martedì 13 luglio 2021

INTIMA ECCLESIAE NATURA, Lettera Apostolica sul Servizio della Carità in forma di Motu Proprio di Papa Benedetto XVI

 

INTIMA ECCLESIAE NATURA

LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI MOTU PROPRIO

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI

SUL SERVIZIO DELLA CARITÀ

 

Proemio

«L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (Lett. enc. Deus caritas est, 25).

Anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza (cfr ibidem); tutti i fedeli hanno il diritto ed il dovere di impegnarsi personalmente per vivere il comandamento nuovo che Cristo ci ha lasciato (cfr Gv 15,12), offrendo all’uomo contemporaneo non solo aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima (cfr Lett. enc. Deus caritas est, 28). All’esercizio della diakonia della carità la Chiesa è chiamata anche a livello comunitario, dalle piccole comunità locali alle Chiese particolari, fino alla Chiesa universale; per questo c’è bisogno anche di un’«organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (cfr ibid., 20), organizzazione articolata pure mediante espressioni istituzionali.

A proposito di questa diakonia della carità, nella Lettera enciclica Deus caritas est segnalavo che «alla struttura episcopale della Chiesa […] corrisponde il fatto che, nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione» del servizio della carità (n. 32), e notavo che «il Codice di Diritto Canonico, nei canoni riguardanti il ministero episcopale, non tratta espressamente della carità come di uno specifico ambito dell'attività episcopale» (ibidem). Anche se «il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi ha approfondito più concretamente il dovere della carità come compito intrinseco della Chiesa intera e del Vescovo nella sua Diocesi» (ibidem), rimaneva comunque il bisogno di colmare la suddetta lacuna normativa in modo da esprimere adeguatamente, nell'ordinamento canonico, l'essenzialità del servizio della Carità nella Chiesa ed il suo rapporto costitutivo con il ministero episcopale, tratteggiando i profili giuridici che tale servizio comporta nella Chiesa, soprattutto se esercitato in maniera organizzata e col sostegno esplicito dei Pastori.

In tale prospettiva, perciò, col presente Motu Proprio intendo fornire un quadro normativo organico che serva meglio ad ordinare, nei loro tratti generali, le diverse forme ecclesiali organizzate del servizio della carità, che è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale.

E’ importante, comunque, tenere presente che «l’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo» (ibid., 34). Pertanto, nell’attività caritativa, le tante organizzazioni cattoliche non devono limitarsi ad una mera raccolta o distribuzione di fondi, ma devono sempre avere una speciale attenzione per la persona che è nel bisogno e svolgere, altresì, una preziosa funzione pedagogica nella comunità cristiana, favorendo l’educazione alla condivisione, al rispetto e all’amore secondo la logica del Vangelo di Cristo. L’attività caritativa della Chiesa, infatti, a tutti i livelli, deve evitare il rischio di dissolversi nella comune organizzazione assistenziale, divenendone una semplice variante (cfr ibid., 31).

Le iniziative organizzate che, nel settore della carità, vengono promosse dai fedeli nei vari luoghi sono molto differenti tra di loro e richiedono un’appropriata gestione. In modo particolare, si è sviluppata a livello parrocchiale, diocesano, nazionale ed internazionale l'attività della «Caritas», istituzione promossa dalla Gerarchia ecclesiastica, che si è giustamente guadagnata l’apprezzamento e la fiducia dei fedeli e di tante altre persone in tutto il mondo per la generosa e coerente testimonianza di fede, come pure per la concretezza nel venire incontro alle richieste dei bisognosi. Accanto a quest'ampia iniziativa, sostenuta ufficialmente dall'autorità della Chiesa, nei vari luoghi sono sorte molteplici altre iniziative, scaturite dal libero impegno di fedeli che, in forme differenti, vogliono contribuire col proprio sforzo a testimoniare concretamente la carità verso i bisognosi. Le une e le altre sono iniziative diverse per origine e per regime giuridico, pur esprimendo egualmente sensibilità e desiderio di rispondere ad un medesimo richiamo.

La Chiesa in quanto istituzione non può dirsi estranea alle iniziative promosse in modo organizzato, libera espressione della sollecitudine dei battezzati per le persone ed i popoli bisognosi. Perciò i Pastori le accolgano sempre come manifestazione della partecipazione di tutti alla missione della Chiesa, rispettando le caratteristiche e l’autonomia di governo che, secondo la loro natura, competono a ciascuna di esse quali manifestazione della libertà dei battezzati.

Accanto ad esse, l’autorità ecclesiastica ha promosso, di propria iniziativa, opere specifiche, attraverso le quali provvede istituzionalmente ad incanalare le elargizioni dei fedeli, secondo forme giuridiche e operative adeguate che consentano di arrivare più efficacemente a risolvere i concreti bisogni.

Tuttavia, nella misura in cui dette attività siano promosse dalla Gerarchia stessa, oppure siano esplicitamente sostenute dall'autorità dei Pastori, occorre garantire che la loro gestione sia realizzata in accordo con le esigenze dell'insegnamento della Chiesa e con le intenzioni dei fedeli, e che rispettino anche le legittime norme date dall'autorità civile. Davanti a queste esigenze, si rendeva necessario determinare nel diritto della Chiesa alcune norme essenziali, ispirate ai criteri generali della disciplina canonica, che rendessero esplicite in questo settore di attività le responsabilità giuridiche assunte in materia dai vari soggetti implicati, delineando, in modo particolare, la posizione di autorità e di coordinamento al riguardo che spetta al Vescovo diocesano. Dette norme dovevano avere, tuttavia, sufficiente ampiezza per comprendere l’apprezzabile varietà di istituzioni di ispirazione cattolica, che come tali operano in questo settore, sia quelle nate su impulso dalla stessa Gerarchia, sia quelle sorte dall’iniziativa diretta dei fedeli, ma accolte ed incoraggiate dai Pastori del luogo. Pur essendo necessario stabilire norme a questo riguardo, occorreva però tener conto di quanto richiesto dalla giustizia e dalla responsabilità che i Pastori assumono di fronte ai fedeli, nel rispetto della legittima autonomia di ogni ente.

Parte dispositiva

Di conseguenza, su proposta del Cardinale Presidente del Pontificio Consiglio «Cor Unum», sentito il parere del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, stabilisco e decreto quanto segue:

Art. 1

§ 1. I fedeli hanno il diritto di associarsi e d'istituire organismi che mettano in atto specifici servizi di carità, soprattutto in favore dei poveri e dei sofferenti. Nella misura in cui risultino collegati al servizio di carità dei Pastori della Chiesa e/o intendano avvalersi per tale motivo del contributo dei fedeli, devono sottoporre i propri Statuti all'approvazione della competente autorità ecclesiastica ed osservare le norme che seguono.

§ 2. Negli stessi termini, è anche diritto dei fedeli costituire fondazioni per finanziare concrete iniziative caritative, secondo le norme dei cann. 1303 CIC e 1047 CCEO. Se questo tipo di fondazioni rispondesse alle caratteristiche indicate nel § 1 andranno anche osservate, congrua congruis referendo, le disposizioni della presente legge.

§ 3. Oltre ad osservare la legislazione canonica, le iniziative collettive di carità a cui fa riferimento il presente Motu Proprio sono tenute a seguire nella propria attività i principi cattolici e non possono accettare impegni che in qualche misura possano condizionare l'osservanza dei suddetti principi.

§ 4. Gli organismi e le fondazioni promossi con fini di carità dagli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica sono tenuti all'osservanza delle presenti norme ed in essi deve anche seguirsi quanto stabilito dai cann. 312 § 2 CIC e 575 § 2 CCEO.

Art. 2

§ 1. Negli Statuti di ciascun organismo caritativo a cui fa riferimento l'articolo precedente, oltre alle cariche istituzionali ed alle strutture di governo secondo il can. 95 § 1 CIC, saranno espressi anche i principi ispiratori e le finalità dell'iniziativa, le modalità di gestione dei fondi, il profilo dei propri operatori, nonché i rapporti e le informazioni da presentare all'autorità ecclesiastica competente.

§ 2. Un organismo caritativo può usare la denominazione di "cattolico" solo con il consenso scritto dell'autorità competente, come indicato dal can. 300 CIC.

§ 3. Gli organismi promossi dai fedeli ai fini della carità possono avere un Assistente ecclesiastico nominato a norma degli Statuti, secondo i cann. 324 § 2 e 317 CIC.

§ 4. Allo stesso tempo, l'autorità ecclesiastica tenga presente il dovere di regolare l'esercizio dei diritti dei fedeli secondo i cann. 223 § 2 CIC e 26 § 2 CCEO, onde venga evitato il moltiplicarsi delle iniziative di servizio di carità a detrimento dell'operatività e dell'efficacia rispetto ai fini che si propongono.

Art. 3

§ 1. Agli effetti degli articoli precedenti, s'intende per autorità competente, nei rispettivi livelli, quella indicata dai cann. 312 CIC e 575 CCEO.

§ 2. Trattandosi di organismi non approvati a livello nazionale, anche se operanti in varie diocesi, per autorità competente si intende il Vescovo diocesano del luogo dove l'ente abbia la sua sede principale. In ogni caso, l'organizzazione ha il dovere di informare i Vescovi delle altre diocesi ove operasse, e di rispettare le loro indicazioni riguardanti le attività delle varie entità caritative presenti in diocesi.

Art. 4

§ 1. Il Vescovo diocesano (cfr can. 134 § 3 CIC e can. 987 CCEO) esercita la propria sollecitudine pastorale per il servizio della carità nella Chiesa particolare a lui affidata in qualità di Pastore, guida e primo responsabile di tale servizio.

§ 2. Il Vescovo diocesano favorisce e sostiene iniziative ed opere di servizio al prossimo nella propria Chiesa particolare, e suscita nei fedeli il fervore della carità operosa come espressione di vita cristiana e di partecipazione alla missione della Chiesa, come segnalato dai cann. 215 e 222 CIC e 25 e 18 CCEO.

§ 3. Spetta al rispettivo Vescovo diocesano vigilare affinché nell'attività e nella gestione di questi organismi siano sempre osservate le norme del diritto universale e particolare della Chiesa, nonché le volontà dei fedeli che avessero fatto donazioni o lasciti per queste specifiche finalità (cfr cann. 1300 CIC e 1044 CCEO).

Art. 5

Il Vescovo diocesano assicuri alla Chiesa il diritto di esercitare il servizio della carità, e curi che i fedeli e le istituzioni sottoposte alla sua vigilanza osservino la legittima legislazione civile in materia.

Art. 6

E' compito del Vescovo diocesano, come indicato dai cann. 394 § 1 CIC e 203 § 1 CCEO, coordinare nella propria circoscrizione le diverse opere di servizio di carità, sia quelle promosse dalla Gerarchia stessa, sia quelle rispondenti all'iniziativa dei fedeli, fatta salva l'autonomia che loro competesse secondo gli Statuti di ciascuna. In particolare, curi che le loro attività mantengano vivo lo spirito evangelico.

Art. 7

§ 1. Le entità di cui all'art. 1 § 1 sono tenute a selezionare i propri operatori tra persone che condividano, o almeno rispettino, l'identità cattolica di queste opere.

§ 2. Per garantire la testimonianza evangelica nel servizio della carità, il Vescovo diocesano curi che quanti operano nella pastorale caritativa della Chiesa, accanto alla dovuta competenza professionale, diano esempio di vita cristiana e testimonino una formazione del cuore che documenti una fede all'opera nella carità. A tale scopo provveda alla loro formazione anche in ambito teologico e pastorale, con specifici curricula concertati con i dirigenti dei vari organismi e con adeguate offerte di vita spirituale.

Art.8

Ove fosse necessario per numero e varietà di iniziative, il Vescovo diocesano stabilisca nella Chiesa a lui affidata un ufficio che a nome suo orienti e coordini il servizio della carità.

Art. 9

§ 1. Il Vescovo favorisca la creazione, in ogni parrocchia della sua circoscrizione, d'un servizio di «Caritas» parrocchiale o analogo, che promuova anche un’azione pedagogica nell’ambito dell’intera comunità per educare allo spirito di condivisione e di autentica carità. Qualora risultasse opportuno, tale servizio sarà costituito in comune per varie parrocchie dello stesso territorio.

§ 2. Al Vescovo ed al parroco rispettivo spetta assicurare che, nell'ambito della parrocchia, insieme alla «Caritas» possano coesistere e svilupparsi altre iniziative di carità, sotto il coordinamento generale del parroco, tenendo conto tuttavia di quanto indicato nell'art. 2 § 4.

§ 3. E' dovere del Vescovo diocesano e dei rispettivi parroci evitare che in questa materia i fedeli possano essere indotti in errore o in malintesi, sicché dovranno impedire che attraverso le strutture parrocchiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che, pur presentandosi con finalità di carità, proponessero scelte o metodi contrari all'insegnamento della Chiesa.

Art. 10

§ 1. Al Vescovo spetta la vigilanza sui beni ecclesiastici degli organismi caritativi soggetti alla sua autorità.

§ 2. E' dovere del Vescovo diocesano assicurarsi che i proventi delle collette svolte ai sensi dei cann. 1265 e 1266 CIC, e cann. 1014 e 1015 CCEO, vengano destinati alle finalità per cui siano stati raccolti [cann. 1267 CIC, 1016 CCEO).

§ 3. In particolare, il Vescovo diocesano deve evitare che gli organismi di carità che gli sono soggetti siano finanziati da enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa. Parimenti, per non dare scandalo ai fedeli, il Vescovo diocesano deve evitare che organismi caritativi accettino contributi per iniziative che, nella finalità o nei mezzi per raggiungerle, non corrispondano alla dottrina della Chiesa.

§ 4. In modo particolare, il Vescovo curi che la gestione delle iniziative da lui dipendenti sia testimonianza di sobrietà cristiana. A tale scopo vigilerà affinché stipendi e spese di gestione, pur rispondendo alle esigenze della giustizia ed ai necessari profili professionali, siano debitamente proporzionate ad analoghe spese della propria Curia diocesana.

§ 5. Per consentire che l'autorità ecclesiastica di cui all'art. 3 § 1 possa esercitare il suo dovere di vigilanza, le entità menzionate nell'art. 1 § 1 sono tenute a presentare all’Ordinario competente il rendiconto annuale, nel modo indicato dallo stesso Ordinario.

Art. 11

Il Vescovo diocesano è tenuto, se necessario, a rendere pubblico ai propri fedeli il fatto che l'attività d'un determinato organismo di carità non risponda più alle esigenze dell'insegnamento della Chiesa, proibendo allora l'uso del nome "cattolico" ed adottando i provvedimenti pertinenti ove si profilassero responsabilità personali.

Art. 12

§ 1. II Vescovo diocesano favorisca l'azione nazionale ed internazionale degli organismi di servizio della carità sottoposti alla sua cura, in particolare la cooperazione con le circoscrizioni ecclesiastiche più povere analogamente a quanto stabilito dai cann. 1274 § 3 CIC e 1021 § 3 CCEO.

§ 2. La sollecitudine pastorale per le opere di carità, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, può essere esplicata congiuntamente da vari Vescovi viciniori nei riguardi di più Chiese insieme, a norma del diritto. Se si trattasse di ambito internazionale, sia consultato preventivamente il competente Dicastero della Santa Sede. E’ opportuno, inoltre, che, per iniziative di carità a livello nazionale, sia consultato da parte del Vescovo l’ufficio relativo della Conferenza Episcopale.

Art. 13

Resta sempre integro il diritto dell'autorità ecclesiastica del luogo di dare il suo assenso alle iniziative di organismi cattolici da svolgere nell'ambito della sua competenza, nel rispetto della normativa canonica e dell'identità propria dei singoli organismi, ed è suo dovere di Pastore vigilare perché le attività realizzate nella propria diocesi si svolgano conformemente alla disciplina ecclesiastica, proibendole o adottando eventualmente i provvedimenti necessari se non la rispettassero.

Art. 14

Dove sia opportuno, il Vescovo promuova le iniziative di servizio della carità in collaborazione con altre Chiese o Comunità ecclesiali, fatte salve le peculiarità proprie di ciascuno.

Art. 15

§ 1. II Pontificio Consiglio «Cor Unum» ha il compito di promuovere l'applicazione di questa normativa e di vigilare affinché sia applicata a tutti i livelli, ferma restando la competenza del Pontificio Consiglio per i Laici sulle associazioni di fedeli, prevista dall'art 133 della Cost. ap. Pastor Bonus, e quella propria della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e fatte salve le competenze generali degli altri Dicasteri e Organismi della Curia Romana. In particolare il Pontificio Consiglio «Cor Unum» curi che il servizio della carità delle istituzioni cattoliche in ambito internazionale si svolga sempre in comunione con le rispettive Chiese particolari.

§ 2. Al Pontificio Consiglio «Cor Unum» compete parimenti l'erezione canonica di organismi di servizio di carità a livello internazionale, assumendo successivamente i compiti disciplinari e di promozione che corrispondano in diritto.

Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano «L'Osservatore Romano», ed entri in vigore il giorno 10 dicembre 2012.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 Novembre 2012, ottavo Anno del Pontificato.

 

BENEDICTUS PP. XVI


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Fonte: Lettera Apostolica in forma di "Motu Proprio" Intima Ecclesiae natura sul servizio della carità (11 novembre 2012) | Benedetto XVI (vatican.va)

domenica 11 luglio 2021

"Nulla anteporre all'amore" L'ascesi nella "Regola di san Benedetto", di Cipriano Carini, osb


"Nulla anteporre all'amore"
L'ascesi nella "Regola di san Benedetto"


di Cipriano Carini, osb






Introduzione


Nella vita consacrata, monastica compresa, quando si parla di ascesi si intende l'organizzazione di una vita che, alle difficoltà e sofferenze normali, aggiunge volontariamente dei sacrifici e rifiuti di cose belle e buone, per poter essere più liberi per Dio e i fratelli e costruire forza e carattere per superare le prove, le tentazioni, le passioni insite nella nostra natura.

Nelle direttive della congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica (2 febbraio 1990), preparate per la formazione degli aspiranti alla vita religiosa, l'ascesi è vista come aspetto comune a tutti gli istituti, poiché "il cammino al seguito di Cristo conduce a condividere sempre più coscientemente e concretamente il mistero della sua passione, morte e risurrezione. Il mistero pasquale deve essere come il cuore dei programmi di formazione, in quanto sorgente di vita e di maturità. È su questo fondamento che si forma l'uomo nuovo, il religioso e l'apostolo. Questo ci porta a ricordare l'indispensabile necessità dell'ascesi … Vi è bisogno di testimoni del mistero pasquale di Cristo, la cui prima tappa passa obbligatoriamente attraverso la croce … Ascesi personale quotidiana che porti all'esercizio delle virtù di fede, di speranza, di carità, di prudenza, di giustizia, di fortezza e di temperanza … L'ascesi, d'altronde, che comporta un rifiuto di seguire i nostri impulsi e gli istinti spontanei, è un'esigenza antropologica prima di essere specificamente cristiana" (Potissimum institutioni 36-38; 80).




L'ascesi nella "Regola di san Benedetto"


La parola "ascesi" non compare nella Regola benedettina, ma è chiaro che tutto il testo legislativo è stato scritto per organizzare una vita ascetica.

San Benedetto, a confronto del monachesimo antecedente, non intende presentare una vita molto esigente; ripete diverse volte la sua scelta di "scrivere questa regola per procurare di avere in qualche modo una certa purezza di costumi e un inizio di vita monastica, mentre per chi ha fretta di raggiungere la perfezione della vita monastica, vi sono gli insegnamenti dei santi padri, la cui osservanza conduce alla vetta della perfezione, … di fronte a cui noi pigri, imperfetti e negligenti abbiamo di che arrossire di vergogna … Si tratta di una regola per principianti" (RB 73,2.7-8).

Si tratta certo di una regola, ma molto equilibrata, preparata "in modo che le anime si salvino e quello che i fratelli devono fare, lo facciano senza fondati motivi di mormorazione" (RB 41,5), con strutturazione della giornata, sia delle preghiere che del lavoro e della lectio divina (RB 48,1-2), "disposta con prudenza e giustizia" (RB 3,6).Una regola per la vita cristiana autentica e nulla più.

Si tratta di "istituire una scuola per il servizio del Signore. In essa speriamo di non stabilire nulla di rigido, nulla di gravoso. Ma se anche se vi si introdurrà qualche prescrizione un po' più severa, a motivo di un ragionevole equilibrio, al fine di correggere i vizi e di conservare la carità, tu non abbandonare" (RB, Prol. 45).

San Benedetto parla anche di un'officina che ha a sua disposizione tanti strumenti dell'arte spirituale, da adoperarsi giorno e notte, incessantemente (cf. RB 4), e se verranno "riconsegnati nel giorno del giudizio, riceveremo dal Signore quella ricompensa che egli stesso ha promesso" (RB 4,78-79).

La vita monastica è anche presentata come una milizia; è una vita propria di coloro che militano, combattono "sotto una regola e un abate" (RB 3,2); è una lotta quindi che si combatte dentro di noi e attorno a noi tra "lo zelo buono e lo zelo cattivo" (RB 72).

Le immagini della scuola, dell'officina, della milizia vogliono far comprendere che non si può mai cedere alla pigrizia, alla tiepidezza, alla negligenza; si rimane in attività di conversione per tutta la vita, con tutti i mezzi, con tutte le proprie energie. Impegno che non è tanto esteriore, un'organizzazione della vita, ma piuttosto interiore, di vita spirituale, di santificazione. Impegno da svolgersi quindi non solo all'inizio, nel tempo della formazione del noviziato, ma che ci mantiene "attenti in ogni istante … perché il Signore non ci trovi a un certo momento incamminati al male e divenuti infruttuosi" (RB 7,28-29); occorre "stabilità, conversione dei costumi e obbedienza" (RB 58,17) per tutti i giorni della vita: questa è la vita ascetica del monaco.

Più che di ascesi potremmo parlare di impegno di conversione continua, di lotta contro i vizi, di combattimento spirituale, di fatica nel dominio di sé, di osservanza della regola comune, di adesione al vangelo: impegno di vita cristiana autentica.

Vorrei considerare l'ascesi in san Benedetto legandomi alla vocazione come viene proposta da Gesù Cristo ai suoi apostoli, a tutti coloro che lo vogliono seguire:


1. Desiderio, passione per Dio ("se mi vuoi seguire")

2. per questo occorre lasciare tutto ("rinnega te stesso")

3. e vivere nella continua conversione, sotto una regola ("prendi la tua croce")




1. Desiderio, passione per Dio


Prima di esporre le diverse richieste concrete di vita regolare, le forme e strutture di ascesi proposte da san Benedetto nella sua Regola, vorrei che fosse chiaro che queste non sono presentate come scopo della vita, ma solo come mezzi e strumenti per liberarsi da possibili amori e attaccamenti a se stessi e alla terra e potersi così dedicare completamente e liberamente a Dio. Niente anteporre all'amore di Cristo! (RB 4,21 e 72,11). L'ascesi è quindi una questione di cuore, un aiuto a vivere l'amore. Si tratta di desiderio, di passione, di ricerca di Dio (cf. RB 58,7). Se non vi è questa spinta interiore, sia intellettuale che affettiva, l'organizzazione monastica diventa un mestiere, una professione che si esprime nella regolarità quotidiana, nelle celebrazioni liturgiche, nelle attività caritative, ma rimane senza spinta, senza anima. L'ascesi esteriore parte da una passione per Dio, è un problema di cuore!

La parola "cuore" è una parola chiave della regola benedettina: ricorre 31 volte. Già all'inizio del Prologo il santo legislatore invita il discepolo ad "aprire docile l'orecchio del cuore" (RB, Prol. 1), e la parola "cuore" va intesa in senso biblico, si rivolge cioè a tutto l'uomo, all'intera persona, alla coscienza del monaco; il cuore è la sede e la radice dell'anima (cf. Regola del maestro 8,7-11); poco più avanti, sempre nel Prologo, il santo patriarca inviterà a respingere lontano dallo sguardo del cuore il diavolo con le sue suggestioni (cf. RB, Prol. 28) poiché il servizio sotto la santa obbedienza ai divini comandamenti richiede la prontezza dei corpi e dei cuori (cf. RB, Prol. 40).

Tutta la vita monastica è presentata come "via della salvezza", ed è naturale che agli inizi, la via sia stretta e faticosa, ma poi, avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti" (RB, Prol. 48-49).

Del resto anche il cibo quotidiano della conversione consiste "nell'ascoltare, di tutto cuore, le sante letture" (RB 4,55) e la preghiera non è misurabile dalla quantità, ma dal "mettere in sintonia il nostro cuore con la nostra voce" (RB 19,7), poiché da Dio "non saremo esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alle lacrime" (RB 20,3). Davanti al Signore, se desideriamo pregare da soli, l'importante è lo stare "con lacrime e intenso fervore del cuore" (RB 52,4).

Certamente san Benedetto ha ripreso dagli "atti della milizia del cuore" ma vi porta tutto un suo sviluppo ed equilibrio, dove la spiritualità del cuore, non si ferma al mondo dei sentimenti, ma esige le opere che nascono spontanee dalla motivazione dell'amore che il monaco ha per Cristo. Scrive la sua Regola attingendo da altri scritti monastici occidentali ed orientali precedenti, non interessato al problema scientifico delle fonti, bensì a suscitare una teologia del cuore, cioè il desiderio della visione di Dio per amore. In monastero vi entra chi cerca, chi desidera Dio (cf. RB 58,7).

L'ascesi monastica che san Benedetto propone non vuole far uscire dal cristianesimo, ma piuttosto farlo vivere, per riprendere la coerenza e la radicalità di vita dei primi discepoli del Signore nostro. Il comandamento dell'amore rimane quindi la base dell'ascesi, sia nei riguardi della relazione con Dio (preghiere), che nel dominio di se stessi (digiuni, penitenze), che nelle relazioni verso gli altri (dono e servizio totale). Il lasciare è per amare.





2. Impegno a lasciare tutto



Seguendo il vangelo, per san Benedetto al primo posto dell'ascesi si deve mettere il rinnegamento di se stessi. Diceva Gesù agli apostoli: "Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24).

Per san Benedetto l'essenza della spiritualità benedettina si esprime nell'obbedienza: come rinnegamento di se stessi.

L'obbedienza è una virtù difficile da comprendere oggi; si è facili parlare di obbedienza ragionata, dialogata; si parla di corresponsabilità, di condivisione, di realizzazione della propria personalità, di pericolo di lesione della dignità personale. L'obbedienza benedettina è reale sottomissione al superiore nel nome della fede, su scelta libera, matura, piena di fede; pone in relazione con Dio per mezzo di chi lo rappresenta. È comunione, come quella del figlio Gesù Cristo verso il suo Padre celeste, con chi lo rappresenta. Disobbedire è uscire dalla comunione con Dio e idolatrare la propria volontà, il proprio egoismo. "Ci viene insegnato di non fare la nostra volontà" (RB 7,19-25; 35-43). "Come Cristo si è spogliato della sua ricchezza divina, il monaco deve spogliarsi della ricchezza della sua personalità, quindi di ogni indipendenza e sentire di sé, indipendenza e autonomia che sono appunto l'affermazione della personalità in senso egocentrico" (A. M. Canopi).

In qualche codice e commento della Regola i monaci sono chiamati semplicemente "gli obbedienti". L'esercizio dell'obbedienza è visto come una fatica laboriosa (cf. RB, Prol. 2) che si contrappone alla pigrizia della disobbedienza, ed è proprio di chi "rinunziando alla propria volontà, per servire Cristo Signore, il vero re, assume le fortissime e gloriose armi dell'obbedienza" (RB, Prol. 3), si tratta quindi di un impegno serio, quasi un servizio militare da compiere "sotto la santa obbedienza ai divini comandamenti" (RB, Prol. 40). Per san Benedetto se si devono fare delle distinzioni nell'amore dell'abate verso i monaci la sua compiacenza non va verso il più intelligente, equilibrato, dotato, ma verso "chi è migliore per l'ardore nelle buone opere e per l'obbedienza" (RB 2,17), così che deve "correggere con fermezza gli indisciplinati e i ribelli, ma esortare a progredire sempre più nel bene i discepoli che già si mostrano obbedienti, miti e pazienti" (RB 2,25).

L'obbedienza non è una teoria: occorrono i fatti. "Uomini di simile tempra interrompono dunque all'istante le loro occupazioni, si staccano dalla loro propria volontà. Subito pronti, le mani libere, lasciano incompiuto ciò che stavano facendo, e con un'obbedienza che mette ali ai piedi, seguono immediatamente la voce di chi comanda" (RB 5,7-8).

L'obbedienza è propria di coloro "che non vivono a loro arbitrio, non si lasciano dominare dalle loro voglie capricciose e istintive, ma piuttosto camminano lasciandosi guidare dall'altrui giudizio e comando" (RB 5,12), dalla parola di Dio, dagli scritti dei santi padri "preziosi aiuti e stimoli alla virtù per monaci ben impegnati e obbedienti" (RB 73,6).

La possiamo considerare, sempre collegandoci con la Regola, sotto vari aspetti:



1. Interiore

"Essa è propria di coloro che ritengono di non avere assolutamente nulla più caro di Cristo" (RB 5,2), e "si verifica in quelli che, spinti dall'amore, sentono l'urgenza di raggiungere la vita eterna" (RB 5,10). Amore di Cristo e desiderio della vita eterna! Impegno che prende "i nostri corpi e i nostri cuori" (RB, Prol. 40). Nel discernimento vocazionale una delle richieste di san Benedetto nei riguardi della possibile vocazione del postulante è di vedere "se si dedica con amore all'opera di Dio, all'obbedienza, e se sa accettare le umiliazioni" (RB 58,7); e nella formula della professione religiosa viene richiesto al novizio che davanti a tutti prometta "stabilità, conversione di vita e obbedienza" (RB 58,17), e anche se ci fossero sacerdoti che chiedono di far parte della comunità, anch'essi devono promettere di obbedire all'abate e alla Regola (cf. RB 62,11); tutti i monaci devono ubbidire, perfino "il priore del monastero se non starà quieto e obbediente in seno alla comunità, sia espulso dal monastero" (RB 65,21). Per san Benedetto "unicamente per questa via dell'obbedienza si va a Dio" (RB 71,2). L'obbedienza è rinnegamento di se stessi, per fede.

Addirittura se un fratello intelligente e dotato, con il suo lavoro produce economicamente per la comunità, non deve essere lasciato libero di esprimersi, ma richiedergli umilmente di rimanere alle dipendenze dell'abate, o anche fatto smettere di svolgere il suo mestiere se si dà all'autoindipendenza, alla superbia, alla disobbedienza alla regola e all'abate. "Se in monastero vi sono artigiani, esercitino il loro mestiere con grande umiltà, purché l'abate lo permetta. Ma se uno di loro si inorgoglisce per l'abilità del suo mestiere, credendo di arrecare qualche vantaggio al monastero, sia allontanato da tale mestiere e non vi sia più riammesso se non quando, divenuto umile, l'abate non glielo ordini di nuovo" (RB 57,1-3).

L'economia non è certo lo scopo del monaco, e nemmeno la realizzazione personale, e nemmeno la riuscita delle attività della comunità! Al monaco rimane solo il desiderio di Dio, della propria santificazione, come motivo di vita. E obbedienza con gioia; "infatti se il discepolo obbedisce malvolentieri e mormora non solo con la bocca ma anche semplicemente con il cuore, pur eseguendo l'ordine, non sarà più accetto a Dio" (RB 5,16-18).



2. Esteriore

Obbedienza senza esitazione, senza ritardo, senza svogliatezza o mormorazione, ma con i fatti. "Avviene perciò che, prendendo impulso dal timor di Dio, l'ordine dato dal maestro e la perfetta esecuzione del discepolo procedono insieme, rapidissimi, con una simultaneità sorprendente" (RB 5,9). "Sarà gradita a Dio e dolce agli uomini soltanto se l'ordine sarà eseguito senza esitazione, senza indolenza e tiepidezza, senza mormorazione o esplicito rifiuto" (RB 5,14).

Nella Vita di san Benedetto viene descritto un esempio di obbedienza perfetta: quella di san Mauro, che cammina sulle acque per salvare il confratello Placido, obbedendo a san Benedetto (cf. Gregorio Magno, Dialoghi II,7).



3. Alla regola

"Tutti dunque, e in tutto, seguano la Regola come loro maestra e nessuno abbia la temerarietà di allontanarsene. Nessuno in monastero segua le inclinazioni del proprio cuore" (RB 3,7), e questo riguarda anche l'abate che "deve fare tutto nel santo timore di Dio e nell'osservanza della Regola, conscio che di ogni decisione dovrà senza dubbio rendere conto a Dio, giustissimo giudice" (RB 7,10), anzi "soprattutto l'abate osservi integralmente questa Regola, in modo che, dopo aver reso buon servizio, possa sentirsi dire dal Signore le parole riguardanti il servo fedele che a tempo opportuno aveva distribuito il grano ai suoi compagni: in verità vi dico, lo mise a capo di tutti i suoi averi" (RB 64,20-22).

Per questo il santo legislatore esige che al novizio si legga e rilegga più volte la Regola: "Se egli promette di perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga questa Regola e gli si dica: 'Ecco la legge sotto la quale tu vuoi servire, se puoi osservarla entra, altrimenti sei libero di andare via' … Passati sei mesi gli si legga di nuovo la Regola, perché si renda ben consapevole del cammino che intraprende … Se ancora sta saldo nel suo proposito, trascorsi altri quattro mesi gli si rilegga la regola. Infine, se con matura e personale deliberazione egli promette di osservarla fedelmente e di sottomettersi in tutto all'obbedienza, lo si accolga in comunità … Sappia però che da questo momento non gli sarà più lecito uscire dal monastero né scuotere via da sé il giogo di quella Regola che, durante il prolungato periodo di riflessione egli poteva liberamente assumere o rifiutare" (RB 58,9-10.12.13.16). E in comunità "raccomandiamo che questa regola sia letta spesso, perché nessun fratello possa giustificarsi dicendo che non la conosceva" (RB 66,8).

Non si tratta di una regola molto esigente, a confronto del monachesimo antecedente, come già abbiamo accennato. San Benedetto lo attesta: "Abbiamo scritto questa regola perché, osservandola nei nostri monasteri, diamo prova di una certa serietà di costumi, o di avere almeno mosso i primi passi sulla via della conversione … per noi monaci rilassati, tiepidi e negligenti, tutto questo è motivo di rossore e confusione. Quindi, chiunque tu sia che ti affretti verso la patria celeste, metti in pratica, con l'aiuto di Cristo, questa piccola regola scritta per principianti, e così, sotto la protezione di Dio, giungerai certamente alle sublimi altezze" (RB 73,1.8-9).

Nonostante la richiesta di obbedienza completa e continua alla Regola, vi sono però anche le possibilità di eccezioni; così san Benedetto nel suo grande equilibrio ammette variazioni; per esempio dopo aver distribuito i salmi per le diverse ore del giorno, l'abate può variarne l'ordine (RB 18,22): "Se a qualcuno non dovesse piacere questa distribuzione dei salmi, ne disponga un'altra che crede migliore, purché faccia assolutamente in modo che ogni settimana si reciti l'intero salterio di 150 salmi".

Anche il necessario per la vita di ogni monaco non può essere uguale per tutti. "Sta scritto: si distribuiva a ciascuno secondo il bisogno. Con questo non diciamo che si facciano differenze di persone — non sia mai — ma che si tenga conto delle infermità" (RB 34,1-2); anche per gli indumenti precisa: "I monaci non facciano caso al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, ma si contentino di quelli che si possono trovare nella regione dove abitano o che si possono acquistare a minor prezzo" (RB 55,6); anche la misura del cibo può variare secondo l'età o il lavoro che si esegue o anche le stagioni più o meno calde (cf. RB 39): "Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo chi in un altro. Per questo abbiamo un certo scrupolo a stabilire la misura del vitto altrui" (RB 40,2) come pure del vino (cf. RB 40,3). Del resto san Benedetto si prende molta libertà nei riguardi delle regole precedenti, e con molto equilibrio è pronto a variare lui stesso perfino il tempo dell'opus Dei secondo le stagioni dell'anno (cf. RB 10: "Come celebrare la lode notturna nell'estate, con la brevità delle notti), o anche per eventuale ritardo della sveglia mattutina (cf. RB 11).



4. All'abate

"Nessuno sfrontatamente oppure fuori del monastero, abbia la presunzione di contestare con il suo abate" (RB 3,9). "L'abate, perché si sa per fede che fa le veci di Cristo, sia chiamato signore e abate, non perché egli lo pretenda, ma per onore e amore di Cristo" (RB 63,13; 2,2). "Appena un superiore ordina qualche cosa, come se fosse veramente comandato da Dio, (i fratelli) non possono sopportare alcun indugio nel compierla" (RB 5,4). "L'obbedienza che si presta ai superiori è offerta a Dio stesso, poiché egli dice: 'Chi ascolta voi, ascolta me'" (RB 5,15). "Il terzo grado di umiltà è questo: per amore di Dio sottomettersi in totale obbedienza al superiore, imitando il Signore di cui l'Apostolo dice: Si fece obbediente fino alla morte" (RB 7,34).

Sempre "per amore, contando unicamente sull'aiuto di Dio, obbedisca" (RB 7,35 e 68,5), anche se umanamente sembri impossibile eseguire l'ordine, secondo la logica e la misura del sano equilibrio, nel buon senso comune; ma l'abate dovrà rendere conto anche dell'obbedienza dei discepoli (RB 2,6). Anche quando la comunità si raduna per consigliare l'abate, "la decisione dipenda da lui, e in tutto ciò che avrà giudicato più opportuno, tutti obbediscano" (RB 3,5).

E se l'abate non ha buona condotta ? "Obbedire in tutto lo stesso, anche se — ma non sia mai — egli stesso agisse diversamente" (RB 4,61). Del resto i monaci sono coloro che "dimorando stabilmente nel cenobio, desiderano avere un abate cui obbedire" (RB 5,12). "D'altra parte l'abate non turbi il gregge che gli è affidato, né disponga qualcosa arbitrariamente, arrogandosi un potere quasi illimitato, ma pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni e azioni" (RB 63,2-3).



5. Ai fratelli

"L'obbedienza è un bene così grande che i fratelli devono sentire il bisogno non solo di offrirla all'abate, ma anche di scambiarsela tra di loro" (RB 71,1). Obbedienza che diventa attenzione specialmente verso alcune persone della comunità: i malati ("Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in persona": RB 36,1), i poveri (cf. RB 4,14) e i pellegrini ("Soprattutto verso i poveri e i pellegrini ci si prodighi in premurosa accoglienza, perché proprio in essi maggiormente si riceve Cristo": RB 53,15); gli ospiti ("Tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo, poiché un giorno egli ci dirà: 'Ero forestiero e mi avete ospitato'": RB 53,1); i fanciulli e gli anziani ("Ponendo attenzione alla loro debolezza, … usando verso di loro un'affettuosa condiscendenza": RB 37,2-3). E l'attenzione non si chiude al piccolo mondo del monastero, ma si apre a tutti: "Onorare tutti gli uomini" (RB 4,8), "a tutti si renda il dovuto onore, particolarmente ai fratelli nella fede e ai pellegrini"( RB 53,2). Per san Benedetto i fratelli "devono fare a gara nell'obbedirsi a vicenda" (RB 72,6), specialmente "i più giovani con somma carità e prontezza" (RB 71,4).

L'obbedienza si fonde con l'umiltà; obbedisce chi è umile; l'umiltà si esprime nell'obbedienza; non vi può essere obbedienza se non c'è umiltà. Del resto "il primo grado dell'umiltà è l'obbedienza immediata" (RB 5,1). Tutta la Regola la presenta come stile di vita del monaco; non per niente madre Anna Maria Canopi ha intitolato Mansuetudine il suo commento alla Regola. Si può dire che il riferimento all'umiltà, direttamente o indirettamente, l'abbiamo in tutti i capitoli della Regola.

Viene presentata come una scala che ci fa salire verso il cielo (cf. RB 7,6) per mezzo di dodici gradini:



1. timore di Dio;

2. rifiuto di aderire alla propria volontà e ai propri desideri;

3. sottomissione al superiore per amore di Dio;

4. obbedienza nelle difficoltà;

5. umile confessione dei cattivi pensieri e delle colpe commesse al proprio abate;

6. contentarsi di ogni cosa spregevole e infima;

7. ammettere di essere l'ultimo di tutti;

8. fare solo quello che raccomanda la regola comune e l'esempio degli anziani;

9. trattenere la lingua dal parlare;

10. non essere facile e pronto al ridere;

11. parlare pacatamente, senza ridere, umilmente, con gravità;

12. manifestare l'umiltà con l'atteggiamento del cuore e del corpo.



Un capitolo intero, il settimo (70 versetti) viene dedicato a questa virtù, iniziando con il grido di Gesù: "'Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato' (Lc 14,11); saliti tutti questi gradini il monaco giunge presto a quell'amore di Dio che, quando è perfetto, scaccia il timore. Grazie a questo amore, tutto ciò che il monaco prima osservava non senza trepidazione, comincerà a praticarlo senza alcuna fatica, quasi con naturalezza, ... non più per paura dell'inferno ma per amore di Cristo" (RB 7,67-70).

Parlare di umiltà oggi è difficile; la mentalità comune la deride, la considera una debolezza, come incapacità di affrontare la vita; la tendenza è al prestigio, al potere, alla violenza, alla riuscita propria a scapito degli altri. Mentre san Benedetto la ritiene una forza, il mondo la considera una debolezza.

Per san Benedetto dall'obbedienza e dall'umiltà nasce la possibilità del vivere insieme come cenobiti, in comunione di cuore. Nel capitolo secondo della sua regola, descrivendo le diverse specie di monaci allora noti (eremiti, sarabaiti, girovaghi, cenobiti), scrive la sua regola facendo la scelta della specie fortissima dei cenobiti (fortissimum genus coenobitorum), di quelli che "vivono in monastero militando sotto una regola e un abate" (RB 3,2), e per lui sono cenobiti non tanto quelli che mantengono ordine (la regola) nel vivere insieme, quanto piuttosto coloro che si impegnano a diventare un cuor solo e un'anima sola, come i primi cristiani (cf. At 2,42). Non siamo salvati dalla buona osservanza, ma dal cuore nuovo che vive l'amore.

Egli sa che la comunione perfetta è solo nella Trinità, sa che ogni giorno vi saranno nella comunità degli screzi, ma la raccomandazione alla comunione è continua: non dare la pace falsa (cf. RB 4,25), tornare in pace con chi si è in discordia (cf. RB 4,73); pace con tutti i fratelli e con tutti coloro che bussano alla porta del monastero (cf. RB 53,3.5).

L'obbedienza alla Regola, all'abate, ai fratelli mantiene in ordine il vivere insieme, esige l'umiltà e costruisce comunione dei cuori.



3. Prendi la tua croce: la disciplina regolare



Con questo titolo desidero proporre alcune richieste disciplinari che sono proprie del monachesimo; sono dei modi di vivere, degli strumenti da usare per stare in unione d'amore con Dio, rinnegando se stessi. Ne elenco solo alcuni, senza esporne a fondo il contenuto, la tradizione, i metodi usati nei vari monasteri e la loro storia. Occorrerebbe una trattazione a parte per ciascuno. E certamente sarebbe possibile allungare l'elenco, secondo le diverse sensibilità.



a. Silenzio

Il santo patriarca gli dedica un capitolo intero (c. 6), richiamandolo in modo particolare per il tempo dopo compieta, il così detto "grande silenzio" (c. 42); lo presenta pure nel capitolo 4, tra gli strumenti delle buone opere: "Non dire parole inutili che portano al ridere; non amare il ridere frequente e smodato" (RB 4,53-54); non consiste solo nel custodire la "lingua da parole cattive" (RB 4,51), nel trattenersi "dal troppo parlare" (RB 4,52), dal "dire parole inutili" (RB 4,53), sconvenienti, superflue, ma richiede anche il saper tacere di cose buone (RB 6,1).

Bisogna avere "amore del silenzio" (RB 6,2), "coltivare il silenzio" (RB 42,1), sapendo che "morte e vita sono in potere della lingua" (RB 6,5), e "il saggio si riconosce dalle poche parole" (RB 7,61). Tra le possibili richieste quaresimali, vi è anche quella di sottrarre un po' di loquacità alla vita normale (RB 49,7), come aggiunta al silenzio quotidiano.

Motivo? Permette sia di ascoltare la parola di Dio sia di poter avere comprensione dei fratelli: è lo stile di vita del monachesimo.



b. Vino, cibo, sonno

Non si tratta di lasciare tutto, bensì di non superare le misure: "Non essere dedito al vino, non gran mangiatore, non dormiglione" (RB 4,35-37).

Più che di quantità, richiede di stare agli orari: "Nessuno si permetta di prendere cibo o bevanda prima o dopo l'ora stabilita" (RB 43,18); attenzione particolare si deve avere durante il periodo della quaresima: "in questi giorni aggiungiamo qualcosa all'abituale dovere del nostro servizio: preghiere particolari, astinenza da cibi e bevande, in modo che ognuno offra spontaneamente a Dio, nella gioia dello Spirito santo, qualcosa in più della misura stabilita, sottragga cioè al suo corpo un po' di cibo, di bevanda, di sonno, di loquacità, di volgarità e nel gaudio di spirituale desiderio attenda la santa Pasqua" (RB 49,5-7). E tutto sia fatto nella gioia, nel gaudio spirituale, non per costrizione, nella tristezza. Un'ascesi moderata, ma continua, e sempre con il permesso e la benedizione del superiore.



c. Lavoro

Il famoso detto "ora et labora" non si trova letteralmente nella Regola, ma nello stesso tempo la richiesta della serietà del lavoro manuale quotidiano è espressa con molta serietà: "L'ozio è il nemico dell'anima; perciò i fratelli in ore ben determinate devono essere occupati nel lavoro manuale"(RB 48,1), e "se qualcuno fosse così negligente e pigro che non voglia o non possa meditare o leggere, gli si dia un lavoro da fare, perché non resti in ozio" (RB 48,23), sempre però con grande equilibrio ed attenzione alle singole persone: "Ai fratelli malati o di delicata costituzione si assegni un lavoro o un mestiere tale che non li lasci in ozio, ma neppure li opprima con un eccesso di fatica o l'induca a sfuggirlo; la loro debolezza deve essere tenuta presente dall'abate" (RB 48,24-25).



Per san Benedetto il lavoro era specialmente quello manuale; al giorno d'oggi in molti monasteri è intellettuale e pastorale. Si richiede però sempre molta serietà di impegno, di preparazione professionale, di servizio alla comunità, all'uomo.



d. Clausura

Per san Benedetto si intende la delimitazione degli ambienti entro i quali si svolge interamente la vita dei fratelli; è vista come salvaguardia della vita contemplativa, dell'unione con Dio, della preghiera; l'andare fuori "non è utile alle anime dei monaci" (RB 66,7); e se è necessario andare in viaggio, non è bene far conoscere quello che si è visto, poiché potrebbe fare del male ai fratelli (RB 67,4). Nello stesso tempo alcuni capitoli della Regola riguardano le uscite dal monastero: o per lavorare o per viaggiare (c. 50), e questo sia lontano che vicino al monastero (c. 51); era necessario quindi anche ai tempi del santo fondatore mandare fratelli in viaggio (c. 67); prima della partenza e al loro ritorno la comunità pregava insieme; questo rito comunitario indica quale eccezione doveva essere l'uscire dal monastero, e quanto ci si tenesse al vivere entro le mura, tra le quali ci dovevano essere tutti i mezzi della sussistenza: "l'acqua, il mulino, l'orto, i laboratori dei diversi mestieri" (RB 66,6).

Anche con gli ospiti le relazioni vengono tenute solo dai responsabili, degli altri "nessuno senza il permesso si trattenga o parli con loro, ma se (il monaco) li incontra o li vede, li saluti umilmente, e richiesta le benedizione, passi oltre, dicendo che non ha il permesso di parlare con gli ospiti" (RB 53,23-24).

Si tratta non solo del tagliare i rapporti con l'esterno, ma anche di evitare incontri inutili all'interno del monastero: "Un fratello non si intrattenga con un altro fratello nelle ore non permesse" (RB 48,21).

Oggi in Occidente la clausura maschile, a causa anche del sacerdozio di molti monaci, è piuttosto sfilacciata, mentre la clausura femminile è maggiormente curata. Al contrario in Oriente, dove la clausura è specialmente maschile (pensiamo al Monte Athos ed ai monasteri copti dell'Etiopia), mentre il monachesimo femminile è quasi inesistente.

Oggi quando trattiamo della clausura non possiamo fermarci a considerare le mura che racchiudono il monastero; certamente meritano una attenzione speciale tutti i mezzi di comunicazione sociale, dai quotidiani alle riviste, alla radio, alla televisione, ai telefoni, all'internet … ed occorre maggiore maturità delle persone per saper distinguere il necessario per vivere "incarnati" nel mondo, dal superfluo, dal secondario, dall'inutile per la vita del monaco.

La vita normale del monaco per san Benedetto si svolge tra i "recinti del monastero" (RB 4,78); per questo l'ufficio di portinaio (cf. RB 66) ha una grande importanza. Ma oggi i mezzi di comunicazione richiedono una clausura diversa dai tempi del patriarca d'Occidente; l'importante è avere persone che "cercano davvero Dio" e sono personalmente convinte della necessità di costituire un ambiente dove tutto serve a mantenere la relazione con Dio, togliendo le distrazioni che il mondo offre. Oggi più che di ambiente si tratta di scelte di tempi e di mezzi, poiché si può benissimo rimanere entro le mura del monastero e avere il mondo in camera. A ogni comunità una propria scelta, confidando nella maturità delle persone, nella verità della vocazione.



e. Povertà

È legata alla normalità della vita povera ed è vista come distacco assoluto dal denaro e dalle cose: abiti normali, pesanti o leggeri secondo le stagioni (cf. RB 55), calze, scarpe, filo, ago, stilo … a ciascuno il necessario, il superfluo da rigettare. Il capitolo 33 è molto chiaro: "Se i monaci possono avere qualcosa di proprio: soprattutto questo vizio deve essere estirpato fin dalle radici dal monastero; nessuno osi dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate, né possedere qualcosa di proprio, assolutamente nulla: né libro, né tavolette, né stilo, ma proprio nulla, come coloro che non possono disporre liberamente nemmeno del proprio corpo e della propria volontà … Tutto sia comune a tutti … e nessuno dica o pretenda qualche cosa come sua" (RB 33,1-8); addirittura l'abate deve "ispezionare l'arredamento dei letti perché non vi si nasconda qualcosa di proprietà privata" (RB 55,16), e per questo tutti devono ricevere "tutto ciò che è necessario" (RB 55,18). Anche le possibili vocazioni provenienti dalla ricchezza non possono avere delle particolarità: "Quanto ai loro beni, … [i parenti] promettano sotto giuramento che mai né loro né per interposta persona, né in alcun altro modo gli daranno un giorno qualcosa o gli offriranno la possibilità di averne" (RB 59,3.6).

I monaci, dove vivono, devono sapersi adattare alla povertà locale (RB 48,7), senza volersi distinguere dagli altri fedeli laici.

La povertà è ancora dipendenza volontaria nell'uso delle cose: "Tutto ciò di cui hanno bisogno devono aspettarselo dal padre del monastero" (RB 33,5); è una povertà d'obbedienza, di dipendenza; è lasciare la volontà propria (cf. RB 5,7) per essere solo di Dio. Il cuore del monaco non deve avere preoccupazioni economiche; nella comunità viene scelto un monaco che si occupa e preoccupa di questo al posto di tutti: il cellerario, l'economo. Questo per permettere agli altri la contemplazione di Dio.

La povertà si esprime anche nel "ristorare i poveri" (RB 4,14), nel prendersi cura degli infermi e dei poveri (cf. RB 31,9; 53,15). I monaci vivono del lavoro delle loro mani (allora sono veri monaci: cf. RB 48,8), e si preoccupano nello stesso tempo di aiutare i poveri, praticando la carità verso i bisognosi e considerando il lavoro come una nobile ed elevata forma di vita ascetica.



f. Vita comune

Significa prima di tutto una "buona osservanza" (RB, Prol. 29) della Regola, senza voler fare lo speciale. "Sia mantenuta in tutto e da tutti la disciplina" (RB 63,9). In monastero tutto deve essere organizzato con ordine e misura.

Richiede di stare all'orario comune che è una facilitazione al vivere, ma anche un sacrificio, specialmente ai nostri giorni; il vivere del mondo è giunto alla necessità di stabilire degli "stacchi" nel vivere ordinario, alla necessità delle ferie, in continuo pericolo di stress. Anche la vita comune ordinaria può generare pigrizia, mancanza di fantasia, adattamento alla routine, mentre la vita monastica esige di rimanere nell'entusiasmo, e la regolarità può nuocere.

Nella vita comune ci si deve accontentare di quello che passa il convento: abiti, cibi, uffici, attività, impegni, turni di servizio … senza richiedere e senza rifiutare; sicuri che l'abate penserà sia alle infermità che alle doti delle persone; si è in monastero perché innamorati di Cristo; tutto il resto è relativo; siamo dipendenti dalla vocazione che liberamente abbiamo accettato di seguire.

L'ordine del monastero, la pulizia sia della propria cella che dei vari ambienti va tenuta con attenzione; gli strumenti vanno usati e mantenuti come se fossero vasi dell'altare. In questo tutti devono sentirsi responsabili.

Ma vita comune significa prima di tutto comunione dei cuori. Questo richiede un certo rispetto reciproco, una fraternità molto attenta, dove "i giovani onorano i più anziani e gli anziani amano i più giovani e nello stesso chiamarsi per nome, nessuno si permette di chiamare l'altro col semplice suo nome" (RB 63,10). E poiché è normale nel vivere umano che nascano le "spine delle discordie" ecco che il superiore "dice alla fine delle lodi e dei vespri la preghiera del Signore, … cosicché i fratelli impegnati dalla risposta alla preghiera medesima nella quale dicono 'Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo…' si purificano da tali mancanze" (RB 13,12-13).

La vita comune per san Benedetto richiede di mantenere anche l'ordine gerarchico, che consiste nel mantenere "il proprio posto come viene determinato dal tempo d'ingresso o dal merito della persona" (RB 63); a differenza degli istituti posteriori che possono cambiare il posto a refettorio, in coro, a ricreazione.

Ordine nel tenere gli utensili del lavoro, ordine nella pulizia della casa, ordine nella cura della liturgia.

Questo fa la vita comune, nelle piccole cose quotidiane, con la responsabilità di tutti.



g. Codice penitenziale (capitoli 24-30 e 43-46)

Il primo pericolo da evitare e combattere è quello della disobbedienza alla Regola o all'abate. I difetti vanno corretti, sempre. Non è possibile lasciar correre un comportamento irregolare. Bisogna aiutare ognuno a camminare spiritualmente. Varie volte e per motivi diversi san Benedetto richiede che il monaco che sbaglia sia sottoposto alla disciplina regolare.

"Se un fratello si mostra ribelle, disobbediente, superbo o mormoratore, se si mostra sprezzante verso qualche disposizione della santa regola e gli ordini dei suoi anziani, sia ammonito in privato una prima e una seconda volta, come dice nostro Signore. Se non si corregge, lo si rimproveri pubblicamente davanti a tutti. Se nemmeno così decide di emendarsi, venga sottoposto alla pena della scomunica, purché egli sia in grado di comprenderne il significato e la gravità. Ma se è uno proprio incapace di capire, gli si applichi un castigo corporale" (RB 23).

Anche ai tempi di san Benedetto vi era chi non manteneva la Regola. Per questi monaci vi è un codice penitenziale che si esprime in varie punizioni, di cui la principale è la scomunica, il distogliere il monaco dalla vita in comune, dalle refezioni e dalla preghiera liturgica.

Lo sforzo del santo, specialmente per mezzo della scomunica, è quello di riportare il fratello all'ordine nella comunità; i provvedimenti disciplinari hanno lo scopo di riportare la carità, la fraternità, la pace nella comunità; il santo è convinto che ogni mancanza è una ferita della comunità. Il metodo della correzione si fonda sul vangelo (cf. Mt 18,15 ss.).

La punizione consiste, se il monaco lo capisce, nella privazione del bene della vita comune, sia togliendogli la partecipazione alla liturgia, sia alla mensa comune.

San Benedetto dedica otto capitoli (dal 23 al 30) a queste punizioni, con attenzione sia per le colpe leggere che per le colpe gravi; inoltre sta molto attento ai fratelli che fanno partito con gli scomunicati (c. 26), e si preoccupa anche della sollecitudine che deve avere l'abate per queste persone (c. 27), come pure dei monaci che usciti dal monastero chiedono di ritornare (c. 29), e dei minorenni (c. 30).

Può capitare che anche le varie ammonizioni e punizioni non ottengano il risultato sperato, allora: "Se un fratello più volte punito per una qualsiasi colpa e perfino scomunicato non si sarà emendato, gli sia inflitta una correzione più aspra, cioè si proceda contro di lui con la pena delle battiture. Se neanche così si correggerà o addirittura — non sia mai — montato in superbia, vorrà persino difendere il suo operato, allora l'abate faccia come un esperto medico: se ha applicato i calmanti…, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e da ultimo l'ustione della scomunica o delle lividure della verga, egli constaterà che il suo prodigarsi non è valso a nulla, adoperi per lui — ciò che conta di più — anche la preghiera sua e dei fratelli, affinché il Signore che tutto può, operi la guarigione del fratello infermo. Ma se neppure in questo modo guarirà, allora l'abate usi oramai il ferro per amputare, come dice l'Apostolo: 'Togliete il malvagio di mezzo a voi' e ancora: 'Se l'infedele se ne va, vada pure' perché una pecora infetta non contagi tutto il gregge'" (RB 28).

Alcuni capitoli poi (cc. 43-46) sono dedicati esclusivamente alle negligenze che ci possono essere nella vita comune: arrivare in ritardo (c. 43), sbagliare nell'oratorio (c. 45), o "compiendo un qualsiasi lavoro, in dispensa, nei vari servizi, al forno, nell'orto, nell'esercizio di qualche mestiere o in qualunque luogo [il monaco] commetterà una mancanza, o romperà un oggetto o lo perderà o in qualunque altro modo mancherà, e non si presenta subito all'abate e alla comunità per fare spontanea riparazione e a confessare la propria colpa, quando poi la cosa si venisse a sapere per mezzo di altri, egli sia sottoposto a una più severa punizione. Ma se si tratta di un peccato nascosto nel segreto della coscienza, lo manifesti solo all'abate o ai padri spirituali, che sappiano curare le proprie e le altrui ferite, non svelarle e renderle pubbliche" (RB 46).

È necessario quindi correggere, sia le piccole che le grandi mancanze, e anche se la misura può variare secondo le persone, non si può e non si deve permettere che le mancanze siano passate inosservate e diventino una abitudine, un modo di vivere del singolo o della comunità; occorre intervenire, correggere e anche punire.



h. "Opus Dei": rottura della giornata produttiva (capitoli 8-20)

Il monaco crede nella preghiera quale valore primario della propria vita, e ci si dedica per il proprio bene e per il bene di tutta l'umanità. "Deve soprattutto capire come, nonostante le esigenze dell'abbandono del mondo …, la sua consacrazione religiosa lo rende presente agli uomini e al mondo in modo più profondo nel cuore di Cristo (Lumen gentium 46). È monaco colui che è separato da tutti e unito a tutti (cf. Venite seorsum, Introduzione e nota 27). Unito a tutti perché unito a Cristo. Unito a tutti perché egli porta in cuore l'adorazione, il ringraziamento, la lode, le angosce e le sofferenze dei suoi contemporanei. Unito a tutti perché Dio lo chiama in un luogo dove rivela all'uomo i suoi segreti. Non soltanto presenti al mondo, ma anche al cuore della chiesa (cf. Potissimum institutioni 80).

Per questo san Benedetto non organizza la giornata per il reddito, per il lavoro, per l'autorealizzazione, per svolgere determinate attività, ma per stare con Dio; e poiché la debolezza e fragilità umana tende a condurci all'attenzione per noi stessi, per le cose che ci circondano, per le attività che svolgiamo dentro o fuori monastero, richiede che la giornata sia rotta tante volte (liturgia delle ore) per ricondurre il monaco al primato di Dio, al ricordo che sta cercando Dio.

Gli altri istituti, sia nella scelta vocazionale che nell'ordinamento della giornata, possono e devono fare discernimento delle persone secondo le capacità e le possibilità di esecuzione di determinati servizi nella chiesa e per l'umanità (educazione, cura degli ammalati, servizio dei poveri, eccetera).

L'ordine benedettino ha fatto e può fare di tutto, ma non è specializzato in niente, sia come comunità che come persone componenti la comunità. Situazione difficile da accettare se non si crede nel valore della preghiera, se non si ha passione per la ricerca di Dio come il tutto del proprio cuore, della propria vita, se non si ha vocazione monastica. Naturalmente in tutti rimane sempre la tendenza umana alla propria realizzazione, la tendenza a svolgere un servizio per l'uomo, ma questo viene messo alla dipendenza di una regola e di un abate. Il progetto non se lo fa il monaco, lo trova già fatto, e deve consegnarlo intatto a chi lo seguirà; il progetto è Dio; per questo alla frase "nulla anteporre all'amore di Cristo" (RB 4,21) corrisponde l'altra: "Niente anteporre all'opera di Dio" (RB 43,3), che per i novizi è basilare: "Si ponga ogni attenzione nell'osservare se il novizio … è pronto all'Ufficio divino" (RB 58,7).

E per la liturgia, per la preghiera occorre mettere tutta la cura di cui si è capaci, poiché "noi crediamo che Dio è presente ovunque e che in ogni luogo gli occhi del Signore scrutano i buoni e i malvagi, tuttavia dobbiamo credere questo, senza alcun dubbio, soprattutto quando partecipiamo all'Ufficio divino" (RB 19,1-2).



Conclusione


Per san Benedetto l'ascesi è motivata: cercare Dio; questo esige di saper lasciare tutto, e lo si esprime nell'obbedienza, organizzando una vita che aiuta a non distrarsi.

L'essenziale (passione per Dio, rinnegamento di se stessi) rimane invariabile, il secondario (struttura della vita monastica) può variare; la disciplina, le osservanze sono strumenti, aiuti per "non anteporre niente all'amore di Cristo"!

Cipriano Carini, osb



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Fonte: Regola (dimitalia.com)

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