sabato 21 dicembre 2024

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”


SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN GREGORIO BARBARIGO 

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II 
“Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”
Domenica, 22 dicembre 1985



1. “Il Signore è vicino!” (Fil 4, 5). Con queste parole ci saluta la Chiesa nella liturgia degli ultimi giorni prima del Natale. Questi sono i giorni in cui essa fissa particolarmente lo sguardo verso colui che deve venire nella notte di Betlemme. Testimonianza di un tale sguardo sono le così dette antifone maggiori dell’Avvento, che accompagnano ogni giorno nei vespri l’inno del “Magnificat”. Un’altra testimonianza è costituita pure dalla liturgia della domenica odierna. “Il Signore è vicino!”. Con queste parole saluto la parrocchia romana dedicata a San Gregorio Barbarigo, che mi è dato di visitare in questa domenica. Compio questo ministero pastorale come Vescovo di Roma, come indegno erede di quella missione apostolica, che a Roma hanno compiuto San Pietro e anche San Paolo. Proprio loro per primi hanno annunziato ai vostri antenati, duemila anni fa, il mistero dell’Avvento di Dio! “Il Signore è vicino”. Per opera loro, per la prima volta, questo grido si è diffuso nella Roma imperiale e pagana di allora. Ed è arrivato fino ad oggi.

2. L’Avvento si avvicina al suo compimento nella storia dell’umanità. Ne troviamo espressione nella liturgia dell’ultima domenica di questo periodo. Ecco, attraverso la lettura della Lettera agli Ebrei, sentiamo le parole del Figlio di Dio:2 “Ecco, io vengo . . . / Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, / un corpo invece mi hai preparato . . . / Ecco, io vengo . . . / per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5. 7). In queste parole, la venuta di Dio in mezzo agli uomini prende la forma del mistero dell’Incarnazione. Dio ha preparato questo mistero dall’eternità, e ora lo compie. Il Padre manda il Figlio. Il Figlio accoglie la missione. Per opera dello Spirito Santo diventa uomo nel seno della Vergine di Nazaret. “E il Verbo si fece carne” (Gv 1, 14). Il Verbo è Figlio eternamente amato ed eternamente amante. L’Amore significa l’unità delle volontà. La volontà del Padre e la volontà del Figlio si uniscono. Il frutto di questa unione è l’Amore personale, lo Spirito Santo. Il frutto, poi, dell’Amore personale è l’Incarnazione: “un corpo mi hai preparato”. “Il Signore e vicino”.

3. Il Padre “ha preparato” al Figlio “il corpo umano” per opera dello Spirito Santo, che è amore. Il mistero dell’Incarnazione significa una particolare “effusione” di questo Amore: discesa dello Spirito Santo sulla Vergine di Nazaret. Su Maria. “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo, colui che nascerà dunque santo e chiamato Figlio di Dio” (Lc 1, 35). Lo Spirito Santo con la sua potenza divina opera prima di tutto nel cuore di Maria. In questo modo la sorgente del mistero dell’Incarnazione diventa la fede di lei: obbedienza della fede, “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”! (Lc 1, 38). Alla visitazione - di cui parla il Vangelo di oggi - Elisabetta loda prima di tutto la fede di Maria: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45). All’annunciazione Maria pronunzia infatti il suo “fiat” nell’obbedienza della fede. Questo “fiat” è il momento chiave. Il mistero dell’Incarnazione è mistero divino e insieme umano. Infatti, colui che assume il corpo è Dio-Verbo (Dio-Figlio). E contemporaneamente il corpo, che assume, è umano. “Admirabile commercium”. In questo momento, quando la Vergine di Nazaret pronunzia il suo “fiat” (avvenga di me quello che hai detto) -il Figlio può dire al Padre: “Ecco, un corpo mi hai preparato”. L’Avvento di Dio si compie pure per opera dell’uomo. Mediante l’obbedienza della fede.

4. La liturgia odierna ci mette davanti agli occhi non solo l’eterna obbedienza del Figlio: “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”: non solo l’obbedienza di colei che è stata prescelta per essere la sua madre terrena . . . ma ci mette dinanzi agli occhi anche il luogo, in cui si deve compiere il mistero dell’Incarnazione.3 Ecco, al centro della profezia di Michea appare il toponimo: Betlemme. Questo è proprio il luogo in cui l’eterno Figlio doveva per la prima volta rivelarsi nel corpo umano. Il Figlio di Dio come figlio dell’uomo: figlio di Maria. Il profeta dice: “E tu, Betlemme di Efrata, / così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, / da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; / le sue origini sono dall’antichità, / dai giorni più remoti” (Mi 5, 1). Tale origine “dall’antichità”: dai giorni più remoti (e senza inizio!) viene partecipata dal FiglioVerbo. “Quando colei che deve partorire partorirà (cf. Mi 5, 2) -annunzia ulteriormente il profeta “il resto dei suoi fratelli ritornerà ai figli di Israele”. Questa nascita umana del Figlio di Dio dalla Vergine dà inizio al nuovo Israele: al nuovo popolo di Dio. Sarà questo il popolo dei “fratelli” di Cristo: di coloro che, mediante la grazia, diventeranno “figli nel figlio”. Riceveranno “potere di diventare figli di Dio”, come dirà San Giovanni nel Prologo del suo Vangelo (cf. Gv 1, 12). Il luogo in cui tutto ciò si compirà - dove si compirà e al tempo stesso sarà sempre ricordato di nuovo nella storia della Salvezza - è proprio quella Betlemme di Efrata.

5. Tale orizzonte apre dinanzi a noi la liturgia di questa domenica. Vediamo quale ricco contenuto nasconde in sé questa concisa invocazione, con la quale la Chiesa esprime il suo saluto negli ultimi giorni di Avvento: “Il Signore è vicino“!

6. La vostra comunità parrocchiale, eretta nel 1964, ha celebrato recentemente il ventennio di fondazione. Essa fu posta sotto la protezione di San Gregorio Barbarigo, perché tutta l’attività pastorale fosse ispirata a quella luminosa figura che, come Vescovo di Bergamo e di Padova, si distinse per la cura delle anime e, in particolare, per la formazione dei candidati al sacerdozio tanto da essere additato come pastore esemplare. In un momento quale è quello che stiamo vivendo, in cui la Chiesa pone al centro delle sue preoccupazioni il problema della scarsezza delle vocazioni ecclesiastiche, vi esorto a non cessare di invocare la sua intercessione, perché il Signore faccia fiorire numerose vocazioni per la gloria di Dio e per il bene delle anime. Insieme col cardinale vicario Ugo Poletti e col vescovo ausiliare Clemente Riva, rivolgo il mio saluto all’intera comunità parrocchiale e, in particolare, al parroco, don Paolo Schiavon, al vice-parroco e a tutti i sacerdoti che a vario titolo prestano la loro collaborazione per l’animazione cristiana di questa zona, situata nel quartiere dell’EUR fra le Tre Fontane e la Via Laurentina. Grazie alla loro dedizione e alla collaborazione di tanti laici generosi, la vita spirituale della parrocchia in questi venti anni è andata progressivamente rafforzandosi. Il lodevole impegno dei sacerdoti della diocesi di Padova, che sono animati dallo zelo apostolico di San Gregorio Barbarigo, antico Pastore nella sede patavina, sta facendo maturare frutti di vita cristiana, che consentono di ben sperare per il futuro, pur in presenza di vari problemi sociali che travagliano il quartiere a causa della diversa provenienza dei suoi abitanti. Mi consta che si sta cercando di far fronte alla tendenza all’isolamento e all’individualismo; che ci si preoccupa di porre riparo all’azione corrosiva che la vita moderna esercita nei confronti dei legami familiari; e che non si lascia nulla di intentato per risvegliare nei singoli una sempre più chiara coscienza dei valori cristiani e sociali. Nel dare atto del cammino percorso, desidero anche rivolgere il mio cordiale saluto alle diverse associazioni, mediante le quali il laicato è attivamente presente nella pastorale parrocchiale sia con l’attività catechetica e formativa, sia con quella caritativa e assistenziale. Il mio pensiero va in particolare ai giovani, a cui esprimo il mio compiacimento per la partecipazione alla liturgia e alla vita dei vari gruppi. Ad essi desidero rivolgere l’esortazione a sentirsi sempre più responsabili nei confronti dei loro coetanei che non hanno ancora esperimentato la gioia, che proviene dalla scoperta e dall’amicizia con Cristo. Un saluto particolarmente affettuoso esprimo infine agli Istituti religiosi maschili e femminili, che operano nell’ambito della parrocchia, attendendo alla formazione della gioventù, all’assistenza sanitaria e a altre opre benefiche. Tra questi, desidero fare esplicita menzione dei monaci Trappisti alle Tre fontane, i quali con la loro vita ascetica di perfetta contemplazione sono gli specialisti di Dio e attirano con la loro preghiera le più elette grazie celesti.

7. “Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, / un corpo invece mi hai preparato. / Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. / Allora ho detto: Ecco, io vengo . . . / per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7). Il mistero nell’Incarnazione significa l’inizio del nuovo sacrificio: del perfetto sacrificio. Colui che viene concepito nel seno della Vergine per opera dello Spirito Santo, che nasce nella notte di Betlemme è sacerdote eterno. Porta il sacrificio e compie il sacrificio già nella sua Incarnazione. E ciò è quel sacrificio che “è gradito a Dio”. È gradito a Dio il sacrificio, in cui si esprime tutta la verità interiore dell’uomo: il sacrificio della volontà e del cuore. Il Figlio di Dio assume la natura umana, il corpo umano, proprio per iniziare5 tale sacrificio nella storia dell’umanità. La compirà definitivamente mediante la sua “obbedienza fino alla morte” (cf. Fil 2, 8). Tuttavia l’inizio di questa obbedienza è già nel seno della Vergine Maria. Già nella notte di Betlemme: “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”.

8. Quando circonderemo il Neonato nella notte di Betlemme e per tutto il periodo di Natale, diamo sfogo al bisogno dei nostri cuori, gioiamo di quella gioia che il tempo di Natale porta con sé, cantiamo “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2, 14). E soprattutto: impariamo fino alla fine la verità contenuta in questo mistero penetrante: “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”. Impariamo dal Figlio di Dio a fare la volontà del Padre. Infatti tale è la vocazione di coloro che sono “diventati figli nel Figlio”. Tale è la nostra vocazione cristiana. Tale è frutto dell’Avvento di Dio nella vita umana.



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venerdì 20 dicembre 2024

La costanza del cielo di Gian Piero Stefanoni, recensione di Flavia Buldrini


LA COSTANZA DEL CIELO 
di Gian Piero Stefanoni 
Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024

Nota critica di Flavia Buldrini


 


I versi di Gian Piero Stefanoni si susseguono tenui in filigrana alla trama segreta dei silenzi, sottratti alla frenetica giostra dei giorni, sussurrati come sospiri che affiorano sull’orlo degli abissi: “Sacro perché ti guarda, / perché è guardato il silenzio / che è in te dalle cose.” (Sabato); “Nella costanza dei morti, / nel loto tornare e aggiungerti al numero, / giunge poi al tempo del sogno degli altri, / della spinta che il mondo ti chiede, / dell’alba dispersa nei mondi ormai muti. / Giunge poi il tempo infestato dalle scimmie, / della casa bendata, delle mura bagnate. / Giunge poi il tempo in cui finalmente ti trovi.” (Il sogno degli altri). Ora sono lutti non mai sopiti che galleggiano in superficie: “La rosa dello spoglio dolore / non s’incurva, non recita / nel buio la propria iconoclastasi. / Ma crede – come io credo - / nel ferito splendore che dà luogo / alla forma, al ritorno d’impasto / che s’infibra nello stelo. / Abbiamo braccia, abbiamo mani / nel patire e morire insieme del padre.” (Non s’incurva); “La povertà della luce senza immagine, / la madre sola a dare figura. / Ma i portatori di fiori / nella superficie dell’assenza / restituiscono ciò che il sole nasconde / e resta nel conversare del buio. / Lo devi sentire, lo devi pensare / l’arrivo, il suo ritorno / nello scioglimento del ghiaccio. / Noi non vediamo tutto.” (La povertà della luce).

Sono rêveries amorose appese agli sguardi fugaci, intercettate da divini misteri: “Ma arrotonda il frammento / al compimento, sfugge alla morte, / all’idea che ha di sé: sempre / del presente l’amore.” (Campanule); “Comporta un peso quest’ombra leggera / che si distende nel mare. / La terra, come gli amanti, non è sola / nella finitudine della forma. / Esclama e riapprende da una parola non sua. / L’amore il perché dell’amore. / L’amore il mattino dei corpi.” (Lessico madre).

I paesaggi sono i naturali sfondi degli stati d’animo, messaggi cifrati che alludono ad un altrove:

“- e il mare / non ha confini non accettando più di bussare. / Così, nel sonno, sei ancora tu l’intruso, / l’occhio lungo la spina di pesce, la notte / senza riflessi nel giorno che cede alla sete.” (Tutti gli addomesticabili mondi); “Perché per questa partecipata terra / quest’alito breve, questo profumo / al termine della salita che apre all’azzurro / nell’immagine scoperta dell’uomo. / Perché ancora chiede e dà vita / nell’idea dell’acqua la viola del giorno, / nello stelo la mano rupestre, lo sguardo eretto / che chiama ogni ora nel volto / alla ragione dell’altro.” (Salite).

Sono flebili singulti di dolore che scavano voragini sulla faccia della terra, rintocchi sommessi dalla notte alle porte dell’aurora: “Ha una doglia lo sguardo / della luce sulla terra / non rincorre albe / nel volo di notte dell’uccello.” (Doglie).

Un furtivo straniamento sradica dalle rassicuranti certezze, mentre si è sospesi sul confine tra la vita e la morte: “Non è di nessuno questa terra, / questo battesimo / ma il colpo batte il confine, / il lago sembrando fango / nella nostra interpretazione del sangue. / All’occhio insiste ancora, / bussa alla porta / la frattura dell’ombra, / la mai sopita negazione / in nome del padre.” (La fodera, per Czeslav Misloz).

“Il cacciator di fede” fruga tra “le ombre del giorno” per scovare “la cellula versata”, la perla rara deposta dal mare della vita sulla sponda dell’Eternità. Tuttavia, non riesce a passare il guado, a spiccare il balzo verso l’altra riva dove arride il sole: “Tu credi ma il vento / in te non può riposare / né adagiarsi la nuvola / o l’albero finalmente / alla sua maturata infanzia / dare respiro nel piccolo nido. / Tu credi ma non riesce / a passare / basso allo sguardo / il sole, l’oriente.” (Tu credi). L’anelito religioso insorge dal sepolcro del passato: “Perché un inizio questo Dio di pietra, / un inizio questa visione del tutto / che lentamente nella separazione ci consuma.” (Del cuore). Il divino tesse l’armonia tra cielo e terra nel canto unanime della creazione: “Quale parola dice la paura, / quale la nasconde? / Non è umano questo premere / senza toccare e che chiede l’assenso / nella conta dormiente degli angeli. / Non è da Dio il tormento, / la divisione della luce, l’impaziente / sottrazione delle orme. / È scritto infatti – l’uomo alla fine del cielo, / il salto alla fine dell’acque.” (Quale parola). Gli oppressi sono gli interlocutori più vicini a Dio, capaci di schiudersi all’annunzio angelico del Kerigma: “E li vedi ogni anno / sempre più piegati fino a toccare la terra, / gli occhi fissi, la bocca aperta al ruminare del cielo. / Ma poi passi / e dimentichi il velo, dimentichi la veste, / l’odore dell’agnello nella tosatura delle mani.” (Kerigma). L’anima è lago di luce che affluisce dalla sorgente perenne dell’amore: “Siamo quasi arrivati / ma abbiamo smesso di andare / mentre scendeva la luce sulla terra. / Così se non trovi l’infezione / cura lo stesso, bel limite dell’amore, / nel tema degli occhi. / Quest’anima sei tu, l’elemento / tagliato, la variante che nessuno / considera nel compagno lasciato / solo – noi di qua lui di là - / nel tuo povero tempio.” (Siamo quasi arrivati).

Eppure sottentra anche una vocazione all’abisso, ai fondali sommersi dell’essere: “Su questa terra dove è stato posto il pozzo / nel punto esatto dove il padre non ha potuto frenare / come stelle perturbate all’approdo / ruotiamo attorno nell’ignoto della riserva / dentro a quel grido che a quell’abisso ci chiama. / Danza finché cade nel sabato, nella rimessa / ogni sette giorni del fango, l’oscurità rivelata dal volto, / il silenzio delle statue nella bocca dei piccoli.” (Danza finché cadi).

La poesia è un respiro che avvolge tutte le cose: “È la politica del gesto / che fa il frammento, il mondo / che si percepisce al suo passo, / l’ordine della poesia nella preghiera” (La politica del gesto).

L’autore rivolge lo sguardo anche alla realtà più cruda, come in Non resti insepolto Caino, ove forse solo il cuore di un poeta sa indulgere ad uno sguardo di compassione e intonare un requiem a chi muore sotto il segno dell’estrema solitudine e maledizione, come Cristo sulla croce: “Chi piangerà adesso questo ragazzo? / Quale latte di padre o di madre / lo nutrirà, la gola stretta, il nodo teso? / Quale terra, quale mano lo accompagnerà / finalmente a una pace di acque e di parola? / Quale luce? / Avvolgetelo, lavatelo, sia per lui carezza. / Non ha odi il Dio senza oscurità.” (Per Jabar Al Bakr, rifugiato siriano, morto suicida nel carcere di Lipsia il 12 ottobre 2016).

La condizione ontologica dell’uomo è segnata da un’originaria ferita fin dallo “strappo sanguinoso della nascita” – secondo l’icastica definizione della Morante -: “Svegliato e bagnato dal sole / al riflesso breve del mistero, / l’Uomo strappato al suo posto. / Appena nato al corpo denso dell’asfalto / ha il grumo lieve della madre; / non geme, non ha richieste / nel torpore acceso della ferita.” ((Re)Incarnazioni).

La bellezza celeste sovrasta con la sua trascendenza divina l’umanità frale: “Ma il mondo a sé rivolto non muta, / non dà pace, tutto occultando, / tutto spegnendo nell’ispirazione sorda, / nel desiderio scevro. / Il cielo non è uno spazio, la rosa / una facile voce nell’ipotesi divina.” (Dorsali); “Prende bagliore dai corpi / l’inavvertita altezza dell’arca, / il libero azzurrarsi del tramonto / nel profilo dorato del salmo.” (Non cede bel passo, s’illumina).

Gian Piero Stefanoni in questi testi si effonde in meditazioni profonde, raggiungendo esiti di intenso lirismo: “Sanno prima del buio la chiamata nuda, / l’offerta dell’azzurro.” (Prima del buio).

La costanza del cielo è il permanere del bene sopra la terra, nonostante noi, un seme di luce incastonato nell’anima che silenziosamente fiorisce “e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami” (Mt 13,32): “Prepara al silenzio e al fiume / la parola nel greto che guarda al fiorire / Ancora si specchia, ancora ci segue: / più forte il dolore screpolato alla terra, / sa della luce l’esercizio, il cadere dell’ombra.”; “Sa da dove il frutto / è fatto opera, di quale annuncio, / di quali scaglie l’ombra ora riluce / nello strappo di vita delle forme. / Sa per femminile trasparenza / la visione dell’ultimo nato, / sul ramo la costanza del cielo che non cede.”





giovedì 19 dicembre 2024

Tenere lo sguardo fisso su Gesù Bambino, di mons. Vito Angiuli

 TENERE LO SGUARDO FISSO SU  GESU' BAMBINO

di mons. Vito Angiuli 




Cari fratelli e sorelle,

il Natale è un evento storico e un mistero della fede. Si fa memoria della nascita di Cristo al fine di meditare il mistero del Verbo fatto carne. I fatti storici si narrano, i misteri si contemplano. La verità storica mette al bando ogni affabulazione mitica, la contemplazione dona un nuovo afflato di vita e una rinnovata sorgente di luce, anche se è grande la sproporzione tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata dalla voce degli angeli che lodano Dio.
L’incarnazione del Verbo è la manifestazione visibile del mistero invisibile. Certo il Dio «invisibile» (Col1,15, 1Tim 1,17; Eb 11,27) non può essere racchiuso in un’immagine visibile. Tuttavia, nel Figlio, Dio si rende accessibile all’uomo. La tradizione giovannea, in modo particolare, sottolinea l’importanza del vedere, con gli occhi della fede[1], il mistero di Dio nella santa umanità di Cristo (cfr. Gv 1,14; 1,50-51; 12,21; 14,9; 20,29; 1Gv 1,1-3). Se la rivelazione attraverso il creato dà la vita a tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più la rivelazione per mezzo del Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio[2].. Dobbiamo camminare sulla terra senza distogliere gli occhi dal cielo perché non ci raggiunga il rimprovero rivolto ad Israele: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). La beatitudine nasce dallo sguardo contemplativo: «Beati i vostri occhi perché vedono» (Mt 13,16).

Tenere fisso lo sguardo su Gesù Bambino

Il silenzio della notte e il cielo illuminato dalla stella rende ancora più suggestiva la rappresentazione della scena evangelica e infonde una gioia più intima alla contemplazione del mistero: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14). Era questo il motivo che indusse san Francesco nel 1223, ottocento anni fa, a realizzare a Greccio il primo presepe della storia. Egli voleva «vedere con gli occhi del corpo» la scena commovente nella quale «risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme»[3].
La liturgia che celebriamo a Natale non è soltanto un rito, ma è quasi la ripresentazione della scena narrata dai Vangeli, la manifestazione della nuova Betlemme, del Cristo che nasce nel nostro cuore. Ci sono di aiuto le tre collette delle Messe di Natale. Prendendoci per mano, ci invitano a compiere il nostro ingresso nel mistero secondo una precisa progressione: l’evento dell’incarnazione del Verbo sprigiona una tale luce (Messa della notte) che investe il nostro agire (Messa dell’aurora) perché possiamo partecipare alla stessa vita di Dio (Messa del giorno).
In questa Messa della notte di Natale, prima di ogni altra cosa, siamo invitati a uno sguardo contemplativo, reso possibile dallo svelamento del Verbo di Dio nella carne umana. Nell’umanità del Figlio si può vedere il volto misterioso e l’infinito amore del Padre. D’ora in poi, siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo su Gesù (cfr. Lc 4,20), come suggerisce san Giovanni della Croce quando mette in bocca a Dio Padre queste parole: «Fissa lo sguardo in lui solo e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri: in lui ti ho detto e rivelato tutto»[4].

Il supremo comandamento è fissare lo sguardo sulla persona di Gesù

Fissare lo sguardo sul Verbo incarnato è il comandamento supremo a cui dobbiamo attenerci. Quando questo avviene, per un intervallo indeterminato di tempo, il movimento si ferma, non scorre più, rimane come sospeso e quasi si arresta. Il resto del mondo scompare dalla scena, e improvvisamente si dilegua. Rimane solo lui, il Bambino collocato nella mangiatoia, con la soave grandezza del suo mistero, le cui porte si aprono solo dall’interno e il cui svelamento non annulla la sua ineffabilità. Per la sua eloquente analogia con l’amore si parla giustamente di un mistero d’amore. E come nell’amore, l’accresciuta conoscenza chiede un suo continuo approfondimento, così anche per il “Bambino di Betlemme”[5], come soleva chiamarlo san Francesco d’Assisi, la comprensione del suo mistero diviene sempre più coinvolgente e affascinante per chi lo contempla.
Contemplare significa fisare lo sguardo e dare il primato alla persona di Gesù. È lui stesso il Vangelo. A lui bisogna “attaccare” il proprio cuore. Con lui bisogna instaurare una vera e profonda relazione interpersonale fino ad arrivare alla totale e piena conformazione. Le parole e i gesti, staccati dalla sua persona, diventano solo consigli morali da mettere in pratica senza la grazia necessaria che consente di attuarli realmente. Cristo è la grazia che annuncia e dona la forza per attuare il suo insegnamento. Solo l’amicizia con lui rende forte e stabile la fede e consente che essa si sviluppi e si concretizzi nella carità. Per amare come Gesù bisogna avere fede in lui, bisogna cioè tenere fisso lo sguardo sulla sua persona. L’imitazione scaturisce dalla contemplazione!
Nel particolare tempo che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi della fede e dalla sua deriva in una sorta di umanitarismo che svuota il suo contenuto misterico, occorre richiamare le parole pronunciate da Joseph Ratzinger nell’omelia della Messa pro eligendo Romano Pontifice (18 aprile 2005): «“Adulta” – egli diceva – non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)».
Il mistero della natività si mostra al nostro sguardo nella rappresentazione del presepe. Dobbiamo imparare a fissare lo sguardo sul Bambino da tutte le possibili angolazioni. Dall’alto, in quanto è una manifestazione dell’eterno amore tra le tre divine persone, dal basso, considerando la sua dimensione storica, da vicino in quanto evento intimo e famigliare.

Lo sguardo dall’alto

Il primo sguardo proviene dall’alto, dal cielo ad opera delle tre persone divine e delle schiere angeliche. Da questo punto di vista, il mistero del Natale si svela a partire dalla sua più profonda e impenetrabile interiorità: il suo legame con il mistero della Trinità. È significativo che la tela che si trova nella Chiesa della Confraternita di Barbarano, è divisa in due parti: in basso la scena della nascita di Cristo, in alto la raffigurazione della Trinità, in un tripudio di gioia delle schiere angeliche[6]. Sembra che le tre persone divine e gli angeli siano quasi sopra il palco superiore di un teatro a contemplare la scena della notte di Betlemme.

Lo sguardo delle tre persone divine
Da sempre le tre persone divine contemplano l’evento storico dell’incarnazione del Verbo e della sua nascita. Il mistero è innanzitutto sotto lo sguardo amante del Padre. Dall’eternità, egli volge i suoi occhi sul Figlio e con la sua voce proclama: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Sal 2,7). L’avverbio “oggi” si riferisce alla vita intima di Dio: è l’“oggi” del Padre che dall’eternità contempla non solo la generazione eterna del Figlio, ma anche la sua nascita storica. Duplice, afferma san Cirillo di Gerusalemme, «è la generazione: una da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana da una vergine nella pienezza del tempo»[7]. Con un solo atto, il Padre contempla amorevolmente il volto del Figlio di cui si compiace (cfr. Mt 3,17; 17,5), nell’eternità e nel tempo.
A sua volta, il Figlio, che da sempre è rivolto verso il Padre, vede sé stesso riflesso negli occhi del Padre. Lo sguardo del Padre è lo specchio dove il Figlio vede che il suo volto, che è «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3). Per questo il suo è uno sguardo obbediente. «Entrando nel mondo, – afferma la Lettera agli Ebrei – Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10, 5-7). L’obbedienza del Figlio consente agli uomini di vedere la gloria eterna del Padre. Essa, infatti, diventa accessibile solo quando è velata dall’umanità del Figlio. Altrimenti, «a causa dell’eccessiva luce si dissolverebbe ogni carne, a meno che, per disposizione ineffabile di Dio, o la carne si muti in luce per poter vedere la luce, o la luce si muti in carne per essere vista dalla carne»[8].
Il Natale è anche la festa dello sguardo dello Spirito Santo, protagonista silenzioso e nascosto del vicendevole amore tra il Padre e il Figlio e artefice della nascita di Gesù nel grembo benedetto di Maria. Lo Spirito, forza divina generante e generatrice, rende possibile la realizzazione di tutte le fasi del mistero: l’illuminazione e l’adesione di Maria, la decisione di Giuseppe di prenderla in sposa e il riconoscimento che tutto era un’opera della grazia. Nello lo scritto apocrifo Vangelo secondo gli Ebrei, si legge che lo Spirito Santo, posandosi su Gesù, sussurra: «Figlio mio, in tutti i profeti aspettavo te, che tu venissi e io potessi riposare in te. Tu sei il mio riposo»[9].

Lo sguardo degli angeli
Allo sguardo compiaciuto delle tre persone divine fa da contrappunto lo sguardo gioioso degli angeli. Anch’essi, si affacciano dalle finestre del cielo spinti dal desiderio di «fissare lo sguardo» (1Pt 1,10-12) sulla nascita terrena del Verbo eterno. E mentre guardano con stupore questa divina meraviglia, intonano l’inno di lode: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini amati dal Signore» (Lc 2,14). Con il loro gioioso canto, gli angeli esprimono una verità, avanzano una profezia, suggeriscono una proposta.Anzitutto constatano la grandezza, la maestà e lo splendore di Dio, la cui gloria risplende nei cieli e si manifesta sulla terra in Gesù Bambino. Formulano una profezia: ci sarà pace sulla terra, quando gli uomini si lasceranno amare da Dio attraverso suo Figlio. La pace, infatti, non si fonda sugli sforzi degli uomini, ma sulla benedizione e sulla misericordia di Dio. Suggeriscono agli uomini una proposta: mettere Dio al primo posto, al di sopra di tutto, accogliendo il Figlio che si manifesta nella fragile realtà di un bambino bisognoso di tutto.
Sant’Agostino commenta in modo mirabile il canto degli angeli con questa esortazione: «Meditiamo con fede, speranza e carità queste parole divine, queste lodi di Dio, questa gioia angelica, dopo averla accolta con profondo rispetto. Come infatti ora crediamo e speriamo e desideriamo, anche noi saremo gloria a Dio nell’alto dei cieli quando nella risurrezione del corpo spiritualizzato saremo rapiti sulle nubi incontro a Cristo; purché però, ora che siamo sulla terra, ricerchiamo la pace con buona volontà. Nell’alto dei cieli ci sarà la vita perché ivi è la regione dei vivi; ivi sono i giorni buoni, dove il Signore è sempre lo stesso e i suoi anni non verranno meno. Chiunque vuole la vita e desidera vedere i giorni del bene distolga la sua lingua dal male e le sue labbra non pronuncino inganni; si allontani dal male e operi il bene: facendo così sarà un uomo di buona volontà. Cerchi la pace e la persegua perché sarà pace in terra agli uomini di buona volontà»[10].

Lo sguardo dal basso

Lo sguardo dall’alto si fonde con lo sguardo dal basso. Il mistero della nascita di Cristo, contemplato dall’eternità, viene riconosciuto nella storia in quanto è annunciato dai profeti, venerato dai pastori, adorato dai Magi.

Lo sguardo lungimirante dei profeti
Il fondamento storico è dato dallo sguardo lungimirante dei profeti. La Prima Lettera di Pietro afferma:«Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per sé stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo» (1Pt 1,10-12).
I profeti, uomini incandescenti, nella loro umana transumanza respirano il soffio dello Spirito. Con i loro occhi penetranti, vedono dentro e oltre il loro tempo e, da lontano, lacerano l’orizzonte. Con la loro insopportabile lucidità e chiaroveggenza, infastidiscono gli uomini che vivono in modo superficiale. Sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda di Dio, vedono con lungimiranza nel tempo presente ciò che accadrà in futuro. Sono sentinelle che sanno scrutare con passione le contraddizioni e le miserie del tempo e riescono a scorgere i segni dell’amore gratuito e misericordioso di Dio che avanza nella storia. Con il loro annuncio, mantengono viva l’attesa del Messia, ravvivano la fragile fede dei credenti perché siano pronti a riconoscere l’Atteso delle genti, dando vigore alla speranza che egli certamente verrà.

Lo sguardo meravigliato dei pastori
I pastori sono uomini dallo sguardo meravigliato. Apparentemente sembra che dormano un sonno tranquillo. Sanno però che al riposo manca qualcosa che sia capace di stupire e dare gioia alla vita. All’improvviso, nella notte oscura, odono un canto e scorgono il sorgere di una stella, «come quando le stelle nel cielo, intorno alla luna che splende, / appaiono in pieno fulgore, mentre l’aria è senza vento; / e si profilano tutte le rupi e le cime dei colli e le valli; / e uno spazio immenso si apre sotto la volta del cielo, / e si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo»[11].
Svegliati dal sonno tranquillo e dal meritato riposo, si muovono al canto degli angeli attratti dalla luce che intravedono all’orizzonte. Provocati dal dispiegarsi del firmamento, sentono di essere chiamati ad alzarsi per scoprire il segreto della stella e dare forma concreta al canto degli angeli. Riposare è necessario solo per essere più pronti al cammino del giorno dopo. Accogliendo i segnali celesti la vita si desta, ed anche il gesto più piccolo diventa immenso. Giunti sul luogo, rimangono a bocca aperta avvolti da una meraviglia incontenibile. Il Bambino, contemplato nella mangiatoia, li invita a vegliare, a camminare e a riconoscere definitivamente che non «è funesto a chi nasce il dì natale»[12].

Lo sguardo adorante dei Magi
Mentre i pastori ritornano alle loro case dopo avere visto il Bambino, giungono da lontano i Magi, uomini sapienti dal cuore inquieto. Secondo la tradizione, sono i rappresentanti dei tre regni allora conosciuti (Africa, Asia ed Europa) e delle tre età della vita: la giovinezza, l’età adulta e la vecchiaia. All’apparire della stella, si è nuovamente destato il loro desiderio che li ha spinti a guardare oltre, in alto e in grande, per riconoscere che c’è molto di più di quello che si vede, si tocca e si sperimenta.
Essi sanno che bisogna saper discernere tra le molteplici stelle. Vi sono, infatti, stelle abbaglianti che suscitano emozioni forti, ma che non orientano il cammino. Sono meteore che brillano un po’, ma ben presto scompaiono e il loro bagliore svanisce; stelle cadenti che depistano anziché indicare la meta. La stella del Signore, invece, anche se talvolta sembra dileguarsi, sempre riappare. È una stella mite, prende per mano e accompagna infallibilmente alla meta desiderata. Non promette ricompense materiali, ma garantisce la pace e suscita nel cuore «una grandissima gioia» (Mt 2,10).
I Magi non sono viandanti o esploratori solitari. Camminano insieme, si fidano e si affidano l’uno all’altro. Scrutano insieme i segni e le tracce celesti. Spesso si tratta di piccoli indizi che si rivelano epifanie di bontà e illuminano il sentiero sconosciuto. Non temono gli errori e, anche di fronte a fraintendimenti e malintesi, non desistono dalla loro ricerca. Basta un piccolo segno per riaccendere in loro la fiducia e la speranza. Giunti alla meta, contemplano con i loro occhi il segno che avevano tanto desiderato vedere. Cercavano un re e si ritrovano davanti un bambino tra le braccia della madre, in una stalla. Riconoscono però che era proprio quel semplice e povero bambino l’astro che li aveva accompagnati. Si inginocchiano, adorano e offrono doni. È la conclusione del loro viaggio e del loro desiderio e il pegno di una nuova ripartenza. Ora che hanno visto, possono tornare al loro paese «per un’altra strada» (Mt 2,12).

Lo sguardo da vicino

Il mistero della nascita di Cristo, contemplato dall’alto e riconosciuto nel corso della storia, è guardato con attenzione nell’intimità e nella relazione interpersonale. Questa volta i personaggi esemplari sono Maria e Giuseppe.

Lo sguardo meditativo di Maria
Maria è colei che ha generato Cristo, ma è anche colei che lo custodisce. Lo genera come madre e lo custodisce come arca dell’alleanza e primo tabernacolo vivente. Il suo è uno sguardo meditativo. Ella “tiene insieme” tutto ciò che riguarda suo Figlio. È un grande mistero da scoprire a poco a poco. Il suo non è solo lo sguardo della madre, ma è anche lo sguardo della discepola. Raccoglie ogni singolo elemento, ogni parola, ogni fatto, lo conserva e lo confronta all’interno del tutto, riconoscendo che tutto proviene dalla volontà di Dio.
Non le basta una prima comprensione superficiale, scende in profondità, si lascia interpellare dagli eventi e li elabora per acquistare quella consapevolezza che solo la fede può garantire. Per lei, tutto ha il valore di un “simbolo” che spinge a cercare il senso recondito, a soppesare, paragonare, confrontare. Come un’abile tessitrice, ella ricama la trama del mistero con fili sottili e, con grande maestria, incastona le tessere del mosaico, cercando di ricostruirne l’insieme.
Il suo cuore è il luogo del discernimento, del ricordare, del ponderare attentamente le parole e gli eventi, in un esercizio di affettività interiore. Nell’angolo più segreto della sua anima, confronta i testi, i dati e gli eventi e li lascia maturare nella profondità dello spirito. Così san Lorenzo Giustiniani commenta: «Schiudeva verso di sé la porta dei misteri celesti e si colmava di gioia, si arricchiva copiosamente del dono dello Spirito, orientandosi verso Dio, e nel medesimo tempo si conservava nella sua profonda umiltà»[13].

Lo sguardo silenzioso di Giuseppe
Lo sguardo di Giuseppe è avvolto nel silenzio perché, come scrive san Giovanni della Croce, «una parola pronunciò il Padre, e fu suo Figlio ed essa parla sempre in eterno silenzio, e nel silenzio deve essere ascoltata dall’anima»[14].
San Giuseppe è il modello di un silenzio pieno di ascolto, di interiorità e di operosità; un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai suoi voleri. Il suo silenzio non va confuso con il mutismo, con una sorta di un vuoto interiore. È un silenzio pieno di quella fede che sa orientare il pensiero e guidare l’azione. Il silenzio di Giuseppe, all’unisono con quello di Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, e la confronta continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù. Il suo è un silenzio intessuto di preghiera, di benedizione al Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza.
Qualcuno ha parlato di Giuseppe come l’uomo dei sette silenzi[15]. Sette, infatti, sono i momenti che hanno scandito la sua esistenza, accompagnata da altrettanti silenzi: il silenzio delle nozze; il silenzio della speciale paternità; il silenzio del Natale; il silenzio nel Tempio; il silenzio dell’esilio; il silenzio di Nazareth; il silenzio della morte. Il suo è stato un “silenzio assoluto” perché, come afferma sant’Agostino, «nella misura in cui cresce in noi la Parola – il Verbo fatto uomo – diminuiscono le parole»[16]. Ha nobilitato la parola perché è stato amante della “parola minore”, quella più delicata rispetto a quella brutale e urlata che ormai siamo abituati ad ascoltare nel nostro tempo, dove spesso domina non soltanto l’aggressività, ma anche la volgarità.

Lo sguardo interiore

Gesù non è solo oggetto del nostro sguardo, ma è il soggetto che guarda noi e il Padre. A quale apprendistato si è sottoposto il Verbo venendo nel mondo! Egli, scrive sant’Ireno, «pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre»[17]. Il suo è lo sguardo del Bambino, del Crocifisso e del Risorto.
Lo sguardo di Gesù Bambino è intenso e trasognato come quello di un infante che vede ogni cosa nella sua originaria bellezza. È un vedere in profondità il mondo e la storia umana secondo il disegno eterno del Padre, per discernere il suo valore e il suo destino.
Dall’alto della croce, il Crocifisso ci raggiunge con il suo sguardo compassionevole[18]. I suoi occhi sono finestre aperte per scrutare la profondità del nostro cuore. Quando ormai la voce ha perso il suo suono, lo sguardo crea un ponte, una comunicazione, una relazione, una dolce violenza d’amore. Lo sguardo del Crocifisso non si limita a constatare, ma riplasma la vita, crea una novità, fa iniziare una storia, apre l’orizzonte della risposta perché ogni uomo possa trovare in lui il suo punto di approdo, il suo ultimo orizzonte, la sua più intima e profonda gioia.
Dopo la sua risurrezione, il Risorto si «fa vedere» (ofthê) e si fa riconoscere. Siamo tutti davanti al suo sguardo meraviglioso che non indaga, ma accarezza con tenerezza di madre. È la potenza dell’amore che si manifesta attraverso quello sguardo. Andiamo avanti nella vita nella certezza che lui ci guarda e attende di essere ricambiato. L’amore, ricevuto e donato, è tutto in questo sguardo, che segna la vita e apre le porte dell’eternità. La persona che si lascia guadare è spinta ad abbandonare tutto e a seguirlo.

Cari fratelli e sorelle, fissare lo sguardo su Gesù è il messaggio di questa notte di Natale, Questo messaggio rimane valido per tutta la nostra vita. Siamo, infatti, chiamati a correre «con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12, 1-2). Buon Natale.

Mons. Vito Angiuli, Vescovo della Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

Omelia nella Messa della Notte di Natale
Chiesa Cattedrale, Ugento 24 dicembre 2023.



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[1] Cfr. Agostino, Lettera 147 sulla visione di Dio, 1-23.
[2] Ivi, 4, 20, 5-7
[3] Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 84-85; FF 468-469.
[4] Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, lib.2, cap.22.
[5] «Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole», Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 86, FF 470.
[6] La cappella e tela, dedicata della Santissima Trinità, furono volute dai baroni Capece e possono essere datate nei primi anni della seconda metà del ‘500. La grande tela rappresenta i due misteri principali della fede: unità e Trinità di Dio; incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo. L’impostazione del quadro rispecchia le raffigurazioni di quel tempo (presenti anche negli affreschi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli in Presicce): l’offerente in basso a pregare, in alto Gesù che siede alla destra del Padre con in mano la croce e la Natività dipinta non all’interno di una grotta, ma sullo sfondo architettonico di un tempio crollato, a indicare che con la nascita di Gesù sono terminate le religioni pagane. Si può notare che il volto di Maria rassomiglia a quello della Madonna di Leuca, un contadino offre un paniere pieno di uova, l’artista forse si è dipinto dietro l’arco che osserva la scena.
[7] Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, 15, 1.
[8] Ps. Clementine, Hom. XVII, 16.
[9] Vangelo degli ebrei, 5 in M. Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 201717, p. 276.
[10] Agostino, Discorso 193 Natale del Signore, 1.
[11] Omero, Iliade, VIII, 555-560.
[12] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante, 140.
[13] L. Giustiniani, Sermone 8, nella festa della Purificazione della B.V. Maria, Opera, 2, Venezia 1751, 38-39[13].
[14] Giovanni della Croce, Dichos de luz y amor, BAC, Madrid, 417, n. 99.
[15] Cfr. Z. Zuffetti, L’uomo dei sette silenzi, Àncora Editrice, Roma 2012.
[16] Agostino, Discorso 288, 5.
[17] Ireneo, Contro le eresie, 3, 20, 3.
[18] Cfr. A. M. Cànopi, Sguardo di Gesù. Lectio divina su alcuni brani del Vangelo, Edizioni Paoline, Roma, 2010.

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mercoledì 18 dicembre 2024

LA FAMIGLIA DI GESU', di mons. Giuseppe Mani

LA FAMIGLIA DI GESU'

di mons. Giuseppe Mani




“Chi vede me vede il Padre mio”. Con questa fede entriamo nella capanna di Betlemme a vedere Dio in persona, adorarlo e rimanere stupiti. Siamo abituati a pensare al Paradiso come alla casa di Dio ed è vero: Betlemme è il suo paradiso, il luogo in cui si compiace di abitare e rivelarsi. L’ornamento della casa di Dio è costituito da poche cose, anzi da niente di ciò che abitualmente appartiene ad una normale famiglia che accoglie un bambino.

Apparentemente è così, si chiama povertà, ma, se guardiamo bene, Dio, al momento della sua nascita, si è fatto mancare tutto ciò di cui poteva benissimo fare a meno, ma non una famiglia anzi, una bellissima famiglia. Questo ci dice tutto. L’uomo può fare a meno di tutto, ma non della famiglia. E’ la prima rivelazione che Dio ci ha fatto attraverso Gesù: ogni uomo ha diritto ad una famiglia e il dovere di dare una famiglia a tutti.

Solitamente a Natale siamo colpiti dalla povertà della Grotta in cui nasce Gesù, che la fede e l’amore dei fedeli rendono bella ed accogliente con i pastori vestiti di velluto e damaschi, pastori più dell’Arcadia che della Palestina, un ambiente da presepe napoletano più che da campagna palestinese. Con superficialità si parla della povertà di Gesù a Betlemme, mentre oggi ci sono bambini che nascono in situazioni molto più precarie di Gesù. Penso a quelli che non sono accolti e vengono uccisi con l’aborto prima di vedere la luce, penso a quelli che finiscono nei cassonetti delle immondizie, a quelli che non vengono riconosciuti dai loro genitori naturali: sono tutti molto più poveri di Gesù. La loro condizione non è di povertà, autentica virtù, ma di miseria che Dio non vuole e che la Chiesa combatte con il suo magistero sociale.

Dopo Betlemme il vangelo ci presenta la Famiglia di Gesù a Nazaret, dove il Bambino cresceva in sapienza, età e grazia. Non era una famiglia di barboni, ma di normali artigiani, tanto che Gesù è riconosciuto come il figlio del falegname e Lui stesso impara il mestiere del padre. Una famiglia che lavora e vive del suo lavoro, una famiglia che prega e fa le sue pratiche religiose ebraiche, compresi i pellegrinaggi a Gerusalemme. E’ il prototipo della normale famiglia. Questa normalità, questa naturalezza in cui vive il Figlio di Dio per trenta anni, ci stupisce: possibile che Dio sia venuto in terra per fare il falegname per trent’anni? Anche questi trent’anni di normalità sono la forma di evangelizzazione della vita: lo stile Nazaret è l’unico stile possibile del vivere tra gli uomini. Tutto ciò che è umano deve essere improntato alla semplicità, alla sobrietà e allo stile familiare; esattamente il contrario dello stile burocratico, complicato e solenne. La famiglia di Nazareth è il prototipo della vita umana. L’umanità fatta di Figli di Dio e quindi di fratelli non può essere perfetta che realizzandosi come universale famiglia umana.

Lo stile familiare della famiglia di Nazareth non è soltanto prototipo di ogni vivere sociale, ma anche modello di tutte le famiglie, come Cristo è modello di ogni uomo. E’ prototipo soprattutto perché è “La Santa Famiglia”, cioè una famiglia santa e la santità è la perfezione a cui ogni famiglia deve aspirare. Tanti sono i “manuali per la vita familiare”che esaminano la famiglia sotto vari aspetti, ma nonostante tutti gli studi la situazione della famiglia è sempre più precaria fino alla accettazione della sua composizione. Toccare la famiglia è come toccare la persona umana: è toccare Dio, una creatura fatta a sua immagine e somiglianza. E’ una autentica profanazione della creazione che a suo tempo si ribellerà presentando il conto del male fatto. E’ proprio il caso di dire: con la famiglia non si scherza. La proposta che Dio fa ad ogni famiglia non è di essere buona, ma Santa e propone la famiglia di suo Figlio come modello di santità. In che senso? Perché la famiglia di Nazareth è santa? Non perché c’era la Madonna, Immacolata Concezione e San Giuseppe, uomo giusto, ma unicamente perché era presente Gesù che è il Santo. E Gesù è la ragione della santità di ogni famiglia.

Gesù è presente in ogni famiglia, lo ha affermato Lui stesso: “Quando due sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” e lo ha dichiarato con la sua presenza a Cana, dove operò a favore della famiglia il gesto profetico di cambiare l’acqua in vino.

Il Concilio Vaticano II lo dichiara: “Il Salvatore degli uomini e Sposo della Chiesa, viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio e rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa, così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro.” (G.S. 48). Ed è proprio attraverso il loro vicendevole amore che camminano insieme verso la perfezione cristiana. Questo amore nuziale è la base della loro vocazione di padre e di madre, da cui scaturisce la fecondità della loro missione di educatori.

Il Vaticano II ha aperto la strada delle canonizzazioni delle famiglie, insieme alla Sacra Famiglia già sono state dichiarate sante anche altre famiglie.

La pastorale familiare è il fondamento della Nuova Evangelizzazione. Ripartire dalla Famiglia era la proposta chiara e sicura di San Giovanni Paolo II e credo sia la strada per vivificare la Chiesa e bonificare la società.



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martedì 17 dicembre 2024

AVVENTO: prepariamo la CULLA nel nostro CUORE, di Marilda Zonarelli

AVVENTO: prepariamo la CULLA nel nostro CUORE

di Marilda Zonarelli




Tutta la nostra vita è un cammino di conversione, ma ci sono momenti in cui, più di altri, siamo chiamati a vivere questa nostra conversione: una di queste occasioni preziose si presenta proprio adesso con il periodo dell’Avvento, dell’attesa, della venuta. È tempo di preparazione alla Solennità del Natale in cui si ricorda la prima venuta di Gesù, ma è anche tempo in cui, attraverso questo ricordo, il cuore degli uomini viene guidato all’attesa della seconda venuta del Signore.

È tempo di speranza. Attendiamo con gioia il giorno di Natale perché è il giorno in cui ci accorgiamo di quanto siamo preziosi: Dio non si è accontentato di parlare all’uomo, ma ha voluto rivelarsi a noi, diventare carne e venire a vivere in mezzo a noi. Non ha scelto di dimorare in qualche luogo lontano dall’umanità, ma con noi e tra di noi, dandoci la possibilità di incontrare questa Persona concreta e contemplarne la gloria. E ha voluto farlo incarnandosi in un Bambino, perché il Signore si serve delle “cose” più piccole per dimostrare la sua grandezza.

In questa nascita troviamo già tutte le indicazioni su come dovremmo prepararci, durante il periodo di Avvento, al momento stesso della nascita di Gesù. Egli, infatti, non è venuto solo per parlarci della conversione: è Lui stesso la conversione e ci aiuta concretamente a capire come realizzarla nella vita quotidiana, attraverso gesti di riconciliazione.

Se è vero che la venuta di Cristo nel mondo è un dono, c’è qualcosa, però, che possiamo fare anche noi: spianare la strada per il suo arrivo nel nostro cuore e fare in modo che la sua efficacia sia “al massimo”.

Gesù Bambino, nel silenzio di una stalla, ci libera dal protagonismo e ci insegna a vivere nell’umiltà. Per prepararci ad accoglierLo dobbiamo cercare intanto di schiacciare la superbia che ci rende rigidi, anche nelle relazioni con gli altri. Lasciamo questa via, che ci porge solo una falsa rassicurazione, abbassando il nostro ego e cercando di essere semplici, perché tante volte tendiamo ad essere complicati e a complicare le cose e le relazioni con i nostri fratelli. Cogliamo l’occasione della preparazione alla nascita di Gesù andando all’essenziale anche dentro di noi, perché altrimenti - offuscati dalla complicanza e dalla superbia - non riusciamo nemmeno a sentire la voce di Dio.

E l’epoca in cui viviamo non si presenta come il momento migliore per riuscire a fare silenzio nel nostro cuore ed ascoltare quello che ci dice il Signore. Il nuovo linguaggio digitale, prezioso ed utile da tanti punti di vista, agisce però sui livelli di pensiero ed influisce sulla capacità di fare silenzio dentro di noi e di socializzare. Il continuo “rumore informatico” ci distrae e può entrare in contraddizione con i pensieri che nascono dalla riflessione, dalla contemplazione. In questo senso gli adulti possono cogliere l’occasione di questo periodo di preparazione al Natale per aiutare ancora di più i giovani ad “uscire”, perché, spesso, molti di loro sono “credenti in privato”, ma si vergognano in pubblico e sono i più distratti da questo sistema veloce.

Facciamo noi per primi il proposito di cercare di limitare alcune necessità che ci stordiscono ed aiutiamo i nostri ragazzi a non farsi distrarre dalla superficialità e dal “rumore del mondo” e a riconoscere le mancanze. Aiutiamoli a non colmare questi vuoti con cose poco sane e a rimanere disponibili per le molteplici possibilità che la vita offre con la pace interiore. Vigiliamo e supportiamo i giovani nel vigilare per cogliere ancora di più in questo periodo le occasioni per amare, per fare attenzione e non sprecare le opportunità che Dio ci dona, opportunità di amore e di preoccupazione verso gli altri.

Al di là di tutta l’evoluzione della realtà e della società, ci sono realtà immutabili, che trovano fondamento in Gesù, che è sempre lo stesso. Gesù che è il centro ed il fine di tutta la storia umana.

E per non essere distratti e non perdere le occasioni, facciamo in modo che l’Avvento sia tempo di preghiera per lasciare che il Signore muova il nostro cuore. Non dobbiamo smettere di essere come siamo, ma dobbiamo far entrare Dio in quello che siamo: l’Amore di Dio è gratuito, Egli ci ama sempre e a prescindere da quello che facciamo, da come ci comportiamo. L’ Amore di Dio non è il frutto delle nostre opere.

Con questa fondamentale certezza nel cuore, possiamo solo predisporci al meglio nella preghiera, perché ci aiuti ancora di più in questo periodo ad essere umili e semplici, a riflettere sul nostro stile di vita, ad essere attenti ai momenti in cui possiamo incontrare Gesù, compiendo atti di carità verso i fratelli, sperimentando tutte le volte in cui poter crescere nella fede, imitando la Vergine Maria con il nostro “sì” al Signore che ci rende suoi strumenti.

L’ Avvento ci offre una preziosa occasione per guardare nel profondo del nostro cuore e vedere se siamo ciò che corrisponde a quello che Dio aveva nel cuore quando ci ha dato la vita; per prendere in mano la nostra storia e cercare di rimetterla in sintonia con Gesù Bambino.

Prepariamoci allora ad accoglierLo ed a farLo nascere davvero nella culla del nostro cuore, trovando così la via per amare come Lui ha amato.


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lunedì 16 dicembre 2024

Perché Dio si è fatto uomo? di padre Raniero Cantalamessa

Perché Dio si è fatto uomo?

di padre Raniero Cantalamessa




Natale del Signore (Messa del giorno)
Isaia 52, 7-10; Ebrei 1, 1-6; Giovanni 1, 1-18

Delle tre Messe di Natale, l’ultima, detta “del giorno”, è riservata a una riflessione più approfondita sul mistero. Un compito di questo genere non poteva essere affidato che a Giovanni, da cui infatti è tratto il Vangelo della Messa. Luca (Messa della notte e dell’aurora) narra la nascita di Cristo da Maria, Giovanni la sua nascita da Dio.
Questa rivelazione è introdotta, nella seconda lettura, dalle parole della Lettera agli Ebrei. La venuta di Cristo nel mondo ha segnato la grande svolta nei rapporti tra Dio e l’uomo. Dio che prima d’ora parlava con gli uomini solo per interposta persona -per mezzo dei profeti-, ora ci parla “di persona”, perché il Figlio non è che “l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”.
Andiamo diritti al vertice del Prologo di Giovanni: “E il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, e poniamoci subito la domanda che deve aiutarci a penetrare nel cuore del mistero del Natale: Perché il Verbo si è fatto carne? Perché Dio si è fatto uomo? Nel Credo c’è una frase che in questo giorno di Natale si recita mettendosi in ginocchio:

“Per noi uomini e per la nostra salvezza, discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo”.

È la risposta fondamentale e perennemente valida alla nostra domanda: “Perché il Verbo si è fatto carne?”. Ma ha bisogno essa stessa di essere compresa a fondo. La domanda infatti rispunta sotto altra forma: E perché si è fatto uomo “per la nostra salvezza”? Solo perché noi avevamo peccato e avevamo bisogno di essere salvati? Non siamo i primi a porci questa domanda. Essa ha appassionato generazioni di credenti e di teologi nei secoli passati ed è bello, ora che siamo entrati da poco nel terzo millennio dell’incarnazione, vedere il cammino da essi percorso e le soluzioni a cui sono giunti. Non sono concetti impossibili da capire, con un po’ di sforzo, anche dal semplice credente e in compenso dischiudono orizzonti nuovi alla fede e alla lode.
Nel Medioevo si fa strada una spiegazione dell’incarnazione che sposta l’accento dall’uomo e dal suo peccato a Dio e alla sua gloria. Ci si cominciò a chiedere: può la venuta di Cristo che è chiamato “il primogenito di tutta la creazione” (Colossesi 1, 15), dipendere totalmente dal peccato dell’uomo, intervenuto in seguito alla creazione? Sant’Anselmo parte dall’idea dell’onore Dio, offeso dal peccato, che deve essere riparato e dal concetto della “giustizia” di Dio che viene “soddisfatta”. Scrive un trattato con il titolo “Perché Dio si è fatto uomo? (Cur Deus homo?), dove dice tra l’altro: “La restaurazione della natura umana non sarebbe potuta avvenire, se l’uomo non avesse pagato a Dio ciò che gli doveva per il peccato. Ma il debito era così grande che, per soddisfarlo, occorreva che quell’uomo fosse Dio. Quindi era necessario che Dio assumesse l’uomo nell’unità della sua persona, per far sì che colui che doveva pagare e non poteva secondo la sua natura, fosse personalmente identico a colui che lo poteva”.
La situazione – gli fa eco un autore orientale – era questa. Secondo giustizia, l’uomo avrebbe dovuto assumersi il debito e riportare la vittoria, ma era servo di quelli che avrebbe dovuto sconfiggere in guerra; Dio, per contro, che poteva vincere, non era debitore di nulla a nessuno. Uno dunque doveva riportare la vittoria su Satana, ma solo l’altro poteva farlo. Ora ecco il prodigio della sapienza divina che si realizza nell’incarnazione: i due -colui che doveva combattere e colui che poteva vincere – si trovano uniti nella stessa persona, Cristo Dio e uomo, e ne scaturisce la salvezza (N. Cabasilas).
Su questa nuova linea, un teologo francescano, Duns Scoto, fa il passo decisivo, sciogliendo l’incarnazione dal suo legame essenziale con il peccato dell’uomo e assegnandole, come motivo primario, la gloria di Dio. Scrive: “In primo luogo, Dio ama se stesso; in secondo luogo si ama attraverso altri diversi da sé con un amore puro; in terzo luogo vuole essere amato da un altro che lo possa amare in modo sommo, parlando, s’intende, dell’amore di qualcuno fuori di lui”. Il motivo dell’incarnazione è dunque che Dio vuole avere, fuori di sé, qualcuno che lo ami in modo sommo e degno di sé. E questi non può essere altri che l’uomo –Dio Gesù Cristo. Cristo si sarebbe incarnato anche se Adamo non avesse peccato, perché egli è il coronamento stesso della creazione, l’opera suprema di Dio.
Il problema del perché Dio si è fatto uomo divenne in breve l’oggetto di una delle più accese dispute della storia della teologia. Da una parte i tomisti sostenevano il motivo della redenzione dal peccato, dall’altra gli scotisti sostenevano il motivo che potremmo chiamare della gloria di Dio. Oggi non ci appassioniamo più a queste dispute antiche. Ma la domanda: “Perché Dio si è fatto uomo?” è troppo vitale perché la si possa passare sotto silenzio. Rimarremmo sempre alla superficie del Natale, senza comprenderne il senso profondo, l’unico capace di riempire davvero il cuore di gratitudine e di gioia.
La riscoperta del vero volto del Dio della Bibbia, in atto nella teologia odierna, insieme con l’abbandono di certi tratti ereditati dal “dio dei filosofi”, ci aiuta a scoprire l’anima di verità racchiu¬sa nell’intuizione dei pensatori medievali, ma anche a completarla e superarla. Nella sua risposta alla domanda: perché Dio si è fatto uomo?, sant’Anselmo parte dal concetto della giustizia di Dio da soddisfa¬re. Ora è certo che qui ci troviamo davanti a un residuo della concezione greca di Dio, nella quale Dio viene sperimentato “come giustizia e come sommo principio di compensazione”. La giustizia è l’essenza di questo Dio al quale, in senso stretto, non è possibile rivolgere la preghiera. Per Aristotele, Dio è essen¬zialmente la condizione ultima e sufficiente per l’esistenza dell’or¬dine cosmico.
Anche la Bibbia conosce il concetto della “giustizia di Dio” e vi insiste spesso. Ma c’è una differenza fondamentale: la giustizia di Dio, specialmente nel Nuovo Testamento e in Paolo, non indica tanto l’atto mediante il quale Dio ristabilisce l’ordi¬ne morale turbato dal peccato, punendo il trasgressore, quanto piut¬tosto l’atto mediante il quale Dio comunica all’uomo la sua giusti¬zia, lo rende giusto. La riparazione o espiazione della colpa non è la condizione per il perdono di Dio, ma la sua conseguenza.
Anche nella soluzione di Scoto il punto debole sta nel fatto che si parte da un’idea più aristotelica che biblica di Dio. Scoto dice che Dio decreta l’incarnazione del Figlio per avere qualcuno, fuori di sé, che lo ami in modo sommo. Ma che Dio “sia amato”, questa è la cosa più importante e, anzi, la sola possibile per Aristotele e la filosofia greca, non per la Bibbia. Per la Bibbia la cosa più impor¬tante è che Dio “ama” e ama per primo (cf. 1 Giovanni 4, 10.19). Finché dunque, in teologia, al posto di “un Dio che ama”, dominava l’idea di “un Dio che è da amare”, non si poteva dare una risposta soddisfacente alla domanda perché Dio si è fatto uomo. La rivelazione del Dio amore sconvolge tutto quello che il mondo aveva finora pensato della divinità.
Queste premesse spianano la strada a una nuova soluzione del proble¬ma del perché dell’incarnazione. Dio ha voluto l’incarnazione del Figlio, non tanto per avere qualcuno fuo¬ri fuori della Trinità che lo amasse in modo degno sé, quanto piuttosto per aver fuori di sé qualcuno da amare in modo degno di sé, cioè senza misura; qualcuno che fosse capace di accogliere la misura del suo amore che è di essere senza misura! Ecco il perché dell’incarna-zione. A Natale, quando viene alla luce a Betlemme Gesù Bambino, Dio Padre ha qualcuno da amare fuori della Tri¬nità in modo sommo e infinito, perché Gesù è uomo e Dio insie¬me. Ma non solo Gesù, anche noi insieme con lui. Noi siamo inclusi in questo amore, essendo diventati membra del corpo di Cristo, “figli nel Figlio”. Ce lo ricorda lo stesso Prologo di Giovanni: “A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.
Questa risposta al perché dell’incarnazione era scritta a chiare nella Scrittura, dallo stesso evangelista che ha scritto il Prologo, ma ci è voluto tutto questo tempo (e non siamo certamente alla fine) per comprenderla a fondo:

“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Giovanni 3, 16).

Sì, Cristo è disceso dal cielo “per la nostra salvezza”, ma quello che l’ha spinto a scendere dal cielo per nostra salvezza, è stato l’amore, nient’altro che l’amore. Dio è amore e tutto quello che fa, lo fa per amore. Natale è la prova suprema della “filantropia” di Dio come la chiama la Scrittura (Tito 3,4), cioè, alla lettera, del suo amore per gli uomini.
Quale deve essere allora la nostra risposta ultima al Natale? “Amore solo con amor si paga”: all’amore non si può rispondere in altro modo che riamando. Nel canto natalizio Adeste fideles
c’è un’espressione profonda: “Come non riamare uno che ci ha amato tanto?” (Sic nos amantem quis non redamaret?). Si possono fare tante cose per solennizzare il Natale, ma certamente la cosa più vera e più profonda ci è suggerita da queste parole. Questo è il Natale a cui lo Spirito Santo desidera condurre i veri credenti. Un pensiero sincero di gratitudine, di commozione e di amore per colui che è venuto ad abitare in mezzo a noi, è certamente il dono più squisito che possiamo dare al Bambino Gesù, l’ornamento più bello intorno al suo presepio. E non è difficile; basta meditare un po’ sul suo amore per noi, sentire quanto ci ha amato. L’amore, ha detto il nostro Dante, “a nullo amato amar perdona”: fa sì che chi si sente amato non possa fare a meno di riamare.
L’amore ha bisogno di tradursi in gesti concreti. Il più semplice e universale (quando è pulito e innocente) è il bacio. Vogliamo dare un bacio a Gesù, come si desidera fare con tutti i bambini appena nati? Non accontentiamoci di darlo solo alla sua statuina di gesso o di porcellana, diamolo a un Gesù bambino in carne ed ossa. Diamolo a un povero, a un sofferente e lo abbiamo dato a lui! Un bacio, in questo senso, è un aiuto concreto, ma anche una parola buona, un incoraggiamento, una visita, un sorriso, o anche, alla lettera, un bacio. Sono le luci più belle che possiamo accendere nel nostro presepio.


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Fonte: https://www.cantalamessa.org/?p=3677  (riflessione di spiritualità di p. Raniero Cantalamessa del 25-12-2018)

domenica 15 dicembre 2024

" PATRIS CORDE " , Lettera Apostolica di Papa Francesco

LETTERA APOSTOLICA

PATRIS CORDE

DEL SANTO PADRE FRANCESCO

IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO DELLA DICHIARAZIONE DI SAN GIUSEPPE
QUALE PATRONO DELLA CHIESA UNIVERSALE

 


Con cuore di padre: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]

I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.

Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.

Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).

Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50).

Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]

Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.

1. Padre amato

La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]

San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]

Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]

In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]

La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).

Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.

2. Padre nella tenerezza

Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).

Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).

Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).

La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).

Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]

Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).

Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.

3. Padre nell’obbedienza

Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13]

Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.

Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).

In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).

Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).

L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.

San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]

In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.

Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).

Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).

Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]

4. Padre nell’accoglienza

Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]

Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.

La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).

Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.

La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.

Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).

Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.

Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.

L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).

5. Padre dal coraggio creativo

Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.

Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).

A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.

Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.

Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.

Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.

Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]

Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]

Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.

Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.

6. Padre lavoratore

Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.

In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.

Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?

La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!

7. Padre nell’ombra

Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù èl’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]

Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).

Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.

La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.

La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).

Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.

* * *

«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.

Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.

Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo[26] e Mosè,[27] come fa Gesù, «unico mediatore» (1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in [nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).

I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».[28] La loro vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.

Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei imitatori!» (1 Cor 4,16).[29] San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.

Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».[30]

Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.

A lui rivolgiamo la nostra preghiera:

Salve, custode del Redentore,
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. Amen.

Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato.

Francesco


 

[1] Lc 4,22; Gv 6,42; cfr Mt 13,55; Mc 6,3.

[2] S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 dicembre 1870): ASS 6 (1870-71), 194.

[3] Cfr Discorso alle ACLI in occasione della Solennità di San Giuseppe Artigiano (1 maggio 1955): AAS 47 (1955), 406.

[4] Esort. ap. Redemptoris custos (15 agosto 1989): AAS 82 (1990), 5-34.

[5] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1014.

[6] Meditazione in tempo di pandemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo 2020, p. 10.

[7] In Matth. Hom, V, 3: PG 57, 58.

[8] Omelia (19 marzo 1966)Insegnamenti di Paolo VI, IV (1966), 110.

[9] Cfr Libro della vita, 6, 6-8.

[10] Tutti i giorni, da più di quarant’anni, dopo le Lodi, recito una preghiera a San Giuseppe tratta da un libro francese di devozioni, dell’ottocento, della Congregazione delle Religiose di Gesù e Maria, che esprime devozione, fiducia e una certa sfida a San Giuseppe: «Glorioso Patriarca  San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. Prendi sotto la tua protezione le situazioni tanto gravi e difficili che ti affido, affinché abbiano una felice soluzione. Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen».

[11] Cfr Dt 4,31; Sal 69,17; 78,38; 86,5; 111,4; 116,5; Ger 31,20.

[12] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 88288AAS 105 (2013), 1057; 1136-1137.

[13] Cfr Gen 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Nm 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dn 2; 4; Gb 33,15.

[14] In questi casi era prevista anche la lapidazione (cfr Dt 22,20-21).

[15] Cfr Lv 12,1-8; Es 13,2.

[16] Cfr Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42.

[17] S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Redemptoris custos (15 agosto 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.

[18] Omelia nella S. Messa con Beatificazioni, Villavicencio – Colombia (8 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1061.

[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3.11: PL 40, 236.

[20] Cfr Dt 10,19; Es 22,20-22; Lc 10,29-37.

[21] Cfr S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 dicembre 1870): ASS 6 (1870-71), 193; Pii IX, Inclytum Patriarcham (7 luglio 1871): l.c., 324-327.

[22] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 58.

[23] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 963-970.

[24] Edizione originale: Cień Ojca, Warszawa 1977.

[25] Cfr S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Redemptoris custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.

[26] Cfr Gen 18,23-32.

[27] Cfr Es 17,8-13; 32,30-35.

[28] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 42.

[29] Cfr 1 Cor 11,1; Fil 3,17; 1 Ts 1,6.

[30] Confessioni, 8, 11, 27: PL 32, 761; 10, 27, 38: PL 32, 795.


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Fonte: www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/papa-francesco-lettera-ap_20201208_patris-corde.html

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