l’“Immacolata” riflette con tutta la sua persona la luce del “sole” che è Dio.Questa donna tiene sotto i suoi piedi la luna, simbolo della morte e della mortalità. Maria, infatti, è pienamente associata alla vittoria di Gesù Cristo, suo Figlio, sul peccato e sulla morte; è libera da qualsiasi ombra di morte e totalmente ricolma di vita. Come la morte non ha più alcun potere su Gesù risorto (cfr Rm 6,9), così, per una grazia e un privilegio singolare di Dio Onnipotente, Maria l’ha lasciata dietro di sé, l’ha superata. E questo si manifesta nei due grandi misteri della sua esistenza: all’inizio, l’essere stata concepita senza peccato originale, che è il mistero che celebriamo oggi; e, alla fine, l’essere stata assunta in anima e corpo nel Cielo, nella gloria di Dio. Ma anche tutta la sua vita terrena è stata una vittoria sulla morte, perché spesa interamente al servizio di Dio, nell’oblazione piena di sé a Lui e al prossimo. Per questo Maria è in se stessa un inno alla vita: è la creatura in cui si è già realizzata la parola di Cristo: “Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).Nella visione dell’Apocalisse c’è un altro particolare: sul capo della donna vestita di sole c’è “una corona di dodici stelle”. Questo segno rappresenta le dodici tribù d’Israele e significa che la Vergine Maria è al centro del Popolo di Dio, di tutta la comunione dei santi. E così questa immagine della corona di dodici stelle ci introduce alla seconda grande interpretazione del segno celeste della “donna vestita di sole”: oltre a rappresentare la Madonna, questo segno impersona la Chiesa, la comunità cristiana di tutti i tempi. Essa è incinta, nel senso che porta nel suo seno Cristo e lo deve partorire al mondo: ecco il travaglio della Chiesa pellegrina sulla terra, che in mezzo alle consolazioni di Dio e alle persecuzioni del mondo deve portare Gesù agli uomini.E’ proprio per questo, perché porta Gesù, che la Chiesa incontra l’opposizione di un feroce avversario, rappresentato nella visione apocalittica da “un enorme drago rosso” (Ap 12,3). Questo dragone ha cercato invano di divorare Gesù – il “figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni” (12,5) –, invano perché Gesù, attraverso la sua morte e risurrezione, è salito verso Dio e si è assiso sul suo trono. Perciò il dragone, sconfitto una volta per sempre nel cielo, rivolge i suoi attacchi contro la donna – la Chiesa – nel deserto del mondo. Ma in ogni epoca la Chiesa viene sostenuta dalla luce e dalla forza di Dio, che la nutre nel deserto con il pane della sua Parola e della santa Eucaristia. E così in ogni tribolazione, attraverso tutte le prove che incontra nel corso dei tempi e nelle diverse parti del mondo, la Chiesa soffre persecuzione, ma risulta vincitrice. E proprio in questo modo la Comunità cristiana è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo.L’unica insidia di cui la Chiesa può e deve aver timore è il peccato dei suoi membri. Mentre infatti Maria è Immacolata, libera da ogni macchia di peccato, la Chiesa è santa, ma al tempo stesso segnata dai nostri peccati. Per questo il Popolo di Dio, peregrinante nel tempo, si rivolge alla sua Madre celeste e domanda il suo aiuto; lo domanda perché Ella accompagni il cammino di fede, perché incoraggi l’impegno di vita cristiana e perché dia sostengo alla speranza. Ne abbiamo bisogno, soprattutto in questo momento così difficile per l’Italia, per l’Europa, per varie parti del mondo. Maria ci aiuti a vedere che c’è una luce al di là della coltre di nebbia che sembra avvolgere la realtà. Per questo anche noi, specialmente in questa ricorrenza, non cessiamo di chiedere con fiducia filiale il suo aiuto: “O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che a te ricorriamo”. Ora pro nobis, intercede pro nobis ad Dominum Iesum Christum. 

 https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/immacolata-visita-in-piazza-di-spagna

venerdì 6 dicembre 2019

Beata Colei che ha creduto! Maria nell'Annunciazione, Avvento 2019, predica di p. Raniero Cantalamessa




Beata Colei che ha creduto! Maria nell'Annunciazione.
Avvento 6 dicembre 2019
predica di p. Raniero Cantalamessa



Ogni anno la liturgia ci prepara al Natale con tre grandi guide: Isaia, Giovanni Battista e Maria; il profeta, il precursore, la madre. Il primo lo annunciò da lontano, il secondo lo additò presente al mondo, la madre lo portò in grembo. Per questo Avvento 2019 ho pensato di affidarci interamente alla Madre. Nessuno meglio di lei ci può predisporre a celebrare spiritualmente la nascita del Redentore.
Lei non ha celebrato l’Avvento, lo ha vissuto nella sua carne; come ogni donna incinta, Maria sa cosa significa essere “in attesa” e può aiutare anche noi ad attendere, in senso forte ed esistenziale, la venuta del nostro Redentore. Contempleremo la Madre di Dio nei tre momenti nei quali la stessa Scrittura ce la presenta al centro degli avvenimenti : l’Annunciazione, la Visitazione e il Natale.

“ Eccomi, sono la serva del Signore… “
Iniziamo dall’Annunciazione. Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, “piena di Spirito Santo”, esclamò: Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc l, 45). L’evangelista san Luca si serve dell’episodio della Visitazione come di un mezzo per portare alla luce ciò che si era compiuto nel segreto di Nazareth e che solo nel dialogo con un’interlocutrice poteva essere manifestato e assumere un carattere oggettivo e pubblico.
La cosa grande che è avvenuta a Nazareth, dopo il saluto del¬l’angelo, è che Maria “ha creduto “ ed è diventata così “ Madre del Signore “. Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferisce alla risposta di Maria all’angelo: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1, 38). Con queste poche e semplici parole si è consumato il più grande e decisivo atto di fede nella storia del mondo. Questa parola di Maria rappresenta il vertice di ogni comportamento religioso davanti a Dio. Con questa sua risposta – scrive Origene – è come se Maria dicesse a Dio: “Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore di tutto” . Egli paragona Maria alla tavoletta cerata che si usava, al suo tempo, per scrivere. Maria, diremmo noi oggi, si offre a Dio come una pagina bianca, sulla quale egli può scrivere tutto ciò che vuole.
“In un istante che non tramonta mai più e che resta valido per tutta l’eternità, la parola di Maria fu la parola dell’umanità e il suo “sì”, l’amen di tutta la creazione al “sì” di Dio “ (K. Rahner). In lei è come se Dio interpellasse di nuovo la libertà creata, offrendole una possibilità di riscatto. È questo il senso profondo del parallelismo: Eva – Maria, caro ai Padri e a tutta la tra-dizione. “Ciò che Eva aveva legato con la sua incredulità, Maria l’ha sciolto con la sua fede “ .
Dalle parole di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto”, si vede come già nel Vangelo, la maternità divina di Maria non è intesa soltanto come maternità fisica, ma come ma¬ternità anche spirituale, fondata sulla fede. Su ciò si basa sant’Agostino quando scrive: “La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo… Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede (fide plena), concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola “ 6. Alla pienezza di grazia da parte di Dio, corrisponde la pienezza della fede da parte di Maria; al “gratia plena“, il “fide plena“.

Sola con Dio
A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e perfino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quello che ogni fanciulla ebrea sognava di essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e carnale. La vera fede non è mai un privilegio o un onore, ma è sempre un po’ un morire, e così fu soprattutto la fede di Maria in questo momento. Anzitutto, Dio non inganna mai, non strappa mai alle creature dei consensi surrettiziamente, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro.
Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di Dio. A Geremia preannuncia: Ti muoveranno guerra (Ger l, 19) e di Saulo, dice ad Anania: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome (At 9, 16). Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, ella ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sarebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.
Ma già sul piano semplicemente umano, Maria viene a trovarsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò che è avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà che il bimbo che porta nel grembo è “opera dello Spirito Santo“? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei. Maria conosceva certamente ciò che era scritto nella legge di Mosè, e cioè che la fanciulla che al momento delle nozze non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingresso della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cfr. Dt 22, 20 s).
Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò, il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio reale! Carlo Carretto, nel suo li¬bretto sulla Madonna, intitolato Beata te che hai creduto (Ed. Paoline 1986), narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: “E stata sgozzata “. Si era scoperta incinta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazareth, agli ammiccamenti, capì la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede .
Maria è l’unica ad aver creduto “in situazione di contemporaneità”, cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia . Ha creduto in totale solitudine. Gesù disse a Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.
Di Abramo, in una situazione simile, quando anche a lui fu promesso un figlio benché in tarda età, la Scrittura dice, quasi con aria di trionfo e di stupore: Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia (Gn 15, 6). Oh, quanto ciò ora si dice più trionfalmente, presso di noi, di Maria! Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu accreditato come giustizia. Il più grande atto di giustizia mai compiuto sulla terra da un essere umano, dopo quello di Gesù, che però è anche Dio.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “ sì “ con gioia. Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con “ fiat “ o con “ si faccia “, nell’originale, è all’ottativo (génoito); esso non esprime una semplice rassegnata accettazione, ma vivo desiderio. Come se dicesse: “ Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole “. Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse “fiat” che è parola latina; non disse neppure “ génoito “ che è parola greca. Che cosa disse allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più ‘ da vicino a questa espressione? Cosa diceva un ebreo quando voleva dire “ così sia “? Diceva “ amen! “ Se è lecito cercare di risalire, con pia riflessione, all’ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, questa deve essere stata proprio la parola “ amen “. Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si legge “ fiat, fiat “ (nella versione dei Settanta: génoito, génoito), l’originale ebraico, cono¬sciuto da Maria, porta: Amen, amen!
Con l’Amen si riconosce quel che è stato detto come parola ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è questa: “Così è e così sia“. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “ sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “ Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro “ amen “ pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). Come il “ fiat “ di Maria precorre quello di Gesù nel Getsemani, così il suo “amen” precorre quello del Figlio. Anche Maria è un “ amen” personificato a Dio.

Nella scia di Maria
Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi all’orizzonte, ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello, così è dell’immensa scia dei credenti che formano la Chiesa. Essa comincia con una punta e questa punta è la fede di Maria, il suo “ fiat “. La fede, unitamente alla sua sorella, la speranza, è l’unica co¬sa che non comincia con Cristo, ma con la Chiesa e perciò con Maria, che ne è il primo membro, in ordine di tempo e in ordine di importanza. Gesú non può essere il soggetto della fede cristiana perché ne è l’oggetto. La lettera agli Ebrei ci dà una lista di colo¬ro che hanno avuto fede: Per fede Abele… Per fede, Abramo… Per fede, Mosè… (Eb 11, 4 ss). Ma questa lista non include Gesù. Gesù è chiamato “autore e perfezionatore della fede” (Eb 12, 2), non uno dei credenti, sia pure il primo.
Per il solo fatto di credere, noi ci troviamo dunque nella scia di Maria e vogliamo ora approfondire cosa significa seguire davvero la sua scia. Nel leggere ciò che riguarda la Madonna nella Bibbia, la Chiesa ha seguito, fin dal tempo dei Padri, un criterio che si può esprimere così: “Maria, vel Ecclesia, vel anima “, Maria, ossia la Chiesa, ossia l’anima. Il senso è che quello che nella Scrittura si dice specialmente di Maria, va inteso universalmente della Chiesa e ciò che si dice universalmente della Chiesa va inteso singolarmente per ogni anima credente.
Attenendoci anche noi a questo principio, vediamo ora ciò che la fede di Maria ha da dire prima alla Chiesa nel suo insieme e poi a ciascuno di noi, cioè a ogni singola anima. Mettiamo in luce prima le implicazioni ecclesiali o teologiche della fede di Maria e poi quelle personali o ascetiche. In questo modo, la vita della Madonna non serve solo ad accrescere la nostra privata devozione, ma anche la no¬stra comprensione profonda della Parola di Dio e dei problemi della Chiesa.
Anzitutto Maria ci parla dell’importanza della fede. Non c’è suono, né musica là dove non c’è un orecchio capace di ascolta¬re, per quanto risuonino nell’aria melodie e accordi sublimi. Non c’è grazia, o almeno la grazia non può operare, se non trova la fede ad accoglierla. Come la pioggia non può far germogliare nulla finché non trova una terra che l’accoglie, così la grazia se non trova la fede. È per la fede che noi siamo “ sensibili “ alla grazia. La fede è la base di tutto; è la prima e la più “buona” delle opere da compiere. Opera di Dio è questa, dice Gesù: che crediate (cf Gv 6, 29). La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla grazia la sua gratuità. Non cerca di invertire le parti, facendo di Dio un debitore e dell’uomo un creditore. Per questo essa è tanto cara a Dio che fa dipendere dalla fede praticamente tutto, nei suoi rapporti con l’uomo.
Grazia e fede: sono posti, in tal modo, i due pilastri della salvezza; sono dati all’uomo i due piedi per camminare o le due ali per volare. Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi, dalla grazia e dalla libertà. Guai se uno pensasse: la grazia dipende da Dio, ma la fede dipende da me; insieme, io e Dio facciamo la salvezza! Avremmo fatto di nuovo, di Dio, un debitore, uno che dipende in qualche modo da noi, e che deve condividere con noi il merito e la gloria. San Paolo toglie ogni dubbio quando dice: Per grazia siete salvi mediante la fede e ciò (cioè il credere, o, più globalmente, l’essere salvi per grazia mediante la fede, che è la stessa cosa) non viene da voi, ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene (Ef 2, 8 s). Anche in Maria l’atto di fede fu suscitato dalla grazia dello Spirito Santo.
Quello che ora ci interessa è mettere in luce alcuni aspetti della fede di Maria che possono aiutare la Chiesa di oggi a credere più pienamente. L’atto di fede di Maria è quanto mai per-sonale, unico e irrepetibile. È un fidarsi di Dio e un affidarsi completamente a Dio. E un rapporto da persona a persona. Questo si chiama fede soggettiva. L’accento è qui sul fatto di credere, più che sulle cose credute. Ma la fede di Maria è anche quanto mai oggettiva, comunitaria. Ella non crede in un Dio soggettivo, personale, avulso da tutto, e che si rivela solo a lei nel segreto. Crede invece al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Riconosce nel Dio che le si rivela, il Dio delle promesse, il Dio di Abramo e della sua discendenza.
Ella si inserisce umilmente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della nuova alleanza, come Abramo era stato il primo credente del¬l’antica alleanza. Il Magnificat è tutto pieno di questa fede basa¬ta sulle Scritture e di riferimenti alla storia del suo popolo. Il Dio di Maria è un Dio dai tratti squisitamente biblici: Signore, Potente, Santo, Salvatore. Maria non avrebbe creduto all’angelo, se le avesse rivelato un Dio diverso, che ella non avesse potuto riconoscere come il Dio del suo popolo Israele. Anche esternamente, Maria si adegua a questa fede. Si assoggetta infatti a tutte le prescrizioni della legge; fa circoncidere il Bambino, lo presenta al tempio, si sottopone lei stessa al rito della purificazione, sale a Gerusalemme per la Pasqua.
Ora tutto questo è per noi di grande insegnamento. Anche la fede, come la grazia, è andata soggetta, lungo i secoli, a un fenomeno di analisi e di frantumazione, per cui si hanno innumerevoli specie e sottospecie di fede. I fratelli protestanti, per esempio, valorizzano di più quel primo aspetto, soggettivo e personale, della fede. “ Fede – scrive Lutero – è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio “; è una “ ferma fiducia “ 13. In alcune correnti del protestantesimo, come nel Pietismo, dove questa tendenza è portata all’estremo, i dogmi e le cosiddette verità di fede non hanno quasi alcuna rilevanza. L’atteggiamento interiore, personale, verso Dio è la cosa più importante e quasi esclusiva.
Nella tradizione cattolica e ortodossa ha avuto invece, fin dall’antichità, un’importanza grandissima il problema della retta fede o dell’ortodossia. Il problema delle cose da credere prese, ben presto, il sopravvento sull’aspetto soggettivo e personale del credere, cioè sull’atto di fede. I trattati dei Padri, intitolati “ Sulla fede “ (De fide) non accennano nemmeno alla fede come atto soggettivo, come fiducia e abbandono, ma si preoccupano di stabilire quali sono le verità da credere in comunione con tutta la Chiesa, in polemica contro gli eretici. In seguito alla Riforma, in reazione all’accentuazione unilaterale della fede-fiducia, questa tendenza si è accentuata nella Chiesa cattolica. Credere significa principalmente aderire al credo della Chiesa. San Paolo diceva che “ con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di fede “ (cf Rm 10, 10): la “professione “ della retta fede ha preso spesso il sopravvento sul “ credere con il cuore “.
Maria ci spinge a ritrovare, anche in questo campo, “ l’intero “ che è tanto più ricco e più bello di ogni singola parte. Non basta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abbandonarsi a Dio nell’intimo della propria coscienza. È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura. Questo avviene quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o su l’interpretazione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in se stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi.
Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommatica, se questa non realizza l’intimo, personale contatto, da io a tu, con Dio. Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi, per qualsiasi ragione, il proprio rap¬porto con l’istituzione che è la Chiesa. È facile, in questo modo, che un cristiano arrivi alla fine della vita, senza aver mai fatto un atto di fede libero e personale, che è l’unico che giustifichi il nome di “ credente “.
Bisogna dunque credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente. La fede dommatica della Chiesa non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e permette di conoscere e abbracciare un Dio immensamente più grande di quello della mia povera esperienza. Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può conoscere. La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo. Nell’unirmi alla fede della Chiesa, io faccio mia la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori. I Santi, non potendo portare con sé in cielo la fede – dove essa non serve più -, l’hanno lasciata in eredità alla Chiesa.
C’è una potenza incredibile racchiusa in quelle parole: “Io credo in Dio Padre Onnipotente..”. Il mio piccolo “ io “, unito e fuso con quello grande di tutto il corpo mistico di Cristo, passato e presente, forma un grido più potente del fragore del mare che fa tremare dalle fondamenta il regno delle tenebre.

Crediamo anche noi!
Passiamo ora a considerare le implicazioni personali e ascetiche che scaturiscono dalla fede di Maria. Sant’Agostino, dopo aver affermato, nel testo citato sopra, che Maria “ piena di fede, partorì credendo quel che aveva concepito credendo “, trae da questo un’applicazione pratica dicendo: “ Maria credette e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi” .
Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono in Dio. Di qui l’importanza decisiva di dire a Dio, una volta nella vita, un “ si faccia, fiat “, come quello di Maria. Quando questo avviene, esso è un atto avvolto nel mistero perché coinvolge insieme grazia e libertà; è una specie di concepimento. La creatura non può farlo da sola; Dio perciò l’aiuta senza toglierle la sua libertà.
Che si deve dunque fare? E’ semplice: dopo averci pregato, perché non sia una cosa superficiale, dire a Dio con le parole stesse di Maria: “Eccomi, sono il servo, o la serva, del Signore: si faccia di me secondo la tua parola! “. Dico amen, sì, mio Dio, a tutto il tuo progetto, ti cedo me stesso!
Dobbiamo però ricordarci che Maria disse il suo “ fiat “ all’ottativo, con desiderio e gioia. Quante volte noi ripetiamo quelle parole in uno stato d’animo di mal celata rassegnazione, come chi, chinando la testa, dice a denti stretti: “ Se proprio non si può farne a meno, ebbene si faccia la tua volontà! “. Maria ci insegna a dirlo diversamente. Sapendo che la volontà di Dio a nostro riguardo è infinitamente più bella e più ricca di promesse, di ogni nostro progetto; sapendo che Dio è amore infinito e che nutre per noi “ progetti di pace e non di afflizione” (cf Ger 29, 11), noi diciamo, pieni di desiderio e quasi con impazienza, come Maria: “ Si compia presto su di me, o Dio, la tua volontà di amore e di pace! “.
Con ciò si realizza il senso della vita umana e la sua più grande dignità. Dire “ sì “, “ amen “, a Dio non umilia la dignità dell’uomo, come pensa talvolta l’uomo d’oggi, ma la esalta. Del resto, qual è l’alternativa a questo “ amen “ detto a Dio? Proprio il pensiero contemporaneo che ha fatto dell’analisi dell’esistenza il suo oggetto primario, ha dimostrato chiaramente che dire “ amen “ bisogna e se non si dice a Dio che è amore, lo si deve dire a qualcos’altro che è solo fredda e paralizzante necessità: al destino, al fato.

“ Il mio giusto vivrà di fede “
Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo particolare deve farlo il sacerdote e chiunque è chiamato, in qualche modo, a trasmettere ad altri la fede e la Parola. “Il mio giusto – dice Dio – vivrà di fede “ (cf Ab 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote: Il mio sacerdote – dice Dio – vivrà di fede. Egli è l’uomo della fede. Il peso specifico di un sacerdote è dato dalla sua fede. Egli inciderà nelle anime nella misura della sua fede. I1 compito del sacerdote o del pastore in mezzo al popolo, non è solo quello di distributore di sacramenti e di servizi, ma anche quello di suscitatore e testimone della fede. Egli sarà veramente uno che guida, che trascina, nella misura con cui crederà e avrà ceduto la sua libertà a Dio, come Maria.
Il grande essenziale segno, ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci crede “: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cerca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al passo coi tempi, mentre, in realtà, è anche lui, come si diceva nel capitolo precedente, un uomo “ vuoto “. Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subito la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma la semplice fede. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.
La forza di un servitore di Dio è proporzionata alla forza del¬la sua fede. A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un povero ragazzo ma senza riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in di¬sparte e gli chiesero: Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? E Gesù rispose: Per la vostra poca fede (Mi 17, 19-20).
Il mondo, abbiamo detto, è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da Maria. Entriamo in questa scia. Crediamo anche noi perché quel che si avverò in lei si avveri anche in noi. Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidelis: Vergine credente, prega per noi!

1.Origene, Commento al vangelo di Luca, framm. 18 (GCS, 49, p. 227).
2.S. Ireneo, Adv. Haer III,22,4.
3.S. Agostino, Discorsi, 215,4 (PL 38,1074).


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Papa Paolo VI, IL CORAGGIO DELLA VERITÀ, L'Udienza generale del 20 maggio 1970


IL CORAGGIO DELLA VERITÀ

Papa Paolo VI  
L'Udienza generale del 20 maggio 1970


     L'ora che suona al quadrante della storia esige da tutti i figli della Chiesa un grande coraggio, e in modo tutto speciale il coraggio della verità. [...]Tanto è importante questo dovere di professare coraggiosamente la verità, che il Signore stesso lo ha definito lo scopo della sua venuta a questo mondo. [...] Ma che cosa è la verità? [...] Pilato non attende la risposta, e cerca di chiudere l'interrogatorio sciogliendo la vertenza giudiziaria. Ma per noi, per tutti la questione rimane sospesa: che cosa è la verità? Grande questione, che investe la coscienza, i fatti, la storia, la scienza, la cultura, la filosofia, la teologia, la fede. A noi preme quest'ultima: la verità della fede. [...] Questa verità della fede, oggi più che mai, si presenta come la base fondamentale sulla quale dobbiamo costruire la nostra vita. È la pietra d'angolo. E che cosa osserviamo noi a questo proposito? Noi osserviamo un fenomeno di timidezza e di paura, anzi un fenomeno d'incertezza, di ambiguità, di compromesso. È stato bene identificato: «Un tempo era il rispetto umano che faceva rovina. Era l'ansia dei pastori. Il cristiano non osava vivere secondo la propria fede. Ma ora non si comincia ad avere paura di credere? Male più grave, perché intacca i fondamenti . . .» (Card. GARRONE, Que faut-il croire? Descleé, 1967). Noi abbiamo sentito l'obbligo, al termine dell'Anno della Fede, nella festa di San Pietro del 1968, di fare una esplicita professione di fede, di recitare un Credo, che sul filo degli insegnamenti autorevoli della Chiesa e della Tradizione autentica, risale alla testimonianza apostolica, che a sua volta si fonda su Gesù Cristo, Lui stesso definito «testimonio fedele».Ma oggi la verità è in crisi. Alla verità oggettiva, che ci dà il possesso conoscitivo della realtà, si sostituisce quella soggettiva: l'esperienza, la coscienza, la libera opinione personale, quando non sia la critica della nostra capacità di conoscere, di pensare validamente. La verità filosofica cede all'agnosticismo, allo scetticismo, allo «snobismo» del dubbio sistematico e negativo. Si studia, si cerca per demolire, per non trovare. Si preferisce il vuoto. [...] E con la crisi della verità filosofica la verità religiosa è crollata in molti animi, che non hanno più saputo sostenere le grandi e solari affermazioni della scienza di Dio, della teologia naturale, e tanto meno quelle della teologia della rivelazione; gli occhi si sono annebbiati, poi accecati; e si è osato scambiare la propria cecità con la morte di Dio. Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. Insofferenti dell'insegnamento del magistero, posto da Cristo a tutela ed a logico sviluppo della sua dottrina, ch'è quella di Dio, v'è chi cerca una fede facile vuotandola [...] di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna [...]; altri cerca una fede nuova tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana; altri vorrebbero fidarsi d'una fede puramente naturalista e filantropica, d'una fede utile, [...] erigendola a culto dell'uomo, e trascurandone il valore primo, l'amore e il culto di Dio; ed altri finalmente [...] vorrebbero legittimare espressioni ambigue ed incerte della fede, accontentarsi della sua ricerca per sottrarsi alla sua affermazione, domandare all'opinione dei fedeli che cosa vogliono credere, attribuendo loro un discutibile carisma di competenza e di esperienza, che mette la verità della fede a repentaglio degli arbitri più strani e più volubili. Tutto questo avviene quando non si presta l'ossequio al magistero della Chiesa, con cui il Signore ha voluto proteggere le verità della fede. Ma per noi che, per divina misericordia, possediamo questo  scudo della fede, cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l'urto delle opinioni impetuose del mondo moderno, una seconda questione si pone, quella del coraggio: dobbiamo avere il coraggio della verità. [...] L'educazione cristiana si dimostra una palestra di energia spirituale, di nobiltà umana, e di padronanza di sé, di coscienza dei propri doveri. E aggiungeremo che questo coraggio della verità è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, esso riguarda anche tutti i cristiani, battezzati e cresimati; e non è un esercizio sportivo e piacevole, ma è una professione di fedeltà doverosa a Cristo e alla sua Chiesa, ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica e tonificante testimonianza.

 http://www.istitutopaolovi.it/pensieri-di-paolo-vi-dettaglio-istituto-paolo-vi.asp?id=45

giovedì 5 dicembre 2019





La donna vestita di sole

 F. Bartoli


   Se nei Vangeli Maria è la “mater abscondita”, lo sfondo silenzioso di Gesù, la terra in cui affonda le sue radici l’albero della nostra salvezza, come la definiva Romano Guardini, nell’Apocalisse diventa la “mulier amicta sole”, la donna vestita di sole, il “segno grande” che appare nel cielo e dà così inizio alla sconfitta del drago, almeno questa è l’interpretazione unanime che dal medioevo fino ai giorni nostri viene data del passo enigmatico di Ap. 12.
“Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. (…) Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. (…) furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontano dal serpente.” (Ap. 12 passim)
Ma è davvero così? In realtà hanno ragione i nostri amici protestanti quando osservano che l’identificazione sic et simpliciter della mulier amicta sole con Maria è problematica. In realtà la donna che appare in cielo è un vero collasso di simboli, si affastellano in lei così tante metafore ed immagini che la sua interpretazione è tutt’altro che scontata.
D’altra parte però, come ci insegna la moderna ermeneutica, un testo -ed ancor di più un testo sacro, scritto per la liturgia, come l’Apocalisse- vive molto di più nella sua interpretazione, che nella sua materialità letterale. In questo senso è impossibile che un autore cristiano possa scrivere della madre del Messia senza pensare a Maria di Nazareth, anche se poi è indiscutibile che la donna vestita di sole è molto di più di questo.
Proprio perché la sua identificazione è così problematica ho pensato di regalarvi in anticipo un altro capitolo del mio libro (alla fine speriamo che a qualcuno resti la voglia di leggerlo…), come regalo di Natale.
Sebbene tutta l’iconografia mariana sia stata influenzata da questa descrizione della Donna, così che non c’è praticamente immagine in cui Maria non porti sul capo una corona di dodici stelle, l’identificazione della Donna con la madre di Gesù non è affatto scontata, procediamo con cautela.

La donna è un segno

La prima cosa che bisogna rilevare è che l’apparizione della Donna è un segno, anzi, un segno grandioso. Nella teologia di Giovanni il concetto di segno è molto importante. Nel suo linguaggio non indica mai semplicemente un prodigio, anche quando questa parola si riferisce ad eventi portentosi, come i miracoli di Gesù, ma piuttosto ad una manifestazione e dimostrazione. Il quarto Vangelo stesso è costruito come un crescendo di segni fino al segno principe, quello della Risurrezione.
Definire la Donna un segno quindi è metterci sull’avviso: l’apparizione nel cielo è un vangelo, un lieto annunzio rivolto a tutta la terra. Si manifesta la nuova strategia divina: d’ora in poi non vi saranno più segreti e cose nascoste, tutto sarà svelato e apparirà in piena luce; il vangelo sarà ruggito sul mondo e sarà segno di contraddizione: vita e salvezza per chi lo accoglie, perdizione e condanna per chi lo rifiuta.

Il segno è una donna

Questo segno è una donna: prima di qualsiasi ulteriore specificazione appare in cielo un essere umano di sesso femminile. Riassume in sé, in un certo modo, il senso di ogni femminile, è la Donna, ogni donna.
Tutte le figure femminili della Bibbia sono qui ricapitolate. Nella letteratura profetica è comune l’identificazione di Gerusalemme con una donna, ad un tempo sposa (di Dio) e madre (del popolo). Al tempo stesso è difficile sfuggire alla suggestione di un richiamo ad Eva, la prima donna, la madre dell’intero genere umano, destinata a lottare contro il serpente. La Donna quindi è Eva, madre dei viventi e madre escatologica, è Gerusalemme a cui il terzo Isaia annuncia “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce” (Is. 60,1), è la sposa del cantico che “sorge come l’aurora (…) fulgida come il sole” (Ct. 6,10), è la donna sterile a cui Dio darà una discendenza, è la Donna che dice ai servi “fate ciò che Egli vi dirà” (Gv. 2,5), è la Chiesa che con il suo grido di partoriente proclama che è giunta l’ora del Messia (Cfr. Gv. 16,21

La Donna siamo noi

In una parola questa Donna siamo noi, sei tu che leggi: è ogni donna che aspira a compiere la sua femminilità sul modello di Maria, è la Chiesa nella sua essenza più pura, è l’orizzonte a cui ogni cristiano è chiamato.
La donna è incinta e grida, e il suo grido è il grido di tutte le donne che portano in sé il dono terribile e meraviglioso di generare l’umano, come dice l’enciclica Mulieris Dignitatem al n° 30. E’ il grido di ogni partoriente, perché non c’è fecondità senza sofferenza, ma è anche il grido delle madri della plaza de mayo e di Monteleone di Puglia, di Neda e delle donne iraniane, di Madre Teresa all’assemblea dell’ONU, di tutte le donne, che spontaneamente si oppongono alle forze anticreazionali, è il grido delle donne di Guernica, immortalato da Picasso, è la rivolta femminile contro ogni guerra, sopraffazione e sopruso che impedisca la vita.
E’ una figura celeste, perché è rivestita di sole, ma non è estranea al travaglio della storia umana. E’ vittoriosa, ma conosce l’agonia della lotta. Grida perché sa che suo figlio è minacciato, anticipa in sé la sofferenza e il dolore dell’uomo che verrà e sa che essa stessa soffrirà nel generarlo, eppure questo dolore non è sufficiente a fermare il dono della vita. E’ la croce che già si staglia nel suo orizzonte di Madre. Ma il suo grido non resterà inascoltato. Come la preghiera dei giusti, giungerà fino a Dio, ed Egli interverrà mettendo in salvo il nascituro; è quindi un grido che non lascia indifferente il cielo, anzi, è proprio questo grido amettere in moto la storia di salvezza, come fu il grido di Israele oppresso a mettere in moto l’Esodo.
La condizione di partoriente sembra essere connaturata alla Donna, è come se non fosse semplicemente un momento di passaggio nel suo divenire, ma una condizione permanente. La Donna è tutta protesa verso una nascita. Il Popolo di Dio, Donna/Chiesa, e ugulmente l’umanità, Donna/Eva, sono sempre in attesa, sempre in procinto di partorire. Anche S. Paolo intende qualcosa di simile quando scrive ai Romani: La creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi (Rom. 8,22). In quanto madre, quindi, la Donna incarna la Creazione e la Chiesa, che ancora non hanno concluso la loro missione, che è quella di generare l’uomo, opera mai conclusa, ma continuamente da ricominciare.
Anche noi, come membra della Donna, siamo coinvolti in questo parto. Il nostro compito è generare l’uomo in Cristo, attraverso la profezia e la testimonianza in quanto siamo Chiesa, e attraverso la lotta per il bene e la giustizia in quanto siamo Eva. Questo dovrà avvenire nel dolore: gridando, spesso lottando, per così dire davanti alle fauci del drago.

La Donna è Maria

Procedendo nel testo ci viene detto esplicitamente, attraverso la citazione del Salmo 2, che il nascituro sarà il Messia. Il senso del segno va dunque ampliato, concordando con Feuillet, che scrive: “è difficile ammettere che un cristiano (…) abbia potuto evocare la madre del Messia dimenticando Maria, la madre di Gesù” (A. Feuillet, Le messie et sa mère d’après l’Apocalypse). Sebbene l’analisi del testo ci abbia portato ad escludere a un livello di interpretazione letterale l’identificazione della Donna-vestita-di-sole con Maria, essa va recuperata a livello di suggestione, di significato presente non direttamente nel testo, ma inevitabilmente evocato dalla sua lettura in un contesto cristiano. Del resto anche nel Vangelo di Giovanni più di una volta la madre di Gesù viene associata alla Donna (Gv. 2,4 e 19,26), mostrando che nella sua mente le due immagini tendono a convergere in una.
E’ bene quindi tenere tutti e tre i significati: la Donna è ad un tempo Eva, la Chiesa e Maria. Anzi, coinvolgere la madre di Gesù in questa immagine ne arricchisce immensamente la valenza teologica, in questa Chiave infatti Maria sintetizza in sé le altre due immagini, diventando così la Nuova Eva, madre dell’uomo nuovo e la prefigurazione del Popolo di Dio, madre di Cristo in noi. Il parto qui narrato allora non è tanto il parto di Betlemme, quanto il parto sotto la croce, dove, offrendo il suo sacrificio di madre, Maria genera una seconda volta Gesù al mondo e diventa così madre nostra e madre della Chiesa.

Le qualità della Donna

La Donna Eva/Chiesa/Maria è presentata rivestita di sole: non brilla di luce propria, ma la riceve come un vestito. Non è bella di per sé, né gloriosa, ma è resa tale da Dio, che per amore la riveste della Sua bellezza e della Sua gloria.
Essendo rivestita di sole, la Donna non teme le tenebre. Porta la luce in sé e con sé, non sarà quindi colpita dall’oscuramento annunciato; le tenebre che dilagano nel mondo non la riguardano, anzi, nel crescere dell’oscurità, il sole di cui è rivestita diventa un faro per gli uomini, un punto di riferimento, una speranza di salvezza.
Ma il simbolo è ancora più ricco, infatti il sole non può essere assimilato ad un semplice abito od ornamento. Nell’A.T. è usato a volte come simbolo di Dio stesso e nel nuovo come immagine di Cristo Risorto. Dire che la Donna è rivestita di sole quindi equivale a dire che è rivestita di Dio. Non è Dio ella stessa, eppure indossa le vesti di Cristo trasfigurato, ha cioè ricevuto in dono prerogative divine, ha ricevuto in dono Cristo Risorto, di cui si è rivestita fino ad esserne compenetrata.
Subito dopo l’attenzione viene catturata da un secondo dettaglio: la Donna Eva/Chiesa/Maria ha la luna sotto i suoi piedi. Cosa vuol dirci Giovanni con questa immagine? Essa è certamente meno evidente di quella del sole e la fantasia degli esegeti non ha mancato di esprimersi in vario modo su questo dettaglio. Tra le tante, l’opinone più convincente mi sembra quella di Vanni, che sottolinea come la luna era per i popoli antichi (ed in particolare per gli Ebrei) il segno dello scorrere del tempo, visto che i calendari erano lunari.
Se la Donna Eva/Chiesa/Maria ha la luna sotto i suoi piedi, allora ella è Signora del Tempo, non è più sottomessa alla sua tirannia, ma piuttosto lo domina e lo possiede, “è al di sopra delle vicende umane, non è intaccata da esse” (U. Vanni, Apocalisse, p. 233). Al tempo stesso, però, la luna è luce notturna. Ponendola sotto i suoi piedi Giovanni intende dire che la Donna domina non solo nella luce, ma anche nelle tenebre, portando la luce in esse. Possiamo infine considerare che la luna in molte culture pagane è il simbolo di una divinità femminile, percepita spesso come ambigua ed ingannevole. La Donna vestita di sole quindi, ponendo la luna sotto i suoi piedi, afferma un modello diverso di femminilità, non più lunare, ma solare, quindi non più ambigua e seduttiva, ma piuttosto fatta di certezza e di luce.
Infine la Donna Eva/Chiesa/Maria porta sul capo una corona di dodici stelle. In quanto incoronata è da annoverare anch’essa tra i vincitori e come i ventiquattro presbiteri è una co-regnante accanto a Dio. A questo si aggiunge il dettaglio delle dodici stelle che compongono la corona. Cosa sono queste stelle? Molte risposte sono possibili: potrebbero essere (se consideriamo prevalente il numero di dodici) le tribù di Israele o i dodici apostoli o potrebbero essere Chiese (se facciamo prevalere l’immagine della stella). Quello che è abbastanza chiaro è che queste stelle contribuiscono all’azione della Donna di illuminare il mondo: non solo è rivestita di sole, non solo domina la luna, ma è coronata di stelle, possiede quindi tutta la luce.
La sua luminosità è a nostro beneficio, il suo mero apparire è già luce per il mondo.
          (F. Bartoli, da “Uscite popolo mio da Babilonia”, ed. Messaggero Padova)

 https://uscitepopolomiodababilonia.wordpress.com/2011/12/22/la-donna-vestita-di-sole/

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