sabato 28 dicembre 2019

Gianfranco Ravasi, Il presepe nella storia, quando fede e arte firmano il Natale


Il presepe nella storia, quando fede e arte firmano il Natale

    «Vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’ asinello». Era l’ anno 1223 e mancavano quindici giorni al Natale: san Francesco – che due settimane prima aveva avuto la gioia di veder approvata da papa Onorio III la Regola dei suoi frati – esprime questo desiderio a un certo Giovanni, «un uomo molto caro» al santo. E la notte di Natale «Greccio diventa la nuova Betlemme», con la scena della nascita di Cristo resa viva e palpitante, mentre Francesco «vestito da levita, perché era diacono, canta con voce sonora il santo Vangelo e parla poi al popolo con parole dolcissime».
   Anche se tutti conoscono questa storia della genesi del presepio, ho voluto rievocarla attraverso la testimonianza di un suo contemporaneo, Tommaso da Celano nella sua biografia del santo, nota come Vita Prima. È ancora lui a spiegare il senso di quella sacra rappresentazione natalizia: «In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’ umiltà». Sono queste le tre stelle simboliche che brillano nella notte del Natale di Gesù ed è proprio questa costellazione a far comprendere quanto il presepio travalichi la stessa fede cristiana e diventi un segno universale per tutti gli uomini e le donne dal cuore e dalla vita semplice, povera e umile.
Anzi, quel quadretto, modellato un po’ liberamente sul racconto dell’evangelista Luca (2,1˗20), da allora si è trasformato in un caposaldo della storia dell’ arte e, quindi, cancellarlo dalla conoscenza delle giovani generazioni attuali vorrebbe dire rendere incomprensibile una serie sterminata di opere d’ arte distribuite nei secoli.
   Qualche tempo fa ero stato invitato a stendere una lista di raffigurazioni della nascita di Cristo selezionando i maggiori pittori nei secoli: dopo aver iniziato la ricerca, ho dovuto abbandonarla perché in pratica avrei dovuto inseguire tutta la storia dell’ arte occidentale, da Giotto all’ Angelico, da Masaccio a Donatello, da Duccio di Buoninsegna a Jacopo della Quercia, da Botticelli a Raffaello, al Correggio al Bassano e così via, solo per fare alcuni nomi.
     Inoltre, è curioso notare che miniscene raffiguranti il presepio erano già scolpite sui sarcofagi cristiani dei primi secoli e, a partire dalle icone della scuola pittorica russa di Novgorod (XV sec.), era facile vedere il Bambino deposto in una mangiatoia a forma di sepolcro. Si voleva, così, esaltare il nesso tra la vita fisica di Gesù e la vita gloriosa e divina che sarebbe sfolgorata nella sua risurrezione. Perdere il presepio, perciò, vuol dire non solo cancellare un emblema spirituale nel quale si possono ritrovare le famiglie misere dei barconi che approdano alle nostre coste con madri che stringono al seno bambini denutriti e sfiniti, ma è anche strappare un numero enorme di pagine della nostra storia culturale più alta.
    Nel presepio, dunque, s’ incontrano componenti squisitamente cristiane, come l’ incarnazione del Figlio di Dio («Il Verbo divenne carne», scriverà san Giovanni), assumendo un volto, una storia, una patria terrena, o temi come la maternità divina di Maria e il compimento dell’ attesa messianica. Essi, però, s’ intrecciano con soggetti universali, come la vita, la maternità, l’ infanzia, la sofferenza, la povertà, l’ oppressione, la persecuzione. L’ altezza teologica, spirituale, umana di questi temi è espressa con grande sobrietà e intensità nel racconto evangelico, ma è stata anche resa più calda e colorita attraverso la tradizione popolare e persino il folclore.
   Pensiamo solo alla pittoresca sequenza dei presepi napoletani che dal Settecento cercano di attualizzare il Natale di Gesù con l’ introduzione di elementi delle vicende contemporanee, cadendo talora nel cattivo gusto, ma dimostrando sempre l’ importanza di quel segno religioso per la vita quotidiana delle persone semplici. Dopo tutto, come è noto, l’ entrata in scena – già con san Francesco – dell’ asino e del bue è apocrifa e non evangelica, perché nasce dall’ applicazione molto libera all’ evento di Betlemme di un passo del profeta Isaia il quale bollava così l’ indifferenza del popolo ebraico nei confronti del suo Dio: «Il bue conosce il suo proprietario e l’ asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (1,3).
   Siamo partiti dalla figura di un santo che è davanti al presepio. Vorremmo ora concludere con un ateo, il celebre drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che in una sua poesia ricompone il suo presepio vivente costituito da una famiglia povera, simile a quella dei tanti profughi che vivono negli accampamenti o nelle città sotto l’ incubo della guerra e anche di non poche case italiane che stanno vivendo momenti difficili. «Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, / noi, gente misera / in una gelida stanzetta. / Il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù, da noi!/ Volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario».

 https://m.famigliacristiana.it/articolo/quando-fede-e-arte-firmano-il-natale.htm

GIANFRANCO RAVASI, Betlemme - Terra Santa - Atma-o-Jibon





GIANFRANCO RAVASI
("Avvenire", 16/12/’07)



Betlemme - Terra Santa - Atma-o-Jibon



    Il "Simbolo apostolico" professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il "Credo Niceno Costantinopolitano" che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del "Vangelo di Luca" (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
    Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della "Madonna del Natale" per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della "XIX Ode di Salomone", appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti "antitetici": alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del "Vangelo di Giovanni": «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
    Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, "skenoun", contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica "Shekinah" ("s-k-n"), il termine con cui il giudaismo definiva la "Presenza" divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla "Lettera agli Ebrei", una potente e monumentale omelia "neotestamentaria", che applica al Cristo il "Salmo 8", un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
   Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al "Protovangelo di Giacomo" del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto "gnostico" egizio, l’"Interpretazione della gnosi": «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti... Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo "Pseudo-Matteo", redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del "Museo Pio" e in quello di "Stilicone" della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
    Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle "Meditazioni sulla vita di Cristo" ("Città Nuova", Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il "Physiologus", poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
    Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai "Sermoni del Natale" di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari ("Stille Nacht"; "Tu scendi dalle stelle"; "Adeste, fideles"...), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
    Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
   La prima coordinata è quella "spaziale", legata a
Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della "promessa davidica". È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti "topografici". Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il "katalyma" (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
   Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
   Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne "Basilica Giustinianea", iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di
Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
   L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da "seminomadi" pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine "evangelo" per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della "buona novella" ("evangelo") per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
   C’è una seconda coordinata da considerare, quella "temporale". Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso "primo censimento", ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una "prima" operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato... Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» ("Sermone su Nostro Signore", 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
   Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un "prima" e in un "dopo" di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…
"L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato...
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo!".
   Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
    I primi sono "i pastori" ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo... vediamo... conosciamo... andarono senza indugio... trovarono... videro... riferirono... tornarono...». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi "evangelizzatori".
    C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè "la folla". Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
   Ci sono poi "gli angeli" col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni "spazio-temporali" dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il "Kyrios", il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della "Natività", appartenente alla "Scuola di Novgorod" (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
    Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un "carme" che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua "eudokía", la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il "shalôm" biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
   L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la "Theotókos", la Madre di Dio, come proclamerà il "Concilio di Efeso". Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
    Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto "kontakion", sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo "monologo-dialogo" col Figlio…

"Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio... Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia!".

venerdì 27 dicembre 2019




SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE
OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII
Cappella dell'appartamento privato
del Sommo Pontefice
Lunedì, 24 dicembre 1962

   Venerabili Fratelli, diletti figli, 
 
    Questa Messa in nocte nativitatis Domini santifica le più care intimità delle anime, che aspirano a ciò che è sostanza viva di unione con Cristo : cioè religione sincera, liturgia ben penetrata e anelito di cristiana perfezione. Lo avvertiamo in quest'ora di soave raccoglimento, sotto lo sguardo del Divino Infante!
    In realtà, a Natale i grandi problemi della vita sociale e individuale vengono accostati alla culla di Betlemme, mentre gli Angeli invitano a dar gloria a Dio, gloria a Cristo redentore e salvatore, ed a scuotere gioiosamente le buone volontà per la celebrazione della pace universale.
Grande dono, grande ricchezza in vero, è questo della pace del mondo, che alla pace anela. Lo abbiamo ripetuto nel radiomessaggio natalizio, e Ci piace ringraziare il Signore che l'ha fatto ben accogliere da un capo all'altro della terra, a conforto di quella luce di speranza che sta accesa e sollevata sopra tutte le nazioni.
    Per la conservazione e il perfezionamento di questo dono celeste vuol continuare la supplicazione universale, mentre si sta facendo più attento e prudente ogni movimento di pensiero, di parola, di attività e si moltiplicano in ogni campo gli sforzi e gli accorgimenti per allontanare o superare gli ostacoli, conoscere e togliere le cause che provocano conflitti.
   Vogliate comprenderCi, diletti figli, se per la Messa di Natale, anche in questa notte come negli anni passati, alle volte maestose dei templi romani, abbiamo preferito la semplicità della Nostra cappella privata, come a lasciarCi avvolgere dall'ambiente delle umili chiese di campagna e di montagna, e degli innumerevoli istituti di assistenza sociale, che sono rifugio della innocenza povera e derelitta, conforto e raddolcimento di lacrime ascose, riparazione di ingiustizie palesi o non sufficientemente dimostrate.
   E anche a voi pensiamo, cari malati, cari anziani, che soffrite dolori e solitudine; che dolore e solitudine riuscite a volgere a grande merito per voi e a propiziazione di bene per l'umanità. Ci sono inoltre circostanze e situazioni che in questa solennità rendono più evidente ed accorato il contrasto con il gaudio del Natale. Richiamo efficace non a deprimere il servizio che rendiamo alla verità e alla giustizia, non a dimenticare l'immenso bene compiuto dalle anime rette, che hanno scelto di far onore alla legge divina e all'Evangelo santo; ma ad incoraggiare le buone energie per riparare i torti e riaccendere nel mondo il libero slancio del fervore religioso e delle tradizioni piissime dei padri, a gioia serena del Natale.
    Figli diletti. Accanto alla culla del Nato Bambino, del Figlio di Dio fatto uomo, ogni uomo che cammina quaggiù riflette con coscienza aperta e schietta che al varco supremo gli sarà chiesto stretto conto del dono della vita; e questa avrà sanzione definitiva di merito o di castigo, di gloria o di abbominazione.
    È di qua, dunque, dalla consapevolezza di questo rendiconto che si misura la partecipazione dei cristiani, e di tutti gli uomini al grande mistero che commemoriamo in questa notte; di qua viene l'auspicio, perchè dalla luce del Verbo di Dio le civiltà umane ricevano la scintilla che le può portare a fulgore più vivo, a beneficio delle genti.
Intorno alla culla di Gesù gli Angeli suoi cantarono pace. E chi credette al messaggio celeste e gli fece onore ebbe gloria e letizia. Così ieri; come sarà sempre nei secoli.
La storia di Gesù si perenna. Beato chi la intende e ne attinge grazia, robustezza e benedizione.
Amen, amen.

http://www.vatican.va/content/john-xxiii/it/homilies/1962/documents/hf_j-xxiii_hom_19621225_messa-natale.html
 

giovedì 26 dicembre 2019

I pensieri di Giovanni Paolo II sul Natale



I pensieri di Giovanni Paolo II sul Natale 
 

   Gesù Cristo è la rivelazione più piena e definitiva dell’avvento di Dio nella storia dell’umanità e nella storia di ogni uomo. Di ciascuno di noi. E in lui, nella sua venuta, nella sua nascita nella stalla di Betlemme, poi in tutta la sua vita ed insegnamento, infine nella sua croce e nella sua risurrezione, siamo chiamati, tutti e ciascuno di noi, in modo definitivo alla “vigna”. Egli, che è pienezza dell’avvento di Dio, è anche pienezza della chiamata divina rivolta all’uomo. In lui Dio sembra dire a ciascuno di noi: “non tardare”! (18 dicembre 1979)
 
   Quale potere si è posato sulle spalle di Cristo in quella notte? Un potere unico. Il potere, che soltanto lui possiede. Infatti soltanto lui ha il potere di penetrare l’anima di ogni uomo con la pace del Divino Compiacimento. Soltanto lui ha il potere di far sì che gli uomini diventino figli di Dio. Soltanto lui è in grado di elevare la storia dell’uomo all’altezza della gloria di Dio. “Soltanto lui”. (24 dicembre 1982)

    Perché Dio si è fatto uomo? Come è possibile che Dio sia diventato uomo? Così si chiedono i secoli e le generazioni. E molti si allontanano con questa domanda sulle labbra, si allontanano increduli. A volte con una comprensibile indignazione, con una obiezione riguardo a un evento che trascende la loro mente. È inconcepibile che Dio sia Padre e Figlio . . . È inconcepibile che Egli diventi uomo . . . È un mistero difficile e inscrutabile come quello dell’unità e trinità di Dio. Noi tuttavia, credendo alla onnipotenza di Dio, sappiamo che niente gli è impossibile. Dio è onnipotenza. Ma soprattutto è Amore. Nulla è impossibile all’onnipotenza, che è Amore. E proprio questo crediamo: “per noi e per la nostra salvezza . . . si è fatto uomo”. Per noi vuol dire: per amore verso di noi. Quando ci inginocchiamo durante la liturgia del Natale pronunciando le suddette parole del Credo, diventiamo simili ai pastori di Betlemme. Loro per primi si sono trovati nel raggio di questo mistero, che illumina le tenebre della storia dell’uomo sulla terra. (24 dicembre 1985

Il Natale costituisce l’occasione privilegiata per sottolineare uno dei valori cristiani più sentiti. Con la nascita di Gesù, nella semplicità e nella povertà di Betlemme, Dio ha ridato dignità all’esistenza d’ogni essere umano; ha offerto a tutti la possibilità di partecipare alla sua stessa vita divina. Possa questo dono incommensurabile trovare sempre cuori pronti a riceverlo! (11 dicembre 2003)

    Nell’angusta povertà del presepe contempliamo “un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2,12). Nell’inerme e fragile neonato, che vagisce fra le braccia di Maria, “è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini” (Tt 2,11). Sostiamo in silenzio e adoriamo! O Bambino, che hai voluto avere per culla una mangiatoia; o Creatore dell’universo, che Ti sei spogliato della gloria divina; o nostro Redentore, che hai offerto il tuo corpo inerme come sacrificio per la salvezza dell’umanità! Il fulgore della tua nascita illumini la notte del mondo. La potenza del tuo messaggio d’amore distrugga le orgogliose insidie del maligno. Il dono della tua vita ci faccia comprendere sempre più quanto vale la vita di ogni essere umano. Troppo sangue scorre ancora sulla terra! Troppa violenza e troppi conflitti turbano la serena convivenza delle nazioni! Tu vieni a portarci la pace. Tu sei la nostra pace! Tu solo puoi fare di noi “un popolo puro” che ti appartenga per sempre, un popolo “zelante nelle opere buone” (Tt 2,14). (24 dicembre 2003)

   Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (Lc 2,7). Ecco l’icona del Natale: un fragile neonato, che le mani di una donna proteggono con poveri panni e depongono nella mangiatoia. Chi può pensare che quel piccolo essere umano è il “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32)? Lei sola, la Madre, conosce la verità e ne custodisce il mistero. In questa notte anche noi possiamo ‘passare’ attraverso il suo sguardo, per riconoscere in questo Bambino il volto umano di Dio. Anche per noi, uomini del terzo millennio, è possibile incontrare Cristo e contemplarlo con gli occhi di Maria. (24 dicembre 2002)
 
   Al popolo oppresso e sofferente, che camminava nelle tenebre, apparve “una grande luce”. Sì, una luce davvero “grande”, perché quella che s’irradia dall’umiltà del presepe è la luce della nuova creazione. Se la prima creazione cominciò con la luce (cfr Gn 1,3), tanto più fulgida e “grande” è la luce che dà inizio alla nuova creazione: è Dio stesso fatto uomo! Il Natale è evento di luce, è la festa della luce: nel Bambino di Betlemme la luce originaria torna a risplendere nel cielo dell’umanità e squarcia le nubi del peccato. Il fulgore del trionfo definitivo di Dio appare all’orizzonte della storia per proporre agli uomini in cammino un nuovo futuro di speranza. (24 dicembre 2001

   Ecco l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che viene a riempire di grazia la terra. Viene al mondo per trasformare il creato. Si fa uomo tra gli uomini, perché in lui e per mezzo di lui ogni essere umano possa profondamente rinnovarsi. Con la sua nascita, egli ci introduce tutti nella dimensione della divinità, elargendo a chi nella fede si apre ad accogliere il suo dono la possibilità di partecipare alla sua stessa vita divina. Questo è il significato della salvezza di cui odono parlare i pastori nella notte di Betlemme: “Vi è nato un Salvatore” (Lc 2,11). La venuta di Cristo fra noi è il centro della storia, che da allora acquista una nuova dimensione. In un certo senso, è Dio stesso che scrive la storia inserendosi al suo interno. L’evento dell’Incarnazione si dilata così ad abbracciare tutta l’ampiezza della storia umana, dalla creazione alla parusia. Ecco perché nella Liturgia tutta la creazione canta, esprimendo la propria gioia: plaudono i fiumi, esultano gli alberi della foresta, si allietano le isole tutte (cfr Sal 98,8; 96,12; 97,1). Ogni essere creato sulla faccia della terra accoglie l’annuncio. Nel silenzio attonito dell’universo, rimbalza con eco cosmica ciò che la Liturgia pone sulle labbra della Chiesa: Christus natus est nobis. Venite, adoremus! (24 Dicembre 1998)

 https://it.aleteia.org/2017/12/25/8-pensieri-natale-giovanni-paolo-ii/

Papa Paolo VI, L’omelia che Paolo VI tenne il 25 dicembre 1971 alla parrocchia di Santa Maria Regina Mundi a Torre Spaccata





Papa Paolo VI 



    L’omelia di Paolo VI
 del 25 dicembre 1971 alla parrocchia di Santa Maria Regina Mundi a Torre Spaccata


        È venuto per darci confidenza

    Fratelli e figli carissimi: perché sono venuto fra voi? Sono molte le ragioni, anche semplici, salvo una che semplice non è. Dunque sono venuto prima di tutto per conoscervi e per farmi conoscere: forse molti di voi non hanno visto ancora da vicino il Papa. Eccolo qua: è così lontano?
    No! Vuole essere vicino, vicino al popolo che il Signore gli ha dato che è il popolo di Roma. E sono quindi venuto per salutarvi e salutarvi tutti.
       Vedete abbiamo qui il cardinale Dell’Acqua, che è colui che fa le nostre veci per la vita pastorale in Roma e pubblicamente, davanti a lui, conoscendo il suo zelo e conoscendo quanto lui si prodiga per il bene della popolazione romana, io lo ringrazio nel nome del Signore che oggi celebriamo: lo incoraggio e lo benedico. E con lui i vescovi, vedete, sono qui i vescovi ausiliari, quelli che condividono con lui questa grande opera di evangelizzare e predicare la Parola del Signore, di assistere spiritualmente tutta questa grande città che continua a crescere e a dilatarsi e aumentare di popolazione, e abbiamo — io per primo e loro con me — il dovere e l’onore di servirvi, di essere vicini, di curare i vostri interessi spirituali e perciò io ringrazio e saluto quelli che in questa grande opera, che è l’opera di Dio, prestano il loro aiuto.
      Primo fra essi chi è? È il vostro parroco. Come lo chiamate voi? Padre Nazareno? Nazareno Mauri? Ecco, lo salutiamo davanti a voi, perché gli vogliate bene, perché cercate di assecondare le sue cure, perché abbiate cuore a chiedergli di assistervi: «Ci faccia pregare, ci insegni, ci renda buoni, ci renda cristiani, ci santifichi, ci renda degni del grande destino che a noi è prefisso, quello di andare tutti in Paradiso».
       Se non abbiamo chi ci dà una mano, chi ci dà questo ministero, questo servizio di Dio potremmo smarrirci, potremmo restare senza il grande scopo della nostra vita che è quello di salvare le nostre anime. E quindi anche lui, il vostro parroco, lo ringraziamo di dare tutto se stesso al vostro servizio, al vostro bene, e lo incoraggiamo, lui e i suoi confratelli, che lo aiutano in questa non piccola ma tanto degna fatica, e con lui estendiamo il nostro saluto reverente e grato a tutta la famiglia dei Padri Carmelitani dell’Antica Osservanza, che hanno loro affidato il servizio pastorale, il ministero parrocchiale di questa borgata.
     Io avrei tanto da dire su questi cari religiosi, perché? Ma perché la loro casa, come dire, centrale qui a Roma è San Martino ai Monti, e San Martino ai Monti era il titolo che Papa Giovanni aveva dato a me quando volle che fossi anch’io associato al Sacro Collegio, cioè diventato cardinale mi disse: «Tu avrai per titolo San Martino ai Monti» che è la chiesa dei carmelitani, che vi prestano servizio. E poi sono nostri amici perché hanno la chiesa della Traspontina, che è a due passi dal Vaticano e quindi siamo in stretta comunicazione, tanto che qualcuno di loro, e anche il vostro parroco per un tempo ha prestato servizio presso il nostro ufficio centrale, diciamo così, la Segreteria di Stato, e quindi è tutta la grande famiglia carmelitana — anche alle carmelitane, vero — a tutte queste anime che si stringono intorno al Carmelo, diamo il nostro saluto e la nostra benedizione questa mattina.
    Dicevo: sono venuto per conoscervi e conosco un po’ la vostra parrocchia. So che siete già una comunità. Che sarebbe una parrocchia se fosse una folla senza legame, senza coscienza della propria unità, senza gli organi che la debbono tenere insieme, che sono le associazioni?
    Sappiano di tutti quelli che appartengono alle associazioni parrocchiali, che sono tante, è vero: c’è l’Azione Cattolica, ci sono quelle spirituali, religiose, eccetera, quelle che si occupano degli altri, ci sono i catechisti mi dicono. Ebbene a tutti quelli che sono appunto in questa organizzazione e in questa nervatura che tiene insieme e fa corpo della vostra grande popolazione, io do un saluto speciale e incoraggiamento. Sento il dovere di ringraziare anche loro e di incoraggiarli, perché anche essi sono innestati nel grande sforzo che si fa per arrivare a tutti.
     Siete, mi dicono, qui quasi 30.000! Oh quanti… quanti! E qui non c’entrano neanche tutti; se tutti fossero qui. Voi porterete il mio saluto anche a quelli che sono rimasti a casa e che sono fuori. A tutto questo corpo. E ricordate che non abbiamo gli occhi chiusi neanche per quelli che hanno ancora bisogno delle cose elementari e indispensabili per la vita: la casa, il lavoro. Per tutti questi che sono qui, in questo quartiere, voglio lasciare un saluto e una benedizione e potrei anche lasciare una promessa, e cioè di fare quello che si può perché siano consolati e assistiti e siano lieti. Abbiamo qui anche le autorità cittadine che vengono appunto per attestare la loro buona volontà.
    Credetelo: vogliono fare per voi tutto quello che possono. È vero? E allora ringraziamo e benediciamo appunto quelli che impegnano il loro tempo, la loro vita, la loro capacità per aiutare la popolazione di Roma, specialmente quella che ha maggior bisogno di questo soccorso, che non è facile e lo sapete, ma credete però che dietro a questa difficoltà c’è un volere preciso, assoluto ed espresso di fare quanto è possibile per venire in aiuto di tutti. Ecco perché sono venuto.
     Sono venuto, vi confiderò una cosa, anche per consolare me stesso, cioè per fare un Natale bello; voglio dire che anche il Papa deve fare un buon Natale e il mio Natale più bello è quando posso essere insieme a quelli che il Signore mi ha dato per fratelli e per figli. Essere insieme nella mia famiglia spirituale: voi siete una parte di questa famiglia, avete una bella chiesa nuova. Non è ancora del tutta finita ma indica già, anche qui, uno sforzo per fare le cose nuove, proporzionate ai bisogni e tutto questo per me è una grande, una grande consolazione.
Voi forse immaginate che il Papa sia l’uomo più felice di questa terra? Non è vero: beh, «felice come un Papa» si dice. Se sapeste! Perché? Ma perché tutti i dolori di questo mondo, tutte le necessità, le guerre, le controversie fra gli uomini, e soprattutto il vedere tanti che sono lontani dal Signore, che tanti lo combattono, lo negano, lo offendono, e tutto questo viene a finire nel nostro cuore.
     E allora trovare una comunità come la vostra: migliaia di fedeli, di gente buona, di gente che spera e crede nel Signore, per me è una grandissima gioia, è una grandissima consolazione e perciò non siete voi che dovete ringraziare me di questa visita, ma sono io che debbo ringraziare voi per avermi accolto questa mattina per augurare a tutti proprio con il cuore aperto l’augurio di buon Natale … di buon Natale.
      È qui che si incentra la ragione precisa per la quale io sono venuto fra voi: per celebrare il Natale. Io vorrei avere qui alcuni ragazzi del catechismo per sentire da loro se sanno che cosa è il Natale. Beh, sì che lo sanno: c’è qui un bel presepio, sanno subito che Natale è la festa che commemora la nascita di Gesù, e fino a qui ci arriviamo tutti, anche i bambini del catechismo, i più piccoli possono dire: «Oggi è Natale, è venuto Gesù Bambino».
       Ma se io vado avanti con le domande: «Ma chi era Gesù Bambino?», «Gesù bambino è il figliolo della Madonna, è il figlio di Maria». Ed è tutto? Ecco, la grande cosa che dobbiamo avere presente nell’anima, facciamo uno sforzo, un po’, non dico per capire, ma almeno per farvi attenzione: Gesù, quel Gesù che vediamo nel presepio, quel bambino che vagisce lì, che non ha nessuna forza, nessuna espressione di sé, proprio perché è un bambino appena nato: quel Gesù è Figlio di Dio!
     Da dove viene? Ma viene dal cielo, dove, lo diremo adesso, fra poco cantando il Credo: descendit de caelis, «è disceso dal cielo», ha questa prerogativa, questa singolarità unica, misteriosa e immensa, che racchiude in sé due figliolanze: è Figlio di Maria e quindi è fratello nostro, è uomo, ed è figlio di Dio, è figlio di Dio! Viene dal cielo, in lui vive la divinità.
     Colui che ha creato il cielo e la terra, colui che è sempre stato e sempre sarà, colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita, della nostra esistenza, colui che conosce tutto, che vede nei nostri pensieri, colui che è presente a noi più che noi stessi, quello che si chiama Figlio di Dio, è venuto a farsi insieme figlio dell’uomo e allora la meraviglia deve essere la caratteristica di questa festività: siamo meravigliati, siamo ammirati, siamo sorpresi, siamo incantati per questo fatto che Dio si è fatto uomo, e che è in mezzo a noi.
     Tenetelo bene a mente, perché questo è quello che io vi volevo dire venendo fra voi.
     Il Natale è la visita fatta, non dal Papa che viene in mezzo a noi, non è che un simbolo questo, non è che un segno. È la visita, è la venuta di Cristo tra noi e Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo. È la discesa di Dio in mezzo a noi. Come è lontano Iddio, cioè come è misterioso, come è inaccessibile, come è incomprensibile. Tanta gente non ci crede, perché? Ma perché non lo vede con gli occhi, perché non lo sente, perché non capisce, perché comprende una cosa: che se c’è Dio, Dio è un mistero senza confini e viene da questo mistero senza confini, da questo Dio nella profondità del tempo e dello spazio.
    Avete mai guardato il cielo? Avete mai pensato ai secoli che sono passati? Tutti gli esperimenti recenti di questi astronauti che vanno alla Luna ci hanno almeno abituati a guardare un po’ di più la volta stellata che sta sopra di noi. E pensare a queste distanze immense, a questi secoli senza numero, che segnano l’età dell’universo e quindi il Dio di questo universo. Ebbene il Dio di queste profondità, il Dio infinito, il Dio che sta nei cieli. «Padre nostro che sei nei cieli», che sei in questo tuo ... in questo immenso, immenso mistero; questo Dio che è inafferrabile ai nostri occhi, e così poco pensabile anche ai nostri cervelli, questo Dio vero.
      Lui è venuto in mezzo a noi e per farsi conoscere, per farsi direi afferrare da noi si è fatto nostro fratello, si è fatto uno di noi, si è rivestito di carne umana, si è fatto uomo, per venire proprio a essere nostro amico, nostro collega, nostro compagno. Per darci confidenza!
     Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza, a farci paura, a farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No, no! È venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e lui.
      C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di voi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da lui pensato, da lui amato… da lui amato: guardate che questa è una grande parola! Se voi capite questo, se voi ricordate questo che vi sto dicendo, voi avete capito tutto il Cristianesimo.
      Che cosa è il Cristianesimo? Che cos’è questa nostra religione che ci fa costruire queste case, che ci organizza in parrocchie, che ci fa una famiglia sola, che ci fa diventare Chiesa sua? Che cosa è? È l’amore di Dio per noi. La capite questa parola: Dio ci ama, dilexit nos, ci ha voluto bene ancora prima che nascessimo; ha riconosciuto le nostre cose, e ha avuto un occhio, ha avuto un raggio di bontà e si è fermato sopra ciascuno di noi.
      Mi dite chi di voi può dire: «Io non sono amato da Dio». Un malato? Ma se il Signore è venuto per quelli che soffrono. Un bambino? Ma se si è fatto bambino. Una povera donna di famiglia? Ma se è venuto anche lui per vivere in questa nostra famiglia umana. Un povero? Ma se ha voluto essere anche lui un povero. Un operaio? Ma se è voluto essere lui un povero falegname in un piccolissimo paese, Nazareth, dove ha passato trent’anni della sua vita, la maggior parte, per essere nostro compagno, per condividere con noi questa fatica della esistenza umana.
     Gesù ha voluto venire tra di noi — Dio fatto uomo — perché comprendessimo il suo linguaggio, la sua parola divina, ma pronunciata non nel linguaggio misterioso con cui parla agli angeli e con cui parla nel silenzio degli spazi e dei secoli. Ha voluto assumere le nostra labbra per farsi capire e diventare… Come lo chiamiamo Gesù di solito? Maestro! È venuto per parlarci, per effondere la sua scienza, la sua sapienza. E come? Chissà che parole difficili che ha detto.
      Ma no! Sono parole fatte apposta per i nostri poveri cervelli, per la nostra povera intelligenza, ma sono sempre parole divine, immense, che scoppiano quando noi le riceviamo nella nostra anima, tanto sono grandi e ha detto il suo grande messaggio che è come un programma di tutto il Vangelo: «Beati voi poveri, perché di voi è il mio regno, beati voi che piangete e soffrite perché io sono venuto a consolarvi, beati voi che amate e soffrite per la giustizia, perché io vi sfamerò, vi darò questa giustizia, e beati voi puri di cuore perché voi vedrete Dio, avrete la simpatia e l’intuizione di che cosa sono le cose divine».
Questo è il linguaggio che ha usato il Signore e si è fatto quindi maestro, senza sedere sulla cattedra, ma in mezzo al popolo, seduto per terra, passeggiando con i suoi discepoli.
    E poi? Tutto qui? Guardate: è venuto Gesù, è venuto per dare la sua vita per noi. Non capiremo mai abbastanza Nostro Signore Gesù Cristo, se non comprenderemo questa sua intenzione, questo destino che segna davvero il perimetro della sua vita. Gesù è venuto per morire, ecco, è venuto per salvarci.
    Se uno di voi fosse stato salvato da un incidente che, ahimè, succede spesso sulla strada, avreste gratitudine per quel coraggioso che si è esposto al pericolo per salvare voi?
      Avete sentito la storia di quello che abbiamo beatificato qualche settimana fa, padre Kolbe? Forse sì. Però fatevela raccontare lo stesso, perché è tanto bella: un religioso francescano polacco, molto bravo, che ha fatto tanto bene parlare di sé per le opere grandi, riguardo la stampa specialmente, viene preso dai tedeschi e messo in un campo di concentramento.
    Un prigioniero fugge, non si trova dove sia questo, e allora — come era metodo di questa inumana gente — il sistema prevede: «Noi ne uccideremo dieci, per vendicarci di questo che è scappato». Ne hanno trovati nove. Il decimo era un padre di famiglia, che io ho veduto, sapete. Quando ho fatto la beatificazione in San Pietro lui c’era. «Sono stato io salvato da Massimiliano Kolbe».
     Perché? Perché questo prigioniero è uscito dalle file e si è presentato all’ufficiale e gli ha detto: «Questo è un povero padre di famiglia, lo lasci andare, prenda me», e hanno preso lui. Ed è morto per salvare questo polacco: è un gesto eroico, gratuito, spontaneo, senza nessuna gloria, senza nessuna ricompensa. Ebbene è morto per salvare questo padre di famiglia e Gesù è morto per salvare ciascuno di noi: Diléxit nos, et trádidit semetípsum pro nobis. Ha dato se stesso per noi.
    Io vorrei che vi restasse nel cuore, per ricordo di questo Natale, proprio questo pensiero. Se siamo stati amati da Cristo, da Dio in Cristo che dobbiamo fare? Rispondete voi. È una cosa che sembra semplice, ma comprende tutta la nostra vita: dobbiamo dare anche noi. Se è così ricco per noi, se è così buono con noi, se è stato così generoso con noi, se ha dato la sua vita per noi, allora gli vorrò bene, mi guarderò anch’io di volergli bene, mi sentirò cristiano, cioè legato dalla gratitudine, da riconoscenza, da amore a questo Gesù che ha dato la sua vita per me.
     Ed è tutto. Quelli che rispondono a questo amore sono cristiani.
    E avviene un secondo fatto. Se davvero siamo stati tutti amati in Gesù Cristo eccoci qua! Ci troviamo insieme, si produce una comunità, si produce una comunità, si produce una simultaneità, si produce un corpus, si produce una società: come si chiama? Si chiama Chiesa. Siamo noi la Chiesa. Noi che siamo i salvati di Cristo.
    Quindi due conseguenze da tutta questa meditazione.
    Primo: bisogna che davvero comprendiamo meglio, non essere distratti. Non siamo gente che dimentica e non siamo degli ingrati, perché la cosa più grave, più generale della nostra povera umanità è questa, di non avere la gratitudine, quanta dovrebbe avere per Dio che così ci ha amati. E amare Gesù vuol dire pregarlo, vuol dire venire in chiesa, vuol dire davvero essere religiosi, per via di amore.
    Tanti vedono nella religione una cosa che opprime, una cosa difficile, una cosa incomprensibile, una cosa noiosa: no! La religione, l’essere a contatto con Cristo e con Dio è una cosa che ci riempie di felicità, di gioia. Perché? Perché è l’amore.Il primo, il grande comandamento che il Signore ci ha lasciato è questo: ama, ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le tue forze. Anzi ha detto una parola che sembra, a me fa sempre tanta impressione e che anche a voi certo la farà: se ci pensate: «Amatevi». Come? Quel come che fa cascare le braccia: «Come io vi ho amato». Ma come è possibile amare come il Signore ci ha amato?
     Dov’è il nostro piccolo cuore, lui che ha il cuore che comprende tutto il mondo, lui che ci ha dato questo saggio di generosità, che è infinita, questa donazione eroica di sé. Ma posso io amare in questa misura?
     La misura no, ma l’esempio sì: come Signore tu hai amato me, io cercherò di amare te, la mia vita sarà tesa in questo desiderio di rispondenza, in questo desiderio di dialogo, di incontro, di amore con te. Voi sapete che cosa è l’amore, questo sentimento fondamentale della nostra vita verso Cristo e verso Dio. Siete cristiani che sarete salvati.
    E in secondo luogo su questo «amate ancora come io ho amato», Gesù ha amato tutti gli uomini, Gesù non ha detto di no a nessuno. Gesù non ha avuto odio nemmeno per colui che lo ha tradito, Giuda. Ha udito parole amare di condanna e quando Giuda col bacio, con la profanazione, con la ipocrisia più fiera e più crudele, lo ha tradito, Gesù che cosa ha detto? «Amico, amico, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo», cioè Lui. Vedete chi è Gesù: lo conoscete adesso questo cuore di Cristo? Ebbene noi dovremmo imitare il cuore del Signore, cioè essere capaci anche noi di amare tutti.
      Vorrei fare delle domande e poi finisco. Per celebrate il Natale: avete fatto qualche opera buona? Avete perdonato a qualcheduno? Avete pregato per qualcheduno che ne ha bisogno? Avete detto una buona parola per consolare qualcuno? Avete dato un po’ di gioia a qualche bambino, a qualche parente o a qualche persona? Avete cercato di effondere e di trovare in fondo al vostro cuore un po’ di calore, un po’ di dolcezza da dare intorno a voi? Avete fatto un atto di amore per questa vostra comunità, questa nostra società spirituale, che è la parrocchia? Beh, fatelo con me adesso! Noi celebreremo la Messa proprio per questa parrocchia, perché diventi davvero una famiglia in Cristo, perché l’amore di Cristo regni, trionfi nella vostra comunità parrocchiale.
      L’amore deve essere il sole che illumina la nostra vita, il sole che scende e che dirige il nostro amore dal senso verticale al senso orizzontale: amiamo Dio e amiamo il prossimo.
     Se abbiamo capito questa chiave, questa sintesi del Cristianesimo, allora possiamo andare vicino al presepio, chiudere gli occhi e pensare a questo bambino che è venuto per essere il nostro Salvatore.

L'Osservatore Romano, 24 dicembre 2014.

 http://ilsismografo.blogspot.com/2014/12/vaticano-i-natali-di-montini.html

    

Gianfranco Ravasi, A Natale ascoltiamo il silenzioso Giuseppe


 
A Natale ascoltiamo il silenzioso Giuseppe
di Gianfranco Ravasi
 
 
    Se nel villaggio di Nazaret in Galilea ci fosse stato un ufficio dell’anagrafe, nel registro di uno degli anni attorno all’inizio dell’era attuale si sarebbe trascritto come residente un certo Giuseppe figlio di Giacobbe o di Eli (paternità discussa), sposato a una Maria, con un figlio di nome Gesù, di professione naggara’, che nella lingua locale, l’aramaico, poteva significare «carpentiere» o «falegname», in greco (l’inglese di allora) téktôn.
    Sono questi i dati personali che possiamo ricavare dai Vangeli riguardo al personaggio che l’evangelista Matteo presenta come attore principale della nascita e dell’infanzia di Gesù, a differenza del collega Luca che privilegia la madre Maria.
    Una figura modesta, quindi, nonostante la conclamata discendenza davidica, documentata da una genealogia posta in apertura al Vangelo di Matteo (1,1-17) e confermata da un dato storico piuttosto problematico, un censimento imperiale romano imposto dal governatore di Siria Quirinio secondo un canone etnico e non residenziale. Concretamente ci si doveva registrare nella sede originaria dell’ascendenza del clan familiare. È Luca a segnalare, allora, che «Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nazaret, dovette salire in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme perché apparteneva al casato e alla famiglia di Davide» (2,4). Parlavamo di una questione storica problematica sia perché le genealogie erano nell’antichità elaborate con modalità molto libere e simboliche, sia perché la cronologia di quel censimento è un rebus quasi insolubile, affidato a un’intera biblioteca di studi, ricerche, ipotesi degli esegeti, un enigma che evitiamo di affrontare.
   Noi ci accontenteremo di gettare uno sguardo sull’esperienza piuttosto sconcertante vissuta da questo artigiano in occasione della nascita del figlio, avvenuta appunto durante i giorni di quel censimento, forse il 7/6 a.C., in un alloggio di fortuna a Betlemme. Ritorniamo, perciò, al testo di Matteo: «Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
    Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”» (1,18-21).
    C’è una componente circostanziale da chiarire. Nell’antico Israele il matrimonio comprendeva due fasi distinte ma connesse. La prima era il fidanzamento ufficiale la cui ratifica aveva un rilievo particolare per la donna: pur continuando a risiedere nella casa paterna, essa era considerata già sposa del futuro marito, per cui ogni infedeltà era rubricata come adulterio. La seconda fase comprendeva la celebrazione nuziale col trasferimento alla casa dello sposo con canti, danze e banchetti, evento evocato da una suggestiva parabola di Cristo, quella delle ragazze sagge e sbadate (si legga Matteo 25,1-13).
   Il racconto sopra citato si colloca nella fase del fidanzamento: «prima che andassero a vivere insieme», la fidanzata-sposa Maria «si trovò incinta». Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica, quella del “ripudio” in senso stretto, tant’è vero che Matteo usa il verbo greco apolýsai, il termine tecnico del divorzio, con tutte le conseguenze penali e civili persino drammatiche per la donna. Per fortuna non sempre nel giudaismo si applicava il comma della legge biblica che era implacabile: «Se la fidanzata non è stata trovata in stato di verginità, allora la faranno uscire all’ingresso della casa paterna e la gente della sua città la lapiderà a morte» (Deuteronomio 22,20-21). È facile rimandare alla scena che si è consumata sulla spianata del tempio di Gerusalemme con l’adultera in procinto d’essere lapidata e salvata da Gesù con la celebre frase: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Giovanni 8,1-11).
    Giuseppe è innamorato di Maria e non sa come rendere meno atroce per lei la condanna. Da uomo giusto, cioè corretto (non può avallare col suo nome un bambino di padre ignoto) ma anche mite e compassionevole per quella che di per sé era già la sua donna, opta per un ripudio segreto, senza la procedura legale ufficiale, evitando la consegna formale del “libello di ripudio”, diminuendo così anche l'eventuale rischio del ricorso alla lapidazione da parte del parentado. Mentre è lacerato interiormente, la sua oscurità interiore è squarciata da un lampo di luce che è espresso in una forma classica già nell’Antico Testamento. L’angelo nella Bibbia è segno di una rivelazione divina e Giuseppe ne sperimenterà la presenza a più riprese nel racconto dei due capitoli di Matteo dedicati alla nascita e all’infanzia di Gesù.
    Si tratta, quindi, di una forte esperienza interiore che lo spinge a una scelta diversa: egli dovrà condurre a termine anche la seconda fase del matrimonio «prendendo con sé Maria sua sposa» perché in quella donna è accaduto un evento unico e straordinario, un seme divino (lo Spirito di Dio stesso) l’ha fecondata. A lui toccherà il compito di essere il padre legale di quel bimbo, registrandolo all’anagrafe col nome di Gesù, che significa «il Signore salva (aiuta, dà vittoria)».
Una prassi, quella della paternità legale o putativa, confermata anche in altri casi della Bibbia, come per il cosiddetto «levirato» (dal latino levir, cognato), così formulato dalla legge: «Quando uno dei fratelli di una famiglia morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto si unirà con un suo cognato che se la prenderà in moglie... Il primogenito che ella genererà, avrà il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele» (Deuteronomio 25,5-6; si legga anche Matteo 22,23-33).
   Matteo cita la nascita di Gesù a Betlemme solo in un paio di righe, a differenza di Luca che però, come si diceva, punta il suo obiettivo sulla figura della madre Maria, e conclude: «Prese con sé la sua sposa e, senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (1,24-25). Letteralmente il testo greco suona così: Giuseppe «prese con sé la sua sposa e non la conobbe finché partorì e gli generò un figlio...». È noto che «conoscere» è un eufemismo biblico per l’atto sessuale. Il passo originario, a prima vista, sembrerebbe alludere a successivi rapporti di Giuseppe con Maria, così da giustificare la generazione dei cosiddetti «fratelli e sorelle di Gesù».
   A livello strettamente filologico, però, Matteo non affronta tale questione (che ha complesse implicazioni storiche, esegetiche e teologiche che non possiamo ora trattare). Infatti, nelle lingue moderne quando si dice che una cosa non succede “fino a” un certo tempo, di solito si suppone che abbia luogo dopo: Giuseppe non ha avuto rapporti con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto generare con lei figli. In realtà il greco eos ou, “finché non”, e una sua eventuale matrice aramaica, sottesa al greco usato da Matteo, vogliono marcare solo ciò che accade fino alla scadenza di quel “finché”. Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Il tema che all’evangelista premeva sottolineare era quello teologico della generazione di Cristo non da seme e da scelta umana ma da un atto trascendente divino. È questo anche il senso sia della verginità di Maria sia della maternità di Maria.
    Abbiamo scelto di accompagnare questo Natale con una figura che diverrà cara alla tradizione cristiana, nonostante appaia solo agli esordi della vita di Gesù. Inizi per altro drammatici, avvolti nel sangue della strage dei bambini di Betlemme imposta da Erode e con l’esperienza amara di profugo che egli sperimenterà assieme alla sua famigliola, divenuta emigrante e clandestina in Egitto, una terra che in passato non era stata certo benevola con gli Ebrei. Giuseppe – che tra l’altro non parla mai e che scompare subito di scena nei Vangeli – ha invece avuto un successo non marginale nei Vangeli apocrifi, al punto tale che esiste persino una deliziosa (e piuttosto fantasiosa) Storia di Giuseppe il falegname, scritta in greco in Egitto nei primi secoli, giunta a noi solo nelle versioni araba e copta e pubblicata del 1722 dallo svedese G. Wallin. Ma questa è veramente un’altra storia... A noi sono bastati i Vangeli canonici, tenendo forse davanti agli occhi l’immagine del forte capofamiglia Giuseppe che incombe sulla sposa Maria e il piccolo Gesù nel michelangiolesco Tondo Doni degli Uffizi.
 
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mercoledì 25 dicembre 2019

La Natività di Gesù spiegata dai Profeti di Gianfranco Ravasi



La Natività di Gesù spiegata dai Profeti
di Gianfranco Ravasi
 


    Natale. Gli oracoli dell’Antico Testamento servirono da guida agli evangelisti per leggere e interpretare gli eventi portentosi legati alla nascita e alle fasi iniziali della vita di Cristo 
Era stata Selma Lagerlöf, Nobel nel 1909, a favorire la fuga a Stoccolma della poetessa tedesca ebrea Nelly Sachs, per sottrarla ai lager e forse alle camere a gas naziste. Nella capitale svedese, ove morirà nel 1970 a 79 anni, dopo aver ricevuto anche lei nel 1966 il Nobel, Nelly potrà comporre le sue opere maggiori spesso ibridate di forme, ritmi e temi biblici. E sono proprio alcuni versi di una sua lirica, simile a una ballata, intitolata Le stelle si oscurano che adottiamo a epigrafe per proporre una sorta di «Natale dei profeti».
    Ecco le sue parole: «Se i profeti irrompessero per le porte della notte, / incidendo ferite nei campi della consuetudine, / se i profeti irrompessero per le porte della notte / e cercassero un orecchio come patria, / orecchio degli uomini, ostruito di ortiche, / sapresti ascoltare?». Nella notte oscura della storia risuona la voce dei profeti. Essa incide in profondità come un aratro, ferendo la superficie sassosa e gelata dell’indifferenza e della banalità. Purtroppo, però, gli orecchi delle persone sono ostruiti dalle chiacchiere e dalla sordità dell’egoismo e non lasciano irrompere le parole incandescenti della profezia.
     Ebbene, l’evangelista Matteo per interpretare gli eventi del Natale di Gesù si è affidato proprio a queste figure bibliche che il filosofo Karl Jaspers considerava uno dei fenomeni spirituali e culturali più originali dell’umanità. Il metodo ermeneutico sotteso alla mente dell’evangelista è quello “prospettico”, come suggeriva anche Pascal: «La prova più grande di Gesù Cristo sono le profezie...
Esse sono la preparazione della nascita di Gesù Cristo, il cui Vangelo doveva essere creduto in tutto il mondo. Era necessario che ci fossero le profezie per farlo credere» (Pensieri 706, ed. Brunschvicg). Il profeta intravede e prevede già il futuro messianico di Cristo.
    In questa linea per ben cinque volte, all’interno di un breve racconto fatto di soli 31 versetti nei capitoli 1 e 2 del suo Vangelo, Matteo ribadisce che i fatti della vita del piccolo Gesù sono il «compimento» di un annuncio profetico remoto. In realtà, il profeta – come suggerisce l’etimologia del termine – è per eccellenza un uomo pubblico che «parla» (in greco phemí) davanti (pro-) a tutti provocando reazioni morali «in vece» (pro-), cioè a nome di Dio. Certo è che il suo sguardo è proteso verso il futuro messianico, è capace di intuire «prima» (pro-) le traiettorie di orientamento della storia, ma non nei dettagli concreti quasi fosse un indovino.
    Potremmo, allora, dire meglio che in realtà lo sguardo matteano è “retrospettivo”: sugli atti presenti della famiglia di Nazaret egli getta la luce della profezia, interpretandoli secondo pagine anticotestamentarie più adatte a quello scopo. Il primo passo profetico selezionato è Isaia 7,14: la generazione verginale e quindi divina avviene «perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi» (Matteo 1,22-23). Isaia probabilmente pensava al figlio di Acaz, il re di allora, un erede di nome Ezechia in cui il profeta porrà molte speranze.
    Per questo nell’originale ebraico, per indicare la madre, si ha il vocabolo ‘almah, «giovane donna», e non «vergine» (betûlah). L’antica versione greca biblica detta «dei Settanta», scelse questo secondo significato traducendo parthénos, «vergine», e così offrì a Matteo la base per fondare la cristologia del Figlio di Dio, nato sì da una donna, ma non «da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio» (Giovanni 1,13). In tal modo, al concreto re-«messia» (in ebraico la parola significa «consacrato») atteso da Isaia subentra il Messia per eccellenza, pienezza della presenza di Dio nell’umanità («Emmanuele»).
   Il secondo ricorso alla profezia avviene quando gli esperti gerosolimitani delle Scritture segnalano al sospettoso Erode – che dai Magi ha avuto notizia della nascita di un nuovo «re dei Giudei» – la località ove questo evento si sarebbe compiuto, cioè Betlemme, la patria di Davide. Il rimando di quegli scribi è a un profeta contemporaneo a Isaia (VIII sec. a.C.), Michea, che annunciava in chiave messianico-davidica: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te, infatti, uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (Matteo 2,6; Michea 5,1-3). Anche in questo caso il profilo davidico, emblema del Messia, viene applicato al neonato Gesù.
    L'ossessione di Erode per il potere aveva già generato stragi di pretendenti persino all’interno della sua famiglia. Ecco, allora, la scelta preventiva di Giuseppe, il padre legale di Gesù, di rifugiarsi col neonato e la sposa Maria in Egitto. Agli occhi di Matteo si presenta l’occasione per la terza citazione, questa volta da un altro profeta dell’VIII sec. a.C., Osea, dalla storia familiare piuttosto tormentata. Egli metteva in bocca a Dio questo oracolo, evocato dall’evangelista: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Matteo 2,15; Osea 11,1). Evidente è il richiamo all’esodo di Israele dall’oppressione faraonica, ora applicata al «figlio» Gesù che ripercorrerà le vie calcate dagli antenati del suo popolo, sia pure in senso inverso, dalla terra promessa all'Egitto.
   La furia sanguinaria di Erode si scatena con la celebre «strage degli innocenti». Matteo, di fronte al grido disperato di quelle madri (chi non ricorda l’affresco di Giotto nella cappella padovana degli Scrovegni?), fa echeggiare il lamento di Rachele, l’amata sposa del patriarca biblico Giacobbe-Israele, che si erge come una Mater dolorosa statuaria a Rama, luogo della sua morte per parto. Da quella località, secoli dopo, si stanno avviando le colonne degli Ebrei superstiti, suoi figli ideali, deportati a Babilonia in esilio, dopo la distruzione del tempio e della città santa nel 586 a.C. Ora è Geremia a offrire a Matteo la sua voce: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Matteo 2,18; Geremia 31,15).
     Morto Erode, la sacra famiglia rientra a Nazaret, un villaggio ignoto all’Antico Testamento.
     L’evangelista per collocare anche questo dato sotto l’ombrello della profezia ricorre a una formula vaga: «perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: Sarà chiamato Nazareno» (2,23). Arduo è, infatti, decifrare l’allusione matteana: forse egli appella al vocabolo ebraico nazir, «consacrato», applicato a chi praticava un voto descritto nel libro dei Numeri (c. 6), oppure a nezer, «virgulto», un simbolo messianico (Isaia 11,1) o a nazûr, «il resto» degli Ebrei fedeli a Dio, nonostante le prove (Isaia 42,6). Paradossale in questo passo evangelico è che Gesù sia legittimato come Messia non sulla base di Betlemme, la città di Davide, ma sulla sua dimora nell’oscuro e dimenticato paesino di Nazaret, ignorato dalle Scritture.
   Si chiude qui il «Natale dei profeti». Già nel II secolo, in un affresco delle catacombe romane di Priscilla sulla via Salaria, un anonimo artista raffigurava la Madonna seduta che regge in grembo il neonato Gesù e che si volge con intensità a un profeta. Costui indica in alto una stella: per alcuni potrebbe essere un profeta pagano, Balaam, che nella Bibbia anziché maledire Israele come vorrebbe un re nemico del popolo ebraico, lo benedice ed esalta, e in uno dei suoi quattro oracoli propone questo annuncio regale messianico: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Numeri 24,17).
   È ciò che farà anche la prima tradizione cristiana, quando curiosamente ricorrerà alla IV Egloga di Virgilio (I sec. a.C.) che evoca un’èra di pace nella quale è in scena un Bambino di origine divina, accompagnato da una Vergine, mentre sono cancellate «le tracce della colpa». Già san Girolamo, però, faceva notare che Virgilio non parla di un parto da una vergine e l’atmosfera simbolica del testo è più imperiale che teologica. Rimane, quindi, l'Antico Testamento come palinsesto ermeneutico ideale per leggere gli eventi iniziali della vita di Cristo, proiettando su di essi la luce degli antichi oracoli profetici.
   E come abbiamo iniziato con la voce di una poetessa e di un filosofo per celebrare la forza provocatoria, purtroppo disattesa, della profezia, concludiamo con questa parabola del Diario del filosofo danese Soeren Kierkegaard riguardante l’equivoco e l’insuccesso a cui spesso va incontro il profeta. «Un direttore di teatro si presenta trafelato sulla scena per avvertire il pubblico che è scoppiato un incendio. Gli spettatori, però, credono che la sua comparsa faccia parte della farsa che stanno guardando: così, quanto più quello urla, tanto più forte si leva il loro applauso».
 
 in “Il Sole 24 Ore” del 22 dicembre 2019
 https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.com/2019/12/gianfranco-ravasi-la-nativita-di-gesu.html
 

martedì 24 dicembre 2019

 Inni nisibeni, 3,80-134 
 Efrem il Siro 


Il miracolo della nascita di Cristo 

Un grande stupore si impossessa delluomo quando considera il miracolo che Dio scese prendendo dimora in un seno materno, che la sua somma essenza assunse un corpo umano e per nove mesi abitò nellutero della madre senza contrarietà, e che quel seno di carne fu in grado di portare il fuoco, che la fiamma abitò nel corpo delicato senza bruciarlo. Proprio come il roveto sullOreb portava Dio nella fiamma, così Maria portò Cristo nel suo seno verginale. Attraverso ludito, Dio entrò senza danni nel ventre materno e il Figlio di Dio poi ne uscì con purezza. La vergine concepì Dio e la sterile (Elisabetta) concepì il vergine (Giovanni), anzi il figlio della sterilitàspuntò prima del germoglio della verginità.Un miracolo nuovo Dio ha compiuto tra gli abitanti della terra: egli che misura il cielo con la spanna, giace in una mangiatoia duna spanna; egli che contiene il mare nel cavo della mano conobbe la propria nascita in un antro. Il cielo è pieno della sua gloria e la mangiatoia è piena del suo splendore. Mosè desiderò contemplare la gloria di Dio, ma non gli fu possibile vederla come aveva desiderato. Potrebbe oggi venire a vederla, perché giace nella cuna in una grotta. Allora nessun uomo sperava di vedere Dio e r e s t a r e i n v i t a ; o g g i t u t t i c o l o r o c h e lhanno visto sono sorti dalla seconda morte alla vita.Mosè prefigurò il mistero, vedendo un fuoco in un roveto; i magi portarono a compimento il mistero, vedendo laluce in una cuna. A gran voce dal roveto Dio impose a Mosè di togliersi le scarpe dai piedi; la stella invitò tacitamente i magi a giungere al luogo santo. Mosè non poté vedere Dio come realmente è; i magi invece entrarono e videro il Figlio di Dio fatto uomo. Il volto di Mosè splendeva perché Dio gli aveva parlato e un velo ricoprì il suo viso perché il popolo non poteva guardarlo; così nostro Signore si è circondato, nel seno materno, con il velo della carne e ne è uscito e si è mostrato: e i magi lo videro e gli offrirono i loro doni.Egrande il prodigio che si è compiuto sulla nostra terra: il Signore di tutto è disceso su di essa, Dio si è fatto uomo, lAntico è diventato fanciullo; il Signore si è fatto uguale al servo, il figlio del re si è reso come un povero errabondo. Lessenza eccelsa si è abbassata ed è nata nella nostra natura, e ciò che era estraneo alla sua natura lo ha assunto per il nostro bene. Chi non contemplerà con gioia il miracolo che Dio si è abbassato assoggettandosi alla nascita? Chi non si meraviglierà vedendo che il Signore degli angeli è stato partorito? Credilo senza dubitarne e sii convinto che tutto in verità si è svolto proprio così! 

Da: Inno per la nascita di Cristo, 1

Inno sulla Natività (1,88-95.99) di s. Efrem il Siro (ca. 306-373)


 Inno sulla Natività (1,88-95.99) di s. Efrem il Siro (ca. 306-373)



Questa è notte di riconciliazione,
non vi sia chi è adirato o rabbuiato.
In questa notte, che tutto acquieta,
non vi sia chi minaccia o strepita.
Questa è la notte del Mite,
nessuno sia amaro o duro.
In questa notte dell'Umile
non vi sia altezzoso o borioso.
In questo giorno di perdono
non vendichiamo le offese.
In questo giorno di gioie
non distribuiamo dolori.
In questo giorno mite
non siamo violenti.
In questo giorno quieto
non siamo irritabili.
In questo giorno della venuta
di Dio presso i peccatori,
non si esalti, nella propria mente,
il giusto sul peccatore.
In questo giorno della venuta
del Signore dell'universo presso i servi,
anche i signori si chinino
amorevolmente verso i propri servi.
In questo giorno,
nel quale si è fatto povero per noi il Ricco
anche il ricco renda partecipe il povero della sua tavola.
Oggi si è impressa
La divinità nell'umanità,
affinché anche l'umanità
fosse intagliata nel sigillo della divinità.

I Inno sulla Natività (1,88-95.99) di s. Efrem il Siro (ca. 306-373)

" MARIA NEL NATALE ", di padre Raniero Cantalamessa


PADRE RANIERO CANTALAMESSA 

"MARIA NEL NATALE" 

Estratto dalla TERZA PREDICA DI AVVENTO 2019

 

 

 Palermo, Cappella Palatina, Natività di Cristo, 1148 circa

  
   I «passi» che stiamo compiendo sulle orme di Maria corrispondono, abbastanza fedelmente, allo svolgersi anche storico della vita di lei, come esso risulta dai Vangeli. La meditazione su Maria «piena di fede» ci ha riportato al mistero dell’Annunciazione; quella sul Magnificat, al mistero della Visitazione, e ora quella di Maria «Madre di Dio» al Natale. Fu nel Natale, infatti, nel momento in cui diede alla luce il suo figlio primogenito (Lc 2, 7), non prima, che Maria divenne veramente e pienamente Madre di Dio.
  Nel parlare di Maria, la Scrittura mette costantemente in risalto due elementi, o momenti, fondamentali, che corrispondono, del resto, a quelli che anche la comune esperienza umana considera essenziali perché si abbia una vera e piena maternità. Essi sono: concepire e partorire. Ecco – dice l’angelo a Maria – concepirai nel seno e partorirai un figlio (Lc 1, 31). Questi due momenti sono presenti anche nel racconto di Matteo: Quel che è «generato» in lei, è dallo Spirito Santo ed essa «partorirà» un figlio (cf Mt 1, 20 s). La profezia di Isaia, in cui tutto ciò era stato preannunciato, si esprimeva allo stesso modo: Una vergine concepirà e partorirà un figlio (Is 7, 14). Ecco perché dicevo che solo a Natale, quando dà alla luce Gesù, Maria diventa, in senso pieno, Madre di Dio.
Dei due momenti, il titolo in uso nella Chiesa latina «Genitrice di Dio» (Dei Genitrix) mette più in rilievo il primo momento, quello relativo alla concezione; il titolo Theotókos, in uso nella Chiesa greca, mette più in rilievo il secondo momento, il partorire (tíkto significa infatti, in greco, partorisco). Il primo momento (fuori del caso unico di Maria) è comune sia al padre che alla madre, mentre il secondo, il partorire, è esclusivo della madre.
Madre di Dio è il titolo che esprime uno dei misteri e, per la ragione, uno dei paradossi più alti del cristianesimo. È il più antico e importante titolo dogmatico della Madonna, essendo stato definito dalla Chiesa nel Concilio di Efeso nel 431, come verità di fede da credersi da tutti i cristiani. È il fondamento di tutta la grandezza di Maria. È il principio stesso della mariologia. Per esso, Maria non è, nel cristianesimo, solo oggetto di devozione, ma anche di teologia; entra cioè nel discorso stesso su Dio, perché Dio è direttamente implicato nella maternità divina di Maria.

   Uno sguardo storico al formarsi del dogma
   Nel Nuovo Testamento non troviamo esplicitamente il titolo «Madre di Dio» dato a Maria. Vi troviamo però delle affermazioni che, nella riflessione della Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, mostreranno, in seguito, di contenere già, in nuce, tale verità. Di Maria si dice che ha concepito e generato un figlio, il quale è Figlio dell’Altissimo, santo e Figlio di Dio (cf Lc 1, 31-32.35). Dai Vangeli risulta, dunque, che Maria è la madre di un figlio, di cui si sa che è il Figlio di Dio. Ella è chiamata correntemente nei Vangeli: la madre di Gesù, la madre del Signore (cf Lc 1, 43), o semplicemente «la madre» e «sua madre» (cf Gv 2, 1-3).
   Bisognerà che la Chiesa, nello sviluppo della sua fede, chiarisca a se stessa chi è Gesù, prima di sapere di chi è madre Maria. Maria non comincia certo a essere Madre di Dio nel concilio di Efeso del 431, come Gesù non comincia a essere Dio nel concilio di Nicea del 325, che lo definì tale. Lo era anche prima. Quello è piuttosto il momento in cui la Chiesa, nello svilupparsi ed esplicitarsi della sua fede, sotto la spinta dell’eresia, prende piena coscienza di questa verità e prende posizione a suo riguardo. Avviene come nella scoperta di una nuova stella: essa non nasce nel momento in cui la sua luce giunge sulla terra ed è vista dall’osservatore, ma esisteva già da prima, forse da migliaia di anni luce. La definizione conciliare è il momento in cui la lucerna viene messa sul candelabro che è il credo della Chiesa.
   In questo processo che porta alla proclamazione solenne di Maria Madre di Dio, possiamo distinguere tre grandi fasi. All’inizio e per tutto il periodo dominato dalla lotta contro l’eresia gnostica e docetista, la maternità di Maria viene vista quasi solo come maternità fisica. Questi eretici negavano che Gesù avesse un vero corpo umano, o, se l’aveva, che questo corpo umano fosse nato da una donna, o, se era nato da una donna, che fosse tratto veramente dalla carne e dal sangue di lei. Contro di essi bisognava dunque affermare con forza che Gesù era figlio di Maria e «frutto del suo grembo» (Lc 1, 42), e che Maria era vera e naturale Madre di Gesù.
    La maternità di Maria, in questa fase più antica, serve, più che altro, a dimostrare la vera umanità di Gesù. Fu in questo periodo e in questo clima che si formò l’articolo del credo: «Nato (o incarnato) per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine». Esso, all’origine, voleva dire semplicemente che Gesù è Dio e uomo: Dio, in quanto generato secondo lo Spirito, cioè da Dio, e uomo in quanto generato secondo la carne, cioè da Maria.
    In questa fase antica, già con Origene, fa la sua comparsa il titolo di Theotókos. D’ora in poi, sarà proprio l’uso di questo titolo a condurre la Chiesa alla scoperta di una maternità divina più profonda. Avvenne durante l’epoca delle grandi controversie cristologiche del V secolo, quando il problema centrale, intorno a Gesù Cristo, non è più quello della sua vera umanità, ma quello dell’unità della sua persona. La maternità di Maria non viene più vista solo in riferimento alla natura umana di Cristo, ma, com’è più giusto, in riferimento all’unica persona del Verbo fatto uomo. E siccome quest’unica persona che Maria genera secondo la carne non è altro che la persona divina del Figlio, di conseguenza, ella appare vera «Madre di Dio».
   Tra Maria e Cristo non c’è più solo una relazione di ordine fisico, ma anche di ordine metafisico, e questo la colloca a una altezza vertiginosa, creando un rapporto singolare anche tra lei e il Padre. Con il Concilio di Efeso, questa cosa diventa per sempre una conquista della Chiesa. In un testo da esso approvato si dice: «Se qualcuno non confessa che Dio è veramente l’Emmanuele e che perciò la Santa Vergine, avendo generato secondo la carne il Verbo di Dio fatto carne, è la Theotókos, sia anatema».
    Fu un momento di grande giubilo per tutto il popolo di Efeso, che aspettò i Padri fuori dell’aula conciliare e li accompagnò, con fiaccole e canti, alle loro dimore. Tale proclamazione determinò una esplosione di venerazione verso la Madre di Dio che non venne meno mai più, né in Oriente né in Occidente, e che si tradusse in feste liturgiche, icone, inni e nella costruzione di innumerevoli chiese a lei dedicate. Fu in questo clima che fu costruita la Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
   Ma anche questo traguardo non era definitivo. C’era un altro livello da scoprire nella maternità divina di Maria, dopo quello fisico e quello metafisico. Nelle controversie cristologiche, il titolo di Theotókos era valorizzato più in funzione della persona di Cristo che di quella di Maria, pur essendo un titolo mariano. Da tale titolo non si tiravano ancora le conseguenze logiche riguardanti la persona di Maria e, in particolare, la sua santità unica. Theotókos rischiava di divenire un’arma di battaglia tra opposte correnti teologiche, anziché l’espressione della fede e della pietà della Chiesa verso Maria.
   Fu questo il grande apporto degli autori latini e in particolare di sant’Agostino. La maternità di Maria è vista come una maternità nella fede, come maternità anche spirituale. Siamo all’epopea della fede di Maria. A proposito della parola di Gesù: Chi è mia Madre…, Agostino risponde attribuendo a Maria, in grado sommo, quella maternità spirituale che viene dal fare la volontà del Padre: « Forse che non fece la volontà del Padre la Vergine Maria, che per fede credette, per fede concepì, che fu scelta perché da lei nascesse per gli uomini la salvezza, che fu creata da Cristo, prima che in essa venisse creato Cristo? Certo che fece la volontà del Padre santa Maria e perciò è cosa più grande per Maria essere stata discepola di Cristo, che essere stata Madre di Cristo» .
      La maternità fisica di Maria e quella metafisica vengono ora coronate dal riconoscimento di una maternità spirituale, o di fede, che fa di Maria la prima e la più santa figlia di Dio, la prima e più docile discepola di Cristo, la creatura della quale – scrive ancora sant’Agostino – «per l’onore dovuto al Signore, non si deve neppure far menzione quando si parla del peccato». La maternità fisica o reale di Maria, con l’eccezionale e unico rapporto che crea tra lei e Gesù e tra lei e la Trinità tutta intera resta, da un punto di vista oggettivo, la cosa più grande e il privilegio ineguagliabile, ma essa è tale proprio perché trova un riscontro soggettivo nell’umile fede di Maria. Per Eva costituiva certo un privilegio unico essere la «madre di tutti i viventi»; ma poiché non ebbe fede, a nulla le giovò e anziché beata, divenne sventurata.
  Madre di Dio, titolo ecumenico Maria è l’unica, nell’universo, a poter dire, rivolta a Gesù, ciò che dice a lui il Padre celeste: «Tu sei mio figlio; io ti ho generato!» (cf Sal 2, 7; Eb 1, 5). Sant’Ignazio d’Antiochia dice, con tutta semplicità, quasi senza accorgersi in che dimensione sta proiettando una creatura, che Gesù è «da Dio e da Maria» . Quasi come noi diciamo di un uomo che è figlio del tale e della tale. Dante Alighieri ha racchiuso il duplice paradosso di Maria che è «Vergine e Madre» e «madre e figlia », in un solo verso: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio!» Il titolo «Madre di Dio» basta da solo a fondare la grandezza di Maria e a giustificare l’onore a lei tributato. Si rimprovera talvolta ai cattolici di esagerare nell’onore e nell’importanza attribuiti a Maria e a volte bisogna riconoscere che il rimprovero era giustificato, almeno per il modo e lo spirito con cui ciò avveniva. Ma non si pensa a ciò che ha fatto Dio. Dio si è portato talmente avanti nell’onorare Maria facendola Madre di Dio, che nessuno può dire di più, “anche se avesse tante lingue quante sono le foglie d’erba.
Il titolo di «Madre di Dio» è anche oggi il punto d’incontro e la base comune a tutti i cristiani, da cui ripartire per ritrovare l’intesa intorno al posto di Maria nella fede. Esso è l’unico titolo ecumenico, non solo di diritto, perché definito in un Concilio ecumenico, ma anche di fatto perché riconosciuto da tutte le Chiese. Lutero ha scritto: «L’articolo che afferma che Maria è Madre di Dio è vigente nella Chiesa fin dagli inizi e il Concilio di Efeso non l’ha definito come nuovo, perché è già una verità sostenuta nel Vangelo e nella Sacra Scrittura… Queste parole (Lc 1, 32; Gal 4, 4) con molta fermezza sostengono che Maria è veramente la Madre di Dio».
    Un altro iniziatore della Riforma, Zuinglio, scrive: «Maria è giustamente chiamata, a mio giudizio, Genitrice di Dio, Theotókos». Egli chiama altrove Maria «la divina Theotókos, eletta prima ancora di avere la fede». Calvino, a sua volta, scrive: «La Scrittura ci dichiara esplicitamente che colui che dovrà nascere dalla Vergine.
   Maria sarà chiamato Figlio di Dio (Lc 1, 32) e che la Vergine stessa è Madre del nostro Signore». Madre di Dio, Theotókos, è dunque il titolo al quale bisogna sempre ritornare, distinguendolo da tutta l’infinita serie di altri nomi e titoli mariani. Se esso fosse preso sul serio da tutte le Chiese e valorizzato di fatto, oltre che riconosciuto di diritto in sede dogmatica, basterebbe a creare una fondamentale unità intorno a Maria ed ella, anziché occasione di divisione tra i cristiani, diventerebbe, dopo lo Spirito Santo, il più importante fattore di unità ecumenica, colei che, con il suo carisma materno, aiuta a «riunire tutti i figli di Dio che sono dispersi» (cf Gv 11, 52).
  Madri di Cristo: l’imitazione della Madre di Dio Il nostro modo di procedere, in questo cammino verso Natale sulle orme di Maria, consiste nel contemplare i singoli «passi» da lei compiuti per poi imitarli nella nostra vita. Ma come imitare questo tratto della Madonna di essere Madre di Dio? Può Maria essere « figura della Chiesa», cioè suo modello, anche in questo punto? Non solo ciò è possibile, ma ci sono stati uomini, come Origene, sant’Agostino, san Bernardo, i quali sono arrivati a dire che, senza questa imitazione, il titolo di Maria sarebbe inutile per me: «Che giova a me – dicevano – che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella mia anima?»
   Dobbiamo richiamare alla mente che la maternità divina di Maria si realizza su due piani: su un piano fisico e su un piano spirituale. Maria è Madre di Dio non solo perché l’ha portato fisicamente nel grembo, ma anche perché l’ha concepito prima nel cuore con la fede. Noi non possiamo, naturalmente, imitare Maria nel primo senso, generando di nuovo Cristo, ma possiamo imitarla nel secondo senso, che è quello della fede. Gesù stesso iniziò questa applicazione alla Chiesa del titolo di « Madre di Cristo », quando dichiarò: Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 8, 21; cf Mc 3, 31 s; Mt 12, 49).
   Nella tradizione, questa verità ha conosciuto due livelli di applicazione complementari tra di loro. In un caso, si vede realizzata questa maternità, nella Chiesa presa nel suo insieme, in quanto «sacramento universale di salvezza »; nell’altro, tale maternità si vede realizzata in ogni singola persona o anima che crede. Il Concilio Vaticano II si colloca nella prima prospettiva quando scrive: «La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio» .
    Ma ancora più chiara è, nella tradizione, l’applicazione personale ad ogni anima: «Ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio… Se secondo la carne una sola è la Madre di Cristo, secondo la fede, tutte le anime generano Cristo quando accolgono la parola di Dio». Un altro Padre fa eco dall’oriente: «Il Cristo nasce sempre misticamente nell’anima, prendendo carne da coloro che sono salvati e facendo dell’anima che lo genera una madre vergine».

    Come concepire e partorire di nuovo Cristo
    Concentriamoci sull’applicazione del titolo Madre di Dio che ci riguarda anche singolarmente. Proviamo a vedere come si diventa, in concreto, madre di Gesù. Come ci dice Gesù che si diventa sua madre? Attraverso due operazioni: ascoltando la Parola e mettendola in pratica. Ripensiamo, per capire, a come divenne madre Maria: concependo Gesù e partorendolo.
    Vi sono due maternità incomplete o due tipi di interruzione di maternità. Una è quella, antica e nota, dell’aborto. Essa avviene quando si concepisce una vita, ma non si partorisce, perché, nel frattempo, o per cause naturali o per il peccato degli uomini, il feto è morto. Fino a poco fa, questo era l’unico caso che si conosceva di maternità incompleta. Oggi se ne conosce un altro che consiste, all’opposto, nel partorire un figlio senza averlo concepito. Così avviene nel caso di figli concepiti in provetta e immessi, in un secondo momento, nel seno di una donna, e nel caso desolante e squallido dell’utero dato in prestito per ospitare, magari a pagamento, vite umane concepite altrove. In questo caso, quello che la donna partorisce, non viene da lei, non è concepito « prima nel cuore che nel corpo».
    Purtroppo anche sul piano spirituale ci sono queste due tristi possibilità. Concepisce Gesù senza partorirlo chi accoglie la Parola, senza metterla in pratica, chi continua a fare un aborto spirituale dietro l’altro, formulando propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a metà strada; chi si comporta verso la Parola come l’osservatore frettoloso che guarda il suo volto nello specchio e poi se ne va dimenticando subito com’era (cf Gc 1, 23-24). Insomma, chi ha la fede, ma non ha le opere.
    Partorisce, al contrario, Cristo senza averlo concepito chi fa tante opere, anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall’abitudine, dall’ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare. Insomma, chi ha le opere, ma non ha la fede.


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1.S. Cirillo Alessandrino, Anatematismo I contro Nestorio, en Enchiridion Symbolorum, nr. 252.
2.S. Agostino, Discorsi 72 A (=Denis 25), 7 (Miscelánea Agustiniana, I, p. 162).
3.S. Agostino, De natura et gratia 36, 42 (CSEL 60, p. 263 s).
4.S. Ignazio d’Antiochia, Lettera agli Efesini 7, 2.
5.Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, 1
6.Lutero, Commento al Magnificat (ed. Weimar 7, p. 572 s).
7.Lutero, Dei Concili della Chiesa (ed. Weimar, 50, p. 591 s).
8.H. Zwingli, Expositio fidei, en Zwingli Hauptschriften, der Theologe III, Zurigo 1948, p. 319.
9.Calvino, Institutiones II, 14, 4 .
10.Cfr. Origene, Commento al Vangelo di Luca, 22, 3 (SCh 87, p. 302).
11.Lumen Gentium 64
12.S. Ambrogio, Expositio in Lucam, II, 26.
13.S. Massimo Confessore, Commento al Padre nostro (PG 90, 889).
14.S. Francesco d’Assisi, Lettera a tutti i fedeli, 1 (Fonti Francescane nr. 178).
15.S. Bonaventura, De quinque festivitatibus Pueri Jesu (ed. Quaracchi 1949, pp. 207 ss).
16.S. Agostino, Confessioni, VIII, 8, 19





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