Paolo VI, il santo degli artisti
di Gianfranco Ravasi
La
canonizzazione – che si celebra oggi in piazza S. Pietro a Roma – ha
generato una fitta serie di profili di Paolo VI, una figura di alta
spiritualità ma anche di ricca dotazione intellettuale, innestata
all’interno di un periodo storico molto complesso e, per certi versi,
tormentato e fin drammatico. Si è già avuta occasione di segnalare su
queste pagine alcuni testi biografici significativi. Noi ora vorremmo,
invece, evocare un lineamento particolare e un po’ sorprendente di
questo pontefice, quello del dialogo con l’arte contemporanea. Partiamo
idealmente da un volumetto edito dall’allora «Tipografia Poliglotta
Vaticana» in occasione dell’inaugurazione della «Collezione d’Arte
Religiosa Moderna» (ora «Collezione d’Arte Contemporanea») dei Musei
Vaticani. Era il 23 giugno 1973 e il titolo era Paolo VI agli artisti.
Il
libretto conteneva il discorso tenuto dal papa nella Cappella Sistina e
rivolto al mondo delle arti per ritessere una nuova alleanza sulla scia
di un passato glorioso: «Esiste ancora, esiste anche in questo nostro
arido mondo secolarizzato, una capacità prodigiosa di esprimere, oltre
l’umano autentico, il religioso, il divino, il cristiano».
Significativamente il volumetto era illustrato con le immagini di un
pittore contemporaneo, il giapponese Sadao Watanabe. Una decina d’anni
prima, proprio nello stesso spazio glorioso della Sistina, ove «l’Arte
religiosa diede saggio della sua potenza, dispiegando nelle sue immagini
quel concerto di grandezza ideale e di bellezza estetica», Paolo VI
aveva convocato un folto gruppo di artisti di ogni disciplina. Era il
maggio 1964.
Durante
quell’incontro il papa aveva indirizzato loro un discorso colloquiale
appassionato il cui cuore era nella consapevolezza del divorzio che si
era consumato tra arte e fede anche per colpa della Chiesa: «Vi abbiamo
imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori,
sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità... Vi abbiamo
peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia”,
all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa. Siamo andati anche noi
per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e – ciò che è peggio per
noi – il culto di Dio sono stati male serviti». Eppure la grande sfida
dell’artista era alla fine la stessa del credente autentico, «carpire
dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parole, di colore,
di forme, di accessibilità». Già il noto scrittore tedesco Hermann
Hesse nella sua opera Klein e Wagner (1920) non esitava ad affermare: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».
Un
anno dopo l’intervento nella Sistina, l’8 dicembre 1965, erano i Padri
del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: «Il
mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella
disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al
cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del
tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E
questo grazie alle vostre mani».
Il 4 aprile 1999,
giorno di Pasqua, sarebbe stato s. Giovanni Paolo II a riprendere il
filo di questo dialogo – un filo che continuava ad allentarsi – con la
sua famosa Lettera agli artisti: «La vostra arte contribuisca
all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello
Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso
dell’eterno». A dieci anni di distanza da quel testo, il 21 novembre
2009, il papa Benedetto XVI aveva voluto rieditare l’atto del suo
predecessore Paolo VI convocando di nuovo, sempre nell’ambito
emozionante della Sistina col suo fondale michelangiolesco, trecento
artisti di ogni tipologia provenienti da tutto il mondo, per «ricordare
che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta
tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte
che sempre eccede il presente mentre lo attraversa» e di questo
credenti e artisti sono, ciascuno a suo modo, testimoni e artefici.
Quando
papa Montini in quell’estate del 1973 inaugurò la «Collezione d’Arte
Religiosa Moderna» circa 250 artisti, la maggior parte viventi,
firmavano 700 opere distribuite in oltre 50 sale. Attualmente i soggetti
esposti sono più selezionati (circa 400) all’interno di una raccolta,
però, di ben 8000 opere. Certo, l’arco cronologico travalica la
contemporaneità in senso stretto. Si va, infatti, dalla Pietà, un
olio su tela di 41,4 x 34 cm, di Van Gogh all’emozionante installazione
di Studio Azzurro presentata nel primo padiglione della S. Sede alla
Biennale di Venezia nel 2013. Similmente si procede da una splendida
Sala Matisse con una raccolta di meraviglie come quelle casule sacre
ritenute da Picasso «leggere e vitali come farfalle» o dalla cappella
interamente arredata da Manzù per don Giuseppe De Luca o ancora dall’Innocenzo X di Bacon donato da Gianni Agnelli, fino a una stupefacente enorme Goccia d’acqua in bronzo di Azuma.
Paolo
VI aveva incarnato in questa imponente raccolta la sua volontà di
dialogo con la cultura contemporanea. Aveva, poi, convocato anche alcuni
artisti a operare in Vaticano come Consadori, Filocamo, Longaretti,
Manfrini, Scorzelli, Minguzzi, Fazzini (suo è il grandioso Cristo risorto dell’Aula
Paolo VI, progettata dall’architetto Nervi), talora con esiti non
sempre felici (come nel caso dell’adattamento della Cappella Paolina,
riportata successivamente di nuovo al suo nitore primigenio). Ci fu
persino un suo desiderio frustrato: ambiva, infatti, ad avere nella
«Collezione» un’opera di Picasso, ma il pittore gli oppose un rifiuto
basato su motivazioni ideologiche. Certo è che dobbiamo a papa Montini
l’appello, purtroppo nella pratica ecclesiale poco ascoltato, di
riannodare il connubio tra arte e fede, nella consapevolezza che gli
universali teologici non sono solo il Verum e il Bonum, la teologia e la morale, ma anche il Pulchrum, cioè l’estetica, come ha insegnato quel grande teologo che è stato Hans Urs von Balthasar.
Sappiamo,
poi, quanto stretto sia stato il nesso tra arte e fede nei secoli che
stanno alle nostre spalle attraverso la sterminata creazione di
capolavori che incarnavano la via pulchritudinis, ossia la via
della bellezza come analogia per dire Dio in modo non solo vero ma anche
bello, avendo nelle mani il codice iconografico della Bibbia e della
fede cristiana. Anche papa Francesco, nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) – appoggiandosi al De musica
di sant’Agostino secondo il quale «non amiamo se non ciò che è bello» –
ha seguito il magistero montiniano esaltando «l’uso delle arti nella
stessa opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del
passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni
attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo linguaggio
parabolico» (n. 167).
https://www.ilsole24ore.com/art/paolo-vi-santo-artisti-AEMRasFG
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