giovedì 25 luglio 2019

STORIA DI UNA CHIAMATA (1°-2°-3°-4° capitolo) , di Rosarita De Martino


STORIA DI UNA CHIAMATA
 (1°-2°-3°-4° capitolo)

di Rosarita De Martino
 

 
 
 
 
  1° Capitolo   
 
 

 
 
Si avvicina un anniversario, anzi l'anniversario che ha “rivoluzionato” tutta la mia vita: la gita a Gambarie del 25 Aprile del '68.
 Dalla Bibbia aperta appare la colorata figurina che mi ricorda l’anniversario dell’anno scorso: Rosarita, possa tu rivivere, grazie alla luce vibrante e calda dello Spirito Santo, “l’innamoramento” vivo, gioioso e appassionato per il tuo-nostro Gesù, affinché nel tuo cuore e nella tua mente ci sia sempre il canto stupendo della gioia e dell’amore”.
E’ questo l’augurio fraterno-paterno di Padre Egidio che ora ben conosce l’importanza di questa data storica anche se allora, nel 1968, era solo un bambino di appena nove anni, mentre oggi è la mia valida guida spirituale.
Vieni ora, o Spirito Santo e guida la mia penna veloce sul foglio bianco e possa io scendere nel profondo del mio essere con pace… grande e con memoria viva…
Ecco sono seduta sul vecchio, ansimante pullman, indosso il grembiule nero e il candido collettino bianco e da Canolo, paesello montano, sto andando a Locri, cittadina marina, dove si trova l’istituto magistrale G. Mazzini. E’ il mese di maggio del 1960 e sto per conseguire il sospirato diploma!
Mi guardo, ma come sono esile! Con i lisci castani capelli ribelli, con la voglia prepotente di voler cambiare il mondo!
Ma sì, ho venti anni! Ho solo venti anni!
Tutta la natura è una festa di colori e di profumi e contemplo la bellezza dei:  Due monti che si abbracciano,/ il fiume che li bacia / il mare in lontananza / è un tremulo sussurro. Mi guardo, trascino una grossa cartella zeppa di libri, ma non pesa più di tanto: sono forte, ricca di affetti, mio padre è già andato in ufficio e, quale maresciallo, guida i nostri “baldi” carabinieri.
Tutto è sicuro… il paesello già pulsa di canti e di quotidiane fatiche…
Ma che strano! Sono ancora sul pullman ma ora esso è nuovo davanti a me la strada è ben asfaltata e vi sfrecciano macchine veloci.
Mi giro di scatto, ma dove sono Erminia, Vanni, Emilio, Noretta, Annamaria?
Ed io perché non indosso più la mia “divisa” di studentessa?
Ora, come abbigliamento ho un fine, delicato cappottino e un festoso foulard ma il viso è imbronciato, mi sento triste e sola.
Sì, sono sull’autobus ma non nel mio vecchio pullman questo è moderno e da Catania, dove ora abito, sto ritornando in Calabria, a Gambarie ma è solo la gita di un giorno, un breve giorno, così, ancora ignara della fede ritrovata, penso.
Ora fin dal 1962 abito a Catania, città anonima per me ma patria sospirata dei miei genitori.
Siamo già a Messina, salgo sul traghetto, osservo il gruppo sconosciuto e subito mi…isolo.
Guardo il mare spumeggiante e aguzzo lo sguardo si intravede già la Calabria: “Bella terra, amate sponde pur vi torno a riveder, trema in petto e si confonde l’alma oppressa dal piacer!” così canto con Monti.
Penso ai “miei monti” lontani, alla grande, rossiccia rupe pericolante la “Timpa“ che San Nicola,  protettore del paese, tiene ancora con il suo bastone!
Il paesaggio ora è vario ma, arrivati a Gambarie è superbo, non riesco a raccontare la bellezza ma riesco a respirare “avida” il profumo dei boschi!
Ammiro “le vette” ondeggianti degli  alberi che hanno saputo resistere alle bufere mentre io non ho saputo resistere al vento gelido dell’anonimato, alla mancanza di lavoro, all’istituzione della chiesa “tempio“ ma non “Comunità”.
Sì certo cento chiese antiche e monumentali si snodavano nel centro storico, roccaforte di “arte” ma non di “fede e di vita”.
Le omelie che, nei primi tempi del mio arrivo a Catania, ascoltavo mi sapevano di teologia ma si disperdevano subito, non mi davano nessuna risonanza interiore  mentre io cercavo il cristianesimo delle prime comunità!
E così io ho smesso di frequentare la chiesa per sei anni, i miei primi sei anni cittadini.
Lì a Canolo tutto il paese ruotava intorno alla mia persona, avevo già il gruppo da animare!
Era possibile perché, nel piccolo paesello montano, esisteva una vitalità: politica, culturale, religiosa che ricalcava e quasi incarnava il celebre romanzo di Guareschi “Don Camillo e Peppone”.
La chiesa non era gerarchica istituzione ma servizio d’amore, carisma in movimento. Mi guardo dentro e mi chiedo: “perché sono venuta seguendo l’invito di Margherita mia unica amica e collega catanese?”.
La mia è stata solo una motivazione sentimentale, volevo toccare la terra calabra ma non volevo più relazionarmi con un gruppo e per giunta guidato da preti!!
Certo che non volevo.
Tutti si stanno disponendo per formare un cerchio ma io non mi muovo perché faccio parte per me stessa, qualche persona mi sorride, una ragazza accenna un saluto, ma io non rispondo, non raccolgo queste provocazioni formali.
Ora, al centro di questa splendida, naturale rotonda, i preti stanno preparando l’altare per celebrare la Messa.
Svelta giro lo sguardo intorno per cercare uno spazio per isolarmi ma una calda, sicura, amica voce mi ferma e il più giovane dei preti così parla: “ Mi presento, sono padre Antonio e voglio dare a tutti il benvenuto nel nome del Signore Gesù. Noi siamo qui riuniti in questo tempio sui generis che ha per colonne portanti gli alberi secolari e per volta il cielo di Dio. E già siamo immersi nella "teologia della bellezza" in questo momento storico perché siamo stati da Lui chiamati anzi convocati. Tutti siamo venuti da mille posti diversi, da mille storie diverse, ma oggi è un giorno di grazia perché Lui, il Signore, ha aspettato fin dall'eternità per incontrare ciascuno di noi, per colmare il vuoto dei nostri cuori che sono assetati di… amore e vuole farsi conoscere da noi quale Egli è: Dio-Amore, Dio Comunità: Misericordia di Padre, Redenzione di Figlio, Sponsalità di Spirito Santo” .
Sussulto e svelta giro lo sguardo verso il lago che sembra capirmi e trema con una argentea, rilucente luce, forse è complice anche lui di questo splendido: Proclama !
La risonanza dentro di me è improvvisa e contraddittoria: paura e serenità, dubbio e certezza, disperazione e speranza insieme !
Le sensazioni si intrecciano e fanno ressa in tutto il mio essere e mi feriscono come “una lama di fuoco” che penetra dentro di me.
Ma come mai – mi chiedo –questo prete siculo sa parlare di Dio in modo così splendido e accattivante?
Ma certo io questo Dio lo riconosco e lo amo perché così l’ho conosciuto nella mia gioventù, nella mia chiesetta montana.
Lo zefiro soave mi accarezza complice anche lui e la prima lettura attrae la mia attenzione: “Erano un cuore solo e un’anima sola… e tenevano tutto in comune”.  
Ma chi erano ?
Questo è un verbo al passato, al passato lontano ma chi erano un cuore solo?
Ah!  I tuoi discepoli ma questa è veramente una bella utopia non più vivibile nel mondo di oggi immerso nel più bieco pragmatismo. Sconsolata mi ripeto, oggi non è più realizzabile “la comunità” ma strano inizio di nuovo a sperare chissà !?!
Improvviso un canto mi entra dentro: “Non so proprio come far per ringraziare il mio Signor, Lui mi ha dato i cieli da guardar e tanta gioia dentro il cuor”.
La "lama di fuoco" che si era accesa dentro di me si spegne pian piano e diventa una "lama di luce"  che mi rassicura e riprendo a… sperare perché qui Ti ho ritrovato quale Signore della mia vita nel giorno storico della liberazione (tempo) e nella terra calabra (luogo).
…Liberazione, libertà, dialogo parole da me amate e conosciute da sempre, scritte da Te per me,  riscoperte e poi assaporate con voluttà sui banchi di scuola!
Storica è la nostra giornata di Gambarie perché ha segnato la conferma di una precedente, confusa chiamata appena percepita nel mio paesello montano.
E il pensiero ritorna alla scuola e mi rivedo “libera”, “entusiasta” e mi rivedo “viva” nella mia chiesetta montana e già allora sentivo che la mia sarebbe stata una strada speciale, unica anche in seno alla Chiesa.
Mi rivedo ventenne con la voglia di vivere una vita diversa, con la voglia prepotente di voler cambiare il mondo, non mi bastava una normale famiglia troppo poco, troppo limitante per me perché la mia era già allora una “chiamata diversa”, una strada “ignota”, strada ignota, ma proprio per questo “fascinosa-affascinante”, ma nessun convento poteva accogliermi, nessuna istituzione poteva riempire la mia fame metafisica, “la mia fame d’amore”, mi ci voleva la Comunità !!
Ecco la prima chiamata di Canolo a Gambarie diventa chiara.
Certo avrei avuto una casa grande, immensa, avrei avuto un “impegno” ma libero, vivibile, in qualsiasi spazio di chiesa: spazio di chiesa, il termine mi suona congeniale: ecco è mio "spazio di chiesa" che strano pensiero vero? 
Assaporo la parola: si mi è congeniale!
Sì volevo una famiglia ma non una normale famiglia fatta di marito e di figli non una famiglia nata dalla mia carne bensì generata dal mio cuore dilatato nella donazione volevo una "famiglia ecclesiale"  ma solo a Gambarie ho conosciuto questa terminologia.
E dopo un primo lungo, fraterno colloquio con padre Antonio ho iniziato a frequentare il gruppo da lui animato. Il mio nuovo cammino di fede ha avuto il suo epilogo nei tre campi estivi di Vizzini.
Ma per me, credo per me sola, i campi non sono stati solo l’epilogo di un cammino bensì sono stati “l’incarnazione della mia chiamata“ del 25 Aprile del '68 !
Ora come memoriale li rivivo e li offro al cuore di chi l'ha vissuto con me sia pure in modo diverso e al cuore dei nuovi amici che li possono rivivere attraverso la mia appassionata “testimonianza“.
 
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Sono ancora giovane: indosso una fresca, colorata, estiva camicetta e un paio di pantaloni, sono appena le sei del mattino e sto per entrare nella nostra cappella allestita con amorevole attenzione.
Al centro il Tuo Tabernacolo, ricoperto di piccole rilucenti scaglie di corteccia d’albero (opera di Lucio) emana “pace” e invita al “dialogo”, alla preghiera, all’adorazione.
Intorno i cuscini fatti di sacco di juta e disposti a cerchio, emanano uno strano profumo: di campagna, di casa, di serenità!
In uno di essi c’è già Paola che Ti parla inginocchiata, ma che dico “raggomitolata“ e sembra un rilucente bianco gomitolo di seta pronto ad essere dipanato da Te, che ne tieni fra le mani il bandolo.
Ti adoro Signore Gesù, Ti adoro racchiuso in una piccola Ostia bianca!
Sto uscendo, mi affaccio al balcone e guardo verso la collina e il sole sembra salire, salire sempre più in alto, già risplende di luce.
Ora, guardo giù e vedo arrivare alla spicciolata i miei amici, scendo perché ci stiamo preparando per recitare le lodi prima di partire per raggiungere i filari di pere con il mezzo tipico della campagna: il trattore.
Ma bisogna saltarci dentro perché è alto da terra ma io sono agile e ci riesco bene e svelta con lo sguardo abbraccio tutti i miei.
Ma che bella famiglia ecclesiale mi haI dato o Signore!
Il trattore corre e tutti noi, protetti dai colorati cappelli di paglia, cantiamo in coro e ben presto riconosco la bella voce di Aurora che, splendente di giovinezza, canta e ride, Margherita è ancora qui con me come a Gambarie.
Il trattore traballa poi e si ferma ed in fretta saltiamo giù.
Ecco già si vedono i lunghi filari di pere (le cosce, le morettine, le kaiser) che aspettano solo di essere raccolte come le uova e messe delicatamente nelle cassette già pronte.
Scegliamo il “nostro” filare di pere e inizia la raccolta dei frutti.
Contemporaneamente ben altra, profonda raccolta avviene per ciascuno di noi.
A turno si dialoga con padre Antonio e tra i raccoglitori di pere e i raccoglitori di grazie si lascia un lungo filare libero.
Gli uccelli in gruppi, volano tra i filari, anche loro vivono la fraternità?                       
Anche per me arriva il momento speciale del colloquio paterno-fraterno con padre Antonio e la gioia mi ricopre, si espande dentro di me in rapidi cerchi di luce…
Ora Tu (tramite la direzione spirituale) mi indichi con chiarezza la via, mi proponi di seguirTi da vicino e per sempre per dedicare tutta la mia vita a Te e poi ai fratelli in un’alternanza armonica.
Ecco la mia chiamata acquista "carnosità" e la posso vivere nell’ambito di una comunità! Risento “la lama di luce di Gambarie" !
Ora sul far del tramonto la campagna di Vizzini si impregna di liturgici canti e Tu Signore, Ti doni a noi nel pane spezzato, miracolo sempre nuovo di fede, pazzia d'Amore di un Dio-Amore.
Eucaristia - Corpo Reale di Cristo. Comuntità - Corpo Reale di Cristo !
La Messa è finita, ci avviamo, in piccoli gruppi verso casa, ma la fraternità continua e sulla bella, lunga tavolata serale, condita di risate, risplende la luna che, insieme alle luccicanti tremule stelle prega e canta con noi: “Non so proprio come far per ringraziare il mio Signor, Lui ci ha dato i cieli da guardar e tanta gioia dentro il cuor e, miracolo ! anche io canto e sento la voce modulata ma dalla mia bocca non esce alcun suono è solo il mio essere che inebriato di gioia Ti loda o mio Gesù, Signore della mia vita!
 


CAMPO DI LAVORO ‘70
(Partenza)

Freme rumoreggiando
il rosso trattore in nostra attesa.
Scendiamo in fretta liberi e ridenti,
e padre Antonio, giovane con noi,
con agil salto dentro vi balza,
a gara lo seguiamo.
Stride il rosso trattore per la lunga via
ma ecco un canto intona
la nostra guida saggia.
"E' mio fratello viene con me"
E la calda voce di Aurora
con i bei capelli al vento,
gli fa eco:"è mia sorella viene con me"
e il coro riecheggia:
"la lunga strada che porta a Te"
E il vento complice,
risponde "a Te, a Te...."
Corre il trattore lungo la sua via,
le mucche placide ruminano nei campi
e il canto sale dalla terra al cielo
nella verdeggiante campagna di Vizzini.
 


CAMPO DI LAVORO ‘70
(Arrivo)

Il rosso trattore sbuffa nel fermarsi.
Scendiamo in frotta liberi e ridenti.
Nei filari occhieggiano le pere.
La raccolta inizia lieta e fervorosa.
Corrono cassette di frutta profumata.
Ora breve sosta ci è data dalla calura estiva.
Alla fontanella andiamo.
Raccolgo l’acqua nel cavo delle mani,.
Alto è il sole ma io mi inondo
di pace e di frescura.
Alberi ricchi ci ristorano
di ombra amica
Cumuli delicati di pietrisco
sembrano aspettarmi complici.
Mi distendo e l'improvvisato letto
offre ristoro al mio giovane corpo.
Fra le falde del cappello intravedo
il mio pezzo di azzurro
lassù, lassù in alto.
Il cielo complice mi sorride
in uno sfolgorio di nubi
spumeggianti.
Uccelli, insieme, volano sicuri
e io con loro !


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  2° Capitolo   
 
 

Disegno di Giuseppe D’Angelo
 
“Dio non turba mai la gioia dei suoi figli
se non per prepararne una più grande”
A.     Manzoni (da “I promessi sposi”)


… Mi trovo nella mia stanzetta e , strano a dirsi, anche se siamo già ai primi di Novembre del 1972, un raggio tiepido di sole si rifrange dall’armadio rilucente fino allo specchio “inondando” di luce tutta la casa e mormoro fra me: Tu Sole vivo per me sei  o Signore, luce e calore diffondi nei cuor…”.
Dall’ altro balcone, in vicina-lontananza, si intravede la montagna superba: l’ETNA che io, solo da poco, ho imparato ad... amare. Ora infatti la sento viva, la sento “mia”, sia quando indossa il suo candido “cappuccio” di…neve, sia quando, fremente di vita propria, sotterranea, indossa il suo tremendo ”cappuccio” di… fuoco: incandescente fiume di LAVA che tutto sommerge lasciando solo nere, aguzze, brucianti rovine di pietra lavica…
Oggi mi guardo e non sono più una “paesana” ragazza, bensì sono una donna “di città”, infatti ho ricci e curati capelli, indosso moderni vestiti e frequento un’altra volta la scuola: Il Magistero. Sto  lottando per riuscire ad inserirmi nel mondo del lavoro, anzi sto per realizzare la seconda chiamata della mia vita: l’ INSEGNAMENTO e, come reale VOCAZIONE, già lo vivo dentro il mio essere. A presto bimbi ancora “sconosciuti”! Da poco, infatti, ho saputo di aver ben superato la prova scritta del mio ultimo concorso magistrale. Mi attende ora il lungo “colloquio orale” che deciderà dell’esito finale! Un pizzico di paura mi assale, ma è solo un attimo… guardo i miei tanti appunti sparsi nei tanti quadernoni colorati e mi rassicuro, sono mesi che leggo, studio, ripeto, sottolineo tutte le mie “sudate carte” per dirla con il Leopardi. E poi c’è l’ammonimento di P. Fabrizio che mi accompagna: “Rosarita lascia tutto, anche la nostra comunità, buttati nello studio: è la tua ultima possibilità, non dare ai professori il tempo di interrogarti, previeni tu le possibili domande, sappi tu giostrare gli esami. Forza ti seguirà la mia preghiera!”.
Sì, certo ora credo nella preghiera, ne percepisco il senso profondo perché lì, a Lentini, ne ho fatto esperienza viva tra i filari di pere, verdi, verdeggianti filari di speranza!
Improvvisamente i miei occhi guardano lontano oltre le pareti, la mia stanza si allarga e i personaggi noti e cari dei miei libri si affollano intorno a me, ma io sono tranquilla, mi sembra normale fare una chiacchierata e ascoltarli… attenta. Ecco i piccolissimi teneri bimbi della scuola svizzera della pedagogista Boschetti Alberti fanno ressa, con i loro freschi grembiulini attorno alla loro insegnante ed io li sento cinguettare in coro!
La visione serena scompare e sento attorno a me la fredda, notturna visione di un lago dove scorre una barca silenziosa e svelta, guardo, c’è Lucia che lascia i suoi monti e malinconicamente mormora il suo stupendo addio: “Addio monti elevati al cielo e impressi nella mia mente, quanto è tristo il passo di chi cresciuto tra voi se ne allontana!”.  Eccomi anch’io malinconica, lo ripeto nella notte nera del maggio 1962: dieci anni fa! Mi guardo spaurita, fresca, illusa studentessa che, stretta fra i miei familiari e i bagagli più necessari, fingendo di sonnecchiare, piango in silenzio… Ora la macchina nera corre come può nella notte e ingoia, a fatica, strade sconnesse, supera e lascia dietro vecchi casolari, piccoli campi seminati con file di grano ondeggianti e il profumo noto e rassicurante della campagna e la tenue frescura della fiumara si allontana sempre più… spariscono cedendo il posto alla brezza marina di Siderno, dove il lungo treno ci aspetta alla volta di Catania, nostalgico desiderio dei miei “esuli” genitori che, dopo anni di forzato esilio, ritornano finalmente nella loro città natale!
Metto la mano sulla mia borsa, certo è qui con me il mio libro preferito: “I promessi sposi”, primo, gradito regalo di mio padre già quando frequentavo la quinta elementare! Lo leggevo fin dai vecchi, traballanti, tarlati, pesanti banchi di legno con incassato il calamaio dell’inchiostro e la vecchia penna con il pennino che io volentieri bagnavo poi, improvvisamente e sbadatamente, spargevo tutto all’intorno fra la disperazione di mia madre che doveva lavare le mie candide camicette con… il latte. Ma ora sono ritornata nella mia stanza fra i noti personaggi.
Adesso appare il castello dell’Innominato, eccolo, ben vestito di seta, circola inquieto nella stanza degli avi e guarda indispettito verso la valle dove una folla variopinta e festante si muove verso una… chiesa! Lo sento mormorare fra i denti: ”Tutti premurosi, tutti allegri per vedere un uomo! Cos’ha quell’uomo per rendere tanta gente allegra! Qualche segno nell’aria, qualche parola? Oh, se le avesse per me le parole che possono consolare! Se…”. Eccolo, eccolo è un uomo in ricerca, lo so, cerca la pace del cuore e mi somiglia tanto, io lo comprendo. Si alza finalmente, si muove, esce dal castello, cammina nel sole e il suo abbraccio con il santo cardinale Federico sigilla la sua conversione. L’ Innominato non ha nome perché in lui ogni uomo possa ritrovarsi, miracolo dell’arte! Ma guarda un po’, nel Vangelo neppure la donna Samaritana ha un nome, eppure incontra Te, Signore, al pozzo di Sicar!! E ora sento che un giorno lontano anche io ci andrò! Vero?! Pensando al pozzo risento come una strana frescura e infatti alla mia destra appare un laghetto e altri vi si vedono in lontananza… sembra un paesaggio nordico, con il cielo sfumato di nebbia, gli alberi secchi e lunghi, e nel laghetto nuotano strani uccelli bianchi. Uno di loro, mi sembra il più giovane, corre verso di me e, soddisfatto, mi spruzza l’acqua addosso! Ma guarda, io so, dalla fiaba di Andersen, che solo poco fa era “un brutto anatroccolo” e razzolava tra le galline e le anatre che lo insultavano perché… beh, non era come loro! Qualcuno aveva messo il suo uovo di “cigno” dentro una vecchia cesta, laggiù nella fattoria, in mezzo alle uova di anatra. Che buffa situazione: era un cigno che si credeva un’anatra!
Eccolo, ora corre veloce verso i magnifici cigni, abbassa la testa e spera di… essere ucciso a beccate: è così goffo! Le anatre possono disprezzarlo, diamine: è brutto assai! Ora si ferma esausto vicino agli uccelli bianchi che corrono tutti verso di lui, ma solo per accoglierlo, per fargli festa e lo riconoscono, infatti, come loro fratello dandogli un’identità! Che miracolo! Che bellezza!
Oggi io ho la mia identità perché non sono più “un solitario, brutto anatroccolo” ma un giovane cigno e anche vivo e felice in questo lago e vi nuoto sicura in concentrici cerchi di “azzurra gioia” e di “verde speranza”…”Acqua siamo noi dall’antica sorgente veniamo, fiumi siamo noi se i ruscelli si mettono insieme, mari siamo noi se i torrenti si danno la mano”.
Ma uno dei miei libri cade per terra e così mi risveglio dalle mie fantasticherie ad occhi aperti.
E’ una calda mattinata estiva di luglio del 1973 ed io, inquieta davanti al portone della scuola Giovanni XXIII, attendo per sostenere il temuto colloquio orale. Entro, finalmente mi chiamano, mi siedo e rovisto nella borsa alla ricerca dei documenti di riconoscimento e per sbaglio tiro fuori il libretto ed il tesserino del Magistero. Mi sento confusa con il professore che mostra invece di gradirlo e lo esamina attento. Ma certo, penso, ho un’ottima media. Mi rilasso finalmente e alla mente affiorano i libri studiati, le critiche positive e negative degli autori proposti e parlo, parlo, parlo… e il presidente soddisfatto mi fa: “Può andare, basta così, ho capito che ha ben studiato,  che ama la scuola, vi entri fiduciosa con la carica del suo entusiasmo, oggi è una dote rara! Auguri!”.
Ho vinto! Macché? Abbiamo vinto insieme, o mio Signore, grazie, grazie Gesù, mio Amore Santo! La scuola statale mi attende, ma che dico? Ci attende! E nella bella, radiosa mattinata del 1° ottobre del 1973 entro in classe: è una seconda elementare della scuola statale Maria Montessori di Catania. Sono i bimbi “sconosciuti” prima, ora già “cari” e li chiamo per nome: Agata, Aldo, Enza, Giovanna, Salvo, Enzo, Patrizia, Mariella, Giusy, Angioletta, Francesca,Paola, Orazio, Gianfranco, Antonio, Luca, Francesco, Anna, Annamaria, Gennaro, Bruno, Consuelo. “Maestra” li sento chiamare e il mio cuore si riempie d’orgoglio… come mi sento viva e vera! Ma quanti figli mi hai donato o mio Signore, vedrai, faremo un bel cammino insieme in questi quattro anni di vita scolastica, in un crescendo di intesa reciproca.
Li guardo ancora a lungo uno per uno, sono cresciuti tanto e oggi, nel giugno del 1977, ormai sono arrivati in quinta classe e già stanno per lasciarmi… ma porteranno dentro tutto il bagaglio culturale del mio insegnamento e poi verranno a trovarmi… via, me l’hanno promesso ed io ci credo! Bello, familiare è il saluto di fine anno, sul tavolo verde spicca un verde pianta: mi terrà compagnia, dicono i piccoli, per tutta l’estate e mi parlerà di loro. L’accetto con vivo piacere e distribuisco a tutti le colorate figurine-ricordo con una frase diversa per ciascuno di loro, li conosco bene ormai e ora li devo lasciare! Anche le mamme fanno ressa intorno a me per… ringraziarmi “dell’amore che ho saputo dare ai loro figli che per ben quattro anni sono stati anche miei”.
Lacrime di gioia inumidiscono i miei occhi; “è vero – mi dico in fretta – Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne una più grande e più certa!”. E la mia gioia è certa perché l’insegnamento per me non è solo un lavoro necessario per vivere, ma è l’incarnazione reale della Tua chiamata, quella di Gambarie del ’68, anche perché stavolta, quale maestra unica, sono l’animatrice della comunità scolastica. Mi riprendo, abbraccio tutti, uno per uno, piccoli e grandi e, sazia di gioia, scendo le scale per tornare a casa. L’estate mi aspetta insieme a tutti gli impegni comunitari che si delineano fitti e continui! E la mia vita ne è ancora travolta.


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3° Capitolo
 
 
 
1 L’incanto
“Come alberi piantati lungo il fiume,
noi aspettiamo la nostra primavera”
 
2 Il disincanto
“Ho perso una battaglia nel campo dell’amore,
non mi mancare adesso che sono tanto giù
o Signore…”
 
 
Sul finire del caldo giugno del 1978, inizio con la scuola il mio primo “distacco”, infatti lascio i miei primi alunni ed i ragazzi (ora sono tali) andranno già in prima media e una strana sensazione mi invade.
Questo  mio primo “distacco” ne preannuncia altri che verranno, sia nella scuola sia nella… vita. Inoltre, mi fa toccare con mano “la partecipazione emotiva” che metto perfino nel mio… lavoro! Eh sì, Signore, lo riconosco: nonostante le bastonate avute fin dal  lontano 1962, la mia è ancora “una fede istintiva - emotiva” che parte dal di dentro, ma si fortifica e si alimenta grazie alla fede dei fratelli! Certo, io devo accettarmi con questi miei limiti, con questa carica di entusiasmo che mi caratterizza e che sembra “esplodere” nei momenti forti del mio cammino e che, a volte, mi procura attorno dei sorrisi di affettuoso compatimento, o in qualcuno un senso di stizza malcelata perché ancora “alla mia età guardo il mondo con gli occhiali rosa!”.
E questo non va!”  sentenzia la cara Rita R. lo riconosco , è vero, esiste in me un dislivello fra la mia età cronologica che avanza inesorabile e la mia età mentale che resta “una fresca fontana di acqua zampillante”.
Sì, ho gioia da donare, ho speranza da regalare, perché per me il tempo dell’incanto, iniziato dopo Gambarie, culminato con i tre campi di lavoro di Lentini, non è ancora finito, pare che continui nel nostro gruppo impegnato in un cammino di fede.
Ancora ho bisogno di respirare l’aria salubre della comunità.
Ma, dapprima non riesco a capire. Solo oggi ne afferro il senso: all’interno del gruppo, guidato da padre Fabrizio,  sorgono pian piano tematiche diverse, esigenze diverse; proprio ora che il gruppo è ricco di varie presenze traballa, non è più un’unica voce, un’unica comunità. Alcuni si guardano attorno e si indirizzano per la strada del matrimonio. Nino s’interroga e si avvia sicuro verso il sacerdozio. I membri del movimento di spiritualità che ci hanno ospitato per anni nella loro chiesa sottolineano il loro carisma Ed ora io che faccio?!
Stanca, sfiduciata, isolata non provo nemmeno a definire la mia chiamata, perché è strana, unica e non rientra in nessuno schema prestabilito fra quelli già esistenti nella Chiesa catanese e così riconosciuti “giuridicamente”.
Il termine “giuridico” mi dà l’amaro sapore della struttura definita, sigillata, stretta, troppo stretta per me “avida” di spazi di libertà e d’amore; e poi non sono adatta a viverci dentro, perché “quando parlo muovo le mani” e perché, esile come tuttora mi  mantengo, non riuscirei a sopportare e gestire con equilibrata calme le emozioni, nemmeno quelle esterne che mi possono piombare addosso inaspettate; pertanto non potrò essere capace di vivere bene il voto dell’obbedienza cieca. Così sentenzia l’alto prelato romano!
Mi fermo, mi rassereno di colpo e guardo speranzosa verso “i laici liberi” e osservo le universitarie di oggi, le belle, intelligenti colte liceali di un ieri lontano che, in neri grembiuli di brave studentesse, la mattina, recitando le lodi, riempivano la nostra chiesa di festa, di canti esaltanti, di giovinezza, di fede e di tanta speranza! In questo momento storico, ormai laureande, hanno cominciato a ricercare insieme una loro identità. Sicuro, lo capisco, io non posso fare parte di questa giovanile ricerca, perché non ho l’età!... Quella cronologica s’intende!
Certo, perché l’altra (quella del cuore) stavolta non conta, anche se il mio cuore è tremendamente giovane e voglioso di donarsi in uno spazio di Chiesa, continuando l’impegno assunto con Te, Signore mio, nella messa all’aperto, lì a Lentini (nel ’70-’73), appena quattro anni fa.    
Un giorno piovoso lasciamo la nostra chiesa (giuridicamente appartenente all’Istituto secolare a cui eravamo legati spiritualmente come gruppo) e ci facciamo ospitare dalle piccole suore dell’Assunzione ed ora, insieme, ricerchiamo il nuovo nome e la nuova identità ecclesiale. Stavolta credo che ci sia un posto anche per me e il canto della messa rafforza questa mia speranza… “Io con voi mi trovo bene, perché siete sinceri come me, io per voi darei la vita, perché amate la vita come me”.
Ecco, finalmente la comunità si è ricostituita, mancano solo i membri dell’Istituto secolare, ma noi del gruppo siamo tutti presenti e Lina (già appartenente all’istituto come laica consacrata di vita esterna) ha preferito seguire noi del “gruppo” perché ha avuto questa ispirazione interiore.
Che bello…”-  mi dico - “… ha la stessa mia età e ha già fatto una scelta chiara e definitiva, saprà capirmi e potrà starmi tanto vicina!così penso e spero… “Che bello!”.
Oggi alla fine di ottobre del 1978 mi trovo a vivere una nuova esperienza: sto facendo un campo di lavoro, non più tra le pere, ma tra vecchi e polverosi libri,  fra tappeti e candele, tovaglie e paramenti sacri, nella piccola e disadorna chiesetta di san Giovanni dove ora ci troviamo.
Tutto dovrà essere ben sistemato, almeno per il nostro primo Natale, ormai prossimo. Ferve il lavoro e padre Fabrizio è ancora il sostegno morale di tutti, come sempre.
Ancora i nostri canti mi comunicano gioia e le belle riunioni del martedì, con lo studio dei documenti conciliari, riempiono la mia vita. Che bello vivere in comunità, come somigliamo alle comunità delle origini dei primi cristiani!
E ben presto arriva il nuovo anno, ed io ho già iniziato a fare conoscenza con i miei nuovi alunni: sono deliziosi, sono già presenti non solo nel mio lavoro, ma anche nella mia vita, che ne è “riempita”. Le mie due chiamate, la comunità e la scuola, si armonizzano fra loro.
Ora la nostra sede è più accogliente, perché il pavimento è stato rifatto; la piccola biblioteca traboccante di vecchi libri non c’è più perché oggi, dicembre del ’79, fa bella mostra di sé, il nuovo armadio. Io mi affretto a riempirlo, apro gli scatoloni, appoggio alcuni libri a terra in equilibrio instabile ed ecco un ragazzo sconosciuto mi guarda, si avvicina e, avvolto in un sorriso radioso, si presenta: Sono Andrea!”  – dice. Sono  Rosarita – rispondo distratta.
 Piera interviene premurosa: Sai, è un futuro sacerdote”, ma io attenta al mio lavoro sorrido appena.
Ancora non so che Andrea avrà un ruolo primario nel mio lungo e a volte travagliato cammino di fede, perché sarà la mia valida guida spirituale. Oggi è solo un giovane ventenne di bella presenza e di belle speranze… pare!
Io mi affretto a riordinare i libri e vi metto in bella vista il nostro primo libro, lo guardo con commozione e d’incanto mi ritrovo a Lentini fra le pere.
Ora il sole sta per tramontare, ma il grande albero di ulivo offre frescura ad un gruppo di ragazzi e  ragazze che insieme vivono la Messa. Una ragazza, con la camicetta fiorata e un pantalone di velluto beige, con  l’aria assorta attrae subito la mia attenzione. Sembra pregare, anzi la sento che innamorata di Te, Signore della vita, Ti parla e Ti loda: ”Tu sei il mio Pastore, su pascoli erbosi mi fai riposare, ad acque tranquille mi fai dissetare. Certo, la riconosco, è la Rosarita di allora, ma è così felice che non oso chiamarla!...
Ma chi osa chiamarla? Chi mi chiama con voce amica? E’ la bionda Piera che premurosa mi dice: “Ancora tra i libri?” e ammirata per la mia idea continua:Ma sai che il nostro libro ci sta proprio bene? Ci fa ripensare alle nostre origini, quando come i primi cristiani abbiamo vissuto in una comunità d’amore”.
Ma il mio fermarmi a san Giovanni dura poco, troppo poco, perché cammin facendo mi si parano davanti i dubbi esistenziali che mi porteranno via, in una nuova sofferta ricerca di una nuova identità e, con essa, di una comunità dove viverla.
Ben presto imparerò a coniugare i verbi “ricominciare”, “azzerare”, “riprovare” “soffrire”. Non posso più restare in questa piccola disadorna chiesa, che fin dall’inizio mi è stata anonima e subito mi ha dato l’amaro senso della “provvisorietà”.
Analizzo con lucidità questa mia impressione: è vero, non posso più restarvi, perché… nel seno della comunità (spazio di chiesa, respiro d’amore fraterno) è nato “un figlio”, ma “un figlio” non mio, un istituto nuovo di zecca con un impegno di vita comune. Ne è responsabile Lina, vi sono entrate tutte le liceali di ieri, che hanno fatto il loro exploit durante i campi di lavoro, svolgendo con competenza le tematiche di studio; ne fanno parte, nel pieno “fulgore” della loro giovinezza e della loro fede.
Io non ho il carisma (si vede chiaro), non ho l’età richiesta, né l’assoluta disponibilità per una vita comune e non parliamo poi dell’ubbidienza!
Vado via con dentro una voce che canta in sordina: “Ho perso una battaglia nel campo del successo, non mi mancare adesso che sono tanto giù! Ho perso una battaglia nel campo dell’onore, non mi mancare adesso che sono tanto giù! Ho perso una battaglia nel campo dell’amore, non mi mancare adesso che sono tanto giù, o Signor!”.
La struttura portante ora è il nuovo istituto che vive momenti propri di verifica e di preghiera. Mi sento tagliata fuori… non comprendo e vado via!
E il dubbio si insinua “sottile” e “malefico” dentro di me: ho sbagliato strada? Ho sbagliato vocazione?
Forse dovevo accettare la proposta matrimoniale offertami dalla mia “parentela catanese”? Eh  via, era pure un ottimo partito e con un sostanzioso conto in banca!
Ma che dico? Non potevo, non posso, ero già innamorata di Te, o mio Signore!
Non avrei avuto la capacità di pensare e di vivere all’ombra del marito e dei figli: troppo poco per me, troppo normale, troppo umano. Non avevo la stoffa, dovevo liberamente abbracciare il mondo, era troppa la “carica esplosiva”  che mi viveva dentro! Dovevo  esprimerla nell’ambito di una più vasta e varia famiglia.
 Sei stato UNICO Signore per me e lo sei ancora nonostante le sofferenze accumulate negli anni!
Ma mi sto disperdendo, vieni ora, o Spirito di Dio, a farmi rivivere nella pace dell’oggi il tormento di allora; vieni a riportarmi a quei momenti, ma in pace con me stessa e con tutti gli altri.
Sì, certo, mi sento mancare il terreno sotto i piedi, viene meno la voglia di lottare, la lucidità di capire, la pazienza di accettare che la mia chiamata è stata solo una bella utopia, perché la comunità, che si alimenta al sole del carisma, ha ceduto il posto all’istituto che vive all’ombra delle leggi e il suo scopo primario non è dimostrare e vivere l’amore fraterno, bensì è solo lavorare per un progetto specifico.
La comunità è solo “un momento iniziale di un cammino di fede” dice padre Fabrizio, “è solo un’esigenza adolescenziale, è uno stadio emotivo” dice Lina.
Ma che, non vuole crescere, non vuole maturare la Rosarita di oggi?
Qualcuno lo pensa, qualcun altro, arrabbiato, lo dice…, ma io non ci riesco a crescere e nemmeno provo a tagliare le mie radici, a stroncare le mie attese, a non testimoniare la comunità nel ventesimo secolo, perché io credo ancora alla forza sconvolgente dell’ AGAPE, che convertì i pagani di allora.
Ecco , o Gesù… sto già bene, il tormento interiore è diminuito, perché sento che non mi lascerai sola in questi sofferti e sterili dubbi, ma mi farai trovare una strada nuova, un cammino appassionato, sconosciuto ancora a me (ma non a Te). Ci sarà?
Ecco, o Signore, posso dirti a voce alta una cosa? “Io non ho mai smesso di… amarti, e Tu lo sai vero? Non ho mai tradito la mia-tua chiamata, quella di Gambarie e di Lentini !
Oggi, giugno dell’  ‘80 (11 anni dopo Gambarie), mi impegno di nuovo con Te, o Signore, per coniugare insieme il verbo “ricominciare”.
Esco nel sole e suono al portone delle Serve della Divina Provvidenza, perché devo ritirare un certificato di servizio scolastico. Infatti, nel primissimo periodo del mio arrivo a Catania ho insegnato dalle suore.
Ricordo ancora la simpatia istintiva che mi ispirava madre Matilde: una suora speciale, libera, allegra, sensibile, aperta alle problematiche sociali e politiche. Sì, è stata nella mia vita l’unica suora che ho apprezzato e che ho sentito “amica” nonostante l’abito. Confesso che per le suore non ho mai avuto simpatia, sia per quelle conosciute a Napoli, da bambina, sia per quelle conosciute in Calabria, da ragazza, che per quelle conosciute da donna a Catania, perché le vedo troppo lontane dal mio mondo interiore, libero, euforico, frizzante, innamorato della vita, allergico a tutto ciò che sa di imposizione esteriore.
Chiedo al portiere di poter parlare con madre Matilde, mi siedo nel parlatorio e aspetto paziente.
Eccola, arriva, mi cerca con lo sguardo, mi vede, si avvicina, mi viene incontro e mi abbraccia forte. Come è libera dentro! Nel suo essere suora vive ancora l’amicizia ed esprime l’affetto. Lo può fare!? Mi pare che il “distacco” che impronta le loro regole interne è alquanto “distaccato” dalla sua persona… che bello! Ne avevo proprio bisogno!
Si ferma, mi scruta attenta e interrogativa, mi chiede: ”Come stai?... Stai male? Cosa ti è successo? Mi sembri un burattino a cui hanno tagliato i fili…Ma dove hai messo il tuo tipico entusiasmo?... Che hai fatto?... Hai rotto gli occhiali rosa con cui affrontavi il mondo?” “Ma guardami dico stupitail mio tormento interiore traspare anche all’esterno!” Svelta e sollecita abbozzo un sorriso e attribuisco la mia stanchezza agli impegni, allo studio. Ma lei non ci crede affatto… e continua: “alla fine di giugno, il nostro autista, il signor Agosta, ha organizzato un viaggio per Assisi con il gruppo delle nostre insegnanti. Ci sono ancora dei posti liberi… vedi di andarci pure tu, prenotati qui da noi… vedrai, sono certa che tornerai “guarita”.
Svelta mi abbraccia e sorridendo va via. Io, meravigliata e ristorata, entro nella raccolta cappella profumata di fiori freschi e… mi ritrovo sola con Te, o mio Signore: musica silenziosa mi circonda, silenzio sonoro mi rasserena e mi inebria.
Sono ancora una volta sul pullman nuovo fiammante, pieno di volti sconosciuti… Che meraviglia! Margherita è ancora una volta con me con sua sorella Rosalia. Stiamo partendo per Assisi, città di fede e di spiritualità profonda.
Toccherò la terra di Francesco: “Laudato sii, o mi’ Signore per frate vento”- e sul traghetto è veramente forte – “.. per frate  sole” – e sul traghetto sfolgora, mentre mi avvicino ancora una volta alla costa calabra “… bella terra, amate sponde, pur vi torno a riveder…“.
Ma oggi ho dentro solo “un’inquieta stanchezza”. Mi darai pace, o Signore, come hai fatto con Agostino di Tagaste?  “Pace che il mondo irride, ma che rapir non può” (da “Inni sacri” di A. Manzoni).
Te lo chiedo, o Signore!    
                                                   Rosarita di Gesù
                                                                             Gesù di Rosarita



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4° Capitolo
 
 
“Il mondo ha bisogno di testimoni, non di maestri”
Paolo VI
Disegno realizzato da Giuseppe D'Angelo
 

… e sono, ancora una volta,  sul pullman nei primi giorni di Luglio del 1980 e viaggio verso Assisi alla ricerca della mia “identità”, quella nuova, perché la prima è durata appena dieci anni, quanto è durata la mia splendida comunità catanese.
Comunità, parola  “innervata” dentro il mio essere, realtà meravigliosa, prima intravista, poi  “assaporata” a Catania, ma ora svanita nel nulla, quale spuma che si perde nel mare sconfinato della vita.
Realtà che resta sempre iniziale e mai definita e quando sembra chiara e sicura si trasforma, diventa  “struttura”  con regole precise, con confini definiti da paletti di proprietà: Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori e la comunità sparisce!! Ma io continuo a chiedermi, nell’oggi storico, in questo spazio e in questo tempo in cui io vivo, perché non è più possibile realizzare lo spirito fraterno delle prime comunità cristiane? Perché la metodologia diventa quasi un fine e non si pensa che la testimonianza di uno sparuto gruppo che vive nell’amore fraterno è l’unico fine della credibilità della nostra fede?
I pagani di ieri del mondo romano potevano dire per i cristiani di allora: Guardate come si amano!”. I moderni pagani d’oggi: gli atei, gli agnostici, gli indaffarati, gli indifferenti, gli oppressi che cosa possono dire di noi cristiani  “Guardate come scrivono bene, guardate come parlano bene, guardate la sala dei loro “convegni” è zeppa di … competenti!”.
Tutti questi  perché  mi “pulsano” dentro, ma no, è solo “l’assordante” musica che l’autista ci propina per tenere su il morale della “comitiva” in cui mi trovo.
Tutto ciò non basta, perché l’altro malefico dubbio (alimentato dalla presenza di alcune famiglie) mi riaffiora insidioso: Ma ho sbagliato chiamata? Dovevo seguire la  comune strada del matrimonio se volevo vivere l’amore?”
Mi disturba ora questo pensiero, perché ogni volta che sono in crisi diventa  “certezza”. Mi alzo e mi siedo da sola all’ultimo posto dell’autobus, volgo un rapido sguardo a Margherita, che è seduta tranquilla vicino alla sorella Rosalia.
Forse la monotonia della strada suscita in me  “monotoni”  pensieri?
Improvvisamente il panorama cambia.
Ora appoggio la fronte al vetro del finestrino chiuso e provo come una piacevole  “frescura”, allontano la tendina e all’improvviso ti vedo nel tuo cielo e nel tuo lago Cormaro, così leggo nel cartello. Fisso lo sguardo sulle spumose nuvole bianche che danzano nel cielo e mi sento  “libera e leggera”, quasi mi distacco e mi sembra di  “danzare” con Te nel tuo cielo fra le bianche nuvole e posso lodarti e benedirti sempre, o Trinità beata, prima, unica, eterna comunità amata e amante!  Grazie perché riesco ancora (nonostante delusioni cocenti) a riposarmi in Te o Trinità!
Ecco ora il grande-piccolo rilucente e vibrante lago abbracciato dalla terra feconda di verdeggianti, stupende colline. Il lago luccica con i raggi del sole che, brillando, formano delle lunghe strisce di luce: una di esse sale e, formando una rilucente  “lama di luce”  arriva nel mio stanco, pesante cuore di pietra e improvvisamente lo rende di carne, capace di nuove speranze.
Ecco, Ti sento  chiaramente ora:Se hai fede quanto un granellino di senape dirai al monte - Spostati! - E il monte si sposterà” ma io, Gesù, non ho ancora tale fede, ma Tu sì.
E già io vedo il risultato, perché tu, con la forza del Tuo Spirito, hai spostato, no, hai tolto il macigno che mi opprimeva. Grazie, ora ti sussurro, perché nel tremendo travaglio interiore di questo mio momento esistenziale, in cui mi sento mancare la terra sotto i piedi, Tu ti fai risentire  “dentro”  e mi rassereni attraverso le bellezze del creato:Laudato sii mi’ Signore per sora acqua la quale è umile, preziosa et casta”.
Umile: ecco dammi ora la santa umiltà, quella di accettarmi con i miei limiti umani, con le paure inconsce che ancora riemergono dall’abisso istintivo del mio Ego e dammi la pazienza di amare prima di tutto me stessa, gli altri dopo…
…E l’autobus ora corre, superando ponti e autostrade, attraversando cittadine e corre verso Assisi: è lontana ancora, dicono sul pullman. Ma io ho fretta, molta fretta e voglio arrivarci da sola, senza aspettare “la comitiva” in cui mi trovo.
Escogito un sistema speciale, sono bravissima nell’isolarmi in mezzo alla folla, riesco sempre a crearmi un mio “spazio”. Ma come posso fare? Per prima cosa abbasso il vetro del mio finestrino, ci riesco bene e respiro aria pura, non più “condizionata” e contemplo in lontananza il lago che già sparisce dalla mia vista e, in alto, vedo un volo d’uccelli e vicino a loro una spumeggiante nube che sembra proprio un cavallo alato, ma… è Pegaso? Si è trasformato in una nuvola?
Ora sembra invitarmi a salire, io non mi faccio mica pregare e ardita scavalco il bordo del finestrino, prendo le distanze e, con uno stupendo salto in lungo, lo raggiungo e lo cavalco, afferro le redini che non ci sono e ordino:Hop, hop, presto si va ad Assisi! e quasi subito intravedo la città.
Ringrazio ed accarezzo il mio cavallo bianco, scendo rapida giù a terra. Non ho più paura, infatti, ho acquistato movimenti sciolti e armonici, io che di solito sono così “imbranata”! Volgo  lo sguardo in giro e la città mi appare in tutto il suo “splendore”. Conserva le mura antiche e in lontananza s’intravede un “turrito” castello, ma le mura sono alte e massicce, e che! Dopo sì lunga attesa non posso entrare da sola nella città?
Osservo in giro, cammino un poco e vedo due sentinelle, anzi due giganti che, immobili e silenziosi montano la guardia all’enorme porta borchiata di ferro.
Mi preoccupo. Ma come vi posso entrare senza essere vista e senza essere “infilzata” dalle loro alabarde dalla punta acuminata??!
Mi chino, mi nascondo dietro l’albero immenso, mi faccio coraggio e li guardo ancora: hanno lo sguardo assente come perduto lontano, non si accorgono di me, ma certo io sono piccola piccola, loro sono i “custodi” della storia!
Ardita, con entrambi le mani, spingo la “sacra” porta che, facendo uno stridio acuto (come una brusca fermata dell’autobus), cigola e si apre. Curiosa entro nella cittadina a me già cara. Come sono tranquille le stradine! Ecco mi sembra di trovarmi nel mio paesello: a Canolo ci sono, infatti, tante tante viuzze  con lunghe scalinate.
Ma c’è vita serena in questa tua città santa! Dai balconi ridono colorati gerani e tutto all’intorno ferve il lavoro. Gli artigiani sono all’opra, le laboriose donne d’Assisi impastano il pane senza sale e poi dai forni di pietra il buon odore si sparge per tutto il paese e avida ne respiro “la fragranza familiare”.
Che cosa è mai questo suono argentino? Ma certo sono dei bimbi che giocano o ridono! Ma quella è Giusi! Che fa qui? Che fanno qui i miei alunni? Ma chi li ha portati qui? – mi chiedo – dove sono le loro mamme? Mi preoccupo un poco, li chiamo per nome: Giusi, Patrizia, Ale, Piero, Enzo, Salvo, Emanuela, Paola, Cettina, Gabriella, Luca, Santo!”, ma non mi sentono pare, non mi rispondono, mi avvicino ancora, ma neanche mi vedono, io invece li vedo, li guardo stupita e noto che Patrizia, come sempre fa l’animatrice del gruppo. Ora serena ordina ai compagnetti di sedersi in semicerchio e poi, imitando me, dice: Cari bambini ascoltate un momento, ho trovato una poesia significativa, adatta al nostro percorso educativo.  Ripetiamola la prima volta insieme per acquisire la giusta “tonalità” e poi la studierete a memoria per “farla vostra”. Domani la commenteremo insieme liberamente e la illustrerete con i vostri disegni. Ora in silenzio ascoltate:
 
“CERCO UNA SCUOLA”
Cerco una scuola per neri e per bianchi,
dove si possa uscire dai banchi,
si trovi il tempo per raccontare
e prenda dieci chi vuole aiutare;
dove i maestri,
compresi i supplenti,
sian più spesso felici e contenti
così, fra la storia e la geografia,
ci sarà posto per l’allegria!
 
Non ricordo più l’autore: Marini o Noschini?
Entusiasta per la “dizione” perfetta della mia scolaresca batto le mani, ma nessuno mi sente, nessuno si gira dalla mia parte. Ma per caso sono diventata “invisibile”?!!
Ma che miracolo! La poesia declamata da Patrizia acquista un tono speciale e tutti i bambini d’Assisi l’hanno udita e dalle tante viuzze scendono a gruppi e formano un enorme cerchio. Che splendore!
Ora osservo i più piccoletti, paffutelli e riccioloni, con occhini rilucenti, sembrano angeli senza ali, angeli usciti dal pennello “divino” di Raffaello. Tutti  convergono in quest’enorme prato verdeggiante e pian piano il loro “gioire” si smorza, resta solo un senso di pace infinita, di pace… e un divino silenzio interrotto dal canto degli uccelli. Ma che strane colombe bianche ora volteggiano intorno a me! Sono indifferenti alla mia presenza e ho il tempo di osservarle, ma sì, sono “le tortorelle” di Francesco. Ma lui dove si trova? Vorrei proprio incontrarlo anche per pochi momenti!
Mi siedo sul verde prato della speranza, accarezzo piano le piccole pianticelle che hanno le rosse bacche della gioia e… alzando gli occhi lo vedo. Ma è lui?
Stento a riconoscerlo: indossa un liso abito che sembra un sacco di iuta, è scalzo. Lo guardo estatica. Ma è più basso di me! E’ solo una “spanna d’uomo”, ma ha saputo “abbracciare il… mondo” e c’è riuscito, pare, nonostante la sua piccola statura fisica!
M’inginocchio ed aspetto ansiosa, ma sì mi viene incontro avvolto in un luminoso sorriso: ”Oh, sei venuta Rosarita? Finalmente! Ma perché ti tormenti stupidamente? Ancora non hai capito che la tua chiamata è un po’ simile alla mia? Anche io non amo “le strutture”, ma amo la “Chiesa”, anche io non credo nelle regole, ma credo nell’Amore. Alleluia! Su mettiti di nuovo all’opera, Cristo ha ancora bisogno della tua “ingenua fede”. Perdona, ama, accogli, costruiscila tu “la comunità”, falla nascere dal tuo cuore dilatato nell’Amore-dono, nell’Amore-servizio. Ascolta, perché non provi a fare scuola in modo “nuovo”? Perché non immetti questo spirito fra i piccoli? Anche loro hanno bisogno d’amore e d’accoglienza, puoi farlo per tanti anni ancora, fin quando sarai maestra unica!”
Che strano, non ci avevo pensato!
Francesco sorride, mi prende per mano e mi esorta: ”Svelta, ritorna sull’autobus, state per arrivare nella mia città. Auguri!”
Mi giro svelta: ma che voci concitate attorno a me, tutti si affrettano a prendere i bagagli più piccoli, sistemati sulle retine laterali dell’autobus. Mi alzo lesta e svogliata, cerco con lo sguardo Francesco, ma non c’è, non c’è più… qui c’è solo una “comitiva frettolosa”. Faccio passare tutti e alla fine Margherita mi chiama: Rosarita, che fai? Dormi? Non dimenticare il tuo borsone. Ti aspettiamo.”
Ah, sì! Lo trovo, è rimasto l’ultimo di tutti, è alla ricerca del padrone, vuole essere preso e lo faccio paziente.
Scendiamo tutti, l’ultima sono io. Posiamo i bagagli nell’atrio dell’albergo e subito visitiamo la prima chiesa che si trova proprio di fronte al nostro hotel: S. Maria degli Angeli.
Nella luce tenue del  tramonto salgo i pianeggianti gradini di pietra ornata con fili di marmo bianco che, in una visione d’insieme, forma come un “ricamo”, no come un “disegno” che converge verso la facciata rinascimentale classicheggiante della chiesa, opera dell’ Alessi – precisa la guida.
Entro e… che meraviglia d’arte, di luce, di silenzio, di musica! Ma chi canta? Forse sono gli Angeli che fanno corona Maria? Ma non li vedo! Nella navata centrale spicca una piccola, rustica, “immensa” cappella che può contenere “il mondo”. Questo io lo comprendo subito: è la Porziuncola, rifugio prima dei Benedettini poi donata a Francesco, che ne fece il punto focale della sua primitiva fraternità.
Anche senza ascoltare la guida, capisco tutto, anche d’arte, ho la certezza di esservi già stata e neanche provo una grossa meraviglia quando, nella sacrestia, le bianche “tortorelle”, nidificano nel cesto, fra le braccia di Francesco che ora è solo una statua leggera, ma lo riconosco subito: l’ho visto poco fa!
Una si stacca dal nido, mi vola attorno e mi guarda con i suoi occhietti a spillo e… si dirige verso l’alto e vuole suggerirmi l’idea dell’altezza.
Sì, ho capito, non posso stare giù in pianura a “ruminare” il mio fallimento, perché non ho più “la comunità, ma volerò ancora e la troverò certo, anche se dovrò attraversare “deserti di città” e “oceani d’indifferenza”, arriverò, ma dove?
Margherita, premurosa, mi cerca tra la folla, mi riporta alla realtà e insieme, in gruppo, torniamo all’albergo.
Certo, è accogliente la stanzetta n. 21 a tre letti (io, Margherita  e Rosalia), proprio accogliente e inoltre dal nostro quinto piano s’intravede la cupola della chiesa, anzi la statua di bronzo dorato della Madonna che, con le braccia aperte, sembra dirmi: Dormi su, dormi, domani mattina ti aspetto qui”. “Certo – rispondo – verrò. Verrò e da sola”.
Un raggio di sole mattutino inonda il mio letto di luce, ma è presto, non sono neanche le sei del mattino!
Margherita e Rosalia, stanche e placide dormono ancora, ma io no! Non posso dormire, perché il “vecchio tormento” mi assale, piano mi alzo, mi vesto e poi, guardinga, chiudo la porta della nostra stanza, scendo le scale, saluto il portiere e mi trovo all’aperto: davanti ai miei occhi c’è la Basilica.
Salgo i cento, i mille gradini che mi portano dentro. Spingo la porta, la Basilica è aperta, il sole inonda di luce le tre navate, io mi affretto verso la “Porziuncola”, piccolo pezzo di terra significa, ma sacra, sacra d’amore! Non ci arrivo, perché un piccolo altare laterale, ornato di pitture, attrae la mia attenzione e, infatti, al centro c’è un moderno tavolinetto, due sedie e… uno striscione con una curiosa scritta: “UN SACERDOTE E’ QUI PER TE”.
Per me? Perché?”- mormoro, anzi grido a voce alta nel sovrumano silenzio reso sacro dall’enorme via vai di gente – ma che dico? – di fratelli di fede, di speranza, di dolore. Per me? ripeto. “Sì, certo figliola, io sono qui per te! Stai serena, Francesco ti dà la pace”.
Ma chi è questo moderno “angelo”? Non ha le ali e indossa un liso abito scuro, marrone mi pare, le lacrime che offuscano i miei occhi non mi permettono di distinguere bene, ma lo guardo dubbiosa e mi viene da… ridere.
Figliola – ripete piano, ma… è lui un mio “figliolo”! Non ha più venti anni; ha lucenti occhi verde-azzurri, ricci capelli castani, bei lineamenti nell’ovale del viso contornato di un bel pizzetto tipo “risorgimento”. Mi calmo e vedo che indossa un abito rilucente, quello della “gioia e della speranza”, mi guardo dentro: il mio è veramente “sfilacciato e sdrucito”, è impregnato di polvere malefica del dubbio, della “puzza” del risentimento verso me stessa e verso gli altri. Ecco devo “fabbricarmi l’abito nuziale per andare al banchetto del Regno”.
Impongo decisa alla mia stanca mano di alzarsi nel segno della Croce e comincio.Padre, subito mi fermo interdetta, da qualche tempo, da troppo tempo non pronuncio più questa parola per un tuo “ministro” per il sacramento della confessione, ma ora la ripeto umile e commossa ad un “sacerdote” che, in verità, mi può essere figlio!
Miracolo della fede, miracolo della tua chiesa, miracolo di Francesco!
Ma come sono calde le lacrime, perle lucenti che rotolano preziose sul piccolo tavolino! Svelta le raccolgo  e le deposito sul tuo cuore di Padre e di Fratello te li restituisco come tuo dono: ora non mi servono più.
Figliola, prega per tutti quelli che soffrono e anche per quelli che fanno soffrire”.
Cosa fa, ripete le parole dell’Ermengarda di Manzoni? Mi scuoto, sorrido fra me ed il fraticello certo non sa che mi ha riaperto le porte della speranza e in semplicità francescana mi esorta:Ritorna serena a Catania, troverai la tua pace e la tua strada, cerca i francescani, io pregherò per te, Rosarita”.
Io mi meraviglio, come sa il mio nome? Ma sì, chissà quante cose ho detto parlando in libertà! Che bello: mi sento leggera, libera dentro, sorrido, allungo la mia mano per stringere la sua, ma improvvisamente, in un sorriso radioso, che stranamente mi ricorda un altro sorriso radioso di un giovane futuro prete catanese, mi abbraccia.
Che libertà! – penso – Ma come il distacco è distaccato dalla sua persona, come lo è per suor Matilde!
Ora mi avvio rinata verso la “Porziuncola”. Come ispira pace! Com’è bella! Com’è “francescana”! Ecco anche io sono di nuovo bella: creatura libera, creatura rifatta libera dal tuo Amore, o Signore!
Ringrazio, contemplo, sorrido da sola, esco, scendo le lunghissime scale pianeggianti, anzi non scendo, volo e il vento mi scompiglia i capelli, il mio vestito ora è tutto rilucente, intessuto d’oro fino…
Tutta  bella sei sorella, mia sposa” Ma che cosa dici, o Signore, al mio cuore? Pensavo di aver incontrato un angelo e alla fine  guardavo se avesse (se aveva?) le ali, ma lui non poteva averle perché li aveva date a me! Che bel regalo! Posso ancora volare e al volo acchiappo gli occhiali rosa che avevo smarrito, li infilo svelta e torno all’albergo, appena in tempo, perché l’auto sta per partire dopo la colazione.
Margherita m’intravede, mi viene incontro e chiede: Ma dove sei stata tutto questo tempo? Mi dispiace, ma stamattina hai perduto la colazione. Ora sali subito sull’auto, stiamo per andare nei luoghi francescani.”.
“Sì – penso perplessa – ma io ho gustato latte e miele e come Elia posso riprendere il cammino”.  Ma stavolta non dico niente. Godo: tutto il mio essere è sereno, godo per essere stata rappacificata dal perdono d’Assisi, perdono ricevuto nell’umiltà, perdono offerto nella gioia ritrovata. Ora sul mio fresco viso di donna ritorna il roseo naturale colorito, gli occhi hanno lasciato il buio e brillano di nuova luce e sembrano anche più grossi e più belli (con le mie rilucenti pagliuzze castane). Ma guarda, aveva ragione suor Matilde, ad Assisi ho ricevuto “la guarigione interiore”, la più bella per poter vivere!
Guardo dal finestrino i merletti dei tetti delle case, la stupenda, serena campagna umbra.
Scendiamo tutti, siamo arrivati; una salita ci attende (stavolta ho la forza di farla) e, in fondo, c’è il primo luogo francescano: l’Eremo della Carceri.
Tra i fitti alberi gorgheggiano gli uccelli e in lontananza l’usignolo tiene il ruolo di “solista”.
E anche io canto “Eh?! Guarda sono intonata!”. Una voce lieve, modulata che non è  la mia (stridula e stonata) esce ora dal mio cuore e si rifrange all’intorno in rapidi cerchi d’azzurra gioia. La visione del lago mi torna alla mente e… strano, il brutto anatroccolo, ora diventato cigno mi saluta dispettoso, mi spruzza l’acqua, mi giro, non c’è più, c’è solo una bimba che cerca di bere nella bella fonte ed io sono in fila dopo di lei. Rosalia dietro mi fa cenno di spicciarmi, bagno appena le labbra e rifaccio il giro, mi metto all’ombra vicino al resto del gruppo. Margherita mi osserva, le sembro strana: Hai fame?Il sole forte ti dà fastidio? Stai male?”. “No, sto bene, troppo bene!”. Rassegnata scuote la testa, certo questo viaggio mi ha proprio cambiata, anzi mi ha peggiorata, sono “più distratta di prima”. Mah! Mah! Chissà perché!! Risaliamo sul pullman per andare a S. Damiano.
Eccolo S. Damiano, si presenta ai miei occhi con una semplicissima facciata preceduta da un basso porticato; da un lato, in alto, si vede uno scarno rosone. L’interno, immerso in una certa penombra, è un ambiente formato da un’unica navata, terminante in un coro piuttosto profondo. Più che ad una chiesa penso ad una grotta, ma ad una grotta di luce immersa nella campagna umbra. Si respira “pace” e riesco a rubarne un pezzo per me sola, nessuno ci fa caso; ora sento un lieve cantare strano, ne riconosco la voce, ma è la sua: è quella di Francesco.
Svelta mi avvicino alla finestrella aperta che dà sul chiostro e lo vedo: è lui! Soavemente ripete: Laudato sii mi’ Signore per madre terra, ci alimenta e ci sostiene con coloriti frutti, fiori et erba”. Ho appena il tempo di incrociare il suo sorridente sguardo e subito sparisce dalla mia vista, ma non dal mio cuore. Da oggi in poi avrà uno spazio assicurato dentro il mio essere!
Che santo simpatico che sei per me, piccolo, sereno, innamorato Francesco, fratello in Cristo, fratello mio!
Di nuovo sul pullman, io mi trovo con dentro “sensazioni che non so descrivere, ma belle, belle, belle. Che pensieri soavi, che speranze, o Rosarita mia!” mi ripeto estatica.
Quale sarà la prossima tappa di questo viaggio? Perugia – dicono.
L’auto corre, ma eccola Perugia, antica, bellissima. Ci fermiamo alla fonte Gaia, celebre opera del Pisano. Dopo la visita alla Cattedrale, la guida annuncia: Avete due ore libere. L’autobus vi aspetta qui, accanto alla chiesa”.  Alcuni dicono: “Andiamo alla Standa, è qui vicino”.
Inorridisco e mi avvicino al preside S. e chiedo: “Lei dove va?”. “Io e la mia famiglia andiamo a vedere la Pinacoteca del Perugino”. Timidamente propongo: “Posso venire con voi?”. “Con piacere” risponde cortese.
Entro nella Pinacoteca. I quadri sono pochi, ma splendidi. Quasi subito il mio sguardo attento si posa sul “Noli me tangere”. “Non mi toccare”- traduco in fretta.
Gesù circondato di luce, con il braccio teso e la mano aperta, sembra come voler allontanare la Maddalena, che tende ansiosa verso di Lui lo “sguardo innamorato”.
Questa scena parla al mio cuore, perché mi somiglia tanto. Questa donna vuole fermare un attimo per sé il Maestro. Non ha ancora imparato che Lui va sempre avanti e precede nel cammino? Io l’ho imparato a mie spese.
Porto nel cuore questa “visione d’arte” e all’uscita incontriamo altri compagni di viaggio, alla fine il gruppo si ricompone e torniamo tutti all’albergo. E’ l’ultimo giorno di permanenza ad Assisi e la serata sarà “libera”.
Ma io so dove andare la sera: a salutare la mia “Porziuncola”.
Conservo negli occhi la visione del quadro. Gesù sembra dirmi: Vai, ritorna a Catania, porta con te la pace che ti ho regalato ad Assisi”.
Ora abbiamo appena finito di cenare, ho gustato il pane senza sale, ma… strano, è molto gustoso e saporito. Qualcuno si attarda nella bella terrazza per “godere il fresco”, io, non vista, giro l’angolo e ritorno da sola alla mia “Porziuncola”.
Entro, la sensazione di pace si rinnova, arrivo dentro la cappelletta, trovo un inginocchiatoio libero, mi sprofondo in preghiera: Ho per parlarti piccole parole, hai per sedurmi abissi di silenzi”. Ti sento vivo in me, reale accanto a me, ti faccio spazio, mi sposto un poco sul duro inginocchiatoio. Tu c’entri in questo spazio? Tu, o Signore, ci stai bene vicino a me? Io sto bene con me stessa (mi sento come ricostruita) e sto bene anche con Te, su camminiamo insieme, aprimi, a Catania, la “strada nuova”, vedrai saprò “riconoscerla”. Quanto tempo è passato? Non lo so. Ma chi è questo “nordico” giovane biondo e alto con acquosi occhi azzurri che mi regala un sorriso? Lo ricambio di getto.
Io intanto cerco il fraticello del mio primo incontro, ma non lo trovo più. Mi muovo, arrivo nell’angolo della sacrestia. Ecco le tortorelle dormono placide e tenere nel cesto, ma Francesco è ancora sveglio e mi lancia  uno sguardo complice di gioia, io ricambio, ma nessuno delle poche persone che si trovano  vicino se n’accorge, meno male, le spiegazioni sarebbero imbarazzanti…
Ritorno sui miei passi, la scalinata è piena di giovani, che con le chitarre cantano. Mi siedo in mezzo a loro e ascolto felice:

“Piangendo Francesco
disse un giorno a Gesù:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le sorelle.
Amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle,
o Signore, mi devi perdonare
perché Te solo io vorrei amare”.
Sorridendo il Signore
gli rispose così:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le sorelle.
Amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle.
O Francesco,
non devi piangere più,
perché io amo
ciò che ami tu”.

Ecco sono di nuovo sull’auto, ma per il viaggio di ritorno. Riprovo a cercare “l’ultimo posto”, è ancora disponibile e mi estraneo dal gruppo.
Laudato sii, o mi’ Signore”, perché le meraviglie non sono ancora finite. La Cascata delle Marmore è annunciata prima dai tanti cartelloni pubblicitari e poi dalla presenza di verdeggianti colline e ora dalla “frescura”.
Il Velino, scorrendo da Est ad Ovest, è visibile dal colle di Greccio e nel suo cammino s’incontra con la Nera, che sta scendendo dal Nord dell’Umbria e, proseguendo poi insieme si buttano nel Tevere, non molto lontano da Roma. Che spettacolo superbo!
L’acqua spumeggia all’intorno, la luce del sole sembra dividerla e poi la ridà a noi sotto l’aspetto iridescente dell’arcobaleno, splendore multiforme di luce, patto dell’alleanza fra Dio e l’uomo.
Dovunque il guardo io giro, immenso Dio ti vedo, nell’opre tue ti ammiro, ti riconosco in me” così cantò il Metastasio.
Ma le emozioni di questo viaggio stupendo non sono ancora finite. Anche la Puglia ha un regalo per me: le grotte di Castellana.
Ora ci mettiamo tutti in fila indiana per scendere con l’ascensore nelle viscere della terra per vedere le “stalattiti” e le “stalagmiti” pietre levigate dalle acque sotterranee. Lo spettacolo è particolare, mi sembra un paesaggio dantesco: marmi e alabastri hanno assunto forme speciali, strane – la Madonnina, il Presepe – e ancora si sente “lo gocciolio” lento e martellante. L’aria è rarefatta, l’umidità è forte, il freddo pungente, ma si prova una sensazione da… fiaba, le pietre sono “creature vive” come le piante lassù, sulla terra che abbiamo lasciato.
Con lo sguardo le accarezzo tutte, specie le più “vecchie” e “spugnose”. Un altro spettacolo mi aspetta nella risalita con l’ascensore: è uno spettacolo che m’inebria; in alto, dove filtra e arriva la luce del sole, si è formato un cerchio rilucente che scende e contrasta con la voragine interna. Questa striscia di luce è come circondata dalla caligine interna e profonda e la sensazione che provo è contrastante e superba insieme.
“Io sono la caligine e Tu sei la luce, fa’, o Signore, che da opaca tenebra possa toccare la luce, inebriarmi e annullarmi in Te, mia Luce ritrovata. Amen”
 
                                          Rosarita di Gesù
                                                                Gesù di Rosarita  


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Continua...al 5° Capitolo.







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