sabato 11 gennaio 2020

Francesco Follo, Il Battesimo di Cristo quale epifania della Trinità



Il Battesimo di Cristo quale epifania della Trinità

Lectio Divina sulle letture liturgiche della domenica del Battesimo del Signore 
Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche della domenica del Battesimo del Signore, 11 gennaio 2015.
Il presule offre, come di consueto, anche una Lettura patristica.
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Il Battesimo di Cristo quale epifania della Trinità.
Rito Romano
Battesimo del Signore
Is 55,1-11; Sal Is 12; 1Gv 5,1-9; Mc 1,7-11.
Rito Ambrosiano
Is 55, 4-7; Sal 28; Ef 2,13-22; Mc 1,7-11.
1) Il Battesimo di Gesù e il nostro battesimo.
    In questa domenica si celebra il fatto che Gesù fu battezzato2 da Giovanni il Battista nelle acque del fiume Giordano in Terra Santa. Questo Giovanni chiama i peccatori perché si lavassero nel fiume prima di fare penitenza. Gesù si presenta a Giovanni per esser battezzato: “Si confessa dunque Peccatore?”. Certamente, no.
Ma allora perché Cristo, l’Innocente, andò al Giordano per farsi battezzare?
    A questa domanda possiamo rispondere con San Girolamo: “Per una triplice ragione il Salvatore riceve il battesimo da Giovanni. Primo, perché essendo nato uomo come gli altri deve rispettare la Legge con giustizia e umiltà. Secondo, per dimostrare col suo battesimo l’efficacia del battesimo di Giovanni. Terzo per mostrare, santificando le acque del Giordano per mezzo della discesa della colomba, l’avvento dello Spirito Santo nel lavacro dei credenti” (Girolamo, Commento a Mt 1,3,13).
Ma sorge spontanea un’altra domanda: perché festeggiare e vivere questo mistero del Battesimo di Gesù?
     Per esprimere la nostra riconoscenza a Gesù. Nel suo Battesimo il Cristo, il senza peccato, assume tutti i nostri peccati e, mostrando la vicinanza di Dio al cammino di conversione dell’uomo, si fa solidale con noi e ci redime. Il valore redentivo viene dal fatto che Gesù innocente si è fatto, per puro amore, solidale con i colpevoli ed ha trasformato così, dall’interno, la loro situazione. Infatti, quando una situazione catastrofica come quella provocata dal peccato viene assunta a favore dei peccatori per puro amore, allora questa situazione non sta più sotto il segno dell’opposizione a Dio, ma, al contrario, sotto quello della docilità all’amore che viene da Dio (cfr. Gal 1,4), e diventa quindi sorgente di benedizione.Questo atto di straordinaria umiltà fu dettato dal voler stabilire una comunione piena con ciascuno di noi, dal desiderio di realizzare una vera solidarietà con noi, con la nostra condizione.
   Questo atto di Gesù anticipò la Croce, l’accettazione della morte per i peccati nostri e di tutta l’umanità. Gesù prende sulle sue spalle il peso della colpa dell’intera umanità, inizia la sua missione mettendosi al posto dei peccatori, nella prospettiva della croce. Questo atto di abbassamento, con cui Gesù volle uniformarsi totalmente al disegno d’amore di Dio Padre.
Se, poi, volessimo riformulare le domande espresse poco sopra così: “Ma perché dunque il Padre ha voluto questo? Perché ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo come Agnello a prendere su di sé il peccato del mondo (cfr Gv 1,29)?”, la risposta sarebbe: per donare all’umanità la vita di Dio, il suo Spirito d’amore, perché ogni uomo possa attingere da questa sorgente inesauribile di salvezza. Ecco perché i genitori cristiani portano appena possibile i loro figli al fonte battesimale, sapendo che la vita, che essi hanno loro comunicato, invoca una pienezza, una salvezza che solo Dio può dare. E in questo modo i genitori diventano collaboratori di Dio nel trasmettere ai loro figli non solo la vita fisica ma anche quella spirituale.
2) Il nostro battesimo.
    Certamente il battesimo di Gesù fu un battesimo diverso da quello che da bambini o da adulti abbiamo ricevuto, ma non è privo di un profondo rapporto con esso. In fondo, tutto il mistero di Cristo nel mondo si può riassumere con questa parola, “battesimo”, che in greco significa “immersione”. Il Figlio di Dio, che condivide dall’eternità con il Padre e con lo Spirito Santo la pienezza della vita, è stato “immerso” nella nostra realtà di peccatori, per renderci partecipi della sua stessa vita: si è incarnato, è nato come noi, è cresciuto come noi e, giunto all’età adulta, ha manifestato la sua missione iniziando proprio con il “battesimo di conversione” dato da Giovanni il Battista. Il suo primo atto pubblico, come i Vangeli ci dicono, è stato quello di scendere al Giordano, confuso tra i peccatori penitenti, per ricevere quel battesimo. Giovanni naturalmente non voleva, ma Gesù insistette, perché quella era la volontà del Padre (cfr Mt 3,13-15).
In estrema sintesi, alla domanda: “Cosa vuol dire allora per noi vivere questa festività del Battesimo di Gesù?”. La risposta è: “Vuol dire vivere nel Battesimo di Gesù fintanto che Egli abbia preso tutto da ciascuno di noi e ci abbia dato ogni cosa”. E come Egli prende tutto da noi? Attraverso il nostro Battesimo.
   Dunque, da quando Gesù Cristo, il Figlio unigenito del Padre si è fatto battezzare, il cielo è realmente aperto e continua ad aprirsi, e possiamo affidare ogni nuova vita che sboccia o che, ormai adulta vuole immergersi nel Dio vero, alle mani di Colui che è più potente dei poteri oscuri del male.   Questo, in effetti, comporta il Battesimo: restituiamo a Dio quello che da Lui è venuto.
   Il Battesimo, infatti, è più di un lavaggio, di una purificazione. È più dell’assunzione in una comunità. È una nuova nascita. È un nuovo inizio della vita. Nel Battesimo ci doniamo a Cristo – Egli ci assume in sé, affinché poi non viviamo più per noi stessi, ma grazie a Lui, con Lui e in Lui; affinché viviamo con Lui e così per gli altri. Nel Battesimo abbandoniamo noi stessi, deponiamo la nostra vita nelle sue mani, così da poter dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)Il Battesimo implica questa novità: la nostra vita appartiene a Cristo, non più a noi stessi. Ma proprio per questo non siamo soli neppure nella morte, ma siamo con Lui che vive sempre. Accolti da Cristo nel suo amore, siamo liberi dalla paura e viviamo nel e dell’amore di Lui, Che è la Vita.
3) Il Battesimo dell’Autore del Battesimo.
    Il brano del Vangelo, proposto in questa domenica che ricorda il battesimo del Signore, si apre con due affermazioni di Giovanni Battista: “Dopo di me viene Colui che è più forte di me: io vi battezzo nell’acqua, ma Egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,7-8). La predicazione del Battista è tutta racchiusa nella funzione di attirare l’attenzione su Gesù. Nella sua estrema essenzialità (si veda la nota 1), il racconto del battesimo di Gesù è ricco di significati importanti.
   Primo: Gesù – in Marco 1, 7-11 – è presentato nella duplice dimensione del suo mistero: l’uomo dalle umili origini (“venne da Nazareth di Galilea”) e l’amato Figlio di Dio.Secondo: l’aprirsi dei cieli, la discesa dello Spirito, la voce celeste, tutto converge nell’indicare che, con la manifestazione di Gesù sulle rive del Giordano, irrompono i tempi messianici. L’invocazione accorata di Isaia 63,19 (“Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”) è stata ascoltata: dopo essere rimasto a lungo chiuso e silenzioso, il cielo torna ad aprirsi, lo Spirito di Dio torna a essere in mezzo al popolo e la parola del Signore torna a risuonare.
     Nel Battesimo è il movimento del Natale che si ripete: Dio scende ancora, entra in ciascuno di noi, nasce in noi perché noi nasciamo in Dio e Cristo diventa il centro di ogni vita cristiana. Fatto che le Vergini consacrate nel mondo sono chiamate a testimoniare in modo particolare.In effetti le Vergini consacrate portano a compimento la vocazione cristiana ricevuta nel battesimo con l’accoglienza della propria vocazione particolare e vivono il loro essere donna come donazione completa a Dio.
Nel percorso della loro maturazione umana e spirituale, la consacrazione nell’Ordo Virginum offre loro una modalità per vivere in pienezza la loro umanità, che il battesimo aveva innestato in Cristo.
In questa modalità di vita sviluppano l’originalità personale come dono per sé e per gli altri. La loro vita posta totalmente in Dio diventa esempio di relazione con se stesse, con gli altri, con Dio, nella Chiesa, in un determinato contesto sociale e culturale.Nel rito di consacrazione le vergine consacrate, chiamate da Dio Padre per un disegno di amore (Rito di Consacrazione delle Vergini, 34), ricevono una “nuova unzione spirituale” (RCV, 29) che le radica nella consacrazione battesimale. Con la celebrazione della consecratio queste donne sperimentano un nuovo modo di partecipare alla vita trinitaria, in cui già il battesimo le aveva inserite e Dio le sostiene di giorno in giorno nella fedeltà (RCV, 53).
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LETTURA PATRISTICA
Girolamo, Comment. in Marc., l
BATTESIMO DEL SIGNORE
Viene dopo di me uno che è più forte di me, e io non sono degno di prostrarmi per sciogliergli la correggia dei calzari” (Mc 1,7). Siamo di fronte a una grande prova di umiltà: è come se avesse dichiarato di non essere degno di essere servo del Signore…
  “Io vi battezzo con acqua” (Mc 1,8), cioè sono solamente un servo: egli è il creatore e il Signore: Io vi offro l’acqua, sono una creatura e vi offro una cosa creata: egli che non è stato creato, vi porge una cosa increata. Io vi battezzo con acqua, cioè vi offro una cosa visibile; egli invece vi offre l’invisibile. Io che sono visibile, vi do l’acqua visibile; egli che è invisibile, vi dà lo Spirito invisibile.
  “E accadde che in quei giorni venne Gesù da Nazaret della Galilea” (Mc 1,9). Osservate il collegamento e il significato delle parole. L’evangelista non dice, venne Cristo, e neppure venne il Figlio di Dio, ma venne Gesù. Qualcuno potrebbe chiedere: perché non ha detto che venne Cristo? Parlo secondo la carne: evidentemente Dio è da sempre santo e non ha bisogno di santificazione, ma ora parliamo di Cristo secondo la carne. Allora non era stato ancora battezzato e non era stato ancora unto dallo Spirito Santo. Nessuno si scandalizzi: parlo secondo la carne, parlo secondo la forma del servo che egli aveva assunto, cioè parlo di Colui che venne al battesimo quasi fosse un peccatore. Così dicendo non intendo affatto dividere il Cristo, come se una persona fosse il Cristo, un’altra Gesù e un’altra il Figlio di Dio: ma intendo dire che, pur essendo uno solo e essendo sempre lo stesso, apparve però a noi diverso a seconda dei diversi momenti.
    «Gesù da Nazareth della Galilea», dice Marco. Considerate il mistero. Dapprima accorsero da Giovanni Battista la Giudea e gli abitanti di Gerusalemme: nostro Signore che dette inizio al battesimo del Vangelo e mutò in sacramenti del Vangelo i sacramenti della legge, non venne dalla Giudea né da Gerusalemme, ma dalla Galilea delle genti. Gesù viene infatti da Nazareth, villaggio della Galilea. Nazara significa fiore: cioè il fiore, che è Gesù, viene dal fiore.
   “E fu battezzato da Giovanni nel Giordano” (Mc 1,9). È un grande atto di misericordia: si fa battezzare come un peccatore colui che non aveva commesso alcun peccato. Nel battesimo del Signore tutti i peccati vengono rimessi: ma, in un certo senso, il battesimo del Signore precede la vera remissione dei peccati che ha luogo nel sangue di Cristo, nel mistero della Trinità.
    “E subito, risalendo dall’acqua, vide i cieli aperti” (Mc 1,10). Tutto quanto è stato scritto, è stato scritto per noi: prima di ricevere il battesimo abbiamo gli occhi chiusi e non vediamo il cielo. “E vide lo Spirito come colomba, discendere e fermarsi su di lui. E una voce venne dal cielo: «Tu sei il mio dilettissimo Figlio, in cui io mi compiaccio»” (Mc 1,10-11). Gesù Cristo è battezzato da Giovanni, lo Spirito Santo discende sotto forma di colomba e il Padre dai cieli rende la sua testimonianza. Guarda o Ariano, guarda o eretico: anche nel battesimo di Gesù c’è il mistero della Trinità. Gesù è battezzato, lo Spirito discende come colomba, e il Padre parla dal cielo.
     «Vide i cieli aperti», scrive Marco. Così, dicendo «vide» mostra che gli altri non videro: non tutti infatti vedono i cieli aperti. Che dice infatti Ezechiele all’inizio del suo libro (Ez 1,2)? «E accadde – dice – che mentre stavo seduto lungo il fiume Cabar in mezzo ai deportati, vidi i cieli aprirsi «. Io vidi, dice: quindi gli altri non vedevano. E non si creda che i cieli si aprano così, materialmente e semplicemente: noi stessi che qui sediamo, vediamo i cieli aperti o chiusi a seconda dei nostri meriti. La fede piena vede i cieli aperti, la fede esitante li vede chiusi.
*
NOTE
1 In effetti, il Padre dà testimonianza al Figlio, lo Spirito Santo in icona di colomba discende dal cielo, il Figlio china il proprio capo immacolato per essere battezzato per manifestarsi all’uomo come redentore dalla schiavitù del peccato. “Che grande mistero in questo Battesimo celeste! Il Padre si fa sentire dal cielo, il Figlio appare sulla terra, lo Spirito Santo si manifesta sotto forma di colomba: non si può parlare infatti di vero Battesimo, né di vera remissione dei peccati dove non sia la verità della Trinità, né si può concedere la remissione dei peccati ove non si creda alla Trinità perfetta.” (Cromazio di Aquileia, Discorso 34, 1-3). 
2 Tutti gli evangelisti ci hanno tramandato l’evento (Mt 3, 13-17; <em> Mc 1, 9-11; Lc3,21-22; Gv 1,29-34). Leggiamo il testo di Marco (1,9-10): “In quei giorni (Gesù) venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi il cielo e lo Spirito Santo discendere su di lui come una colomba”. Gesù era venuto al Giordano da Nazareth, dove aveva trascorso gli anni della sua vita “nascosta”. Prima della sua venuta, egli era stato annunziato da Giovanni, che al Giordano esortava al “battesimo di penitenza”. “E predicava: “Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non sono degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”” (Mc 1,7-8).  Si era ormai sulla soglia dell’era messianica. Con la predicazione di Giovanni si conchiudeva la lunga preparazione, che si era svolta sul filo di tutta l’antica alleanza, e si può dire di tutta la storia umana, narrata dalle sacre Scritture. Giovanni sentiva la grandezza di quel momento decisivo, che interpretava come l’inizio di una nuova creazione, nella quale scopriva la presenza dello Spirito che aleggiava sulla prima creazione (Gn1,2). Egli sapeva e confessava di essere un semplice annunciatore, precursore e ministro di colui che sarebbe venuto a “battezzare con lo Spirito Santo”.


 https://it.zenit.org/articles/il-battesimo-di-cristo-quale-epifania-della-trinita/

PAOLO VI, Il coraggio della verità nella confusa ora presente



PAOLO VI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 20 maggio 1970


 
   Il coraggio della verità nella confusa ora presente

 
     Noi dobbiamo fare eco ad una parola da Noi pronunciata nel Concistoro (cioè nella riunione dei Cardinali) dell’altro giorno, perché ci sembra che sia importante ed attuale, e che possa essere ripetuta anche in una Udienza generale come questa, perché a tutti destinata. E la parola è questa: «L’ora che suona al quadrante della storia esige da tutti i figli della Chiesa un grande coraggio, e in modo tutto speciale il coraggio della verità, che il Signore in persona ha raccomandato ai suoi discepoli, quando ha detto: che il vostro sì sia sì, il vostro no, no» (Matth. 5, 37).
     Tanto è importante questo dovere di professare coraggiosamente la verità, che il Signore stesso lo ha definito lo scopo della sua venuta a questo mondo. Davanti a Pilato, durante il processo che precede la sua condanna alla croce, Gesù ebbe a dire queste gravi parole: «Io per questo sono nato, e per questo sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità» (Io. 18, 37). Gesù è la luce del mondo (Io. 8, 12), è la manifestazione della verità; e per compiere questa missione, dalla quale deriva la nostra salvezza, Gesù darà la propria vita, martire della verità, che è Lui stesso.
PIETRA D'ANGOLO
     Donde due questioni. La prima questione venne alle labbra stesse di Pilato. Lui, non forse ignaro, e forse scettico circa le discussioni filosofiche della cultura greco-romana circa la verità, lui magistrato competente a giudicare di delitti e di crimini, non di teorie speculative, si meraviglia che questo Rabbi, presentatogli come reo di morte per lesa maestà, si dichiari professore di verità, e subito lo interrompe, forse con qualche ironia: Quid est veritas?, ma che cosa è la verità? (Vi è chi ingegnosamente, su questa frase latina, ha costruito uno stupendo anagramma di risposta: est vir qui adest). E Pilato non attende la risposta, e cerca di chiudere l’interrogatorio sciogliendo la vertenza giudiziaria. Ma per noi, per tutti la questione rimane sospesa: che cosa è la verità?
Grande questione, che investe la coscienza, i fatti, la storia, la scienza, la cultura, la filosofia, la teologia, la fede. A noi preme quest’ultima: la verità della fede. Perché sulla verità della fede si fonda tutto l’edificio della Chiesa, del cristianesimo, e perciò quello della nostra salvezza, e di conseguenza quello dei destini umani e della civiltà, alla quale essi sono collegati. Perciò questa verità della fede, oggi più che mai, si presenta come la base fondamentale sulla quale dobbiamo costruire la nostra vita. È la pietra d’angolo (Cfr. 1 Petr. 2, 6-7; Eph. 2, 20; Matth. 21, 42).
   E che cosa osserviamo noi a questo proposito? Noi osserviamo un fenomeno di timidezza e di paura, anzi un fenomeno d’incertezza, di ambiguità, di compromesso. È stato bene identificato: «Un tempo era il rispetto umano che faceva rovina. Era l’ansia dei pastori. Il cristiano non osava vivere secondo la propria fede . . . Ma ora non si comincia ad avere paura di credere? Male più grave, perché intacca i fondamenti . . .» (Card. GARRONE, Que faut-il croire? Descleé, 1967). Noi abbiamo sentito l’obbligo, al termine dell’Anno della Fede, nella festa di San Pietro del 1968, di fare una esplicita professione di fede, di recitare un Credo, che sul filo degli insegnamenti autorevoli della Chiesa e della Tradizione autentica, risale alla testimonianza apostolica, che a sua volta si fonda su Gesù Cristo, Lui stesso definito «testimonio fedele» (Apoc. 1, 5).
«SI È OSATO SCAMBIARE LA PROPRIA CECITÀ CON LA MORTE DI DIO»
    Ma oggi la verità è in crisi. Alla verità oggettiva, che ci dà il possesso conoscitivo della realtà, si sostituisce quella soggettiva: l’esperienza, la coscienza, la libera opinione personale, quando non sia la critica della nostra capacità di conoscere, di pensare validamente. La verità filosofica cede all’agnosticismo, allo scetticismo, allo «snobismo» del dubbio sistematico e negativo. Si studia, si cerca per demolire, per non trovare. Si preferisce il vuoto. Ce ne avverte il Vangelo: «Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce» (Io. 3, 19). E con la crisi della verità filosofica (oh! dov’è svanita la nostra sana razionalità, la nostra philosophia perennis?) la verità religiosa è crollata in molti animi, che non hanno più saputo sostenere le grandi e solari affermazioni della scienza di Dio, della teologia naturale, e tanto meno quelle della teologia della rivelazione; gli occhi si sono annebbiati, poi accecati; e si è osato scambiare la propria cecità con la morte di Dio.
   Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. Insofferenti dell’insegnamento del magistero, posto da Cristo a tutela ed a logico sviluppo della sua dottrina, ch’è quella di Dio (Io. 7. 12; Luc. 10, 16; Marc. 16, 16), v’è chi cerca una fede facile vuotandola, la fede integra e vera, di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna, e scegliendo a proprio talento una qualche verità ritenuta ammissibile (selected faith); altri cerca una fede nuova, specialmente circa la Chiesa, tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana (ripetendo l’errore d’altri tempi, modellando la struttura canonica della Chiesa secondo le istituzioni storiche vigenti); altri vorrebbero fidarsi d’una fede puramente naturalista e filantropica, d’una fede utile, anche se fondata su valori autentici della fede stessa, quelli della carità, erigendola a culto dell’uomo, e trascurandone il valore primo, l’amore e il culto di Dio; ed altri finalmente, con una certa diffidenza verso le esigenze dogmatiche della fede, col pretesto del pluralismo, che consente di studiare le inesauribili ricchezze delle verità divine e di esprimerle in diversità di linguaggio e di mentalità, vorrebbero legittimare espressioni ambigue ed incerte della fede, accontentarsi della sua ricerca per sottrarsi alla sua affermazione, domandare all’opinione dei fedeli che cosa vogliono credere, attribuendo loro un discutibile carisma di competenza e di esperienza, che mette la verità della fede a repentaglio degli arbitri più strani e più volubili.
    Tutto questo avviene quando non si presta l’ossequio al magistero della Chiesa, con cui il Signore ha voluto proteggere le verità della fede (Cfr. Hebr. 13, 7; 9, 17). 

LA GARANZIA DEL MAGISTERO
     Ma per noi che, per divina misericordia, possediamo questo scutum fidei, lo scudo della fede (Eph. 6, 16), cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l’urto delle opinioni impetuose del mondo moderno (Cfr. Eph. 4, 14), una seconda questione si pone, quella del coraggio: dobbiamo avere, dicevamo, il coraggio della verità. Non faremo adesso alcuna analisi su questa virtù morale e psicologica, che chiamiamo coraggio, e che tutti sappiamo essere una forza d’animo, che dice maturità umana, vigore di spirito ed ardimento di volontà, capacità d’amore e di sacrificio; noteremo soltanto che, una volta di più, l’educazione cristiana si dimostra una palestra di energia spirituale, di nobiltà umana, e di padronanza di sé, di coscienza dei propri doveri.
E aggiungeremo che questo coraggio della verità è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, esso riguarda anche tutti i cristiani, battezzati e cresimati; e non è un esercizio sportivo e piacevole, ma è una professione di fedeltà doverosa a Cristo e alla sua Chiesa, ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica e tonificante testimonianza. A ciò vi aiuti, con la grazia del Signore, la Nostra Benedizione Apostolica.
Convegni «Maria Cristina di Savoia»
    Rivolgiamo il Nostro paterno saluto alle duecento appartenenti ai Convegni «Maria Cristina di Savoia», convenute a Roma da ogni parte d’Italia per il loro congresso nazionale. Siamo bene a conoscenza delle attività, dello spirito, dello stile che caratterizza la vostra istituzione, intesa a elevare e raffinare sempre di più la vostra vita cristiana, nutrendola con la formazione religiosa, rinvigorendola con la fedeltà alla Chiesa e al Papa, impegnandola in concrete attività benefiche e sociali. E ci ha fatto grande piacere essere informati sui programmi che vi tengono e vi terranno impegnate in questo e nell’anno venturo, con la trattazione approfondita delle virtù teologali della carità e della fede, oltre ai temi di carattere sociale e culturale.
Desideriamo pertanto esprimervi il Nostro sentito compiacimento per il dinamismo che riscontriamo nella bella iniziativa dei vostri «Convegni»: essi non sono un’accademia, o un passatempo, ma mirano a formare nelle signore aderenti una consapevolezza sempre più vissuta delle responsabilità che il Vangelo comporta, particolarmente per le rappresentanti di particolari ceti sociali che più degli altri, per disponibilità e tempo, possono meglio attendere al proprio perfezionamento spirituale e morale, e procurare più efficacemente il bene del prossimo. La fede vi animi in questo programma - e quanto ci rallegra sapere che questa fede è in voi ferma e sicura, inserita nella Chiesa e nell’amore al Papa, nutrita alle scaturigini della vita sacramentale; la carità, inoltre, vi sostenga e vi spinga a cercare e ad «apprezzare sempre il meglio, ripieni del frutto di giustizia che ci viene per Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio» (Phil. 1, 10, 11).
    Continuate nella vostra benemerita attività! Noi vi seguiamo con grande benevolenza, e, mentre invochiamo su di voi il patrocinio e lo spirito della Venerabile vostra Patrona, di cuore vi impartiamo la Nostra Apostolica Benedizione, che di cuore estendiamo ai vostri familiari.
 

 http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/audiences/1970/documents/hf_p-vi_aud_19700520.html

venerdì 10 gennaio 2020

Paolo VI, il santo degli artisti, di Gianfranco Ravasi


Paolo VI, il santo degli artisti

di Gianfranco Ravasi


   La canonizzazione – che si celebra oggi in piazza S. Pietro a Roma – ha generato una fitta serie di profili di Paolo VI, una figura di alta spiritualità ma anche di ricca dotazione intellettuale, innestata all’interno di un periodo storico molto complesso e, per certi versi, tormentato e fin drammatico. Si è già avuta occasione di segnalare su queste pagine alcuni testi biografici significativi. Noi ora vorremmo, invece, evocare un lineamento particolare e un po’ sorprendente di questo pontefice, quello del dialogo con l’arte contemporanea. Partiamo idealmente da un volumetto edito dall’allora «Tipografia Poliglotta Vaticana» in occasione dell’inaugurazione della «Collezione d’Arte Religiosa Moderna» (ora «Collezione d’Arte Contemporanea») dei Musei Vaticani. Era il 23 giugno 1973 e il titolo era Paolo VI agli artisti.
   Il libretto conteneva il discorso tenuto dal papa nella Cappella Sistina e rivolto al mondo delle arti per ritessere una nuova alleanza sulla scia di un passato glorioso: «Esiste ancora, esiste anche in questo nostro arido mondo secolarizzato, una capacità prodigiosa di esprimere, oltre l’umano autentico, il religioso, il divino, il cristiano». Significativamente il volumetto era illustrato con le immagini di un pittore contemporaneo, il giapponese Sadao Watanabe. Una decina d’anni prima, proprio nello stesso spazio glorioso della Sistina, ove «l’Arte religiosa diede saggio della sua potenza, dispiegando nelle sue immagini quel concerto di grandezza ideale e di bellezza estetica», Paolo VI aveva convocato un folto gruppo di artisti di ogni disciplina. Era il maggio 1964.
  Durante quell’incontro il papa aveva indirizzato loro un discorso colloquiale appassionato il cui cuore era nella consapevolezza del divorzio che si era consumato tra arte e fede anche per colpa della Chiesa: «Vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità... Vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia”, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa. Siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e – ciò che è peggio per noi – il culto di Dio sono stati male serviti». Eppure la grande sfida dell’artista era alla fine la stessa del credente autentico, «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parole, di colore, di forme, di accessibilità». Già il noto scrittore tedesco Hermann Hesse nella sua opera Klein e Wagner (1920) non esitava ad affermare: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».
   Un anno dopo l’intervento nella Sistina, l’8 dicembre 1965, erano i Padri del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: «Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani».
   Il 4 aprile 1999, giorno di Pasqua, sarebbe stato s. Giovanni Paolo II a riprendere il filo di questo dialogo – un filo che continuava ad allentarsi – con la sua famosa Lettera agli artisti: «La vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno». A dieci anni di distanza da quel testo, il 21 novembre 2009, il papa Benedetto XVI aveva voluto rieditare l’atto del suo predecessore Paolo VI convocando di nuovo, sempre nell’ambito emozionante della Sistina col suo fondale michelangiolesco, trecento artisti di ogni tipologia provenienti da tutto il mondo, per «ricordare che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa» e di questo credenti e artisti sono, ciascuno a suo modo, testimoni e artefici.
   Quando papa Montini in quell’estate del 1973 inaugurò la «Collezione d’Arte Religiosa Moderna» circa 250 artisti, la maggior parte viventi, firmavano 700 opere distribuite in oltre 50 sale. Attualmente i soggetti esposti sono più selezionati (circa 400) all’interno di una raccolta, però, di ben 8000 opere. Certo, l’arco cronologico travalica la contemporaneità in senso stretto. Si va, infatti, dalla Pietà, un olio su tela di 41,4 x 34 cm, di Van Gogh all’emozionante installazione di Studio Azzurro presentata nel primo padiglione della S. Sede alla Biennale di Venezia nel 2013. Similmente si procede da una splendida Sala Matisse con una raccolta di meraviglie come quelle casule sacre ritenute da Picasso «leggere e vitali come farfalle» o dalla cappella interamente arredata da Manzù per don Giuseppe De Luca o ancora dall’Innocenzo X di Bacon donato da Gianni Agnelli, fino a una stupefacente enorme Goccia d’acqua in bronzo di Azuma.
   Paolo VI aveva incarnato in questa imponente raccolta la sua volontà di dialogo con la cultura contemporanea. Aveva, poi, convocato anche alcuni artisti a operare in Vaticano come Consadori, Filocamo, Longaretti, Manfrini, Scorzelli, Minguzzi, Fazzini (suo è il grandioso Cristo risorto dell’Aula Paolo VI, progettata dall’architetto Nervi), talora con esiti non sempre felici (come nel caso dell’adattamento della Cappella Paolina, riportata successivamente di nuovo al suo nitore primigenio). Ci fu persino un suo desiderio frustrato: ambiva, infatti, ad avere nella «Collezione» un’opera di Picasso, ma il pittore gli oppose un rifiuto basato su motivazioni ideologiche. Certo è che dobbiamo a papa Montini l’appello, purtroppo nella pratica ecclesiale poco ascoltato, di riannodare il connubio tra arte e fede, nella consapevolezza che gli universali teologici non sono solo il Verum e il Bonum, la teologia e la morale, ma anche il Pulchrum, cioè l’estetica, come ha insegnato quel grande teologo che è stato Hans Urs von Balthasar.
  Sappiamo, poi, quanto stretto sia stato il nesso tra arte e fede nei secoli che stanno alle nostre spalle attraverso la sterminata creazione di capolavori che incarnavano la via pulchritudinis, ossia la via della bellezza come analogia per dire Dio in modo non solo vero ma anche bello, avendo nelle mani il codice iconografico della Bibbia e della fede cristiana. Anche papa Francesco, nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) – appoggiandosi al De musica di sant’Agostino secondo il quale «non amiamo se non ciò che è bello» – ha seguito il magistero montiniano esaltando «l’uso delle arti nella stessa opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo linguaggio parabolico» (n. 167).

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F. Pierini, L'Adorazione dei Magi




F. Pierini

L'Adorazione dei Magi

    
     La scena dell'adorazione da parte dei magi, descritta in Mt 2,11 ("Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra"), è un quadretto preciso e concluso, preceduto dalla visione della stella (v. 10) e seguito dal sogno, che invita ad evitare la visita ad Erode (v. 12). L'adorazione si svolge dentro la casa, tutto il resto fuori dell'abitazione. Ed è nella casa che i magi trovano il bambino con Maria sua madre1. Giuseppe, in questo momento, non viene ricordato2. Lo scopo del presente studio è di esaminare se e in che modo le vane forme di interpretazione patristica di Mt 2,11 abbiano posto in rilievo la figura e il ruolo di Maria, madre del bambino adorato dai magi. Gli altri personaggi della scena (il bambino e i magi) verranno quindi considerati solo in rapporto a questa ipotesi di lavoro. Altrettanto si dica per le discussioni riguardanti il luogo (significato di ohda), il tempo della visita, il simbolismo dei doni. Il testo, il contesto immediato e il contesto profetico presupposto dall'evangelista presentano una scena di carattere spiccatamente regale: regale il bambino, regale la madre, regale l'omaggio dei magi, regali i loro doni3; ma sembra che si debba supporre qualcosa di più: una vera e propria proclamazione di regalità divina4. É comunque indubbio che il testo di Mt sia costruito sulla base di accenni che chiedono di essere esplicitati. La stessa analisi strutturale-semiotica fa emergere questa esigenza5. La ricerca esegetica moderna, tuttavia, non risulta molto ricca circa 1'aspetto mariologico di Mt 2,11. A parte le considerazioni già accennate6, l'attenzione è rivolta soprattutto ai personaggi "attivi" dell'episodio, cioè ai magi7. I Padri della Chiesa, da parte loro, fin dall' inizio hanno cercato di sviluppare tutta una serie di interpretazioni, ricorrendo ai più diversi generi letterari8, e, come si vedrà, il ruolo di Maria è stato sempre più chiaramente e ampiamente valorizzato. La periodizzazione dell'interpretazione patristica di Mt 2,11, sotto l'aspetto specificamente mariologico, comprende tre grandi fasi. La prima va dalle origini sub-apostoliche fino alla metà del sec. IV, quando cominciano a celebrarsi le feste liturgiche collegate alla Natività e alla Teofania: in questa fase, i commenti a Mt 2,11, che si possono incontrare nelle opere più diverse, sono in realtà puri e semplici accenni, che si concentrano soprattutto sul significato profetico dell'episodio; vi si trovano anche le prime rielaborazioni letterarie. La seconda fase va dalla metà del sec. IV alla metà del sec. VI: prosegue e si accentua la produzione dei commenti scritturistici, delle prose narrative e della poesia, ma appaiono anche accenni sempre più frequenti al problema, sia nei trattati trinitari e cristologici, sia nelle prime monografie mariologiche; appaiono inoltre le prime preghiere mariane liturgiche ed extraliturgiche, e, naturalmente, le prime omelie e i primi sermoni riguardanti le già accennate feste della Natività e della Teofania. La terza fase va dalla metà del sec. VI alla fine dell'epoca patristica: mentre continuano i generi precedenti, si vanno sviluppando elaborazioni leggendarie sempre più complesse attorno alle figure dei magi, che offrono insieme variazioni assai significative intorno alla figura della madre di Gesù. Questa fase vede inoltre l'apparizione di un nuovo genere letterario: la vita di Maria. Essendo impossibile, in uno studio puramente orientativo come il presente, rendere conto di tutti gli echi patristici intorno a Mt 2,11 (che richiederebbero una trattazione assai voluminosa), si è adottato il metodo del sondaggio in riferimento sia alle tre fasi storiche accennate, sia ai principali generi letterari usati dai Padri nel corso del primo millennio. Si prendono in esame, perciò, prima di tutto i commenti veri e propri a Mt 2,11 apparsi sotto le più diverse forme; poi i vari tipi di ampliamenti teologico-narrativi attorno a quella pericope evangelica: gli apocrifi, le parafrasi, la produzione poetica, le leggende; la produzione eucologica e liturgica; l'abbondante produzione di omelie e sermoni circa la festa liturgica; le vite di Maria.

1. DALLE ORIGINI ALLA METÁ DEL SEC. IV
   Nel periodo che va dalle origini alla metà del sec. IV, gli accenni a Mt 2,11 sono relativamente numerosi9, ma quasi esclusivamente rivolti a mostrare 1'adempimento delle profezie e a far risaltare 1' atto di ossequio compiuto dai magi ed il significato dei doni da loro offerti. Tra questi accenni, merita di essere segnalato il primo in ordine di tempo, quello di Giustino (ca. 165), che vuole mostrare la realizzazione di Isaia 8,4, riferendo i puri e semplici dati evangelici: "Noi possiamo dimostrare che Ciò si compì nel nostro Cristo ( ... ). Mentre erano lì, Maria partorì il Cristo e lo pose in una mangiatoia: ivi lo trovarono i magi venuti dall'Arabia"10. L'unico commento relativamente ampio al Vangelo di Matteo è, in questo periodo, quello di Origene (254), composto nel 224, che tuttavia è conservato solo in parte e, purtroppo, non per la pericope evangelica che ci interessa11. Tuttavia, un accenno si trova ugualmente quando il dotto alessandrino, commentando l'invito del Signore a non ostacolare i bambini (Mt 19,14), osserva come Dio stesso si sia fatto fanciullo e ricorda appunto i magi che videro il bambino con Maria sua madre12. Anche la produzione narrativa di questa fase, pur diffondendosi su altri momenti della vita di Maria, si presenta singolarmente sobria circa il suo atteggiamento di fronte ai magi. Il Protovangelo di Giacomo (sec. II) si limita a richiamare quasi alla lettera il testo di Matteo: "I magi videro il bambino con la madre di lui, Maria. Dalla loro bisaccia trassero fuori doni: oro, incenso e mirra"13. L'attività di Maria viene presentata, invece, poco dopo, sostituendo quasi l'iniziativa di Giuseppe: "Maria, udendo che si uccidevano i bambini, spaventata, prese il fanciullo, lo fasciò e lo pose in una greppia di buoi"14. Uguale sobrietà si riscontra, dal punto di vista sia narrativo che teologico, anche nel primo poema epico cristiano, quello del presbitero spagnolo Giovenco (composto nel 330 Ca.): "I magi provano grande gioia e salutano l'astro. Dopo aver visto il bambino al petto della madre, si inchinano, coprendo col corpo prono La terra"15.

2. DALLA META DEL SEC. IV ALLA METÁ DEL SEC. VI

   Nella seconda fase, quella che va dalla metà del sec. IV alla metà del sec. VI, si va sviluppando, con cautela nei commenti biblici, con maggiore libertà nelle poesie e nelle preghiere, con grande ricchezza nelle prime omelie per la festa della Natività-Teofania o Epifania, quello che già si annuncia come l'autentico trionfo della "Madre di Dio". Le polemiche trinitarie, con la definizione della divinità del Logos (Nicea, 325) e dello Spirito santo (Costantinopoli I, 381); 1e po1emiche cristologiche, con la condanna del nestorianesimo (Efeso, 431) e del monofisismo (Calcedonia, 451), creano concretamente il terreno adatto per 1'inquadramento dottrinale e per la promozione devozionale intorno alla figura di Maria: vergine, madre, regina. É appunto nel fervore delle lotte anti-ariane che Ilario di Poitiers (367) richiama gli episodi dell'infanzia di Cristo, cercando di cogliere la dialettica divino-umana che sta alla loro radice, e mettendo in rilievo Maria come figura essenziale: "Giungono i magi e adorano l'infante avvolto in fasce e, dopo una vita consacrata ai riti divinatori propri della loro vana scienza, piegano le ginocchia davanti a colui che è deposto in una culla. I magi adorano un'umile culla e i vagiti sono festeggiati da una celestiale angelica gioia! ( ... ) Una cosa si comprende e un'altra si vede, una cosa si scorge con gli occhi e un'altra si coglie con l'animo. Infatti una vergine partorisce, ma il suo nato proviene da Dio!"16. Il medesimo senso di stupore si manifesta in alcuni accenni di Gregorio di Nazianzio (ca. 390)17, e soprattutto nelle considerazioni sviluppate da Ambrogio di Milano (397), che sottolinea i contrasti sconcertanti che emergono dalla scena della natività di Cristo: "Qui c'è il Signore, questa è la greppia, per mezzo della quale ci è stato rivelato il divino mistero, che cioè i gentili, mentre prima vivevano come bruti animali entro le stalle, saranno nutriti con l'abbondanza di un santo alimento... Sono forse modesti questi prodigi, con cui si dimostra la divinità di Cristo? Gli angeli lo servono, i Magi lo adorano, i martiri lo confessano. Nasce da un grembo materno, ma splende nel cielo; giace in un rifugio terreno, ma regna nello splendore celeste. Lo ha partorito una sposa, ma una vergine lo ha concepito; lo ha concepito una sposa, ma una vergine lo ha generato"18. Ambrogio rileva, però, contemporaneamente l'atteggiamento interiore ed esteriore, l'equilibrio spirituale della vergine-madre: "Maria, che si era turbata all'apparire dell'angelo, ora rimane tranquilla innanzi al succedersi di tanti miracoli, quali la fecondità nella sterile, la maternità nella vergine, il favellare nel muto, l'adorazione dei magi..."19. Dopo l'accenno all'adorazione dei magi e alla presenza di Maria, che si può registrare in Epifanio di Salamina (403)20, proprio alla vigilia del concilio di Efeso arrivano le testimonianze dei due più grandi rappresentanti della scuola di Antiochia, Giovanni Crisostomo (407) e Teodoro di Mopsuestia (428), entrambi impegnati a collocare Maria più dalla parte umana che da quella divina. Il primo, davanti all'adorazione dei magi, non nasconde l'apparente paradosso del loro gesto: "Che cosa mai li indusse ad adorare il bambino? La vergine, infatti, non mostrava, di per sé, nulla di particolarmente straordinario; la casa non era certo eccezionale ( ... ). Essi, tuttavia, non solo adorano, ma aprono i propri tesori ed offrono dei doni, doni - si noti - non degni di un uomo, ma addirittura di Dio (...). Eppure, nulla di ciò che cade sotto i loro occhi è degno di nota, bensì l'abitazione è un tugurio, la madre è una povera donna: e questo perché tu capisca e impari la semplicissima filosofia dei magi, e cioè che essi si accostarono non ad un uomo puro e semplice, ma ad un vero Dio benefico"21. Il secondo, Teodoro di Mopsuestia, cerca di immedesimarsi, come Ambrogio, in Maria; ma non tanto per esaltarne la perfezione spirituale, quanto piuttosto per presentarla come testimone della fede, della certezza nella divinità del Figlio: "Da dove mai sapeva che egli aveva il potere di operare queste cose? Certo è che sua madre fin dalla puerizia concepì di lui una grande opinione. ( ... ) Tra le altre circostanze, più mirabile per lei fu la visita dei magi. Da tutte queste cose ella potè conoscere con certezza la grandezza (del figlio)"22. Nel campo della produzione poetica, invece, non vi sono riserve. Dall'Oriente siriaco (Efrem) all'Oriente greco (Romano), all'Occidente latino (Prudenzio), si leva un coro di esaltazioni a Maria, anche in rapporto al ruolo da lei sostenuto durante la visita e l'adorazione dei magi. Efrem (373) dedica un intero suo carme a descrivere non solo l'arrivo dei magi, ma anche il dialogo fra costoro e Maria e il modo come gli interlocutori si svelano reciprocamente, dopo le prime titubanze, il mistero di quel bambino, che è Figlio di Dio. Il carme si conclude con la rivelazione piena, nel colloquio incalzante fra Maria e i magi: "L'angelo nunziante lo chiamò in mia presenza e prima che fosse concepito Signore e Figlio dell'Altissimo. Ma chi fosse stato il suo padre io lo ignoravo./ A noi la stella annunziò che il nascituro figlio tuo era il Signore del cielo e che avrebbe dominato sugli astri tutti sottomessi al suo potere./ A voi svelerò un altro mistero: io da vergine ho concepito un figlio che è Figlio di Dio e Signore; andate, annunciatelo!/ La stella anche a noi ha rivelato che il figlio tuo era Figlio di Dio e Signore e regnerà su tutti. Egli è davvero Figlio di Dio come tu hai detto!"23. Altrove, Efrem accosta il Padre celeste e Maria con singolare audacia teologica: "Ecco, tu sei nel Padre tuo e in Maria, sul cocchio, nel presepe e in ogni luogo! Nel Padre tuo tu sei con certezza, in Maria tu sei senza dubbio; sul cocchio e nel misero presepe e in ogni luogo, perché tu sei il Creatore"24. Prudenzio ( ca. 405), tentando di descrivere la scena dei magi, appare più problematico di Efrem, ma nel contrasto fra l'umano e il divino è il senso del divino a prevalere, sia nella contemplazione del mistero da parte dei magi, sia net ruoto svolto dalla Vergine-madre: "Non è forse lui quel Dio la cui culla 1'Oriente è venuto a venerare offrendo supplice, su piatti dorati, doni regali a lui che, ricoperto di pannolini infantili, giace sul grembo della Vergine? Quale messaggero alato e motto simile al rapido austro raggiunse i popoli dell'Oriente e la remota Battriana per annunciare che era sorto il giorno luminoso dalle ore allettanti, nel quale Cristo era aggrappato alla verginale mammella? Abbiamo visto - affermano - questo fanciullo trasportato attraverso gli astri, che risplendeva al di sopra delle antiche orbite delle stelle"25. Romano il metode (560), invece, si muove con lo stesso stile di Efrem e drammatizza la scena dei magi attraverso un dialogo che vede impegnati non solo costoro e Maria, ma anche Maria e il bambino Gesù. Giuseppe è presente, ma in silenzio. La Madonna qui appare in maniera chiarissima come grande mediatrice fra Dio, suo Figlio e gli uomini. La scena si conclude proprio con Maria che svolge in pieno questo ruolo: "Terminati i racconti, i magi presero in mano i loro doni e si prostrarono davanti al Dono dei doni, davanti al Profumo dei profumi. Offrirono a Cristo oro, mirra e incenso, esclamando: «Accogli questo triplice dono come accogli l'inno trisagio dei Serafini»... L'Intemerata, di fronte a tutte queste cose nuove e splendide - i magi prostrati con le mani ricolme, lo splendore della stella, i pastori inneggianti - rivolse al Creatore e Signore di tutti questa supplica: «Accogli, Figlio, questo triplice dono e adempi la triplice domanda di colei che ti ha messo al mondo»..."26. Dai commenti biblico-teologici e dalla poesia di livello dotto ed elaborato, l'esaltazione di Maria passa, in questo periodo storico, anche alla letteratura popolare. Ne è testimone, tra il sec. V e VI, uno dei primi apocrifi sui magi, la Caverna dei tesori. I famosi personaggi orientali, diventati già tre di numero, scorgono, due anni prima della nascita del Messia, nella toro terra di origine, la Persia, una stella con al centro l'immagine di una vergine che porta in seno un fanciullo coronato. Quando arrivano a Betlemme, si trovano di fronte ad una scena motto diversa, ma la loro fede non vacilla: "Anche se essi videro tutto quello spettacolo di squallore e di miseria, non dubitarono nei loro cuori, ma si accostarono invece con timore, pregarono e adorarono e offrirono i loro doni: oro, mirra e incenso. Maria e Giuseppe furono molto rattristati per il fatto di non avere niente da dare in contraccambio"27. Ed è sempre in questo periodo che anche l'eucologia mariana, dopo una lunga incubazione, esplode in tutta la sua forza ed eloquenza, come è evidente nell'inno Akathistos, alcune strofe del quale sono dedicate ad esprimere poeticamente il brano di Mt 2,1-12. Nel ben noto inno (che qui tralasciamo) i magi "contemplano sulle braccia materne l'Artefice sommo dell'uomo", offrono i doni e poi prorompono in una preghiera a Maria, "madre del1'Astro perenne". Contemporaneamente, però, si è avuta anche la fioritura rigogliosa di omelie e sermoni liturgici riguardanti l'episodio dei magi. Una delle più antiche testimonianze è sicuramente quella di Basilio di Cesarea (379), che celebra la Teofania in tutti quegli aspetti che sono caratteristici per la teologia e la pietà greche, Teofania come autentico inizio della salvezza per tutti, anche per Maria, che ha generato l'autore della salvezza stessa: "Accorrono le stelle del cielo, partono i magi dai paesi lontani, la terra apre una sua grotta. Nessuno resti insensibile o si mostri ingrato. Innalziamo anche noi la voce per l'esultanza. Chiamiamo la nostra festa Teofania, celebriamo la salvezza del mondo, il giorno natalizio dell'umana natura. Oggi è stata pagata la pena di Adamo. Non si può dire più: sei polvere e in polvere tornerai, perché adesso, congiunto alla realtà celeste, sei ammesso in cielo. Non si udirà più: partorirai i figli nel dolore. Infatti è beata colei che ha partorito 1'Emmanuele, è beato il petto che lo ha nutrito"29. Anche Gregorio di Nissa (ca. 399) esalta, per la festa natalizia di Cristo, Maria e i magi, anche se non in rapporto al momento dell'adorazione30. A queste prime voci d' Oriente fanno eco quelle d' Occidente. Nel frattempo, fra le diverse parti del mondo cristiano, si è verificato lo scambio: la data del 6 gennaio resta in Oriente come festa del battesimo di Cristo e penetra in Occidente a commemorare la triplice Teofania dei magi, del battesimo e del miracolo di Cana; la data del 25 dicembre, invece, resta in Occidente come festa del Natale e penetra in Oriente a commemorare, insieme col Natale, anche l'adorazione dei magi31. Massimo di Torino (prima del 423) può quindi accennare, in uno dei suoi sermoni per la festa dell'Epifania, al parallelismo fra Maria che presenta Gesù all'adorazione dei magi e il Padre celeste che presenta il medesimo Gesù, suo Figlio, al culto di tutte le genti32. Poco dopo è Agostino di Ippona (430) a dedicare all'Epifania sei sermoni, con accenni alla Vergine, sparsi però anche in altre prediche liturgiche. Tra considerazioni volte a sgombrare dalla mentalità degli uditori ogni idea legata alle superstizioni o alle eresie, Agostino trova il modo di sviluppare brevemente una specie di "comunicazione degli idiomi" tra madre e figlio, tra Maria e Gesù: "La nobiltà del figlio fu la verginità della madre, la nobiltà della madre fu la divinità del figlio. Mentre erano stati tanti i re dei Giudei già nati e defunti, i magi non cercarono nessuno di essi per adorarlo, perché di nessuno di essi il cielo aveva loro parlato"33. E ancora, sulla base dell'accostamento tra luce-Cristo e stella-Maria: "Non fu notte la vergine Maria, ché anzi fu in certo modo la stella della notte. Perciò ad indicare il suo parto fu una stella la quale condusse la remota notte, ossia i magi dell'Oriente, ad adorare la luce; e così anche per questi si adempì il detto secondo il quale dalle tenebre risplendette la luce"34. Il parallelismo Padre-Maria e Cristo-Maria, in rapporto a Mt 2,11, si generalizza sempre più. Proclo di Costantinopoli (446) mette sulla bocca dei devoti questa domanda: "Dove si trova colui che, in quanto è dal Padre, è invisibile e, in quanto è dalla madre, si trova racchiuso (nelle braccia)?"35. Come si sta verificando nella poesia e nell'eucologia mariane, l'esaltazione del meraviglioso si diffonde anche nelle omelie e nei sermoni. Un esempio, in Occidente, è Pietro Crisologo ( ca. 450). In una delle sue prediche, la Vergine e i magi vengono rappresentati come elementi dell'azione onnipotente di Dio: "Cosa vi è di più razionale del fatto che Dio può far tutto ciò che vuole? Infatti, chi non più ciò che vuole non è Dio. Dunque, l'angelo non fa altro che eseguire i comandi di Dio, lo Spirito li porta a compimento, la potenza divina li rende concreti, la Vergine crede in essi, la natura li accetta e i cieli li narrano, il firmamento li annunzia, le stelle li mostrano, i magi li predicano, i pastori li adorano e perfino gli animali li riconoscono"36. Un esempio analogo, in Oriente, è Esichio di Gerusalemme (451). Anch'egli, parlando degli avvenimenti natalizi, pone esplicitamente, in forma interrogativa, le questioni di fede che erano state tanto discusse nei decenni precedenti e che i magi avrebbero potuto sollevare: "Essi, mentre camminavano alla ricerca del bimbo, dietro la scia della stella, non dissero a quelli che il interrogavano: «Com'è che la concezione è divina? Com'è che il seno è senza seme? Com'è che il parto è incorrotto? Come mai dopo il parto la madre è vergine? Come mai è soggetto agli anni chi è prima di essi? Come è nel tempo chi è prima dei secoli? Come potè il seno contenere l'Incontenibile? L'Incorporeo farsi uomo senza mutazione? Come il gloriosissimo Dio Verbo, annientandosi nel seno di una vergine, ineffabilmente prese carne da lei e forma di servo?»... Ma, dopo essersi informati, pervennero in silenzio alla grotta, con doni che offrirono con la dovuta riverenza al Re e Dio"37. D'altra parte, il divario fra l'umano apparente e il divino effettivo viene colto e sottolineato sempre più spesso e con sempre maggiore compiacenza, come si pub constatare in due altri predicatori della seconda mètà del sec. V e della prima metà del sec. VI. Leone I (461) sintetizza in maniera efficace e quasi iconografica la scena della Vergine col bambino in una delle sue omelie sull'Epifania: "É ristretto tra le braccia della madre Colui che non è racchiuso da nessun limite"38. Fulgenzio di Ruspe ( 532), polemizzando anche con l'arianesimo dei Vandali invasori della sua Africa, pub quindi richiamare i particolari dell'episodio dei magi per mostrare come, dietro il loro esempio, Gesù possa e debba essere adorato veramente come Figlio di Dio fatto uomo: "Archelao nacque in un palazzo, Cristo in una locanda ( ... ). Ma quello non viene affatto nominato dai magi, costui invece viene cercato, trovato e adorato devotamente. Il primogenito del re viene del tutto trascurato, mentre viene adorato con doni il primogenito di una donna poverella ( ... ). Maria ebbe, come figlio nato proprio da lei, quella medesima persona a cui la stella manifestò il proprio doveroso servizio. Maria a Betlemme partorì quello stesso medesimo Dio-uomo che la stella annunziò ai magi residenti in Oriente. I magi, dunque, arrivarono, e riconobbero nel figlio della Vergine l'unico e medesimo Dio-uomo"39. Questi stessi pensieri, in Oriente vengono espressi spesso, nelle omelie, in forma dialogica e drammatizzata. É il caso dello Pseudo-Teofilo (sec. VI), che pone le proprie parole sulla bocca di Maria stessa: "Ecco la stella, veduta in Oriente, il precedeva, finché giunse alla casa in cui noi eravamo, io e mio figlio Gesù, e il guidò come una buona guida. E quando furono entrati nella casa e videro il fanciullo sulle mie braccia si prostrarono adorandolo, con i doni nelle loro mani, oro, incenso e mirra"40.

3. DALLA METÁ DEL SEC. VI ALLA FINE DELL'ETA PATRISTICA
  Il terzo e ultimo periodo della riflessione patristico-mariologica sull'episodio di Mt 2,11 va dalla metà del sec. VI at termine dell'età patristica, che può collocarsi, in senso lato, intorno al Mille. L'orizzonte esegetico di questa fase, coincidente nel mondo occidentale col primo Medioevo, è dominato dal più ampio commento latino al Vangelo di Matteo e certo il più utilizzato nei secoli successivi - un'opera già attribuita a Giovanni Crisostomo - ossia 1'Opera incompiuta su Matteo. Tornano e si fondono, nelle considerazioni di questo anonimo autore circa Mt 2,11, i temi già incontrati: la preoccupazione puntigliosa di sottolineare il contrasto fra le misere apparenze umane e le realtà divine che vi si trovano nascoste, e la fede dei magi che riesce ad oltrepassare tali apparenze, cogliendo appunto 1' aspetto soprannaturale: "Forse videro un palazzo splendido di marmi? Forse una madre coronata di diadema e giacente su un letto d'oro? Forse un bambino avvolto da oro e porpora? Forse una sala regia gremita di gente di popoli diversi? Che cosa videro invece? Un abituro, oscuro e sordido, buono più per animali che per uomini, dove certo nessuno si sentiva contento di abitare, se non costretto dalle necessità del viaggio. La madre aveva appena una semplice tunica, non per ornare il suo corpo ma per coprirlo, vestirlo, e tale come poteva portarlo in viaggio la moglie di un falegname. Il bimbo era avvolto in panni più che sordidi e si trovava collocato in una mangiatoia, sordida anch'essa. Il luogo era talmente angusto che non c'era spazio neppure per collocarvi il neonato. Se dunque essi erano venuti a cercare un re della terra, la gioia avrebbe presto dato luogo ad un sentimento di confusione, perché un così gran viaggio era senza risultato. Ma siccome il re che essi cercavano era il Re del cielo, benché non scoprissero in lui niente di regale, contenti della testimonianza che gli rendeva la stella, si rallegrarono alla vista di questo povero bambino, del quale lo Spirito Santo aveva loro svelato in fondo al cuore la temibile maestà. E perciò che essi si prostrarono per adorarlo, giacché, se i loro occhi non vedevano in lui che un uomo, essi vi riconoscevano un Dio"41. Nelle scuole patristiche dell'alto Medioevo, d'altra parte, l'esegesi di Mt 2,11 si definisce anche in termini mariologico-ecclesiologici, come si riscontra nel commento a Matteo, già attribuito a Beda il Venerabile ( 735): "Entrarono nella casa e trovarono il bambino con Maria sua madre. Ossia, entrando nella Chiesa per mezzo della fede, trovarono Cristo con la Chiesa primitiva, che si convertì alla fede in lui uscendo dal popolo d'Israele. E inginocchiati lo adorarono. Non lo avrebbero mai adorato se non lo avessero creduto il Signore. Il cammino dei popoli credenti era infatti di tipo mistico, e l'adorazione era basata sulla vera fede e sulla pura testimonianza"42. Nell' opera di Strabone (849) Si trovano accennate anche altre questioni, relative alla Trinità e a Giuseppe: "Entrati in casa... i tre magi, con un solo itinerario, arrivano ad adorare Dio, e questo perché in un solo Cristo, che è la Via, si giunge ad adorare l'inseparabile Trinità. Il bambino con Maria sua madre... Il bambino risulta nominato spesso, perché arrivino a riconoscere colui di cui è detto: è nato a noi un bambino. Perché, inoltre, Giuseppe non viene trovato, dai magi, insieme con Maria? Perché non fosse offerto nessun pretesto di cattivo sospetto ai pagani che, appena nato il Salvatore, mandarono a lui i magi, come loro primizie, ad adorarlo"43. Infine, Rabano Mauro (856) riassume, nella propria esegesi, un po' tutti i motivi tradizionali collegati con Mt 2,11, e altri ancora, che riflettono, com'è evidente, le idee e le preoccupazioni di una cristianità ormai molto diversa da quella dei secoli precedenti: "Dice: entrati in casa, e ciò significa nella locanda ricordata da Luca nel proprio Vangelo. Trovarono il bambino con Maria sua madre. Perché venga chiamato bambino colui che era ancora neonato dipende dal fatto che non necessariamente viene attribuita un'età precisa a colui che è sempre perfetto. Ci si chiede, inoltre, perché non viene detto che Giuseppe fu trovato dai magi insieme col bambino e con Maria: questo perché non fosse offerto nessun pretesto di cattivo sospetto ai pagani che, appena nato il Salvatore, mandarono a lui i magi, come loro primizie, ad adorarlo. Entrano inoltre nella casa in cui si trova Cristo, cioè arrivano alla Chiesa cattolica. Entrando in essa attraverso il battesimo e la vera fede, trovarono Cristo con la madre sua, ossia con la santa Chiesa che, rimanendo vergine, ogni giorno genera figli a Dio Padre. Giuseppe è tenuto da parte in quanto (simbolizza) il popolo giudaico, accantonato per la sua incredulità"44. Al contrario di quanto affermano i commentatori dotti, le leggende popolari Si compiacciono, invece, di far intervenire spesso e volentieri il personaggio tenuto in disparte, ossia Giuseppe. Mette soprattutto in opera Giuseppe, per esempio, il Vangelo dell'infanzia armeno, risalente alla fine del sec. VI. I magi si rivolgono infatti a lui e da lui ottengono risposta. Maria, dapprima spaventata, si rassicura. Il racconto continua poi descrivendo dettagliatamente le esperienze spirituali vissute dai magi nelle visite successive al bambino, per arrivare alla conclusione: "Tu sei Dio e Figlio di Dio!"45. Nel Vangelo dell'infanzia arabo, quasi contemporaneo al precedente, la scena è arricchita da un'iniziativa di Maria, che dona ai magi una fascia in segno di benedizione. Il Vangelo dello pseudo-Matteo, risalente ai sec. VII-VIII, si limita a precisare che "entrati in casa, trovarono il bambino Gesù seduto in grembo alla madre", continuando poi nella descrizione dei doni41. Nel Vangelo arabo di Giovanni, composto probabilmente fra 1' VIII e il IX secolo, prima ancora dell'adorazione i magi vedono il bambino e sua madre già nella luce della stella. Il Vangelo dell'infanzia del Salvatore, risalente ai sec. IX-X, infine, mostra i magi che salutano Maria con le parole stesse dell'angelo, sviluppando poi un ampio dialogo fra i magi stessi e Giuseppe, in cui quest'ultimo viene adeguatamente informato sull'origine e sulla divinità del bambino49. Attraverso tutte queste leggende, l'episodio evangelico dell'adorazione dei magi, modello della conversione dei pagani, si diffonde in Occidente e in Oriente in vane direzioni, assolvendo un compito missionario di singolare importanza50. Tarda eco di tutto questo leggendario sarà l'opera di Giovanni da Hildesheim ( 1375)51. Ma intanto, la produzione letterario-liturgica continua a sviluppare con grande varietà e ricchezza, soprattutto in Oriente, il ruolo di Maria. Andrea di Creta ( 740) canta, per esempio: "La Vergine è seduta imitando i cherubini, portando nel grembo il Dio Verbo incarnato. I pastori glorificano il neonato, i magi offrono doni al Maestro ( ... ). Madre di Dio, Vergine, che hai messo al mondo il Salvatore, tu hai cancellato la maledizione di Eva. Tu sei infatti divenuta, per la benevolenza del Padre, la Madre che porta nelle viscere il Verbo di Dio incarnato"52. Nell' altrettanto abbondantissima produzione omiletico-liturgica, Maria viene ugualmente sempre più esaltata, e se ne riepilogano spesso i vari ruoli nella storia della salvezza, con una elencazione che prelude alla dottrina sistematica dei suoi "privilegi". Un esempio può essere rappresentato dallo Pseudo-Epifanio, del sec. VIII: "I magi, quando videro la stella, anzi, per meglio dire, il Salvatore, provarono grande gioia. Si curvarono e lo adorarono, offrendogli in dono oro, incenso e mirra come ad un essere mortale; anzi, essi offrirono questi doni per indicare la sepoltura di Cristo, creatore e artefice di tutte le cose, che Maria aveva generato, sposa celeste, cielo, tempio e trono della divinità, ineffabile tesoro del Paradiso (...)"53. Gli elementi mariologici dell'interpretazione patristica di Mt 2,11 giungono però a sistema e maturazione soprattutto nei primi tentativi, letterari e teologici insieme, di vere e proprie elaborazioni di qualcosa che si può chiamare Vita di Maria. In questo tipo di produzione, l'attenzione è ormai concentrata su Maria, come protagonista, capolavoro della grazia divina. Un primo esempio è il ritratto mariano attribuito a Massimo il Confessore ( 662). La scena dei magi è descritta così: "Videro il grande prodigio, perché, quando si accostarono al neonato, primogenito avanti i secoli, furono subito riempiti di grazia, di tenerezza e di luce, e una gioia indescrivibile si effuse nei loro cuori. Tuttavia, superiore ad ogni grazia e ad ogni gloria, era la contemplazione e l'ascolto della Madre intatta, inesperta di nozze, e l'armoniosa compostezza del suo aspetto era più alta di qualunque conoscenza umana ( ... ). In verità, le sue glorie cominciarono allora a manifestarsi; ma poi crebbero ancor più la sua gloria, la sua lode e la sua fedeltà"54. Tralasciando l'opera analoga di Epifanio (sec. IX)55, concludiamo il nostro esame con la sintesi biografica di Simeone Metafraste ( 1000 ca.), che tiene conto in maniera equilibrata di quanto la tradizione patristica più genuina aveva cercato di esplicitare circa la profonda dialettica di umano e di divino, che aveva operato anche nel destino di grazia di Maria, Madre di Dio: "Entrati nella casa - narra l'evangelista - videro il bambino con Maria sua madre. Ma cosa hanno visto di così grande da porsi in adorazione? Al contrario, tutto si presenta in una condizione tale che non puà esserci nulla di pi1 modesto! Non vedono forse una grotta, una mangiatoia, delle fasce e una madre tutta umiltà? Cosa, dunque, ha suscitato in essi tanta ammirazione che non solo si sono apprestati all'adorazione, ma hanno portato anche dei doni, e per giunta tali da significare con essi che il bambino è Dio e Re? ( ... ) Che cosa, dunque, li ha mossi? Sempre e solo ciò che li ha indotti ad uscire dalla loro patria e ad affrontare un così lungo percorso: certamente la stella e la luce che, inviata da Dio, ha illuminato i loro animi. Ma, naturalmente, quali pensieri attraversavano l'animo della madre osservando queste cose? (...) Questo, in fondo, è ciò che il Signore ha fatto fin dall'inizio: mentre ha paradossalmente innalzato ciò che è vile e inglorioso, al contrario ha umiliato ciò che è potente"56.

4. CONCLUSIONE

  In estrema sintesi, e come pura e semplice ipotesi di lavoro che nasce da questo sondaggio orientativo, si può affermare che l'interpretazione mariologica di Mt 2,11, da parte dei Padri della Chiesa, si sviluppa gradualmente, ma in maniera molto ricca e complessa, sia nelle tematiche teologiche, sia nelle forme letterarie (entrambe, naturalmente, legate ad ambienti culturali e sociali che meriterebbero di essere indagati e approfonditi). In una prima fase, ossia dalle origini alla metà del Sec. IV, Maria in Mt 2,11 è vista soprattutto come un mistero di adempimento profetico, strettamente funzionale al Cristo nato e manifestato ai magi. In una seconda fase, dalla metà del sec. IV alla metà del sec. VI, lo scandaglio del mistero si arricchisce per il contributo diretto e indiretto delle grandi controversie teologiche sulla Trinità e sull'Incarnazione e per gli stimoli provenienti dalle feste liturgiche della Natività e dell'Epifania. In una terza fase, dalla metà del Sec. VI al termine dell'epoca patristica, si sviluppano ulteriormente le tematiche precedenti, ma vi si aggiungono anche quelle che conducono a collocare Maria sempre più nella dottrina e nella vita della Chiesa e nell'orizzonte missionario della cristianità. Emerge, così, una figura di Maria, Vergine, Madre, Regina, mai staccata dai vari contesti teologici (trinitario, cristologico, ecclesiologico, ecc.), mai resa estranea; anzi, sempre più immersa nella vita liturgica, nella devozione popolare, nell'attività apostolica e missionaria, e tuttavia sempre più netta e precisa, sempre più se stessa, come donna veramente "umile ed alta più che creatura".

NOTE
1 Gli esegeti sottolineano concordemente la presenza del binomio: il bambino-la madre, che ricorre ben cinque volte nel Vangelo dell'infanzia di Matteo (2,11.13.14.20.21). Cf in tal senso A. LANCELLOTTI (Matteo, Roma 1978, 50): "Sembra una formula coniata appositamente da Matteo per mettere al loro giusto posto i personaggi che sono all'origine della salvezza messianica. Viene in primo luogo il 'bambino' su cui si concentra l'attenzione di tutti, potenze terrestri e celesti, e verso il quale sono orientate le speranze dei giusti come le gelosie dei tiranni. Poi viene 'sua madre' che lo generò. Giuseppe, il cui ufficio di 'custode' occupa un posto centrale in tutta la narrazione, è come lasciato in disparte".
2 Le ragioni per l'assenza di Giuseppe ci sembrano chiaramente spiegate da T. STRAMARE (San Giuseppe nella Sacra Scrittura, nella Teologia e nel Culto, Casale M. 1983, 101-102): "Gli esegeti hanno saputo immaginare una occupazione per Giuseppe allo scopo di giustificarne l'assenza. Ci sembra, piuttosto, che la ragione dell'omissione di Giuseppe in Matteo sia da cercarsi nella preoccupazione di mostrare perfettamente adempiute le profezie dell'Antico Testamento, alle quali l'evangelista continuamente si riferisce. ( ... ) I tre elementi di Michea (5,1), Betlemme, il Messia e sua madre, vengono ripresi da Matteo, senza che egli si senta in dovere di aggiungere altro e senza che egli pensi con ciò di far torto a chicchessia. Il contesto di Luca, e più ancora la sua mens, esige invece la presenza di Giuseppe". Analogamente, R. LAURENTIN (I Vangeli dell'infanzia di Cristo, Cinisello B. 1985, 366): "Maria, così in ombra, riappare qui come segno del neonato bambino-Re. Lei e non Giuseppe. Questi scompare per la nascita come per la concezione, per riapparire più avanti, nel suo programma di protettore, secondo la sua funzione esclusiva".
3 In tal senso, Maria sarebbe la "regina-madre" testimoniata nell'Antico Testamento, la g'birâh. Ella sarebbe la "regina-madre del neonato re-messia". Anzi, in rapporto a Is 60,1-6, al posto di Gerusalemme-madre subentrerebbe ora Maria-madre (cf A. SERRA, Regina, in AA. Vv., Nuovo Dizionario di Mariologia, Cinisello B. 1988, 1192-1193).
4 Cf J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, I, Brescia 1990, 77: "Nel contesto essa ricorda la nascita verginale e designa Gesù quale Figlio di Dio".
5 Come rileva R. LAURENTIN (o. c. 380), la tecnica è quella di manifestazione-occultamento. Il soggetto principale della vicenda, Cristo, è esso stesso un "soggetto virtuale occultato", dato che "Dio rimane soggetto principale del fare dall'alto". A maggior ragione, "Giuseppe, Maria e i magi appaiono come aiutanti in rapporto al Messia".
6 Talvolta ci si è soffermati su particolari pittoreschi, ma assai secondari, per non dire insignificanti. Per es., C. A LAPTDE (Commentarii in S. Scripturam, VIII/l, Typis Societatis Bibliographicae, Melitae 1849, 67) afferma con tutta serietà: "Non c'è dubbio che i magi parlarono con la beata Vergine direttamente in lingua araba (perche la beata Vergine possedeva il dono delle lingue), oppure in ebraico, mediante un interprete".
7 Per la storia dell'interpretazione di Mt 2,1-12, cf la sintesi di W.A. SCHULZE, Zur Geschichte der Auslegung von Matth. 2,1-12, in Theologische Zeitschrift 31(1975)150-160. L' articolo passa in rassegna molto brevemente le interpretazioni succedutesi da Giustino agli esegeti tedeschi degli anni '30, ma soffermandosi soprattutto sui magi e dando poco spazio al ruolo di Maria. Dedicati anch'essi ai magi e al significato dei loro doni sono gli articoli di P. SCORZA BARCELLONA, "Oro e incenso e mirra" (Mt 2,11). L'interpretazione cristologica dei tre doni e la fede dei magi, in Annali di storia dell'esegesi 2 (1985) 137-147, e "Oro e incenso e mirra" (Mt 2,11). II.  Le interpretazioni morali, in ibid. 3 (1986) 227-245. In sostanza, per quanto ci consta, la ricerca esegetica moderna e contemporanea ha abbondantemente trascurato l'aspetto mariologico di Mt 2,11.
8 Circa i generi letterari utilizzati dai Padri, cf L. ALFONSI, I generi letterari dall'antichità classica alla letteratura cristiana, in Augustinianum 14 (1974) 451-458 (sintetico e introduttivo); C. RIGGI, Il nesso della letteratura classica antica con il clima culturale della Chiesa primitiva e dei Padri, in AA. Vv., De studio theologiae patristicae et historicae, in Seminarium 29 (1977) 259-276 (orientativo); e soprattutto le numerose voci in AA. Vv., Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale M. 1983-1988.
9 Cf AA. Vv., Biblia patristica, Paris 1975-1991, 5 vol. Per questi primi secoli, interessante, anche se non di taglio specificamente mariologico, l'analisi di A. ORBE, lntroducción a la teologIa de los siglos II y III, vol. II, Roma 1987, 575-609.
10 Dialogo con Trifone 78,5 (PG 6,66 1).
11 La parte conservata e, in greco, su Mt 13,36-22,33, in traduzione latina, su Mt 16,3-27,65.
12 Commento al Vangelo di Matteo 15,7 (PG 13,1274).
13 Protovangelo di Giacomo 21,3 (cf M. ERBETTA, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, vol. 1/2, Casale M. 1983, 26).
14 Protovangelo di Giacomo 22,2 (cfM. ERBETTA, o. c., 27).
15 I libri dei Vangeli 1,281-283 (PL 19,98-99).
16 La Trinità 2,27 (PL 10,68). Questo testo di Ilario si trova, in traduzione italiana, anche nel vol. III, 119 di AA. Vv., Testi mariani del primo millennio, Roma 1988-91,4 vol. (d'ora in poi abbr. TM).
17 Discorsi 19,12 (PG 35,1057-1058); 29,19 (PG M,99-100).
18 Commento al Vangelo di Luca 2,36 (PL 15,1565; TM, vol. ILI, 187).
19 Le Vergini 13 (PL 16,210; TM, vol.111, 165).
20 Panarion 20,29,1 (PG 41,455-456).
21 Omelie sul Vangelo di Matteo 8,1 (PG 57,81ss.).
22 Commento al Vangelo di Giovanni (CSCO 116,40; TM, vol. I, 443).
23 Carmina Soghita 4,44-47 (CSCO 187,195-200; TM, vol. IV, 95).
24 J.E. RAHMANI, Hymne sur la Nativité de N. Seigneur, Beyrouth 1927, 11 CM, vol. N, 96).
25 Apoteosi 608-616 (FL 59,973; TM, vol. ILI, 217).
26 lnno I del Natale 21-24 (SC 110,76; TM, vol. I, 708).
27 Per il testo qui citato, cf U. MONNERET DE VILLARD (Le leggende orientali sui magi evangelici, Città del Vaticano 1952, 7-8), che offre un'ampia ricerca sugli sviluppi delle leggende attorno ai magi, nate appunto con questo apocrifo. Si veda anche il testo arabo con traduzione italiana e commento in A. BATTISTA - S. BAGATTI, La Caverna dei Tesori, Jerusalem 1979.
28 Akathistos 8-9 (PG 92,1339-1342).
29 Omelia sulla santa generazione di Cristo 6 (PG 31,1473-1474; TM, vol. 1, 300).
30 Discorso per il giorno natalizio di Cristo, tenuto il 25 dicembre 386 (PG 46,1144).
31 Cf M. RIGHETTI, Storia liturgica, vol. II, Milano 1955, 81-85; A. BERGAMINI, Natale/Epifania, in AA. Vv., Nuovo Dizionario di Liturgia, Cinisello B. 1988, 919-922.
32 Sermoni 8 (II sull'Epifania, PL 57,547).
33 Discorsi 200 (PL 38,1029; TM, vol. III, 370).
34 Discorsi 223 D (PS 2,718; TM, vol. III, 372).
35 Per il giorno natalizio di Cristo (PG 61,738).
36 Sermoni 141,4 (PL 52,578; TM, vol. III, 435).
37 Omelia I sulla santa Madre di Dio (PG 93,1460; TM, vol. I, 530).
38 Omelie 37 (PL 54,257; TM, vol. III, 497).
39 Sermoni 4, sull'Epifania (PL 65,734-736).
40 Omelia sulla fuga in Egitto e sul monte Coscam (TM, vol. IV, 719).
41 Opera incompiuta su Matteo 2 (PG 56,641-642).
42 Esposizione sul Vangelo di Matteo 1,2 (PL 92,14). Qualcuno ritiene non autentico questo commentario.
43 Glossa ordinaria. Vangelo di Matteo 2,11 (PL 114,75).
44 Commento al Vangelo di Matteo 1,2 (PL 107,759-761).
45 Cf M. ERBETTA, o. c., 145-146.
46 Cf  ibid., 105.
47 Cf ibid., 55.
48 Cf  L. MORALDI, Vangelo arabo apocrifo dell'apostolo Giovanni, Milano 1991, 64; M. ERBETTA, o. c. , 225, ne dà solo una breve notizia.
49 Cf M. ERBETTA, o. c., 212ss.
50 Su tutto questo argomento cf  U. MONNERET DE VILLARD, (o. c.), e l'aggiornamento della questione in M. BUSSAGLI - M. G. CHIAPPORI I Re Magi. Realtà storica e tradizione magica, Milano 1985.
51 Cf GIOVANNI DA HILDESHEIM, Storia dei Re Magi, Roma 1980, con traduzione parziale e commento di A.M. DI NOLA. Si vedano, in particolare, le pp. 112-118.
52 Menea 2,671-672 (cf in TM, vol. II, 460).
53 Omelia in lode di santa Maria Madre di Dio (PG 43,500-501; TM, vol. I, 804).
54 Vita di Maria (CSCO, vol. 479,:n. 39-40; TM, vol. II, 213-214).
55 Discorsi sulla vita della SS. Madre di Dio (PG 120,202; TM, vol. IL, 790). Parla semplicemente dell'arrivo dei magi dalla Persia.
56 Vita di Maria 17-18 (PG 115,544-545; TM, vol. IL, 992-993). Una biografia di Maria, edita solo per la parte riguardante Ia "dormizione", è quella di Giovanni Geometra (vissuto nella seconda metà del sec. X), teologo e letterato. Essa sarebbe assai superiore a quella del monaco Epifanio e starebbe alla base dell'opera di Simeone Metafraste. Cf G. ROSCHINI, Maria Santissima nella storia della salvezza, vol. 1, Isola del Liri 1969, 363-364, e inoltre TM, vol. II, 183-184.

 http://www.latheotokos.it/modules.php?name=News&file=print&sid=1547

 Uno studio di F. Pierini, in Theotokos, IV (1996), n. 1, pp. 41-58.

giovedì 9 gennaio 2020

San Massimo di Torino, IL BATTESIMO DEL SIGNORE



IL BATTESIMO DEL SIGNORE
San Massimo di Torino
Homilia XXX De Epiphania, PL 57, 291-294.
Vescovo di Torino nel V secolo, San Massimo è, con S. Agostino, uno degli antichi Padri latini che ci hanno lasciato magnifiche collezioni di sermoni. E' noto quasi unicamente per la sua opera letteraria e oratoria, che ce lo rivela vescovo ardente nella lotta per l'integrità della fede e sollecito del progresso spirituale dei suoi fedeli. La sua eloquenza, dotata di forza e, nello stesso tempo, di semplicità, è ispirata da uno zelo pastorale proteso a far ritrovare la presenza del Cristo in tutta la Scrittura.
“Il Vangelo ci racconta che il Signore venne al Giordano per essere battezzato e volle che in questo stesso fiume la sua consacrazione fosse confermata da segni celesti. Non dobbiamo meravigliarci che in questo egli abbia preceduto tutti gli altri. Volle compiere per primo quello che comandava di fare, per insegnare - da buon maestro - la sua dottrina non tanto con le parole, quanto piuttosto con gli atti che compiva...
E' significativo che questa festa segua, nello stesso volgere di tempo, quella della nascita del Signore, nonostante siano intercorsi degli anni fra i due avvenimenti, perché credo che tale festività celebri ancora una nascita... Là nasce come uomo e Maria, sua madre, lo riscalda stringendolo al seno; qui nasce secondo il mistero e Dio, suo Padre, lo abbraccia con la carezza della sua voce, dicendo:Questi è il mio Figlio diletto nel quale ho riposto ogni mia compiacenza, ascoltatelo (Mt. 3, 17 17, 5)...
Oggi dunque il Signore Gesù è venuto a ricevere il battesimo e ha voluto che il suo corpo fosse lavato nell'acqua del Giordano. Qualcuno forse dirà: «Perché ha voluto farsi battezzare se è Santo?». Ascoltami dunque: Cristo è battezzato, non per essere santificato dalle acque, ma per santificare lui stesso le acque e per purificare - lui, puro - le acque che tocca. Si tratta dunque più di una consacrazione dell'acqua che di quella del Cristo.
Dal momento in cui il Salvatore è lavato, tutta l'acqua è resa pura in vista del battesimo di noi tutti é viene purificata la sorgente, perché la grazia del lavacro passi alle generazioni che si succederanno nel tempo. 
Il Cristo passa per primo attraverso il battesimo, perché i popoli cristiani seguano con fiducia il suo esempio.
Così la colonna di fuoco precedette i figli di Israele nel Mar Rosso, perché la seguissero coraggiosamente nel cammino da essa indicato e, ancora per prima, attraversò le acque, per preparare la strada a quanti la seguivano. Quest'avvenimento fu, secondo la parola dell'Apostolo, una figura del battesimo (cfr. 1Cor. 10, 1 ss.) e battesimo era veramente quello in cui gli uomini erano coperti da una nube e portati dalle acque. Tutto ciò ha compiuto lo stesso Cristo nostro Signore, che, come allora aveva preceduto nella colonna di fuoco i figli d'Israele, così nel Giordano precedette nella colonna del suo corpo i popoli cristiani. La stessa colonna, dico, che illuminava gli occhi degli Ebrei in marcia, dona la luce ai cuori dei credenti. Allora essa tracciò un cammino sicuro tra le onde, ora corrobora la via della fede in questo lavacro: chi procederà intrepido, con fede, come i figli di Israele, non temerà la persecuzione degli Egiziani” (Hom. 30, PL 57, 291-294).

 http://kairosterzomillennio.blogspot.com/2014/01/festa-del-battesimo-di-gesu-anno-a.html

mercoledì 8 gennaio 2020

Madre Teresa di Calcutta, È NATALE

  

Madre Teresa di Calcutta

"È NATALE"


È Natale ogni volta
che sorridi a un fratello
e gli tendi la mano.
È Natale ogni volta
che rimani in silenzio
per ascoltare l’altro.
È Natale ogni volta
che non accetti quei principi
che relegano gli oppressi
ai margini della società.
È Natale ogni volta
che speri con quelli che disperano
nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta
che riconosci con umiltà
i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta
che permetti al Signore
di rinascere per donarlo agli altri.

martedì 7 gennaio 2020

PAOLO VI, RADIOMESSAGGIO DI PACE E DI UNITÀ A TUTTI I POPOLI



PAOLO VI
 
 RADIOMESSAGGIO DI PACE E DI UNITÀ A TUTTI I POPOLI 
Lunedì, 23 Dicembre 1963
    
      Fratelli e Figli che Ci ascoltate!
 
    Sia per Voi tutti il Nostro augurio di buon Natale! Esso vuole entrare, innanzi tutto, nei vostri cuori, e vuole recarvi quel senso di letizia, di pace, di serenità, di fiducia, che emana precisamente da questa santa festività, e che costituisce una delle più consolanti esperienze della vita. Possa ognuno, che accoglie questo Nostro affettuoso augurio, sentirne interiormente la dolcezza ed il conforto; la felicità: oggi, gli uomini, che hanno pur tanti mezzi di così detta felicità esteriore, mancano assai spesso di felicità interiore, quella vera, quella personale, quella profonda e sincera; ed è quella che Noi per ciascuno di voi desideriamo. La auguriamo a voi, sofferenti, per primi, che ne avete maggiore bisogno; a voi, ammalati, a voi, vecchi, a voi, tristi, a voi, piangenti, a voi, affamati di perdono, a voi, assetati di giustizia. 

     TENEREZZA DI VOTI PER L'INTERA FAMIGLIA UMANA
 
   Vorremmo essere accanto a ciascuno di voi, per recarvi la dolce e sincera parola consolatrice di Cristo. Poi, a voi bambini carissimi, a voi giovani, che vedete nel Natale la vostra festa; festa della vita nuova, festa degli affetti buoni, festa della gioia di vivere: possa il Signore conservare e far fiorire, anche negli anni venturi, codesta allegrezza e insegnarvene il segreto, ch’è rinchiuso nell’innocenza. A voi, famiglie riunite intorno alla mensa ed ai doni, intorno al presepio pieno di poesia nativa e rigeneratrice. A voi, categorie sociali, che in questa ricorrenza fate il bilancio delle vostre forze e delle vostre necessità, perché il senso della giustizia si accompagni in voi con quello dell’ordine e dell’amore. A voi, esuli e profughi, le cui ansie e pene Ci sono note; a voi, fedeli, che siete privi della dovuta libertà, a voi, che patite per Cristo e la sua Chiesa e che oggi più che mai siete vicini al Nostro cuore. A voi,’ popoli, a voi, nazioni di questa terra, a cui il messaggio della pace oggi piove dal cielo e riempie il mondo di fiducia e di buona volontà.
     Buon Natale a tutti! Siamo in grado di dispensare questi auguri, perché il Natale è festa religiosa e cristiana; e Noi sappiamo bene quale relazione esso abbia con le sorti della vita umana.
    Ma avviene questo. Nel Nostro desiderio di allargare a tutti il Nostro augurio fraterno e paterno, il Nostro sguardo cerca di scorgere, dall’altezza a cui la Nostra missione Ci pone, come da un osservatorio universale, il panorama del mondo. E allora Ci accorgiamo che i Nostri auguri si devono commisurare non solo ai desideri comuni e modesti d’una festa lieta e popolare, qual è oggi ordinariamente il Natale, ma si devono soprattutto rivolgere ai bisogni veri e grandi degli uomini. La Nostra affezione non può ignorare le grandi sofferenze, le profonde aspirazioni, le dolorose deficienze, che interessano larghi strati della società, o che si riferiscono a popoli interi. In questo intento di osservazione realista della scena umana il Nostro animo da gioioso si fa pensoso, perché appunto si chiede: quali sono oggi i grandi bisogni del mondo, ai quali i Nostri voti, per essere davvero provvidi e saggi, devono coordinarsi?
I bisogni del mondo! La domanda mette le vertigini, tanto questi bisogni sono vasti, molteplici, incommensurabili. Ma alcuni fra essi sono così evidenti ed impellenti, che tutti noi, in qualche misura, li conosciamo.
     Il primo è la fame. Si sapeva che c’era; ma oggi è stata scoperta. È una scoperta ormai scientifica, che ci avverte che più della metà del genere umano non ha pane sufficiente. Generazioni intere di bambini ancor oggi muoiono e languono per indescrivibile indigenza. La fame produce malattia e miseria; e queste, a loro volta, accrescono la fame. Non è solo la prosperità che manca a popolazioni sterminate, è la sufficienza. 

     LA DIVINA LEGGE DI RETTITUDINE E CARITÀ CONTRO IL FLAGELLO DELLA FAME
 
    E il triste fenomeno, se non assistito da opportuni rimedi, si deve prevedere che non diminuirà, ma che aumenterà. La crescita demografica delle regioni affamate non è ancora compensata dalla crescita economica dei mezzi di sussistenza, mentre è accompagnata dalla diffusione dei mezzi d’informazione e di cultura, i quali dànno a tale stato di sofferenza una coscienza inquieta e ribelle. La fame può diventare una forza sovversiva di conseguenze incalcolabili.
      Chi studia questo impressionante e minaccioso problema è talvolta tentato di ricorrere a rimedi che devono ritenersi peggiori del male, se consistono nell’attentare alla fecondità stessa della vita con mezzi che l’etica umana e cristiana deve qualificare illeciti: invece di aumentare il pane sulla mensa dell’umanità affamata, come oggi lo sviluppo produttivo moderno può fare, si pensa da alcuni di diminuire, con procedimenti contrari all’onestà, il numero dei commensali. Questo non è degno della civiltà. Sappiamo che il problema dell’aumento demografico dei popoli, privi di mezzi sufficienti di sussistenza, è molto grave e complesso; ma non si può ammettere che la sua soluzione consista nell’uso di metodi contrari alla legge di Dio e al rispetto sacro dovuto al matrimonio e alla vita nascente.
    Nuovo motivo questo, per cui Noi guardiamo con immensa compassione alla moltitudine umana che soffre la fame, e osserviamo con trepidante attenzione il modo con cui sono studiati e trattati gli enormi problemi, connessi a tale stato di cose. Se a Noi non è dato il potere miracoloso di Cristo di moltiplicare materialmente il pane per la fame del mondo, è dato tuttavia di accogliere nel Nostro cuore l’implorazione, che sale dalle folle tuttora languenti e oppresse dalla miseria, e di sentirla vibrare in Noi con la stessa pietà del divino e umanissimo cuore di Cristo: Misereor super turbam . . . « ho compassione di questo popolo che . . . non ha da mangiare » (Matth. 8, 2). La sofferenza dei Poveri è Nostra! e vogliamo sperare che questa Nostra simpatia sia di per se stessa capace di suscitare quel nuovo amore che moltiplicherà, mediante un’economia provvida e nuova al suo servizio, i pani necessari per sfamare il mondo. 

     MIRABILE OPERA DEI PASTORI E DEI FEDELI
 
   Siamo perciò apertamente favorevoli a tutto quanto oggi si fa per venire in soccorso delle popolazioni mancanti dei beni occorrenti alle necessità elementari della vita. Vediamo con ammirazione che grandi opere di soccorso internazionale sono sorte in questi anni a testimoniare, dopo le rovine della guerra, una rifiorente nobiltà del cuore umano, e ad offrire generosamente a intere masse di popolazioni sconosciute il dono spontaneo e ordinato dell’indispensabile pane.
Noi vogliamo incoraggiare e benedire tale magnifico sforzo molteplice e provvidenziale; e siamo lieti di vedere principii cristiani suscitare, pervadere e promuovere così lodevoli e benefiche iniziative. Ci piace anche notare che alcune di esse partono dal campo cattolico, per merito di persone dotate di genio cristiano, di degni Pastori che sostengono tali nobili imprese, di numerosi fedeli che vi dànno cuore e denaro, di valenti dirigenti che le organizzano e di bravi esecutori che vi prestano mirabile servizio: un saluto a tutti questi valorosi!
  Ed ecco perciò un primo Nostro augurio natalizio: che la carità regni nel mondo! che l’amore portato da Cristo, venuto bambino sulla nostra terra, e da Lui acceso fra gli uomini, si infiammi sempre più, fino a diventare capace di togliere dalla nostra civiltà il disonore della miseria, gravante su uomini nostri simili, e in Cristo nostri fratelli!
    LA CIVILTÀ CRISTIANA AUSILIO E BALUARDO DELLE NUOVE NAZIONI
 
   Questo augurio ne richiama un altro, non dissimile dal primo negli scopi umanitari, ma diverso nei metodi con cui deve essere realizzato. È l’augurio per i popoli in via di sviluppo.
    La Nostra missione universale di Pastore delle genti Ci fa guardare con immensa simpatia e con amoroso interesse alle nuove Nazioni che sorgono in questi anni alla coscienza, alla dignità e alla funzione di Stati liberi e civili. Noi osserviamo specialmente quelli dell’Africa e dell’Asia, e Ci piace salutare, in questo Natale di Cristo, la loro nascita all’indipendenza e al concerto della vita internazionale. Noi vorremmo ricercare con essi l’origine più alta della loro vocazione alla libertà e alla maturità umana nel messaggio cristiano, e vorremmo loro augurare di sapervi sempre scoprire le sorgenti del vero umanesimo, di sapervi sempre trovare quelle riserve di energie morali, con le quali un popolo acquista l’esatto concetto della vita umana e trova la sapienza e la forza per esprimere nelle sue leggi e nei suoi costumi sia i grandi principii della civiltà, sia le forme peculiari della sua indole nativa.
   Noi sappiamo che queste nuove Nazioni sono giustamente fiere della loro sovrana libertà e che non possono più ammettere il dominio d’un altro Stato sopra di loro; ma sappiamo anche che esse non hanno ancora raggiunto la propria sufficienza per godere di tutti i benefici culturali ed economici d’una civiltà moderna e completa. Ecco allora che la nostra carità del Natale, nella ricerca dei grandi bisogni del mondo, vede in questi giovani Stati il bisogno, non già d’una mortificante e interessata beneficenza, ma quello dell’assistenza scientifica e tecnica e della solidarietà amichevole del mondo internazionale: la fratellanza succeda al paternalismo. Ed è questo l’augurio che formuliamo per questi popoli nuovi: che essi entrino come fratelli nella famiglia delle Nazioni civili; entrino portando il contributo delle loro originarie civiltà e della loro recente formazione culturale e sociale, con spirito di solidarietà, di concordia e di pace; e che essi trovino nella medesima famiglia internazionale il rispetto loro dovuto e l’aiuto di cui hanno tuttora bisogno.
     Non possiamo dimenticare come la Chiesa cattolica stessa, mediante le sue Missioni in mezzo a questi Popoli nuovi, abbia sempre lavorato, senza alcuno scopo di proprio interesse temporale, per risvegliare in essi le loro migliori capacità, sempre onorando ogni loro umana ed onesta espressione, sempre annunciando la loro chiamata ai veri e supremi destini dell’uomo redento, e sempre procurando, con ogni sacrificio e con puro amore, di offrire ad essi i benefici dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, della formazione sociale; e tutto questo non come rapporto fra superiore e inferiore, ovvero fra straniero ed estraneo, ma come educazione alla fraternità cristiana e all’autonomia civile. Vogliamo perciò augurare che le Missioni cattoliche trovino sempre benevola accoglienza nelle nuove Nazioni e che sappiano sempre loro offrire la devota e leale collaborazione per il loro migliore sviluppo spirituale, morale e materiale. 

     LA PACE BENE SUPREMO NELLA TRANQUILLITÀ E SICUREZZA
 
   Il Nostro sguardo, che si è disteso sopra il panorama dei Popoli, non può non fermarsi ancora sopra un altro supremo bisogno dell’umanità: la pace.
   Ce ne suggerisce il ricordo la stessa festività del Natale, che, come tutti sappiamo, a noi si presenta come un messaggio di pace, calato dal cielo sulla terra per tutti gli uomini di buona volontà.
   Così ce ne offre l’accenno la grande Enciclica del Nostro venerato e compianto Predecessore Giovanni XXIII, la quale ebbe per tema fondamentale la questione della pace in questo nostro mondo moderno, le cui trasformazioni e le cui controversie obbligano continuamente a meditarne la natura, le forme, le debolezze, i bisogni e gli sviluppi.
    Questa Enciclica ci ha insegnato, se così possiamo dire, la problematica nuova della pace e il dinamismo che investe i termini da cui deve risultare: la sua classica definizione agostiniana « tranquillità dell’ordine » ci è apparsa risultare oggi piuttosto dall’ordinato movimento dei fattori che compongono la tranquillità e la sicurezza della pace, che da una statica fissità: l’equilibrio nel moto.
Ma Ci sentiamo ancor più obbligati a fare oggetto dei Nostri voti natalizi la pace dal duplice fatto che, in primo luogo, ne avvertiamo ormai come insopprimibile il bisogno nella coscienza delle generazioni nuove: i giovani vogliono la pace! E in secondo luogo che vediamo come la pace è tuttora debole, la pace è tuttora fragile, la pace è tuttora minacciata, e, in non pochi punti della terra, per fortuna circoscritti, è violata!
   La Nostra osservazione si fa trepidante per altre ovvie considerazioni: la pace, oggi, è più fondata sulla paura che sull’amicizia; è più difesa dal terrore di armi micidiali che dalla mutua alleanza e fiducia fra i popoli! E se la pace fosse, Dio non voglia, domani interrotta, la rovina dell’intera umanità è possibile.
    Come possiamo celebrare un Natale sereno con tale minaccia sospesa sulle sorti del mondo? Perciò il Nostro augurio si fa stringente preghiera a tutti gli uomini di buona volontà, sì, a tutti gli uomini responsabili nel campo della cultura e della politica di porsi come fondamentale il problema della pace. Della pace vera, non di quella esaltata da un’ipocrita propaganda per addormentare l’avversario e nascondere la propria preparazione bellica; non di quella imbelle e retorica, che rifugge dalle indispensabili, pazienti, estenuanti, ma solo efficaci trattative; non di quella fondata soltanto sul precario equilibrio di interessi economici contrastanti, o sul sogno di orgogliose egemonie. Della pace vera, diciamo, che fonda la sua sicurezza nella saggia abolizione, nella temperanza almeno delle cause da cui può essere compromessa, come l’orgoglio nazionalistico o ideologico, la corsa agli armamenti, la sfiducia nei metodi e negli organismi istituiti per rendere ordinata e fraterna la convivenza tra i popoli. Pace, pace nella verità, nella giustizia, nella libertà e nell’amore, Noi auguriamo!
    A questo punto il Nostro augurio natalizio ravvisa un altro bisogno, collegato con quello della pace; e si identifica in seguito a questa elementare domanda: perché gli uomini non sono in pace fra loro? Perché i loro animi non sono uniti. 

       L'UNIONE DEGLI ANIMI: GRANDE ASPIRAZIONE DEL MONDO ODIERNO
 
    L’unione degli animi è il grande bisogno umano contemporaneo. La cultura, che suscita e in grande parte serve questo bisogno, alla fine non lo soddisfa; lo inasprisce, piuttosto, per il pluralismo indiscriminato delle idee che essa mette in circolazione. Gli uomini mancano di unità nei principii, nelle idee, nelle concezioni della vita e del mondo. E finché sono divisi si ignorano, si odiano, si combattono. Si vede, da ciò, quale sia l’importanza del fattore dottrinale nelle sorti dell’umanità. Si vede quale sia la nostra fortuna per la venuta di Gesù Cristo nel mondo. Egli è venuto per stabilire un rapporto unico ed universale degli uomini con Dio, il Padre celeste. Questo rapporto religioso è il fondamento più solido e più fecondo dell’unità fra gli uomini, nel rispetto, anzi nel risveglio delle loro singole e rispettive personalità. La vera sociologia della pace umana nasce dall’unità religiosa cristiana. E questa unità, instaurata da Cristo, nel pensiero e nella storia, vorrebbe essere anche il Nostro supremo augurio, per la pace, per la concordia, per l’amore, per la comprensione, per la felicità degli uomini di buona volontà.
Noi lo lanciamo al mondo con le campane del santo Natale.
   Lo rivolgiamo specialmente a quelli che dobbiamo credere essere meglio degli altri predisposti ad accoglierlo: i Cristiani tuttora da Noi separati, i Cattolici felicemente a Noi congiunti: ut unum sint, che tutti siano uniti: fu il voto sublime ed ultimo di Cristo prima della sua Passione. Lo sia per noi il giorno celebrativo della sua venuta nel mondo.
   Figli e Fratelli, e uomini tutti di buona volontà! Sono questi i voti che il Natale Ci mette nel cuore; e, in questo primo periodo del Nostro Pontificato e durante la celebrazione del Concilio ecumenico vaticano secondo, essi sono così veementi e così traboccanti, che abbiamo pensato, voi lo sapete, di recarci prossimamente in Palestina, nella terra dove Cristo, Figlio di Dio, scese dal cielo, visse, insegnò, soffri, morì e risorse, e di nuovo al cielo montò, perché Ci sembra questo un atto espressivo e nuovo della Nostra fede e del Nostro amore per Lui, e Ci sembra che quasi a Lui evangelicamente uniti possiamo poi meglio dare alla sua missione, a Noi affidata per la salvezza del mondo, un’irradiazione sincera e felice.

     

http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1963/documents/hf_p-vi_spe_19631223_messaggio-natale.html

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