STORIA DI
UNA CHIAMATA
(1°-2°-3°-4° capitolo)
di Rosarita De Martino
1° Capitolo
Si
avvicina un anniversario, anzi
l'anniversario
che ha “rivoluzionato” tutta
la mia vita: la gita a Gambarie del 25 Aprile del '68.
Dalla Bibbia aperta appare la colorata figurina che mi ricorda
l’anniversario dell’anno scorso: “Rosarita,
possa tu rivivere, grazie alla luce vibrante e calda dello Spirito Santo,
“l’innamoramento” vivo, gioioso e appassionato per il tuo-nostro Gesù, affinché
nel tuo cuore e nella tua mente ci sia sempre il canto stupendo della gioia e
dell’amore”.
E’
questo l’augurio fraterno-paterno di Padre Egidio che ora ben conosce l’importanza di questa
data storica anche se allora, nel 1968, era solo un bambino di appena nove
anni, mentre oggi è la mia valida guida spirituale.
Vieni
ora, o Spirito Santo e guida la mia penna veloce sul foglio bianco e possa io
scendere nel profondo del mio essere con pace… grande e con memoria viva…
Ecco
sono seduta sul vecchio, ansimante pullman, indosso il grembiule nero e il
candido collettino bianco e da Canolo, paesello montano, sto andando a Locri,
cittadina marina, dove si trova l’istituto magistrale G. Mazzini. E’ il mese di maggio del
1960 e sto per conseguire il sospirato diploma!
Mi
guardo, ma come sono esile! Con i lisci castani capelli ribelli, con la voglia
prepotente di voler cambiare il mondo!
Ma sì, ho venti
anni! Ho solo venti anni!
Tutta la natura
è una festa di colori e di profumi e contemplo la bellezza dei: Due
monti che si abbracciano,/ il fiume che li bacia / il mare in lontananza / è un
tremulo sussurro. Mi guardo, trascino una grossa cartella zeppa di libri, ma
non pesa più di tanto: sono forte, ricca di affetti, mio padre è già andato in
ufficio e, quale maresciallo, guida i nostri “baldi” carabinieri.
Tutto è sicuro…
il paesello già pulsa di canti e di quotidiane fatiche…
Ma che
strano! Sono ancora sul pullman ma ora esso è nuovo davanti a me la
strada è ben asfaltata e vi sfrecciano macchine veloci.
Mi giro di
scatto, ma dove sono Erminia, Vanni, Emilio, Noretta, Annamaria?
Ed io perché non
indosso più la mia “divisa” di studentessa?
Ora,
come abbigliamento ho un fine, delicato cappottino e un festoso foulard ma il
viso è imbronciato, mi sento triste e sola.
Sì, sono
sull’autobus ma non nel mio
vecchio pullman questo è moderno e da Catania, dove ora abito, sto
ritornando in Calabria, a Gambarie ma è solo la gita di un giorno, un
breve
giorno, così, ancora ignara della fede ritrovata, penso.
Ora fin dal 1962 abito a Catania, città
anonima per me ma patria sospirata dei miei genitori.
Siamo
già a Messina, salgo sul traghetto, osservo il gruppo sconosciuto e subito
mi…isolo.
Guardo
il mare spumeggiante e aguzzo lo sguardo si intravede già la
Calabria: “Bella
terra, amate sponde pur vi torno a riveder, trema in petto e si confonde l’alma
oppressa dal piacer!”
così canto con Monti.
Penso ai “miei monti” lontani, alla grande, rossiccia rupe pericolante la
“Timpa“
che San Nicola, protettore del paese, tiene ancora con il suo bastone!
Il
paesaggio ora è vario ma, arrivati a Gambarie è superbo, non riesco a raccontare
la bellezza ma riesco a respirare “avida” il profumo dei boschi!
Ammiro “le vette”
ondeggianti degli alberi che hanno saputo resistere alle bufere mentre io non
ho saputo resistere al vento gelido dell’anonimato, alla mancanza di lavoro,
all’istituzione della chiesa “tempio“ ma non “Comunità”.
Sì certo cento chiese antiche e
monumentali si snodavano nel centro storico, roccaforte di “arte” ma non di
“fede e di vita”.
Le omelie
che, nei primi tempi del mio arrivo a Catania, ascoltavo mi sapevano di teologia ma si disperdevano subito, non mi davano nessuna
risonanza
interiore mentre io cercavo il cristianesimo delle prime comunità!
E così io
ho smesso di frequentare la chiesa per sei anni, i miei primi sei anni
cittadini.
Lì a Canolo tutto il paese ruotava intorno alla mia persona, avevo
già il gruppo da animare!
Era possibile perché,
nel piccolo paesello montano, esisteva una
vitalità: politica, culturale, religiosa che ricalcava e quasi incarnava il
celebre romanzo di Guareschi “Don Camillo e Peppone”.
La chiesa non era gerarchica istituzione
ma servizio d’amore, carisma in movimento. Mi guardo dentro e mi chiedo: “perché
sono venuta seguendo l’invito di Margherita mia unica amica e collega catanese?”.
La mia
è stata solo una motivazione sentimentale, volevo toccare la terra
calabra ma non volevo più relazionarmi con un gruppo e per giunta guidato da
preti!!
Certo che non volevo.
Tutti si stanno disponendo per formare un cerchio
ma io non mi muovo perché faccio parte per me stessa, qualche persona mi
sorride, una ragazza accenna un saluto, ma io non rispondo, non raccolgo queste
provocazioni formali.
Ora, al centro di questa splendida, naturale rotonda, i
preti stanno preparando l’altare per celebrare la Messa.
Svelta giro lo
sguardo intorno per cercare uno spazio per isolarmi ma una calda, sicura, amica
voce mi ferma e il più giovane dei preti così parla:
“
Mi presento, sono
padre Antonio e voglio dare a tutti il benvenuto nel nome del Signore Gesù. Noi siamo qui
riuniti in questo tempio sui generis che ha per colonne portanti gli
alberi secolari e per volta il cielo di Dio. E già siamo immersi nella
"teologia della bellezza" in questo momento storico perché
siamo stati da Lui chiamati anzi convocati. Tutti siamo venuti da mille
posti diversi, da mille storie diverse, ma oggi è un giorno di grazia perché Lui,
il Signore, ha aspettato fin dall'eternità per incontrare ciascuno di noi, per
colmare il vuoto dei nostri cuori che sono assetati di… amore e
vuole farsi conoscere da noi quale Egli è: Dio-Amore, Dio Comunità: Misericordia
di Padre, Redenzione di Figlio, Sponsalità di Spirito Santo”
.
Sussulto e svelta giro lo sguardo verso il lago che sembra capirmi e trema con
una argentea, rilucente luce, forse è complice anche lui di questo splendido: Proclama !
La
risonanza dentro di me è improvvisa e contraddittoria: paura e serenità,
dubbio e certezza, disperazione e speranza insieme !
Le sensazioni si intrecciano e fanno ressa in tutto il mio essere e mi feriscono come
“una lama di fuoco” che
penetra dentro di me.
Ma
come mai – mi chiedo –questo prete siculo sa parlare di Dio in modo così splendido
e accattivante?
Ma
certo io questo Dio lo riconosco e lo amo perché così l’ho conosciuto nella
mia gioventù, nella mia chiesetta montana.
Lo zefiro soave mi
accarezza complice anche lui e la prima lettura attrae la mia attenzione: “Erano
un cuore solo e un’anima sola… e tenevano tutto in comune”.
Ma chi erano ?
Questo
è un verbo al passato, al passato lontano ma chi erano un cuore solo?
Ah! I
tuoi discepoli ma questa è veramente una bella utopia non più vivibile
nel mondo di oggi immerso nel più bieco pragmatismo. Sconsolata mi
ripeto, oggi non è più realizzabile “la comunità” ma strano inizio di
nuovo a sperare chissà !?!
Improvviso un
canto mi entra dentro: “Non
so proprio come far per ringraziare il mio Signor, Lui mi ha dato i cieli da
guardar e tanta gioia dentro il cuor”.
La "lama di fuoco" che si era accesa dentro di me si spegne pian piano e
diventa una "lama di luce" che mi rassicura e riprendo a…
sperare perché qui Ti ho ritrovato quale Signore della mia vita nel giorno
storico della
liberazione (tempo) e nella terra calabra (luogo).
…Liberazione, libertà, dialogo parole da me amate e conosciute da sempre,
scritte da Te per me, riscoperte e poi assaporate con voluttà
sui banchi di scuola!
Storica è la nostra giornata di Gambarie perché ha segnato la conferma di una precedente,
confusa chiamata appena percepita nel mio paesello montano.
E il pensiero
ritorna alla scuola e mi rivedo “libera”, “entusiasta” e mi rivedo “viva” nella
mia chiesetta montana e già allora sentivo che la mia sarebbe stata una
strada speciale, unica anche in seno alla Chiesa.
Mi
rivedo ventenne con la voglia di vivere una vita diversa, con la voglia
prepotente di voler cambiare il mondo, non mi bastava una normale
famiglia troppo poco, troppo limitante per me perché la mia era già allora una
“chiamata diversa”, una strada “ignota”, strada ignota, ma proprio per questo
“fascinosa-affascinante”, ma nessun convento poteva accogliermi, nessuna
istituzione poteva riempire la mia fame metafisica, “la mia fame d’amore”, mi ci voleva
la Comunità !!
Ecco la prima
chiamata di Canolo a Gambarie diventa chiara.
Certo avrei
avuto una casa grande, immensa, avrei avuto un “impegno” ma libero,
vivibile, in qualsiasi spazio di chiesa: spazio di chiesa, il termine mi suona congeniale:
ecco è mio "spazio di chiesa" che strano pensiero vero?
Assaporo la
parola: si mi è congeniale!
Sì volevo una
famiglia ma non una normale famiglia fatta di marito e di figli non una
famiglia nata dalla mia carne bensì generata dal mio cuore dilatato nella
donazione volevo una "famiglia ecclesiale" ma solo a Gambarie ho
conosciuto questa terminologia.
E dopo un primo lungo, fraterno
colloquio con padre Antonio ho iniziato a frequentare il gruppo da lui
animato. Il mio nuovo cammino di fede ha avuto il suo epilogo nei tre campi
estivi di Vizzini.
Ma per me, credo per me sola, i
campi non sono stati solo l’epilogo di un cammino bensì sono stati “l’incarnazione
della mia chiamata“ del 25 Aprile del '68 !
Ora
come memoriale li rivivo e li offro al cuore di chi l'ha vissuto con me sia pure
in modo diverso e al cuore dei nuovi amici che li possono rivivere attraverso la mia appassionata
“testimonianza“.
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Sono
ancora giovane: indosso una fresca, colorata, estiva camicetta e un paio di
pantaloni, sono appena le sei del mattino e sto per entrare nella nostra
cappella allestita con amorevole attenzione.
Al centro il Tuo
Tabernacolo,
ricoperto di piccole rilucenti scaglie di corteccia d’albero (opera di Lucio)
emana “pace” e invita al “dialogo”, alla preghiera, all’adorazione.
Intorno
i cuscini fatti di sacco di juta e disposti a cerchio, emanano uno strano
profumo: di campagna, di casa, di serenità!
In uno di essi
c’è già Paola che Ti parla inginocchiata, ma che dico “raggomitolata“ e sembra un rilucente
bianco gomitolo di seta pronto ad essere dipanato da Te, che ne tieni fra le
mani il bandolo.
Ti adoro Signore Gesù, Ti adoro racchiuso in una piccola
Ostia
bianca!
Sto
uscendo, mi affaccio al balcone e guardo verso la collina e il sole sembra
salire, salire sempre più in alto, già risplende di luce.
Ora, guardo giù
e vedo arrivare alla spicciolata i miei amici, scendo perché ci stiamo
preparando per recitare le lodi prima di partire per raggiungere i filari di
pere con il mezzo tipico
della campagna: il trattore.
Ma bisogna saltarci dentro perché
è alto da terra ma io sono agile e ci riesco bene e svelta con lo sguardo
abbraccio tutti i miei.
Ma che bella famiglia ecclesiale mi haI
dato o
Signore!
Il trattore
corre e tutti noi, protetti dai colorati cappelli di paglia, cantiamo in coro e
ben presto riconosco la bella voce di Aurora che,
splendente di giovinezza, canta e ride, Margherita è ancora qui con me come a Gambarie.
Il trattore
traballa poi e si ferma ed in fretta saltiamo giù.
Ecco già si
vedono i lunghi filari di pere (le cosce, le morettine, le kaiser) che aspettano
solo di essere raccolte come le uova e messe delicatamente nelle cassette già
pronte.
Scegliamo il
“nostro” filare di pere e inizia la raccolta dei frutti.
Contemporaneamente ben altra, profonda raccolta avviene per ciascuno di noi.
A turno si
dialoga con padre Antonio e tra i raccoglitori di pere e i raccoglitori di
grazie si lascia un lungo filare libero.
Gli uccelli in
gruppi, volano tra i filari, anche loro vivono la fraternità?
Anche
per me arriva il momento speciale del colloquio paterno-fraterno con padre
Antonio e la gioia mi ricopre, si espande dentro di me in rapidi cerchi di luce…
Ora Tu (tramite
la direzione spirituale) mi
indichi con chiarezza la via, mi proponi di seguirTi da vicino e per sempre
per dedicare tutta la mia vita a Te e poi ai fratelli in un’alternanza armonica.
Ecco la mia chiamata acquista
"carnosità" e la posso vivere nell’ambito di
una comunità! Risento “la lama di luce di Gambarie" !
Ora sul far del
tramonto la campagna di Vizzini si impregna di liturgici canti e Tu Signore, Ti
doni a noi nel pane spezzato, miracolo sempre nuovo di fede, pazzia d'Amore di
un Dio-Amore.
Eucaristia
- Corpo Reale di Cristo. Comuntità - Corpo Reale di Cristo !
La
Messa è finita, ci avviamo, in piccoli gruppi verso casa, ma la fraternità
continua e sulla bella, lunga tavolata serale, condita di risate, risplende la
luna che, insieme alle luccicanti tremule stelle prega e canta con noi: “Non
so proprio come far per ringraziare il mio Signor, Lui ci ha dato i cieli da
guardar e tanta gioia dentro il cuor
e, miracolo ! anche io canto e sento la voce modulata ma dalla mia bocca non
esce alcun suono è solo il mio essere che inebriato di gioia Ti loda o mio Gesù, Signore della mia vita!
CAMPO DI LAVORO
‘70
(Partenza)
Freme rumoreggiando
il rosso trattore in nostra
attesa.
Scendiamo in fretta liberi e
ridenti,
e padre Antonio, giovane con noi,
con agil salto dentro vi balza,
a gara lo seguiamo.
Stride il rosso trattore per la
lunga via
ma ecco un canto intona
la nostra guida saggia.
"E' mio fratello viene con me"
E la calda voce di Aurora
con i bei capelli al vento,
gli fa eco:"è mia sorella viene
con me"
e il coro riecheggia:
"la lunga strada che porta a Te"
E il vento complice,
risponde "a Te, a Te...."
Corre il trattore lungo la sua
via,
le mucche placide ruminano nei
campi
e il canto sale dalla terra al
cielo
nella verdeggiante campagna di
Vizzini.
CAMPO DI LAVORO
‘70
(Arrivo)
Il rosso trattore
sbuffa nel fermarsi.
Scendiamo in
frotta liberi e ridenti.
Nei filari
occhieggiano le pere.
La raccolta
inizia lieta e fervorosa.
Corrono
cassette di frutta profumata.
Ora breve
sosta ci è data dalla calura
estiva.
Alla fontanella andiamo.
Raccolgo l’acqua
nel cavo delle mani,.
Alto è il sole ma
io mi inondo
di pace e di
frescura.
Alberi ricchi ci
ristorano
di ombra amica
Cumuli
delicati di pietrisco
sembrano
aspettarmi complici.
Mi distendo e l'improvvisato letto
offre ristoro al mio giovane corpo.
Fra
le falde del cappello intravedo
il
mio
pezzo di azzurro
lassù,
lassù in alto.
Il cielo
complice mi sorride
in uno sfolgorio di nubi
spumeggianti.
Uccelli,
insieme, volano sicuri
e io con loro !
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2° Capitolo
Disegno
di Giuseppe D’Angelo
“Dio
non turba mai la gioia dei suoi figli
se non
per prepararne una più grande”
A.
Manzoni (da “I
promessi sposi”)
… Mi
trovo nella mia stanzetta e , strano a dirsi, anche se siamo già ai primi di
Novembre del 1972, un raggio tiepido di sole si rifrange dall’armadio rilucente
fino allo specchio “inondando” di luce tutta la casa e mormoro fra me:
”Tu
Sole vivo per me sei o Signore, luce e calore diffondi nei cuor…”.
Dall’
altro balcone, in vicina-lontananza, si intravede la montagna superba: l’ETNA
che io, solo da poco, ho imparato ad... amare. Ora infatti la sento viva, la
sento “mia”, sia quando indossa il suo candido “cappuccio” di…neve, sia quando,
fremente di vita propria, sotterranea, indossa il suo tremendo ”cappuccio” di…
fuoco: incandescente fiume di LAVA
che tutto sommerge lasciando solo nere, aguzze, brucianti rovine di pietra
lavica…
Oggi
mi guardo e non sono più una “paesana” ragazza, bensì sono una donna “di città”,
infatti ho ricci e curati capelli, indosso moderni vestiti e frequento un’altra
volta la scuola: Il Magistero. Sto lottando per riuscire ad inserirmi nel mondo
del lavoro, anzi sto per realizzare la seconda chiamata della mia vita: l’
INSEGNAMENTO
e, come reale VOCAZIONE,
già lo vivo dentro il mio essere. A presto bimbi ancora “sconosciuti”! Da poco,
infatti, ho saputo di aver ben superato la prova scritta del mio ultimo concorso
magistrale. Mi attende ora il lungo “colloquio orale” che deciderà dell’esito
finale! Un pizzico di paura mi assale, ma è solo un attimo… guardo i miei tanti
appunti sparsi nei tanti quadernoni colorati e mi rassicuro, sono mesi che
leggo, studio, ripeto, sottolineo tutte le mie “sudate carte” per dirla con il
Leopardi. E poi c’è l’ammonimento di P. Fabrizio che mi accompagna: “Rosarita
lascia tutto, anche la nostra comunità, buttati nello studio: è la tua
ultima possibilità, non dare ai professori il tempo di interrogarti, previeni tu
le possibili domande, sappi tu giostrare gli esami. Forza ti seguirà la
mia preghiera!”.
Sì,
certo ora credo nella preghiera, ne percepisco il senso profondo perché lì, a
Lentini, ne ho fatto esperienza viva tra i filari di pere, verdi, verdeggianti
filari di speranza!
Improvvisamente i miei occhi guardano lontano oltre le pareti, la mia stanza si
allarga e i personaggi noti e cari dei miei libri si affollano intorno a me, ma
io sono tranquilla, mi sembra normale fare una chiacchierata e
ascoltarli… attenta. Ecco i piccolissimi teneri bimbi della scuola svizzera
della pedagogista Boschetti Alberti fanno ressa, con i loro freschi grembiulini
attorno alla loro insegnante ed io li sento cinguettare in coro!
La
visione serena scompare e sento attorno a me la fredda, notturna visione di un
lago dove scorre una barca silenziosa e svelta, guardo, c’è Lucia che lascia i
suoi monti e malinconicamente mormora il suo stupendo addio: “Addio
monti elevati al cielo e impressi nella mia mente, quanto è tristo il passo di
chi cresciuto tra voi se ne allontana!”.
Eccomi anch’io malinconica,
lo ripeto nella notte nera del maggio 1962: dieci anni fa! Mi guardo spaurita,
fresca, illusa studentessa che, stretta fra i miei familiari e i bagagli più
necessari, fingendo di sonnecchiare, piango in silenzio… Ora la macchina nera
corre come può nella notte e ingoia, a fatica, strade sconnesse, supera e lascia
dietro vecchi casolari, piccoli campi seminati con file di grano ondeggianti e
il profumo noto e rassicurante della campagna e la tenue
frescura della fiumara si allontana sempre più… spariscono cedendo il
posto alla brezza marina di Siderno, dove il lungo treno ci aspetta alla volta
di Catania, nostalgico desiderio dei miei “esuli” genitori che, dopo anni di
forzato esilio, ritornano finalmente nella loro città natale!
Metto
la mano sulla mia borsa, certo è qui con me il mio libro preferito: “I promessi
sposi”, primo, gradito regalo di mio padre già quando frequentavo la quinta
elementare! Lo leggevo fin dai vecchi, traballanti, tarlati, pesanti banchi di
legno con incassato il calamaio dell’inchiostro e la vecchia penna con il
pennino che io volentieri bagnavo poi, improvvisamente e sbadatamente,
spargevo tutto all’intorno fra la disperazione di mia madre che doveva lavare le
mie candide camicette con… il latte. Ma ora sono ritornata nella mia stanza fra
i noti personaggi.
Adesso
appare il castello dell’Innominato, eccolo, ben vestito di seta, circola
inquieto nella stanza degli avi e guarda indispettito verso la valle dove una
folla variopinta e festante si muove verso una… chiesa! Lo sento mormorare fra i
denti: ”Tutti
premurosi, tutti allegri per vedere un uomo! Cos’ha quell’uomo per rendere tanta
gente allegra! Qualche segno nell’aria, qualche parola? Oh, se le avesse per me
le parole che possono consolare! Se…”.
Eccolo, eccolo è un uomo in
ricerca, lo so, cerca la pace del cuore e mi somiglia tanto, io lo
comprendo. Si alza finalmente, si muove, esce dal castello, cammina nel sole e
il suo abbraccio con il santo cardinale Federico sigilla la sua conversione.
L’ Innominato non ha nome perché in lui ogni uomo possa ritrovarsi, miracolo
dell’arte! Ma guarda un po’, nel Vangelo neppure la donna Samaritana ha un nome,
eppure incontra Te, Signore, al pozzo di Sicar!! E ora sento che un giorno
lontano anche io ci andrò! Vero?! Pensando al pozzo risento come una strana
frescura e infatti alla mia destra appare un laghetto e altri vi si vedono in
lontananza… sembra un paesaggio nordico, con il cielo sfumato di nebbia, gli
alberi secchi e lunghi, e nel laghetto nuotano strani uccelli bianchi. Uno di
loro, mi sembra il più giovane, corre verso di me e, soddisfatto, mi spruzza
l’acqua addosso! Ma guarda, io so, dalla fiaba di Andersen, che solo poco fa era
“un brutto anatroccolo” e razzolava tra le galline e le anatre che lo
insultavano perché… beh, non era come loro! Qualcuno aveva messo il suo
uovo di “cigno” dentro una vecchia cesta, laggiù nella fattoria, in mezzo alle
uova di anatra. Che buffa situazione: era un cigno che si credeva un’anatra!
Eccolo, ora corre veloce verso i magnifici cigni, abbassa la testa e spera di…
essere ucciso a beccate: è così goffo! Le anatre possono disprezzarlo, diamine:
è brutto assai! Ora si ferma esausto vicino agli uccelli bianchi che corrono
tutti verso di lui, ma solo per accoglierlo, per fargli festa e lo
riconoscono, infatti, come loro fratello dandogli un’identità! Che
miracolo! Che bellezza!
Oggi
io ho la mia identità perché non sono più “un solitario, brutto
anatroccolo” ma un giovane cigno e anche vivo e felice in questo lago e
vi nuoto sicura in concentrici cerchi di “azzurra
gioia” e di “verde
speranza”…”Acqua
siamo noi dall’antica sorgente veniamo, fiumi siamo noi se i ruscelli si mettono
insieme, mari siamo noi se i torrenti si danno la mano”.
Ma uno
dei miei libri cade per terra e così mi risveglio dalle mie fantasticherie ad
occhi aperti.
E’ una
calda mattinata estiva di luglio del 1973 ed io, inquieta davanti al portone
della scuola Giovanni XXIII, attendo per sostenere il temuto colloquio orale.
Entro, finalmente mi chiamano, mi siedo e rovisto nella borsa alla
ricerca dei documenti di riconoscimento e per sbaglio tiro fuori il libretto ed
il tesserino del Magistero. Mi sento confusa con il professore che mostra invece
di gradirlo e lo esamina attento. Ma certo, penso, ho un’ottima media. Mi
rilasso finalmente e alla mente affiorano i libri studiati, le critiche
positive e negative degli autori proposti e parlo, parlo, parlo… e il
presidente soddisfatto mi fa: “Può
andare, basta così, ho capito che ha ben studiato, che ama la scuola, vi entri
fiduciosa con la carica del suo entusiasmo, oggi è una dote rara! Auguri!”.
Ho
vinto! Macché? Abbiamo vinto insieme, o mio Signore, grazie, grazie Gesù, mio
Amore Santo! La scuola statale mi attende, ma che dico? Ci attende! E nella
bella, radiosa mattinata del 1° ottobre del 1973 entro in classe: è una seconda
elementare della scuola statale Maria Montessori di Catania. Sono i bimbi
“sconosciuti” prima, ora già “cari” e li chiamo per nome: Agata, Aldo, Enza,
Giovanna, Salvo, Enzo, Patrizia, Mariella, Giusy, Angioletta, Francesca,Paola,
Orazio, Gianfranco, Antonio, Luca, Francesco, Anna, Annamaria, Gennaro, Bruno,
Consuelo. “Maestra” li sento chiamare e il mio cuore si riempie d’orgoglio… come
mi sento viva e vera! Ma quanti figli mi hai donato o mio Signore,
vedrai, faremo un bel cammino insieme in questi quattro anni di vita scolastica,
in un crescendo di intesa reciproca.
Li
guardo ancora a lungo uno per uno, sono cresciuti tanto e oggi, nel giugno del
1977, ormai sono arrivati in quinta classe e già stanno per lasciarmi… ma
porteranno dentro tutto il bagaglio culturale del mio insegnamento e poi
verranno a trovarmi… via, me l’hanno promesso ed io ci credo! Bello, familiare è
il saluto di fine anno, sul tavolo verde spicca un verde pianta: mi terrà
compagnia, dicono i piccoli, per tutta l’estate e mi parlerà di loro.
L’accetto con vivo piacere e distribuisco a tutti le colorate figurine-ricordo
con una frase diversa per ciascuno di loro, li conosco bene ormai e ora li devo
lasciare! Anche le mamme fanno ressa intorno a me per… ringraziarmi “dell’amore
che ho saputo dare ai loro figli che per ben quattro anni sono stati anche
miei”.
Lacrime di gioia
inumidiscono i miei occhi; “è
vero – mi dico in
fretta –
Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne una più grande e
più certa!”. E la mia
gioia è certa perché l’insegnamento per me non è solo un lavoro necessario per
vivere, ma è l’incarnazione reale della Tua chiamata, quella di
Gambarie del ’68, anche perché stavolta, quale maestra unica, sono l’animatrice
della comunità scolastica. Mi riprendo, abbraccio tutti, uno per uno, piccoli e
grandi e, sazia di gioia, scendo le scale per tornare a casa. L’estate mi
aspetta insieme a tutti gli impegni comunitari che si delineano fitti e
continui! E la mia vita ne è ancora travolta.
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3° Capitolo
1
L’incanto
“Come
alberi piantati lungo il fiume,
noi
aspettiamo la nostra primavera”
2
Il disincanto
“Ho
perso una battaglia nel campo dell’amore,
non mi
mancare adesso che sono tanto giù
o
Signore…”
Sul
finire del caldo giugno del 1978, inizio con la scuola il mio primo “distacco”,
infatti lascio i miei primi alunni ed i ragazzi (ora sono tali) andranno già in
prima media e una strana sensazione mi invade.
Questo mio primo “distacco” ne preannuncia altri che verranno, sia nella scuola
sia nella… vita. Inoltre, mi fa toccare con mano “la partecipazione emotiva” che
metto perfino nel mio… lavoro! Eh sì, Signore, lo riconosco: nonostante le
bastonate avute fin dal lontano 1962, la mia è ancora “una fede istintiva -
emotiva” che parte dal di dentro, ma si fortifica e si alimenta grazie alla fede
dei fratelli! Certo, io devo accettarmi con questi miei limiti, con
questa carica di entusiasmo che mi caratterizza e che sembra “esplodere”
nei momenti forti del mio cammino e che, a volte, mi procura attorno dei sorrisi
di affettuoso compatimento, o in qualcuno un senso di stizza malcelata perché
ancora “alla
mia età guardo il mondo con gli occhiali rosa!”.
“E
questo non va!”
sentenzia la cara
Rita R. lo riconosco , è vero, esiste in me un dislivello fra la mia età
cronologica che avanza inesorabile e la mia età mentale che resta “una
fresca fontana di acqua zampillante”.
Sì, ho
gioia da donare, ho speranza da regalare, perché per me il tempo dell’incanto,
iniziato dopo Gambarie, culminato con i tre campi di lavoro di Lentini, non è
ancora finito, pare che continui nel nostro gruppo impegnato in un cammino di
fede.
Ancora
ho bisogno di respirare l’aria salubre della comunità.
Ma,
dapprima non riesco a capire. Solo oggi ne afferro il senso: all’interno del
gruppo, guidato da padre Fabrizio, sorgono pian piano tematiche diverse,
esigenze diverse; proprio ora che il gruppo è ricco di varie presenze traballa,
non è più un’unica voce, un’unica comunità. Alcuni si guardano attorno e si
indirizzano per la strada del matrimonio. Nino s’interroga e si avvia sicuro
verso il sacerdozio. I membri del movimento di spiritualità che ci hanno
ospitato per anni nella loro chiesa sottolineano il loro carisma…
Ed ora io che faccio?!
Stanca, sfiduciata, isolata
non provo nemmeno a definire
la mia chiamata, perché è strana, unica e non rientra in nessuno
schema prestabilito fra quelli già esistenti nella Chiesa catanese e così
riconosciuti “giuridicamente”.
Il
termine “giuridico” mi dà l’amaro sapore della struttura definita, sigillata,
stretta, troppo stretta per me “avida” di spazi di libertà e d’amore; e poi non
sono adatta a viverci dentro, perché “quando
parlo muovo le mani”
e perché, esile come tuttora mi mantengo, non riuscirei a sopportare e gestire
con equilibrata calme le emozioni, nemmeno quelle esterne che mi possono
piombare addosso inaspettate; pertanto non potrò essere capace di vivere bene il
voto dell’obbedienza cieca. Così sentenzia l’alto prelato romano!
Mi
fermo, mi rassereno di colpo e guardo speranzosa verso “i laici liberi” e
osservo le universitarie di oggi, le belle, intelligenti colte liceali di un ieri
lontano che, in neri grembiuli di brave studentesse, la mattina, recitando le
lodi, riempivano la nostra chiesa di festa, di canti esaltanti, di giovinezza,
di fede e di tanta speranza! In questo momento storico, ormai laureande, hanno
cominciato a ricercare insieme una loro identità. Sicuro, lo
capisco, io non posso fare parte di questa giovanile ricerca, perché non ho
l’età!... Quella cronologica s’intende!
Certo,
perché l’altra (quella del cuore) stavolta non conta, anche se il mio cuore è
tremendamente giovane e voglioso di donarsi in uno spazio di Chiesa,
continuando l’impegno assunto con Te, Signore mio, nella messa all’aperto, lì a
Lentini (nel ’70-’73), appena quattro anni fa.
Un
giorno piovoso lasciamo la nostra chiesa (giuridicamente appartenente
all’Istituto secolare a cui eravamo legati spiritualmente come gruppo) e ci
facciamo ospitare dalle piccole suore dell’Assunzione ed ora, insieme,
ricerchiamo il nuovo nome e la nuova identità ecclesiale. Stavolta credo che ci
sia un posto anche per me e il canto della messa rafforza questa mia speranza… “Io
con voi mi trovo bene, perché siete sinceri come me, io per voi darei la vita,
perché amate la vita come me”.
Ecco,
finalmente la comunità si è ricostituita, mancano solo i membri dell’Istituto
secolare, ma noi del gruppo siamo tutti presenti e Lina (già appartenente
all’istituto come laica consacrata di vita esterna) ha preferito seguire noi del
“gruppo” perché ha avuto questa ispirazione interiore.
“Che
bello…”-
mi dico
- “… ha la
stessa mia età e ha già fatto una scelta chiara e definitiva, saprà capirmi e
potrà starmi tanto vicina!”
così penso e spero…
“Che
bello!”.
Oggi
alla fine di ottobre del 1978 mi trovo a vivere una nuova esperienza: sto
facendo un campo di lavoro, non più tra le pere, ma tra vecchi e polverosi
libri, fra tappeti e candele, tovaglie e paramenti sacri, nella piccola e
disadorna chiesetta di san Giovanni dove ora ci troviamo.
Tutto
dovrà essere ben sistemato, almeno per il nostro primo Natale, ormai prossimo.
Ferve il lavoro e padre Fabrizio è ancora il sostegno morale di tutti, come
sempre.
Ancora
i nostri canti mi comunicano gioia e le belle riunioni del martedì, con lo
studio dei documenti conciliari, riempiono la mia vita. Che bello vivere in
comunità, come somigliamo alle comunità delle origini dei primi cristiani!
E ben
presto arriva il nuovo anno, ed io ho già iniziato a fare conoscenza con i miei
nuovi alunni: sono deliziosi, sono già presenti non solo nel mio lavoro, ma
anche nella mia vita, che ne è “riempita”. Le mie due chiamate, la comunità e la
scuola, si armonizzano fra loro.
Ora la
nostra sede è più accogliente, perché il pavimento è stato rifatto; la piccola
biblioteca traboccante di vecchi libri non c’è più perché oggi, dicembre del
’79, fa bella mostra di sé, il nuovo armadio. Io mi affretto a riempirlo, apro
gli scatoloni, appoggio alcuni libri a terra in equilibrio instabile ed ecco un
ragazzo sconosciuto mi guarda, si avvicina e, avvolto in un sorriso radioso, si
presenta:
“Sono
Andrea!”
– dice. “Sono
Rosarita”
– rispondo distratta.
Piera
interviene premurosa:
“Sai,
è un futuro sacerdote”,
ma io attenta al mio lavoro sorrido appena.
Ancora
non so che Andrea avrà un ruolo primario nel mio lungo e a volte travagliato
cammino di fede, perché sarà la mia valida guida spirituale. Oggi è solo un
giovane ventenne di bella presenza e di belle speranze… pare!
Io mi
affretto a riordinare i libri e vi metto in bella vista il nostro primo libro,
lo guardo con commozione e d’incanto mi ritrovo a Lentini fra le pere.
Ora il
sole sta per tramontare, ma il grande albero di ulivo offre frescura ad un
gruppo di ragazzi e ragazze che insieme vivono la Messa. Una ragazza, con la
camicetta fiorata e un pantalone di velluto beige, con l’aria assorta attrae
subito la mia attenzione. Sembra pregare, anzi la sento che innamorata di Te,
Signore della vita, Ti parla e Ti loda: ”Tu
sei il mio Pastore, su pascoli erbosi mi fai riposare, ad acque tranquille mi
fai dissetare”.
Certo, la riconosco, è la Rosarita di allora, ma è così felice che non oso
chiamarla!...
Ma chi
osa chiamarla? Chi mi chiama con voce amica? E’ la bionda Piera che premurosa mi
dice: “Ancora
tra i libri?”
e ammirata per la mia idea continua:
“Ma sai
che il nostro libro ci sta proprio bene? Ci fa ripensare alle nostre origini,
quando come i primi cristiani abbiamo vissuto in una comunità d’amore”.
Ma il
mio fermarmi a san Giovanni dura poco, troppo poco, perché cammin facendo mi si
parano davanti i dubbi esistenziali che mi porteranno via, in una nuova sofferta
ricerca di una nuova identità e, con essa, di una comunità dove viverla.
Ben
presto imparerò a coniugare i verbi “ricominciare”, “azzerare”, “riprovare”
“soffrire”. Non posso più restare in questa piccola disadorna chiesa, che fin
dall’inizio mi è stata anonima e subito mi ha dato l’amaro senso della
“provvisorietà”.
Analizzo con lucidità questa mia impressione: è vero, non posso più restarvi,
perché… nel seno della comunità (spazio di chiesa, respiro d’amore fraterno) è
nato “un figlio”, ma “un figlio” non mio, un istituto nuovo di zecca con un
impegno di vita comune. Ne è responsabile Lina, vi sono entrate tutte le liceali
di ieri, che hanno fatto il loro exploit durante i campi di lavoro, svolgendo
con competenza le tematiche di studio; ne fanno parte, nel pieno “fulgore” della
loro giovinezza e della loro fede.
Io non
ho il carisma (si vede chiaro), non ho l’età richiesta, né l’assoluta
disponibilità per una vita comune e non parliamo poi dell’ubbidienza!
Vado
via con dentro una voce che canta in sordina: “Ho
perso una battaglia nel campo del successo, non mi mancare adesso che sono tanto
giù! Ho perso una battaglia nel campo dell’onore, non mi mancare adesso che sono
tanto giù! Ho perso una battaglia nel campo dell’amore, non mi mancare adesso
che sono tanto giù, o Signor!”.
La
struttura portante ora è il nuovo istituto che vive momenti propri di verifica e
di preghiera. Mi sento tagliata fuori… non comprendo e vado via!
E il
dubbio si insinua “sottile” e “malefico” dentro di me: ho sbagliato strada? Ho
sbagliato
vocazione?
Forse
dovevo accettare la proposta matrimoniale offertami dalla mia “parentela
catanese”? Eh via, era pure un ottimo partito e con un sostanzioso conto in
banca!
Ma che
dico? Non potevo, non posso, ero già innamorata di Te, o mio Signore!
Non
avrei avuto la capacità di pensare e di vivere all’ombra del marito e dei figli:
troppo poco per me, troppo normale, troppo umano. Non avevo la stoffa, dovevo
liberamente abbracciare il mondo, era troppa la “carica esplosiva” che mi
viveva dentro! Dovevo esprimerla nell’ambito di una più vasta e varia famiglia.
Sei
stato UNICO Signore per me e lo sei ancora nonostante le sofferenze accumulate
negli anni!
Ma mi
sto disperdendo, vieni ora, o Spirito di Dio, a farmi rivivere nella pace
dell’oggi il tormento di allora; vieni a riportarmi a quei momenti, ma in pace
con me stessa e con tutti gli altri.
Sì,
certo, mi sento mancare il terreno sotto i piedi, viene meno la voglia di
lottare, la lucidità di capire, la pazienza di accettare che la mia chiamata è
stata solo una bella utopia, perché la comunità, che si alimenta al sole del
carisma, ha ceduto il posto all’istituto che vive all’ombra delle leggi e il suo
scopo primario non è dimostrare e vivere l’amore fraterno, bensì è solo lavorare
per un progetto specifico.
La
comunità è solo “un
momento iniziale di un cammino di fede”
dice padre Fabrizio, “è
solo un’esigenza adolescenziale, è
uno stadio
emotivo” dice Lina.
Ma
che, non vuole crescere, non vuole maturare la Rosarita di oggi?
Qualcuno lo pensa, qualcun altro, arrabbiato, lo dice…, ma io non ci riesco a
crescere e nemmeno provo a tagliare le mie radici, a stroncare le mie
attese, a non testimoniare la comunità nel ventesimo secolo, perché io credo
ancora alla forza sconvolgente dell’ AGAPE, che convertì i pagani di allora.
Ecco ,
o Gesù… sto già bene, il tormento interiore è diminuito, perché sento che non mi
lascerai sola in questi sofferti e sterili dubbi, ma mi farai trovare una strada
nuova, un cammino appassionato, sconosciuto ancora a me (ma non a Te). Ci
sarà?
Ecco,
o Signore, posso dirti a voce alta una cosa? “Io
non ho mai smesso di… amarti, e Tu lo sai vero? Non ho mai tradito la mia-tua
chiamata, quella di Gambarie e di Lentini
!
Oggi,
giugno dell’ ‘80 (11 anni dopo Gambarie), mi impegno di nuovo con Te, o
Signore, per coniugare insieme il verbo “ricominciare”.
Esco
nel sole e suono al portone delle Serve della Divina Provvidenza, perché devo
ritirare un certificato di servizio scolastico. Infatti, nel primissimo periodo
del mio arrivo a Catania ho insegnato dalle suore.
Ricordo ancora la simpatia istintiva che mi ispirava madre Matilde: una suora
speciale, libera, allegra, sensibile, aperta alle problematiche sociali e
politiche. Sì, è stata nella mia vita l’unica suora che ho apprezzato e che ho
sentito “amica” nonostante l’abito. Confesso che per le suore non ho mai avuto
simpatia, sia per quelle conosciute a Napoli, da bambina, sia per quelle
conosciute in Calabria, da ragazza, che per quelle conosciute da donna a
Catania, perché le vedo troppo lontane dal mio mondo interiore, libero,
euforico, frizzante, innamorato della vita, allergico a tutto ciò che sa di
imposizione esteriore.
Chiedo
al portiere di poter parlare con madre Matilde, mi siedo nel parlatorio e
aspetto paziente.
Eccola, arriva, mi cerca con lo sguardo, mi vede, si avvicina, mi viene incontro
e mi abbraccia forte. Come è libera dentro! Nel suo essere suora vive ancora
l’amicizia ed esprime l’affetto. Lo può fare!? Mi pare che il “distacco” che
impronta le loro regole interne è alquanto “distaccato” dalla sua persona… che
bello! Ne avevo proprio bisogno!
Si
ferma, mi scruta attenta e interrogativa, mi chiede: ”Come
stai?... Stai male? Cosa ti è successo? Mi sembri un burattino a cui hanno
tagliato i fili…Ma dove hai messo il tuo tipico entusiasmo?... Che hai fatto?...
Hai rotto gli occhiali rosa con cui affrontavi il mondo?”
“Ma guarda
– mi dico stupita
– il mio
tormento interiore traspare anche all’esterno!”
Svelta e sollecita abbozzo un sorriso e attribuisco la mia stanchezza agli
impegni, allo studio. Ma lei non ci crede affatto… e continua: “…
alla fine
di giugno, il nostro autista, il signor Agosta, ha organizzato un viaggio per
Assisi con il gruppo delle nostre insegnanti. Ci sono ancora dei posti liberi…
vedi di andarci pure tu, prenotati qui da noi… vedrai, sono certa che tornerai “guarita”.
Svelta
mi abbraccia e sorridendo va via. Io, meravigliata e ristorata, entro nella
raccolta cappella profumata di fiori freschi e… mi ritrovo sola con Te, o mio
Signore: musica silenziosa mi circonda, silenzio sonoro mi rasserena e mi
inebria.
Sono
ancora una volta sul pullman nuovo fiammante, pieno di volti sconosciuti… Che
meraviglia! Margherita è ancora una volta con me con sua sorella Rosalia. Stiamo
partendo per Assisi, città di fede e di spiritualità profonda.
Toccherò la terra di Francesco: “Laudato
sii, o mi’ Signore per frate vento”-
e sul traghetto è
veramente forte
– “.. per
frate sole”
– e sul traghetto
sfolgora, mentre mi avvicino ancora una volta alla costa calabra
–
“… bella terra,
amate sponde, pur vi torno a riveder…“.
Ma
oggi ho dentro solo “un’inquieta stanchezza”. Mi darai pace, o Signore, come hai
fatto con Agostino di Tagaste? “Pace
che il mondo irride, ma che rapir non può”
(da “Inni sacri” di
A. Manzoni).
Te lo
chiedo, o Signore!
Rosarita di Gesù
Gesù di Rosarita
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4°
Capitolo
“Il mondo ha bisogno di testimoni, non di maestri”
Paolo VI
Disegno realizzato da Giuseppe D'Angelo
… e sono, ancora
una volta, sul pullman nei primi giorni di Luglio del 1980 e viaggio verso
Assisi alla ricerca della mia “identità”, quella nuova, perché la prima è durata
appena dieci anni, quanto è durata la mia splendida comunità catanese.
Comunità,
parola “innervata” dentro il mio essere, realtà meravigliosa, prima intravista,
poi “assaporata” a Catania, ma ora svanita nel nulla, quale spuma che si perde
nel mare sconfinato della vita.
Realtà che
resta sempre iniziale e mai definita e quando sembra chiara e sicura si
trasforma, diventa “struttura” con regole precise, con confini
definiti da paletti di proprietà: “Vietato
l’ingresso ai non addetti ai lavori”
e la comunità sparisce!! Ma io continuo a chiedermi, nell’oggi storico, in
questo spazio e in questo tempo in cui io vivo, perché non è più possibile
realizzare lo spirito fraterno delle prime comunità cristiane? Perché la
metodologia diventa quasi un fine e non si pensa che la testimonianza di uno
sparuto gruppo che vive nell’amore fraterno è l’unico fine della credibilità
della nostra fede?
I pagani
di ieri del mondo romano potevano dire per i cristiani di allora:
“Guardate
come si amano!”. I
moderni pagani d’oggi: gli atei, gli agnostici, gli indaffarati, gli
indifferenti, gli oppressi che cosa possono dire di noi cristiani
“Guardate
come scrivono bene, guardate come parlano bene, guardate la sala dei loro
“convegni” è zeppa di … competenti!”.
Tutti questi
perché mi “pulsano” dentro, ma no, è solo “l’assordante” musica che
l’autista ci propina per tenere su il morale della “comitiva” in cui mi trovo.
Tutto ciò
non basta, perché l’altro malefico dubbio (alimentato dalla presenza di alcune
famiglie) mi riaffiora insidioso: “Ma
ho sbagliato chiamata? Dovevo seguire la comune strada del matrimonio se volevo
vivere l’amore?”
Mi disturba ora
questo pensiero, perché ogni volta che sono in crisi diventa “certezza”. Mi
alzo e mi siedo da sola all’ultimo posto dell’autobus, volgo un rapido sguardo a
Margherita, che è seduta tranquilla vicino alla sorella Rosalia.
Forse la
monotonia della strada suscita in me “monotoni” pensieri?
Improvvisamente
il panorama cambia.
Ora
appoggio la fronte al vetro del finestrino chiuso e provo come una piacevole
“frescura”, allontano la tendina e all’improvviso ti vedo nel tuo cielo e nel
tuo lago Cormaro, così leggo nel cartello. Fisso lo sguardo sulle spumose
nuvole bianche che danzano nel cielo e mi sento “libera e leggera”, quasi mi
distacco e mi sembra di “danzare” con Te nel tuo cielo fra le bianche nuvole e
posso lodarti e benedirti sempre,
o Trinità beata,
prima, unica, eterna comunità amata e amante!
Grazie perché riesco ancora (nonostante delusioni cocenti) a riposarmi in Te o
Trinità!
Ecco ora il
grande-piccolo rilucente e vibrante lago abbracciato dalla terra feconda di
verdeggianti, stupende colline. Il lago luccica con i raggi del sole che,
brillando, formano delle lunghe strisce di luce: una di esse sale e, formando
una rilucente “lama di luce” arriva nel mio stanco, pesante cuore di pietra e
improvvisamente lo rende di carne, capace di nuove speranze.
Ecco, Ti
sento chiaramente ora: “Se
hai fede quanto un granellino di senape dirai al monte - Spostati! - E il monte
si sposterà” ma
io, Gesù, non ho ancora tale fede, ma Tu sì.
E già io
vedo il risultato, perché tu, con la forza del Tuo Spirito, hai spostato, no,
hai tolto il macigno che mi opprimeva. Grazie, ora ti sussurro, perché nel
tremendo travaglio interiore di questo mio momento esistenziale, in cui mi
sento mancare la terra sotto i piedi, Tu ti fai risentire “dentro” e
mi rassereni attraverso le bellezze del creato: “Laudato
sii mi’ Signore per sora acqua la quale è umile, preziosa et casta”.
Umile: ecco
dammi ora la santa umiltà, quella di accettarmi con i miei limiti umani, con le
paure inconsce che ancora riemergono dall’abisso istintivo del mio Ego e dammi
la pazienza di amare prima di tutto me stessa, gli altri dopo…
…E l’autobus ora
corre, superando ponti e autostrade, attraversando cittadine e corre verso
Assisi: è lontana ancora, dicono sul pullman. Ma io ho fretta, molta fretta e
voglio arrivarci da sola, senza aspettare “la comitiva” in cui mi trovo.
Escogito un
sistema speciale, sono bravissima nell’isolarmi in mezzo alla folla, riesco
sempre a crearmi un mio “spazio”. Ma come posso fare? Per prima cosa abbasso il
vetro del mio finestrino, ci riesco bene e respiro aria pura, non più
“condizionata” e contemplo in lontananza il lago che già sparisce dalla mia
vista e, in alto, vedo un volo d’uccelli e vicino a loro una spumeggiante nube
che sembra proprio un cavallo alato, ma… è Pegaso? Si è trasformato in una
nuvola?
Ora sembra
invitarmi a salire, io non mi faccio mica pregare e ardita scavalco il bordo del
finestrino, prendo le distanze e, con uno stupendo salto in lungo, lo raggiungo
e lo cavalco, afferro le redini che non ci sono e ordino:
”Hop,
hop, presto si va ad Assisi!”
e quasi subito intravedo la città.
Ringrazio ed
accarezzo il mio cavallo bianco, scendo rapida giù a terra. Non ho più paura,
infatti, ho acquistato movimenti sciolti e armonici, io che di solito sono così
“imbranata”! Volgo lo sguardo in giro e la città mi appare in tutto il suo
“splendore”. Conserva le mura antiche e in lontananza s’intravede un “turrito”
castello, ma le mura sono alte e massicce, e che! Dopo sì lunga attesa non posso
entrare da sola nella città?
Osservo in giro,
cammino un poco e vedo due sentinelle, anzi due giganti che, immobili e
silenziosi montano la guardia all’enorme porta borchiata di ferro.
Mi preoccupo. Ma
come vi posso entrare senza essere vista e senza essere “infilzata” dalle loro
alabarde dalla punta acuminata??!
Mi chino, mi
nascondo dietro l’albero immenso, mi faccio coraggio e li guardo ancora: hanno
lo sguardo assente come perduto lontano, non si accorgono di me, ma certo io
sono piccola piccola, loro sono i “custodi” della storia!
Ardita, con
entrambi le mani, spingo la “sacra” porta che, facendo uno stridio acuto (come
una brusca fermata dell’autobus), cigola e si apre. Curiosa entro nella
cittadina a me già cara. Come sono tranquille le stradine! Ecco mi sembra di
trovarmi nel mio paesello: a Canolo ci sono, infatti, tante tante viuzze con
lunghe scalinate.
Ma c’è vita
serena in questa tua città santa! Dai balconi ridono colorati gerani e tutto
all’intorno ferve il lavoro. Gli artigiani sono all’opra, le laboriose donne
d’Assisi impastano il pane senza sale e poi dai forni di pietra il buon odore si
sparge per tutto il paese e avida ne respiro “la fragranza
familiare”.
Che cosa è
mai questo suono argentino? Ma certo sono dei bimbi che giocano o ridono! Ma
quella è Giusi! Che fa qui? Che fanno qui i miei alunni? Ma chi li ha portati
qui? – mi chiedo – dove sono le loro mamme? Mi preoccupo un poco, li chiamo per
nome: “Giusi,
Patrizia, Ale, Piero, Enzo, Salvo, Emanuela, Paola, Cettina, Gabriella, Luca,
Santo!”, ma non mi
sentono pare, non mi rispondono, mi avvicino ancora, ma neanche mi vedono, io
invece li vedo, li guardo stupita e noto che Patrizia, come sempre fa
l’animatrice del gruppo. Ora serena ordina ai compagnetti di sedersi in
semicerchio e poi, imitando me, dice: “Cari
bambini ascoltate un momento, ho trovato una poesia significativa, adatta al
nostro percorso educativo. Ripetiamola la prima volta insieme per acquisire la
giusta “tonalità” e poi la studierete a memoria per “farla vostra”. Domani la
commenteremo insieme liberamente e la illustrerete con i vostri disegni. Ora in
silenzio ascoltate:
“CERCO UNA
SCUOLA”
…Cerco
una scuola per neri e per bianchi,
dove
si possa uscire dai banchi,
si
trovi il tempo per raccontare
e
prenda dieci chi vuole aiutare;
dove
i maestri,
compresi i supplenti,
sian
più spesso felici e contenti
così,
fra la storia e la geografia,
ci
sarà posto per l’allegria!
Non ricordo più
l’autore: Marini o Noschini?
Entusiasta per
la “dizione” perfetta della mia scolaresca batto le mani, ma nessuno mi sente,
nessuno si gira dalla mia parte. Ma per caso sono diventata “invisibile”?!!
Ma che miracolo!
La poesia declamata da Patrizia acquista un tono speciale e tutti i bambini
d’Assisi l’hanno udita e dalle tante viuzze scendono a gruppi e formano un
enorme cerchio. Che splendore!
Ora osservo i
più piccoletti, paffutelli e riccioloni, con occhini rilucenti, sembrano angeli
senza ali, angeli usciti dal pennello “divino” di Raffaello. Tutti convergono
in quest’enorme prato verdeggiante e pian piano il loro “gioire” si smorza,
resta solo un senso di pace infinita, di pace… e un divino silenzio interrotto
dal canto degli uccelli. Ma che strane colombe bianche ora volteggiano intorno a
me! Sono indifferenti alla mia presenza e ho il tempo di osservarle, ma sì, sono
“le tortorelle” di Francesco. Ma lui dove si trova? Vorrei proprio incontrarlo
anche per pochi momenti!
Mi siedo sul
verde prato della speranza, accarezzo piano le piccole pianticelle che hanno le
rosse bacche della gioia e… alzando gli occhi lo vedo. Ma è lui?
Stento a
riconoscerlo: indossa un liso abito che sembra un sacco di iuta, è scalzo. Lo
guardo estatica. Ma è più basso di me! E’ solo una “spanna d’uomo”, ma ha saputo
“abbracciare il… mondo” e c’è riuscito, pare, nonostante la sua piccola statura
fisica!
M’inginocchio ed
aspetto ansiosa, ma sì mi viene incontro avvolto in un luminoso sorriso: ”Oh,
sei venuta Rosarita? Finalmente! Ma perché ti tormenti stupidamente? Ancora non
hai capito che la tua chiamata è un po’ simile alla mia? Anche io non amo
“le strutture”, ma amo la “Chiesa”, anche io non credo nelle regole, ma credo
nell’Amore. Alleluia! Su mettiti di nuovo all’opera, Cristo ha ancora bisogno
della tua “ingenua fede”. Perdona, ama, accogli, costruiscila tu “la comunità”,
falla nascere dal tuo cuore dilatato nell’Amore-dono, nell’Amore-servizio.
Ascolta, perché non provi a fare scuola in modo “nuovo”? Perché non immetti
questo spirito fra i piccoli? Anche loro hanno bisogno d’amore e d’accoglienza,
puoi farlo per tanti anni ancora, fin quando sarai maestra unica!”
Che strano, non
ci avevo pensato!
Francesco
sorride, mi prende per mano e mi esorta: ”Svelta, ritorna sull’autobus, state
per arrivare nella mia città. Auguri!”
Mi giro
svelta: ma che voci concitate attorno a me, tutti si affrettano a prendere i
bagagli più piccoli, sistemati sulle retine laterali dell’autobus. Mi alzo lesta
e svogliata, cerco con lo sguardo Francesco, ma non c’è, non c’è più… qui c’è
solo una “comitiva frettolosa”. Faccio passare tutti e alla fine Margherita mi
chiama: “Rosarita,
che fai? Dormi? Non dimenticare il tuo borsone. Ti aspettiamo.”
Ah, sì! Lo
trovo, è rimasto l’ultimo di tutti, è alla ricerca del padrone, vuole essere
preso e lo faccio paziente.
Scendiamo tutti,
l’ultima sono io. Posiamo i bagagli nell’atrio dell’albergo e subito visitiamo
la prima chiesa che si trova proprio di fronte al nostro hotel: S. Maria degli
Angeli.
Nella luce tenue
del tramonto salgo i pianeggianti gradini di pietra ornata con fili di marmo
bianco che, in una visione d’insieme, forma come un “ricamo”, no come un
“disegno” che converge verso la facciata rinascimentale classicheggiante della
chiesa, opera dell’ Alessi – precisa la guida.
Entro e… che
meraviglia d’arte, di luce, di silenzio, di musica! Ma chi canta? Forse sono gli
Angeli che fanno corona Maria? Ma non li vedo! Nella navata centrale spicca una
piccola, rustica, “immensa” cappella che può contenere “il mondo”. Questo io lo
comprendo subito: è la Porziuncola, rifugio prima dei Benedettini poi
donata a Francesco, che ne fece il punto focale della sua primitiva fraternità.
Anche senza
ascoltare la guida, capisco tutto, anche d’arte, ho la certezza di esservi già
stata e neanche provo una grossa meraviglia quando, nella sacrestia, le bianche
“tortorelle”, nidificano nel cesto, fra le braccia di Francesco che ora è solo
una statua leggera, ma lo riconosco subito: l’ho visto poco fa!
Una si stacca
dal nido, mi vola attorno e mi guarda con i suoi occhietti a spillo e… si dirige
verso l’alto e vuole suggerirmi l’idea dell’altezza.
Sì, ho capito,
non posso stare giù in pianura a “ruminare” il mio fallimento, perché non ho più
“la comunità, ma volerò ancora e la troverò certo, anche se dovrò
attraversare “deserti di città” e “oceani d’indifferenza”, arriverò, ma dove?
Margherita,
premurosa, mi cerca tra la folla, mi riporta alla realtà e insieme, in gruppo,
torniamo all’albergo.
Certo, è
accogliente la stanzetta n. 21 a tre letti (io, Margherita e Rosalia),
proprio accogliente e inoltre dal nostro quinto piano s’intravede la cupola
della chiesa, anzi la statua di bronzo dorato della Madonna che, con le braccia
aperte, sembra dirmi: “Dormi
su, dormi, domani mattina ti aspetto qui”. “Certo –
rispondo
– verrò. Verrò e da sola”.
Un raggio di
sole mattutino inonda il mio letto di luce, ma è presto, non sono neanche le sei
del mattino!
Margherita e
Rosalia, stanche e placide dormono ancora, ma io no! Non posso dormire, perché
il “vecchio tormento” mi assale, piano mi alzo, mi vesto e poi, guardinga,
chiudo la porta della nostra stanza, scendo le scale, saluto il portiere e mi
trovo all’aperto: davanti ai miei occhi c’è la Basilica.
Salgo i cento, i
mille gradini che mi portano dentro. Spingo la porta, la Basilica è aperta, il
sole inonda di luce le tre navate, io mi affretto verso la “Porziuncola”,
piccolo pezzo di terra significa, ma sacra, sacra d’amore! Non ci arrivo, perché
un piccolo altare laterale, ornato di pitture, attrae la mia attenzione e,
infatti, al centro c’è un moderno tavolinetto, due sedie e… uno striscione con
una curiosa scritta: “UN SACERDOTE E’ QUI PER TE”.
“Per
me? Perché?”-
mormoro, anzi grido a voce alta nel sovrumano silenzio reso sacro dall’enorme
via vai di gente – ma che dico? – di fratelli di fede, di speranza, di dolore.
“Per
me? – ripeto.
“Sì, certo figliola, io sono qui per te! Stai serena, Francesco
ti dà la pace”.
Ma chi è questo
moderno “angelo”? Non ha le ali e indossa un liso abito scuro, marrone mi pare,
le lacrime che offuscano i miei occhi non mi permettono di distinguere bene, ma
lo guardo dubbiosa e mi viene da… ridere.
“Figliola”
– ripete piano, ma… è lui un mio “figliolo”! Non ha più venti anni; ha lucenti
occhi verde-azzurri, ricci capelli castani, bei lineamenti nell’ovale del viso
contornato di un bel pizzetto tipo “risorgimento”. Mi calmo e vedo che indossa
un abito rilucente, quello della “gioia e della speranza”, mi guardo dentro: il
mio è veramente “sfilacciato e sdrucito”, è impregnato di polvere malefica del
dubbio, della “puzza” del risentimento verso me stessa e verso gli altri. Ecco
devo “fabbricarmi l’abito nuziale per andare al banchetto del Regno”.
Impongo
decisa alla mia stanca mano di alzarsi nel segno della Croce e comincio.
“Padre”,
subito mi fermo interdetta, da qualche tempo, da troppo tempo non pronuncio più
questa parola per un tuo “ministro” per il sacramento della confessione, ma ora
la ripeto umile e commossa ad un “sacerdote” che, in verità, mi può essere
figlio!
Miracolo della
fede, miracolo della tua chiesa, miracolo di Francesco!
Ma come sono
calde le lacrime, perle lucenti che rotolano preziose sul piccolo tavolino!
Svelta le raccolgo e le deposito sul tuo cuore di Padre e di Fratello te li
restituisco come tuo dono: ora non mi servono più.
“Figliola,
prega per tutti quelli che soffrono e anche per quelli che fanno soffrire”.
Cosa fa,
ripete le parole dell’Ermengarda di Manzoni? Mi scuoto, sorrido fra me ed il
fraticello certo non sa che mi ha riaperto le porte della speranza e in
semplicità francescana mi esorta: “Ritorna
serena a Catania, troverai la tua pace e la tua strada, cerca i francescani, io
pregherò per te, Rosarita”.
Io mi
meraviglio, come sa il mio nome? Ma sì, chissà quante cose ho detto parlando in
libertà! Che bello: mi sento leggera, libera dentro, sorrido, allungo la mia
mano per stringere la sua, ma improvvisamente, in un sorriso radioso, che
stranamente mi ricorda un altro sorriso radioso di un giovane futuro prete
catanese, mi abbraccia.
Che libertà! –
penso – Ma come il distacco è distaccato dalla sua persona, come lo è per suor
Matilde!
Ora mi avvio
rinata verso la “Porziuncola”. Come ispira pace! Com’è bella! Com’è
“francescana”! Ecco anche io sono di nuovo bella: creatura libera, creatura
rifatta libera dal tuo Amore, o Signore!
Ringrazio,
contemplo, sorrido da sola, esco, scendo le lunghissime scale pianeggianti, anzi
non scendo, volo e il vento mi scompiglia i capelli, il mio vestito ora è tutto
rilucente, intessuto d’oro fino…
“Tutta
bella sei sorella, mia sposa”
Ma che cosa dici, o Signore, al mio cuore? Pensavo di aver
incontrato un angelo e alla fine guardavo se avesse (se aveva?) le ali, ma lui
non poteva averle perché li aveva date a me! Che bel regalo! Posso ancora volare
e al volo acchiappo gli occhiali rosa che avevo smarrito, li infilo svelta e
torno all’albergo, appena in tempo, perché l’auto sta per partire dopo la
colazione.
Margherita
m’intravede, mi viene incontro e chiede: “Ma
dove sei stata tutto questo tempo? Mi dispiace, ma stamattina hai perduto la
colazione. Ora sali subito sull’auto, stiamo per andare nei luoghi francescani.”.
“Sì –
penso perplessa
– ma io ho gustato latte e miele e come Elia posso
riprendere il cammino”.
Ma stavolta non
dico niente. Godo: tutto il mio essere è sereno, godo per essere stata
rappacificata dal perdono d’Assisi, perdono ricevuto nell’umiltà, perdono
offerto nella gioia ritrovata. Ora sul mio fresco viso di donna ritorna il roseo
naturale colorito, gli occhi hanno lasciato il buio e brillano di nuova luce e
sembrano anche più grossi e più belli (con le mie rilucenti pagliuzze castane).
Ma guarda, aveva ragione suor Matilde, ad Assisi ho ricevuto “la guarigione
interiore”, la più bella per poter vivere!
Guardo dal
finestrino i merletti dei tetti delle case, la stupenda, serena campagna umbra.
Scendiamo tutti,
siamo arrivati; una salita ci attende (stavolta ho la forza di farla) e, in
fondo, c’è il primo luogo francescano: l’Eremo della Carceri.
Tra i fitti
alberi gorgheggiano gli uccelli e in lontananza l’usignolo tiene il ruolo di
“solista”.
E anche io
canto “Eh?! Guarda sono intonata!”. Una voce lieve, modulata che non è la
mia (stridula e stonata) esce ora dal mio cuore e si rifrange all’intorno in
rapidi cerchi d’azzurra gioia. La visione del lago mi torna alla mente e…
strano, il brutto anatroccolo, ora diventato cigno mi saluta dispettoso, mi
spruzza l’acqua, mi giro, non c’è più, c’è solo una bimba che cerca di bere
nella bella fonte ed io sono in fila dopo di lei. Rosalia dietro mi fa cenno di
spicciarmi, bagno appena le labbra e rifaccio il giro, mi metto all’ombra vicino
al resto del gruppo. Margherita mi osserva, le sembro strana:
“Hai
fame?Il sole forte ti dà fastidio? Stai male?”. “No, sto bene, troppo bene!”.
Rassegnata scuote
la testa, certo questo viaggio mi ha proprio cambiata, anzi mi ha peggiorata,
sono “più distratta di prima”. Mah! Mah! Chissà perché!! Risaliamo sul pullman
per andare a S. Damiano.
Eccolo S.
Damiano, si presenta ai miei occhi con una semplicissima facciata preceduta da
un basso porticato; da un lato, in alto, si vede uno scarno rosone. L’interno,
immerso in una certa penombra, è un ambiente formato da un’unica navata,
terminante in un coro piuttosto profondo. Più che ad una chiesa penso ad una
grotta, ma ad una grotta di luce immersa nella campagna umbra. Si respira “pace”
e riesco a rubarne un pezzo per me sola, nessuno ci fa caso; ora sento un lieve
cantare strano, ne riconosco la voce, ma è la sua: è quella di Francesco.
Svelta mi
avvicino alla finestrella aperta che dà sul chiostro e lo vedo: è lui!
Soavemente ripete: “Laudato
sii mi’ Signore per madre terra, ci alimenta e ci sostiene con coloriti frutti,
fiori et erba”. Ho
appena il tempo di incrociare il suo sorridente sguardo e subito sparisce dalla
mia vista, ma non dal mio cuore. Da oggi in poi avrà uno spazio assicurato
dentro il mio essere!
Che santo
simpatico che sei per me, piccolo, sereno, innamorato Francesco, fratello in
Cristo, fratello mio!
Di nuovo
sul pullman, io mi trovo con dentro “sensazioni che non so descrivere, ma belle,
belle, belle. “Che
pensieri soavi, che speranze, o Rosarita mia!”
mi ripeto estatica.
Quale sarà la
prossima tappa di questo viaggio? Perugia – dicono.
L’auto
corre, ma eccola Perugia, antica, bellissima. Ci fermiamo alla fonte Gaia,
celebre opera del Pisano. Dopo la visita alla Cattedrale, la guida annuncia:
“Avete
due ore libere. L’autobus vi aspetta qui, accanto alla chiesa”.
Alcuni dicono:
“Andiamo alla Standa,
è qui vicino”.
Inorridisco e mi avvicino al preside S. e chiedo:
“Lei dove va?”. “Io e la mia famiglia andiamo a vedere la Pinacoteca del
Perugino”.
Timidamente propongo:
“Posso venire con voi?”. “Con piacere” –
risponde cortese.
Entro
nella Pinacoteca. I quadri sono pochi, ma splendidi. Quasi subito il mio sguardo
attento si posa sul “Noli me tangere”.
“Non mi toccare”-
traduco in fretta.
Gesù circondato
di luce, con il braccio teso e la mano aperta, sembra come voler allontanare la
Maddalena, che tende ansiosa verso di Lui lo “sguardo innamorato”.
Questa scena
parla al mio cuore, perché mi somiglia tanto. Questa donna vuole fermare un
attimo per sé il Maestro. Non ha ancora imparato che Lui va sempre avanti e
precede nel cammino? Io l’ho imparato a mie spese.
Porto nel cuore
questa “visione d’arte” e all’uscita incontriamo altri compagni di viaggio, alla
fine il gruppo si ricompone e torniamo tutti all’albergo. E’ l’ultimo giorno di
permanenza ad Assisi e la serata sarà “libera”.
Ma io so dove
andare la sera: a salutare la mia “Porziuncola”.
Conservo
negli occhi la visione del quadro. Gesù sembra dirmi: “Vai,
ritorna a Catania, porta con te la pace che ti ho regalato ad Assisi”.
Ora abbiamo
appena finito di cenare, ho gustato il pane senza sale, ma… strano, è molto
gustoso e saporito. Qualcuno si attarda nella bella terrazza per “godere il
fresco”, io, non vista, giro l’angolo e ritorno da sola alla mia “Porziuncola”.
Entro, la
sensazione di pace si rinnova, arrivo dentro la cappelletta, trovo un
inginocchiatoio libero, mi sprofondo in preghiera: “Ho
per parlarti piccole parole, hai per sedurmi abissi di silenzi”.
Ti sento vivo in me, reale
accanto a me, ti faccio spazio, mi sposto un poco sul duro inginocchiatoio.
“Tu
c’entri in questo spazio? Tu, o Signore, ci stai bene vicino a me? Io sto bene
con me stessa (mi sento come ricostruita) e sto bene anche con Te, su camminiamo
insieme, aprimi, a Catania, la “strada nuova”, vedrai saprò “riconoscerla”.
Quanto tempo è
passato? Non lo so. Ma chi è questo “nordico” giovane biondo e alto con acquosi
occhi azzurri che mi regala un sorriso? Lo ricambio di getto.
Io intanto cerco
il fraticello del mio primo incontro, ma non lo trovo più. Mi muovo, arrivo
nell’angolo della sacrestia. Ecco le tortorelle dormono placide e tenere nel
cesto, ma Francesco è ancora sveglio e mi lancia uno sguardo complice di gioia,
io ricambio, ma nessuno delle poche persone che si trovano vicino se n’accorge,
meno male, le spiegazioni sarebbero imbarazzanti…
Ritorno sui miei
passi, la scalinata è piena di giovani, che con le chitarre cantano. Mi siedo in
mezzo a loro e ascolto felice:
“Piangendo Francesco
disse
un giorno a Gesù:
“Amo
il sole, amo le stelle,
amo
Chiara e le sorelle.
Amo
il cuore degli uomini,
amo
tutte le cose belle,
o
Signore, mi devi perdonare
perché Te solo io vorrei amare”.
Sorridendo il Signore
gli
rispose così:
“Amo
il sole, amo le stelle,
amo
Chiara e le sorelle.
Amo
il cuore degli uomini,
amo
tutte le cose belle.
O
Francesco,
non
devi piangere più,
perché io amo
ciò
che ami tu”.
Ecco sono di
nuovo sull’auto, ma per il viaggio di ritorno. Riprovo a cercare “l’ultimo
posto”, è ancora disponibile e mi estraneo dal gruppo.
“Laudato
sii, o mi’ Signore”,
perché le meraviglie non sono ancora finite. La Cascata delle Marmore è
annunciata prima dai tanti cartelloni pubblicitari e poi dalla presenza di
verdeggianti colline e ora dalla “frescura”.
Il Velino,
scorrendo da Est ad Ovest, è visibile dal colle di Greccio e nel suo cammino
s’incontra con la Nera, che sta scendendo dal Nord dell’Umbria e, proseguendo
poi insieme si buttano nel Tevere, non molto lontano da Roma. Che spettacolo
superbo!
L’acqua
spumeggia all’intorno, la luce del sole sembra dividerla e poi la ridà a noi
sotto l’aspetto iridescente dell’arcobaleno, splendore multiforme di luce, patto
dell’alleanza fra Dio e l’uomo.
“Dovunque
il guardo io giro, immenso Dio ti vedo, nell’opre tue ti ammiro, ti riconosco in
me” così cantò il
Metastasio.
Ma le emozioni
di questo viaggio stupendo non sono ancora finite. Anche la Puglia ha un regalo
per me: le grotte di Castellana.
Ora ci mettiamo
tutti in fila indiana per scendere con l’ascensore nelle viscere della terra per
vedere le “stalattiti” e le “stalagmiti” pietre levigate dalle acque
sotterranee. Lo spettacolo è particolare, mi sembra un paesaggio dantesco: marmi
e alabastri hanno assunto forme speciali, strane – la Madonnina, il Presepe – e
ancora si sente “lo gocciolio” lento e martellante. L’aria è rarefatta,
l’umidità è forte, il freddo pungente, ma si prova una sensazione da… fiaba, le
pietre sono “creature vive” come le piante lassù, sulla terra che abbiamo
lasciato.
Con lo sguardo
le accarezzo tutte, specie le più “vecchie” e “spugnose”. Un altro spettacolo mi
aspetta nella risalita con l’ascensore: è uno spettacolo che m’inebria; in alto,
dove filtra e arriva la luce del sole, si è formato un cerchio rilucente che
scende e contrasta con la voragine interna. Questa striscia di luce è come
circondata dalla caligine interna e profonda e la sensazione che provo è
contrastante e superba insieme.
“Io
sono la caligine e Tu sei la luce, fa’, o Signore, che da opaca tenebra possa
toccare la luce, inebriarmi e annullarmi in Te, mia Luce ritrovata. Amen”
Rosarita di Gesù
Gesù di Rosarita **************************************************************
Continua...al 5° Capitolo.
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