SENECA E IL CRISTIANESIMO
di Francesco Cuccaro
Una liberta di
nome Epicharis, denunciata dall’ammiraglio della flotta del
Miseno, Volusio Proculo, viene sottoposta ad atroci sevizie
per costringerla a rivelare la consistenza di una congiura
e i nomi dei partecipanti, con l’obiettivo di eliminare
fisicamente l’imperatore Nerone. La donna si rifiuta e
si suicida, destando stupore ed ammirazione nello storico
Tacito che la descrive nei suoi Annales XV 51 e 57.
Ma sarà un altro ex-schiavo, Milico che, dimostrando la
propria ingratitudine verso il suo ex padrone, Flavio
Scevino, tradisce quest’ultimo e altri comprimari della
vicenda i quali, uno dopo l’altro, cadono in trappola
accusandosi reciprocamente.
Si conclude in
modo inglorioso la parabola della ‘congiura dei Pisoni’
nell’anno 65 d. Cr., caratterizzata dalla goffaggine dei suoi
maggiori promotori : Calpurnio Pisone, il prefetto del
pretorio Fenio Rufo, Afranio Quinziano, Claudio Senecione,
Antonio Natale, Plauzio Laterano, Vestino Attico, Cervario
Proculo, Giulio Augurino, Munazio Grato, Marcio Festo; i
tribuni militari Subrio Flavo, Gaio Silvano, Stazio
Prossimo; i centurioni Sulpicio Aspro, Massimo Scauro,
Veneto Paolo. L’obiettivo prescelto é l’uccisione di
Nerone durante un pubblico spettacolo al Circo Massimo.
L’Imperatore
accentua i caratteri dispotici del suo governo, a causa
della sua personalità disturbata e del regime di terrore
scatenato da Sofonio Tigellino, suo fidato prefetto del
pretorio, facendo sì che alcuni senatori e cavalieri e
alcuni ufficiali della guardia pretoriana, uomini di
cultura, siano accomunati da un medesimo intento. Le
congiure si moltiplicano e, circa un anno dopo quella dei
Pisoni, succedono la condanna a morte del proconsole
d’Asia Barea Sorano (implicato nella cospirazione di Annio
Viniciano) e del filosofo padovano Trasea Peto, e il bando
di esilio di Elvidio Prisco, genero di quest’ultimo.
La vicenda dei
Pisoni é passata alla storia per aver coinvolto i più bei
nomi della cultura latina del I secolo : il filosofo
Lucio Anneo Seneca, il poeta Anneo Lucano suo
nipote, lo scrittore Caio Petronio Arbitro. Oggi
gli storici sembrano essere d’accordo sul fatto che Seneca
sia stato consapevole ma non partecipe di questo evento,
in quanto amico di Antonio Natale e di Calpurnio Pisone,
ma tanto basta a Nerone per liquidare uno scomodo ed
autorevole testimone dei suoi delitti e una sorta di
coscienza critica dell’assolutismo imperiale. Con la sua
morte per dissanguamento e soffocamento, il celebre filosofo
riscatta una vita vissuta all’insegna dell’ambiguità, della
dissimulazione e dell’opportunismo.
Figlio del retore
Lucio Anneo Seneca detto il Vecchio e di Elvia, fratello
di Anneo Novato, noto anche come Giunio Gallione, e di
Anneo Mela, nasce a Cordova intorno al 4 av. Cr. e si
trasferisce ancor giovane a Roma, dove cade in disgrazia
per l’accusa di adulterio con Giulia Livilla, sorella di
Caligola, intentatagli dall’imperatore Claudio che lo
condanna alla relegazione in Corsica, da dove sarà
richiamato intorno al 49 d. Cr. per interessamento di
Agrippina Minore che lo vuole precettore del figlio Lucio
Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone.
Seneca compone i
suoi Dialogi sul modello platonico dove tratta temi
etici esistenziali, nove tragedie di argomento mitologico, e
un vasto epistolario (124 Lettere morali a Lucilio Iuniore,
un suo amico e discepolo, distribuite in venti libri).
Aderisce allo stoicismo insegnatogli da Sozione, come a una
delle correnti di pensiero più in voga nel mondo
ellenistico-romano, ma che sembra trovare il favore di
buona parte della classe dirigente dell’Urbe. Si tratta,
tuttavia, di una variante tipicamente romana della ‘Stoa’
che smorza i rigori del fatalismo con una saggezza pratica
che non contrasta la promozione e la difesa del “mos
maiorum”, coniugando il provvidenzialismo con i contributi
provenienti da altre correnti culturali, facendo leva sulla
concezione di una divinità intesa come purissimo spirito,
insistendo sul valore della fraternità universale che lo
induce a riconoscere la dignità personale e civile dello
‘schiavo’ ( in latino “servus” ).
Il
filosofo di Cordova, pur appartenendo all’aristocrazia
senatoria, non aderisce alle posizioni repubblicane di alcuni
esponenti più conservatori, rivendicando piuttosto la
funzione civile positiva del Principato come riflesso
dell’universale monarchia del Logos divino. E gli
eventi della politica neroniana fino al 58 d. Cr. circa,
condizionata dal suo impegno civile, sembrano non
sconfessare le aspettative di Seneca che, nel trattato
De clementia, suggerisce la filantropica benevolenza
e il criterio di moderazione alla base del governo di un
monarca illuminato che ha come unico freno la ‘coscienza
morale’.
Non molto tempo dopo, Nerone disilluderà il suo maestro, scontrandosi spesso con il Senato, adottando gusti ed orientamenti ellenizzanti, esasperando le sue velleità artistiche, lasciandosi condizionare da una società di corte sempre più influenzata da Tigellino e dalla seconda moglie Poppea Sabina. Esaurite le sue prospettive di impegno politico, Seneca si ritira a vita privata con il benestare dell’imperatore, continuando a dedicare il suo tempo all’“otium”, alla meditazione e alla scrittura, dove con le sue Lettere a Lucilio, si accinge a elaborare una sorta di diario esistenziale su diversi temi ( la sofferenza, la morte, la tranquillità dell’animo, la consolazione di fronte alle sventure, ecc. ), con l’auspicio di poter operare sulle singole coscienze per la rigenerazione morale dell’umanità. Ormai caduto in disgrazia, questa relativa tranquillità, caratterizzata dallo studio e dalla devozione della moglie Pompea Paolina, bruscamente si interrompe all’indomani della violenta repressione della congiura dei Pisoni.
Come si rapporta Seneca con il Cristianesimo nascente ?
E’ uno degli argomenti più spinosi e controversi dibattuti tra gli storici. Nessuna fonte antica, sia pagana sia cristiana, coeva o immediatamente successiva agli eventi di epoca neroniana, documenta un approccio del filosofo latino alla realtà della nuova religione di origine orientale. Né gli storici e né i letterati del I e della prima metà del II secolo ne fanno menzione; tantomeno il Nuovo Testamento e gli scritti dei Padri apostolici. Il tema di questo “presunto interesse di Seneca per il Cristianesimo nascente” appare il prodotto tardivo di una “forma mentis” cristiana che recepisce positivamente gli stimoli culturali che provengono dal mondo ellenistico-romano, intendendo farsi accreditare presso “l’intellighenzia” pagana, “legittimandosi” ai suoi occhi. Non é questo l’obiettivo dei migliori tra gli Apologisti dalla fine del II al V secolo ?
Basta ricordare Tertulliano che nel De anima XX,1 accenna al filosofo di Cordova come “saepe noster”, e Lattanzio che nello scritto Divinae Institutiones ( II,8, 23; VI, 24,13 ) insiste sulla nozione senecana di Dio non molto distante da quella cristiana, formulando anche giudizi lusinghieri su una sua “integrità di costumi”. S. Girolamo e S. Agostino non si pronunciano né a favore né contro una presunta amicizia tra Seneca e Paolo di Tarso, ma che essi la presuppongono sulla base di un apocrifo carteggio epistolare tra due personaggi di così grande profilo. E’ da notare la prudenza di S. Girolamo, nel suo De viris illustribus, circa l’autenticità di un tale carteggio che non poggia su basi sicure. La supposta ipotesi dell’amicizia tra il filosofo pagano e l’Apostolo delle Genti sta o cade con l’autenticità o meno di questo carteggio epistolare.
La serietà di questi autorevoli Padri della Chiesa fa da contraltare a chi tra i cristiani immagina un diretto coinvolgimento di Seneca nel destino della Chiesa primitiva, nientemeno fino a considerare l’eventualità di una sua conversione al Vangelo, data quasi per scontata durante il Medioevo. Il carteggio risale nella sua forma latina, con buona probabilità, agli anni costantiniani : se si scoprisse l’originale greco e lo si riuscisse a datare intorno alla seconda metà del I secolo, ci sarebbero indizi ragionevoli per ammetterne l’autenticità. Ma se una tale scoperta risultasse possibile, essa non offrirebbe elementi attendibili circa una conversione dello scrittore al Cristianesimo.
Lasciamo il lavoro ai filologi per appurarne l’autenticità dello scritto in questione e constatiamo piuttosto il riscontro di più divergenze che affinità tra il pensiero del filosofo latino e la predicazione della Chiesa primitiva.
E’ probabile che Seneca abbia percepito questo nuovo fenomeno religioso a Roma, ma in modo alquanto superficiale e senza curarsi di approfondire l’argomento. Tuttavia i suoi scritti non citano mai le due denominazioni “Cristo” e “cristiani”. Questa nostra osservazione può essere suffragata dalla fonte autorevole di Lattanzio : il ragionamento di questo padre apologista ( “egli sarebbe stato un vero adoratore di Dio se qualcuno gli avesse mostrato la strada” in Divinae Institutiones II, 8, 23 ), in forza del quale Seneca non sarebbe rimasto indifferente di fronte al Vangelo se gli fosse stato presentato come compatibile con la ragione e vicino ai suoi temi etici.
Rimane controversa l’ipotesi di un’amicizia tra il letterato latino e Paolo di Tarso. Da parte dell’Apostolo si può constatare la padronanza della lingua greca. Pensiamo ai suoi impliciti riferimenti agli stoici Arato di Soli e Cleante di Asso ( At. 17,28 ), al commediografo Menandro ( 1 Cor. 15,33 ) e ad Epimenide di Cnosso ( Tt. 1,12 ), che indurrebbero a pensare ad una sua supposta educazione classica che gli avrebbe permesso il confronto con un maestro della filosofia stoica romana quale Lucio Anneo Seneca. Ma si può anche obiettare a questa considerazione con quest’altro ragionamento : il richiamo alle massime di tre sapienti riguarda l’uso di luoghi comuni nei territori ellenistici interessati dall’evangelizzazione dell’Apostolo, non dimenticando che questi, prima della conversione al verbo di Cristo, é stato un ebreo della corrente farisaica con una distanza intransigente e quasi assoluta nei confronti del mondo dei Gentili.
Ma il suo incontro nel 52 d. Cr. circa a Corinto con Gallione, proconsole di Acaia (At. 18, 12-17), può essere considerato determinante per la sua conoscenza ed amicizia con il filosofo di Cordova ? Può essere ritenuto un’occasione per un contatto almeno indiretto con il Cristianesimo da parte di quest’ultimo ? Gallione avrà informato il fratello circa questo “stravagante” personaggio e la consistenza della sua dottrina ?
Si tratta di un’ipotesi interessante ma poco attendibile se pensiamo alla refrattarietà del suddetto proconsole ad interessarsi di “questioni religiose”, e tantomeno relative al popolo ebreo, rivelandosi così un funzionario pragmatico :
“Essendo poi Gallione
proconsole dell'Acaia, i Giudei tutti d'accordo insorsero contro
Paolo, e lo menarono al tribunale,
13
dicendo: «Costui persuade la gente a rendere a Dio un culto
contrario alla legge».
14
E come Paolo era lì pronto a parlare, Gallione disse ai Giudei: «Se
si trattasse di qualche delitto, di qualche grave misfatto, io, o
Giudei, vi darei ascolto come ragione vuole;
15
ma, poiché si tratta di questioni di parole e di nomi, e
appartengono alla vostra legge, pensateci voi: io non voglio farmi
giudice di queste cose».
16
E li mandò via dal tribunale.
17
Tutti allora presero Sostene, capo della sinagoga, e lo percossero
dinanzi al tribunale; e Gallione non se ne curava affatto” ( At.
18,12-17 ).
Probabilmente, il
Giudaismo non é ignoto, per sommi capi, allo stesso Seneca
che, disponendo di una cultura enciclopedica, si dimostra
abbastanza prevenuto in modo negativo verso il popolo
ebraico, da lui reputato come “la più criminale di tutte
le razze” (1).
E teniamo presente
che, ancora nel I secolo, il mondo pagano considera
ancora, dall’esterno, ‘toi chrestianòi’ come una delle tante
sette giudaiche, differenziantesi dalle altre per il culto
di Cristo e per un proselitismo a carattere universale,
laddove gli stessi cristiani hanno già, verso la metà del I
secolo, consapevolezza dell’originalità della loro religione
e di una differenza quasi sostanziale rispetto all’ebraismo,
grazie anche ai contributi dottrinali di Paolo di Tarso,
in merito al suo principio della giustificazione per
la fede in Cristo e nel suo sacrificio espiatorio sulla
croce.
Ora immaginiamo di
vivere a Roma all’epoca del principato di Nerone, una
città che può contare circa un milione di abitanti. In
essa, durante l’impero di Claudio, si é già costituita una
comunità cristiana di circa mille–duemila fedeli. Le
informazioni fornite da Tacito e da Svetonio, relative
all’incendio di Roma, sono molto esigue sulla descrizione
dei cristiani, delle loro dottrine e dei loro riti, coperti
dalla “disciplina dell’arcano” che non ha lo scopo di
garantire la trasmissione di conoscenze iniziatiche, quanto
piuttosto quella di evitare fraintendimenti e pregiudizi da
parte di un pubblico profano, esterno ed addirittura
ostile. Pregiudizi che si sarebbero diffusi lo stesso
sia tra il popolino che tra gli intellettuali pagani
dell’Urbe. Tacito e Svetonio, che ci forniscono resoconti
sull’epoca neroniana, raccolgono tali pregiudizi senza darsi
la premura di vagliarli in modo critico, liquidando in
poche battute questo movimento che fa leva su una
“exitialis superstitio” ( Annales XV, 44 ), promosso da
“genus hominum superstitionis nova ac malefica” ( De vita
Caesarum : vita Neronis XVI,2 ), setta sostenitrice di
una credenza nata in Giudea per mezzo di un certo “Cristo”
fatto giustiziare da Ponzio Pilato, allora governatore di
questo territorio. Agli occhi di questi studiosi così
prevenuti, la sequela di un individuo, sottoposto alla pena
infamante della crocifissione, non può promettere nulla di
buono ai suoi seguaci. Per lo stesso Tacito sarebbe
apparsa irrilevante l’indagine su un personaggio crocifisso,
per giunta ebreo palestinese, e sui motivi che lo hanno
condotto ad una fine così ignominiosa, riducendolo alla
stregua di un malfattore. Plinio il Giovane,
contemporaneo dei due storici, appare meno tendenzioso di
loro e, nonostante il suo comportamento pragmatico di
zelante e scrupoloso esecutore delle direttive imperiali,
scagiona gli accusati cristiani da ogni turpitudine
associata o meno al loro nome, confutando le dicerie
popolari sul loro conto. Ma questa sua testimonianza non
fa una piega, perché l’accusa di “flagitia” perdurerà, per
parecchio tempo, ai danni dei sostenitori del nuovo credo.
Un tale movimento,
per l’intellighenzia pagana, si qualifica come una
“superstizione” al pari del Giudaismo, né più né meno
delle religioni politeistiche per le quali essa tributa un
formale ossequio. L’argomento di un Dio crocifisso rasenta
“l’assurdità” per il suo carattere unico e paradossale, la
“stultitia” come denomina Paolo di Tarso nella 1 Cor.
1,18. A differenza del popolino che manifesta ostilità
nei confronti della “setta dei cristiani”, per il modo di
vivere giudicato abbastanza anticonformistico e per il
rifiuto di onorare gli déi tradizionali, gli uomini di
cultura non osano criticare chi preferisce adorare un Dio
unico ed esistente e, tantomeno, appaiono riluttanti di
fronte all’ipotesi di un Dio che si incarna in un uomo.
Ma la tematica di un Dio crocifisso appare a
loro “assurda” in quanto sconfinante nella più pregnante
“irrazionalità”.
I punti forti di
una fede rivelata sono i ‘miracoli’ e la ‘storicità degli
eventi e dei personaggi’ che la fondano, più la
testimonianza di chi risulta essere custode di questa fede.
Senza il riferimento a queste condizioni imprescindibili il
Cristianesimo risulta essere veramente incomprensibile per la
mente di ciascun individuo.
Dopo queste premesse
dobbiamo credere che Seneca non può essere stato a
conoscenza del messaggio di Gesù di Nazareth, oltre ad
essere estraneo ad ogni contatto umano con gli
“evangelizzatori”. Non si vede perché non dovrebbe
citarli assieme al nome di Cristo, almeno una volta, nella
sua sterminata produzione letteraria. Dal canto suo Paolo
non va ricercando una sorta di legittimazione culturale da
parte dei ceti sociali superiori : egli si affida solo
alla potenza della Parola ( in ebraico “Dabàr” ).
Dopo lo smacco all’Areopago di Atene ( At. 17,22-34 ),
proprio davanti ad un uditorio composto da filosofi stoici
ed epicurei ( At. 16,18 ), e forse anche da platonici,
peripatetici, sofisti, diffiderà sempre più delle “tradizioni
umane” e di una “philosophia” che resta chiusa ad ogni
prospettiva di rivelazione soprannaturale, e non insisterà
molto su una predicazione che abbia il rilievo di un
insegnamento metafisico facente perno sulla nozione
filosofica di un’unica divinità, pur risaltandone i
caratteri di persona e di essere trascendente. Il suo
“kerygma” si incentra, più che sulla resurrezione fisica di
un uomo, su un tema sconvolgente e provocatorio quale il
Cristo crocifisso, convincendosi che
“é piaciuto a Dio di salvare i credenti
mediante la pazzia della predicazione”
( 1 Cor. 1,21 ). E Dio non delude le fatiche e le
aspettative del suo più entusiasta banditore : le
conversioni si moltiplicano a dismisura e le comunità
cristiane si arricchiscono di nuovi fedeli.
Si può immaginare quanto si vuole un
approccio tra Seneca e l’Apostolo delle Genti. E se
mai ci fosse stato, su quali basi si sarebbe impostato
? Sulla stima reciproca ? Sul desiderio di possedere
una saggezza superiore a quella stoica da parte
dell’illustre filosofo latino ? Due sarebbero state le
conseguenze di un loro eventuale incontro, ma nessuna
richiamerebbe, certamente, una posizione così neutrale, da
parte di Seneca, rispetto al Vangelo. O costui avrebbe
giudicato Paolo meno che un folle e la sua “superstizione”
degna di essere commiserata, o quanto meno ignorata; oppure
avrebbe accettato la sapienza della croce, e la sua
vicenda terrena avrebbe preso una strada diversa.
Ci sembra di capire come l’Apostolo sia ben
lontano da ogni criterio di discriminazione tra gli uomini
agli occhi di Dio che é il più potente di tutti, e
l’Imperatore ( al quale si deve lealtà e assolvere ogni
dovere civico ) non appare diverso o superiore a qualsiasi
altro uomo, compreso anche il più reietto tra gli
schiavi. Se Paolo abbia ricercato l’amicizia di Seneca,
lo avrà fatto come si deve ad un caro “fratello” più anziano e
forse perché propugnatore di atteggiamenti non contrastanti con
gli schemi etici evangelici, ma non certo per i suoi
meriti letterari o per la sua filosofia stoica nella sua
interezza.
Non mancano certamente parallelismi tra la
speculazione senecana e alcune tematiche della predicazione
apostolica. Pensiamo alla fine della storia ritenuta dagli
stoici e da alcune frange di escatologisti, presenti nella
Chiesa primitiva, come imminente ma su fondamenti molto
diversi tra loro. Per i primi si tratta di un
presupposto naturalistico-evolutivo della storia legato ad
una concezione ciclica del tempo; mentre per i cristiani si
tratta del punto di arrivo del processo che parte dalla
creazione e dal peccato originale dell’uomo per culminare
nella redenzione di Cristo e terminare con la resurrezione
dei morti e il giudizio universale, secondo una concezione
lineare del tempo. Si possono riscontrare convergenze di
vedute su alcune modalità di questa fine del mondo, quale
l’immagine del fuoco, come elemento distruttore e
rigeneratore di tutte le cose, che bene si adatta ai
discorsi sia degli intellettuali della cerchia di Seneca,
sia degli araldi del Vangelo. Il “secolo” (in greco “aion”)
e il “mondo” ( in greco “oikoumene” ) testimoniano la
decadenza dei costumi, la mancanza di spirito di creatività
culturale, la brutalità nei rapporti di convivenza civile,
il disordine sessuale generalizzato, la tirannide eretta a
sistema di governo, ecc. : un ciclo storico e naturale
che, per Seneca, deve concludersi con un’universale
conflagrazione denominata “ek-pirosis”. Anche i cristiani
sembrano insistere sull’elemento del fuoco punitore. La
Seconda Lettera di Pietro, indirizzata ai confratelli
dell’Asia Minore, dice di essere stata composta a “Babilonia”,
probabile allusione alla capitale dell’Impero, ed é
risalente, secondo valutazioni attendibili dagli storici a
noi più recenti, poco prima del famigerato incendio che
distrugge Roma il 18 e nei giorni successivi del luglio del 64 d.
Cr. L’autore della missiva invita a non sottovalutare
l’eventualità di una conflagrazione di immani proporzioni :
"Questa, o carissimi, é già la
seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare
con ammonimenti la vostra sana intelligenza, perché teniate a mente
le parole già dette dai santi profeti, e il precetto del Signore e
salvatore, trasmessovi dagli apostoli. Questo anzitutto dovete
sapere che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i
quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno : 'Dov'é
la promessa della sua venuta ? Dal giorno in cui i nostri padri
chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione'.
Ma costoro dimenticano volontariamente che i cieli esistevano già
da lungo tempo e che la terra, uscita dall'acqua e in mezzo
all'acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio; e che
per queste stesse cause, il mondo di allora, sommerso dall'acqua,
perì. Ora i cieli e la terra attuali sono conservati dalla
medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e
della rovina degli empi. Una cosa però non dovete perdere di
vista, carissimi : davanti al Signore un giorno é come mille anni e
mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda
nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa
pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti
abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un
ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati
dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'é in essa sarà
distrutta. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi
così, quali non dovete essere voi, nella santità, nella condotta e
nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio,
nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si
fonderanno ! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi
cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia"
( 2 Pt. 3, 1-13 ).
Ma la stessa epistola invita anche
alla prudenza, insistendo piuttosto sulla imprevedibilità
dell’evento piuttosto che sull’imminenza, così come fa
pure Paolo di Tarso nella Prima e Seconda Lettera
ai Tessalonicesi. Nessuno degli apostoli dubita che i
tempi escatologici siano già inaugurati e che il Regno
di Dio sia una eventualità non differibile nel tempo.
Pietro e Paolo sanno che le comunità da loro fondate sono
lacerate anche da una profonda tensione escatologica e che
difficilmente riescono a tenerla sotto controllo,
raccomandando ai neofiti la vigilanza, la prudenza, la messa in
guardia contro falsi profeti e cattivi maestri, predicendo
l’apparizione dell’Anticristo prima del compimento dei
secoli. Nella chiesa di Roma non mancano frange di
estremisti che salutano con entusiasmo l’incendio che
devasta l’Urbe nel luglio del 64, permettendo alla
repressione neroniana di intravedere un collegamento, forse
forzato forse no, tra le loro aspettative e questo tragico
episodio. Seneca, inoltre, considera l’istituto della
“schiavitù” con argomentazioni abbastanza non dissimili
rispetto al messaggio di Cristo. Ma in realtà, a ben
riflettere, le differenze non risultano essere di poco
conto. Il filosofo di Cordova destituisce di fondamento
la schiavitù sul presupposto che tutti gli uomini, senza
distinzione di razza, di sesso, di età, di condizione
sociale, sono depositari dell’unica ragione universale ed
esercitano il ‘logos’ divino. I cristiani, invece,
partono dalla premessa che tutti gli uomini sono figli di
un unico Dio perché creati da Lui senza discriminazione e
resi per così dire adottivi in forza della grazia
apportata da Cristo. Inoltre la Chiesa primitiva intende
coesistere con un tale istituto socio-economico,
preoccupandosi solo del rinnovamento delle coscienze e
mai proponendosi come rivoluzione sociale ( si veda tutta
la ‘Lettera a Filemone’ e si cfr. 1 Tm. 6,1-2 ) : la
schiavitù é una struttura nata con il peccato ma può
essere “corretta” con i princìpi della fraternità, della
carità e della benevolenza, con la rivendicazione della
“dignità personale” dello schiavo, condannando invece
l’introduzione di una tale prassi in territori dove essa
non esiste affatto. Lo stesso Gesù, però, valorizza il
servizio come espressione dell’umiltà da tenersi
davanti ai fratelli e al Padre celeste. Indubbiamente,
dietro i contributi di Seneca e dei cristiani, anche la
legislazione civile, nei primi secoli dell’Era volgare,
produce miglioramenti nel tenore di vita dei servi. Con
la cessazione, da parte di Roma, delle conquiste militari
e con le invasioni barbariche del IV – VII secolo, la
schiavitù scompare quasi del tutto in Europa.
Non si può ignorare tuttavia
una profonda e anche radicale differenza tra il
Cristianesimo e la filosofia di Seneca per quanto concerne
la perfezione etica. Per quest’ultima il progresso
morale é legato alle forze dell’uomo, laddove invece per i
cristiani é solo il prodotto dell’iniziativa del Padre
celeste che invia nel mondo il proprio Figlio unigenito
perché riscatti le creature dal male con il suo sangue
sparso sulla croce, iniziativa alla quale si corrisponde
con la fede alimentata dalla speranza e dalla carità.
Per arrivare ad ammettere
l’esistenza di un’unica divinità e della legge morale
inscritta nel cuore di ciascuno, non é indispensabile una
rivelazione soprannaturale Basterebbe la sola ragione
a convincerci di tali princìpi senza arrivare, per
questo, a sostenere un influsso del Cristianesimo sulla
speculazione di Seneca. Come pure non avrebbe senso
sostenere che i tempi del celebre tragediografo latino
siano propizi perché possano maturare in lui, e in qualche
altro contemporaneo pagano, elevati schemi etici e
superiori convinzioni teologiche. In qualsiasi secolo, e
al di là di ogni discriminazione di carattere sociale o
culturale, chiunque sarebbe pervenuto all’attingimento di
questi princìpi attraverso una disciplina delle passioni, come
ci informa Paolo di Tarso in Rm. 1,18-32 e in Rm.
2,13-16. Senza ignorare una non tanto celata contraddizione
- nella filosofia del consigliere di Nerone- tra
l’ammettere una divinità come spirito vivente e, allo
stesso tempo, sostenere la dottrina della decomposizione
dell’anima dell’uomo dopo la morte.
Motivi sufficienti per
ritenere alquanto inattendibile l’influsso del
Cristianesimo su uno dei più prestigiosi interpreti della
cultura e uno dei protagonisti principali della storia di
Roma.
N O T E :
1) Seneca,
“Della superstizione”, frammento 42, in Massimo Fini, “Nerone.
Duemila anni di calunnie”, Oscar Storia Mondadori, Milano 1993,
p. 181.
Fonte : scritti e
appunti del teologo Francesco Cuccaro , e-mail
cuccarof@alice.it .
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