venerdì 30 dicembre 2022

La maternità divina, principio e vertice del mistero mariano, di Michele Giulio Masciarelli



La maternità divina, principio e vertice del mistero mariano

di Michele Giulio Masciarelli





Il cristianesimo coltiva il mistero della maternità a tanti livelli. Uno di essi, il più denso e il più vasto, lo celebra in riferimento a Maria di Nazaret e di Gerusalemme: lei è la madre di Gesù, è la madre della Chiesa, è la madre del genere umano. L’essere madre di Gesù chiede la qualificazione di Madre di Dio, perché Gesù è Dio e da lei è nato l’Uomo-Dio: dal suo santo seno è uscito suo Figlio, indivisibilmente Figlio del Padre e perciò Dio. Maria Madre di Dio è il titolo natalizio dato da Dio a lei, il suo titolo più alto, il vertice del suo mistero e della sua gloria, dalla teologia da sempre considerato la prima verità mariana su cui costruire la riflessione credente su di lei.

Il culto di Maria, la vergine madre di Dio, è nato alla luce delle feste per la nascita del Signore. Testimoniato già agli inizi del V sec. a Gerusalemme, si è sviluppato dopo il Concilio di Efeso (431). A Roma, la basilica di Santa Maria Maggiore, fatta erigere da Sisto III (432-440), costituisce la prima testimonianza per l’Occidente. Benché a Gerusalemme la festa di Maria la Theotokos fosse già celebrata nel 420 il 15 agosto, data di cui si ignora l’origine, però è nel tempo di Natale che compare una festa particolare di Maria: il 26 dicembre in Oriente, il 1° gennaio a Roma (VII sec.), il 18 gennaio in Gallia, il 18 dicembre (attesa della nascita) in Spagna.

Questa festa è, per la logica dei misteri, matrice di altre feste sulla Vergine-Madre: poiché la memoria mariana del 1° gennaio era stata offuscata, in Occidente, dalla festa della circoncisione, il Medioevo, a partire dal VII-VIII sec., ha festeggiato «le quattro Madonne»: la Purificazione (2 febbraio), l’Annunciazione (25 marzo), l’Assunzione (15 agosto), la Natività (8 settembre). Due di esse dipendevano direttamente dalla festa di Natale, ed erano feste del Signore prima che di sua Madre.

La gloria più alta, la collaborazione più forte

Essendo la divina maternità il principale privilegio attribuito da Dio a Maria, questa festa, di là d’ogni considerazione storico-liturgica, è teologicamente la festa mariana più significativa e più importante. Theotokos, Madre di Dio, è il titolo più ardito, la dignità più alta che la Chiesa, nella sua sapienza credente, ha riconosciuto a Maria nel Concilio di Efeso (431). Questo eccelso titolo è stato giustificato storicamente, ed è giustificato teologicamente, da ragioni cristologiche: Gesù Cristo, Dio e uomo, persona unica, indivisibile e non moltiplicabile, è nato da Maria, che conseguentemente è Madre di Dio.a) Chi disconosce il Figlio disconosce la Madre. Maria è Madre del Figlio di Dio, secondo la natura umana. Ella non è Madre del Dio unico in tre persone, ma è la Madre del Figlio che è Dio. Questa maternità rispetto al solo Figlio è la ragione sufficiente e completa perché Maria venga chiamata Madre di Dio. Solo se Gesù non fosse Dio, Maria non sarebbe la Madre di Dio. È dunque, la verità cristologica a giustificare e ad esigere il titolo di Theotokos per Maria. Storicamente, chi ha avuto difficoltà ad affermare l’unità personale di Cristo (il nestorianesimo) ha avuto anche difficoltà a chiamare Maria Madre di Dio.

Oggi è strisciante l’errore di attribuire a Cristo una persona umana, senza concepirla come la persona divina del Figlio incarnato, ma solo come un uomo intimamente unito a Dio. È chiaramente opposta alla fede cristologica «l’affermazione secondo cui l’umanità di Gesù Cristo esisterebbe, non come assunta nella persona eterna del Figlio di Dio, ma piuttosto in se stessa come persona umana e, di conseguenza, il mistero di Gesù Cristo consisterebbe nel fatto che Dio che si rivela sarebbe sommamente presente nella persona umana di Gesù» (Congregazione per la dottrina della fede, Mysterium Filii Dei [21 febbraio 1972], n. 1).

È poco affermare, rispetto alla verità cristologica di Calcedonia, che Gesù gode della compagnia di Dio: è poco per lui ed è poco, conseguentemente, per Maria: allora non sarebbe la madre di Dio, ma solo dell’uomo di Nazaret. La verità del mistero di Cristo è la base della verità di Maria, ma, proprio per questo, il mistero mariano è garanzia del mistero di Cristo. Perciò, ogni dottrina cristologica incompatibile con il titolo di Theotokos è incompatibile con la dottrina della Chiesa.b) La maternità divina, cuore del mistero mariano. Grande è il senso del mistero della maternità divina: essa non s’arresta all’aver permesso al Figlio di Dio di assumere la natura umana, ma significa anche a quale vertice di collaborazione il Dio trinitario ha voluto chiamare una creatura; Maria, con il suo ruolo di grazia essenziale avuto nell’incarnazione, partecipa al cambio del regime dell’alleanza: anzitutto per Cristo, ma anche per mezzo di lei sono stati inaugurati i tempi nuovi; anzitutto da Cristo, ma anche per la sua mediazione materna la storia dell’approssimarsi di Dio nel mondo ha raggiunto il livello della presenza personale; soprattutto con Cristo, ma anche con la sua disponibilità l’onomastica di Dio s’è arricchita del consolantissimo nome di Emanuele.

Tutte le altre collaborazioni di Maria all’opera messianica di Gesù dipendono dall’aver accettato di divenire sua Madre: si direbbe che sono una sua espansione. Legata al mistero dell’Incarnazione, la maternità divina di Maria partecipa al ruolo fontale di quel mistero rispetto agli altri misteri cristiani.

L’incarnazione è la porta degli altri misteri vissuti da Gesù: della sua esistenza taumaturgica e di rivelatore del Padre durante la sua vita pubblica, della sua passione e della sua morte in croce, della sua risurrezione, della sua ascensione al cielo, della sua glorificazione alla destra del Padre, del suo invio dello Spirito, della sua azione salvifica immanente all’agire missionario della Chiesa, della sua futura parusia con l’esercizio del suo giudizio finale. Per così dire, alla base di tutti questi misteri c’è l’incarnazione e, perciò, anche la mediazione materna in essa esercitata dalla Vergine.

Una maternità completa

Si è soliti stabilire, e a ragione, un rapporto tra verginità mariana e fede ecclesiale. Maria, con il suo stato verginale, è vergine non solo perché non conosce uomo (cf. Lc 1,34), ma anche perché appoggia la sua vita totalmente su Dio. Vergine, infatti, è chi, non confidando in appoggi umani, nel sostegno di un’altra persona, consegna la sua intera esistenza a Dio, affidandosi a lui solo. Si capisce, allora, perché la Chiesa sia vergine per la sua fede: essa deve la sua esistenza e la sua missione a Dio solo: al Padre che l’ha suscitata generando i figli che la compongono, allo Spirito che la consola e la ispira con la luce della sua sapienza, al Cristo che l’ha istituita e la guida come permanente Pastore.a) Una maternità a più dimensioni. La maternità di Maria, lungi dall’essere un mito, è invece un concepire, un accogliere il Figlio nell’unità e nella totalità della propria persona, corpo, cuore e fede. È una vera maternità fisica. Non è scontato ricordarlo. Nella storia della fede la sottolineatura di questa dimensione è stata necessaria e urgente farla, quando, durante la lotta allo gnosticismo e al docetismo, si affermava che la carne di Cristo sarebbe stata una «carne spirituale» recata con sé dal Cielo dallo stesso Verbo e che Gesù era «nato attraverso la Vergine, non dalla Vergine, avendo nella Vergine non una madre, ma una vita» (Tertulliano, Val., 27, 1).

Nella difesa della maternità fisica contro i docetisti fa la sua comparsa il titolo di Theotokos e la Chiesa inizia a considerare la maternità divina di Maria, come «maternità metafisica» (R. Cantalamessa). Tra Maria e Cristo non viene considerata la relazione di ordine fisico, ma quella di ordine metafisico, che la colloca nell’incarnazione del Figlio a fianco del Padre: Gesù a Natale nasce quale Figlio del Padre e di Maria; a nessun altro, fuori che al Padre, può essere attribuita la di lui paternità; a nessun’altra, fuori che a Maria, può essere attribuita la di lui maternità. Con semplicità, ma anche con precisione di fede ,sant’Ignazio d’Antiochia affermava che Gesù è Figlio di Dio e di Maria (Ep. Ef., 7, 2).

La maternità esercitata da Maria nei confronti di Cristo comprende la dimensione educativa. In ogni maternità umana il compito educativo è più importante della sola generazione. La maternità divina di Maria è anche maternità educativa: ciò significa che «Maria deve essere chiamata “colei che ha educato Dio”. […] Si deve riconoscere in Maria l’educatrice del Figlio di Dio nella sua infanzia umana. […] Dell’educazione data da Maria a Gesù, ne raccogliamo i frutti nel Vangelo. È certo che il comportamento del Salvatore conservava le tracce dell’influsso materno, ma non possiamo reperire queste tracce in modo preciso» (J. Galot, Maria, la donna nell’opera di salvezza, Roma 1984, pp. 106. 197).b) La maternità divina, paradigma di fede. Maria riconduce l’atto generativo ad un’esperienza pienamente personale: la maternità fisica si completa, cioè, in una relazione materna tale per cui ella è realmente Madre della persona di Gesù, vero uomo e vero Dio. La maternità di Maria implica la totale riorganizzazione della sua vita e della sua personalità sul modulo della maternità.

A questo punto si inserisce una terza dimensione: la fede. Maria vive dunque anche una maternità spirituale: «Maria partorì nella fede colui che aveva generato nella fede» (sant’Agostino, Sermo 215, 4).

La maternità divina di Maria non è estranea a noi. È un principio vitale, fondatore e ispiratore della vita della Chiesa: è, ad esempio, paradigma di fede per la Chiesa. Ma in che senso Maria, con la sua maternità divina, è tipo della fede della Chiesa? Qual è il nesso teologico fra quella maternità e quella fede? Poiché, come insegnano i Padri, credere a livello di fede teologale consiste nel “concepire” Dio nel proprio cuore e, dacché la maternità divina ha rappresentato il pieno compimento di questo mistero, la conclusione è che la maternità divina è il compimento estremo, la perfezione della fede teologale (cf. A. Müller e R. Laurentin). Anche a livello della maternità, dunque, l’esperienza di fede di Maria si congiunge, in modo fondativo ed esemplare, con l’esperienza credente della Chiesa. Il cerchio lo si può chiudere ancora con più rigore.

Quanto detto finora fa comprendere meglio perché Maria abbia potuto vivere, senza contraddizione, il mistero di una maternità verginale: non sono, infatti, verginità e maternità che due forme dell’unica esperienza di fede. Si capisce anche, di conseguenza, che il volto della Chiesa esprimerà una fisionomia armonica solo quando recherà, ad un tempo, i tratti della maternità e quelli della verginità: quando cioè mostrerà di avere il volto della perfetta Credente. In questo senso certamente una Chiesa non mariana non si dà. Ha ragione Isacco della Stella (+ 1178) a chiamare Maria e la Chiesa una sola vergine, una sola Madre: «L’una e l’altra sono madre; l’una e l’altra, vergine. Entrambe concepiscono per opera dello Spirito Santo, non per desiderio carnale. Entrambe danno un figlio a Dio Padre senza peccato» (Sermone 51).




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Fonte: http://www.settimananews.it/saggi-approfondimenti/madre-dio-2/

lunedì 26 dicembre 2022

Omelia per la Messa di Natale 2022 dell'Arcivescovo Giuseppe Baturi

 

Omelia per la Messa di Natale 2022

dell'Arcivescovo Giuseppe Baturi




C’è ancora spazio in noi per l’incanto, lo stupore di questa notte? L’abitudine delle parole che usiamo stanotte le ha rese meno sincere? Il Natale è capace ancora di generare una profonda conversione nel modo di sentire e leggere la vita?

Cari fratelli e sorelle, a Natale siamo riportati all’essenza del cristianesimo, alle verità più profonde della fede, a quel nucleo elementare che sorregge la nostra speranza. Il contenuto elementare e profondo della nostra fede si ricapitola nella persona di Gesù Cristo e nella sua presenza tra noi, perché Egli ci è contemporaneo. La sua nascita, le sue parole e opere, la sua morte e risurrezione sono di oggi, sono per noi. Tutto di Gesù Cristo ci è contemporaneo e così quando facciamo memoria dei suoi misteri, in qualche modo, parliamo anche di noi e nel nostro presente, delle nostre paure e dei nostri desideri.

«Il popolo che camminava nelle tenebre / ha visto una grande luce; / su coloro che abitavano in terra tenebrosa / una luce rifulse» (Is 9,1). Serve davvero una luce a chi cammina nelle tenebre. Nel buio la realtà non si lascia riconoscere, siamo a disagio e il fastidio si alimenta di paure. Temiamo sempre che il buio nasconda una brutta possibilità. Nelle tenebre siamo incapaci di scoprire le presenze amiche e di scorgere un orizzonte ultimo verso cui andare e nel quale collocare il nostro presente. Se manca la luce il nostro cammino si popola di fantasmi, si fa la guerra, si provocano divisioni, si odia e si fa violenza, si vive nel timore.

Pensiamo a chi soffre la tragedia della guerra ed è costretto a nascondersi nel buio di un rifugio; a chi è ammalato gravemente e non riesce a vedere cosa l’attende; a chi non gode di un amore caldo al quale abbandonarsi; a chi ha smarrito la gioia del vivere e la speranza di una meta. Vogliamo la luce così come desideriamo la serenità e la pace, come sospiriamo il volto di persone familiari e rassicuranti.

La luce è dono di Dio, è una grazia necessaria, attesa, sperata. «Hai moltiplicato la gioia, / hai aumentato la letizia» (Is 9,2). La luce è la gioia di un amore donato. «Perché un bambino è nato per noi, / ci è stato dato un figlio» (Is 9,5). Quanto volte abbiamo pensato che la luce della vita sia una persona amata, con cui spartire la speranza della felicità. Quante volte abbiamo pensato di qualcuno: Sei tu la luce dei miei occhi. Tu! Il Natale è l’annuncio lieto, è l’esperienza sorprendente che la luce capace di illuminare il nostro cammino è nato, ha il volto di un bambino amabile. È Cristo la luce del mondo. La luce, infatti, è diventata carne e ci ha raggiunti in un figlio nato per noi, a Betlemme, nei giorni del censimento disposto da Cesare Augusto; un primogenito avvolto in fasce e posto in una mangiatoia, poiché per lui non si era trovato posto nell’alloggio. La luce che rischiara il cammino è un bambino da adorare come fecero i pastori; da abbracciare, come fece Simeone; da raccontare, come fece Anna; da proteggere, come fece Giuseppe; da accudire e custodire nel cuore, come fece Maria. La luce è un bambino da accogliere e amare. Dio ha scelto la via dell’incarnazione perché potessimo incontrarlo lasciandoci attirare dalla sua bellezza, senza paura e senza vergogna.

Dio ci guarda con gli occhi di quel figlio. Anche noi, come i pastori quella notte, siamo chiamati a leggere la vita alla luce dell’evento di Gesù, a guardarla con i suoi occhi. Solo lo sguardo di Dio può rendere giustizia alla vita. Nel bambino di Betlemme siamo attirati all’amore di «Colui che ha creato il cielo e la terra, colui che è sempre stato e sempre sarà, colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita, della nostra esistenza, colui che conosce tutto, che vede nei nostri pensieri, colui che è presente a noi più che noi stessi» (San Paolo VI).

Invochiamo la tua pace, o bambino nato per noi, quella che si estende a tutti gli uomini, che ci riconcilia con la nostra storia e ci fa operatori di riconciliazione affinché ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando e ogni mantello intriso di sangue siano bruciati e dati in pasto al fuoco (cf. Is 9,4).

Ti preghiamo perché possiamo guardare gli eventi e gli incontri della vita con la profondità del tuo sguardo.

Ti domandiamo l’audacia e la semplicità di raccontare a tutti la tua bellezza.

Ti invochiamo, o figlio primogenito, perché abbiamo la capacità di stupirci ancora e di gustare sempre la gioia dell’incontro con te.



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Fonte:  https://www.chiesadicagliari.it/arcivescovo/giuseppe-baturi/

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