Francesco di Ciaccia
Dalla parte delle creature «cun
grande umiltate»
«O insensata cura de’ mortali
Quanto son difettivi sillogismi
Quei che ti fanno in basso batter l’ali!».
Polemicamente vasto e appassionato, l’esordio del Paradiso
XI, 1-3 investe una contrapposizione essenziale tra l’impostazione
«sillogistica» della cultura dominante
e l’impostazione «illetterata» di
frate Francesco.
Il figlio di Bernardone aveva studiato, «quel tanto che le scuole
del tempo insegnavano» (1), il latino,
e, «sebbene non la possedesse bene»
(2), parlava spesso in lingua francese. Poi egli frappose un abisso
fra sé e la cultura, come rivelano i suoi scritti (3), ed ai suoi
frati, fatta eccezione per i ministri della parola (4), raccomandava:
«E se non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle»
(5).
Francesco fu avverso alle lettere solo se esse significavano il
«saper soltanto parole», «essere
ritenuti più sapienti degli altri»,
poter «acquistare grandi ricchezze»
(6). Al contrario, riteneva eccelso il possesso della cultura se
comportava il «rendere ciò che si sa all’Altissimo al quale
appartiene ogni bene». Con ciò è
spiegato quell’enigma di Francesco poeta che ha impressionato
critici non cattolici, ma anche cattolici e religiosi.
Se egli fu grande poeta, lo fu perché, da stupendo «idiota»
e libero dal gloriarsi, aveva «la vena dell’ispirazione divina che
il suo orecchio percepiva furtivamente»
(7). Grazie a questa semplicità, egli «viveva nello stato di
spirito in cui si creano le immagini originarie»
(8); una semplicità, dobbiamo aggiungere, che è segno e frutto di
quella libertà dall’autocompiacimento cui Francesco stesso elevò
un cantico in uno dei suoi poemi più belli, il brano delle
Ammonizioni V, 4-8 che parafrasa la 2 Corinzi 12,5. Se
il santo si mostrò geloso delle cose da lui scritte tanto da «non
permettere che si cancellasse alcuna parola o sillaba, anche se
superflua o errata» (9), fu perché non
le attribuì mai a sé. Egli dice: «E sono vivificati dallo Spirito
della divina Scrittura quelli che ogni cosa che sanno […] non
l’attribuiscono al loro corpo, ma la rendono all’Altissimo»
(10). Ispirazione, dunque, ma anche vitalità, quale è esperita
nell’intuizione artistica e nell’animazione religiosa. Il tutto,
nello spirito della «ri-offerta» a Dio
di quell’empito di passione che, passando attraverso il «corpo»
come strumento, ritorna all’Autore in forma di lode: da parte di
tutte le sue creature.
«Scrivi, frate Leone. Scrivi».
Francesco dettava in latino (falso latino, dice Tommaso di
Eccleston), ma è certo che parlava normalmente in volgare,
ispirandosi alle «concioni»
dell’oratoria civile più che ai «sermoni»
ecclesiastici e letterari. Il significato socio-religioso di ciò è
stato ormai valutato dagli studiosi (11). Noi allora vogliamo vederlo
nelle implicazioni interiori, «su cui nessuno studioso si è
soffermato abbastanza» (12), con quello
spirito «idiota» da cui gli scritti
sono nati e tenendo di vista «il palpito tutto religioso […],
l’atteggiamento di orante, da cui quelle parole sono germinate»
(13).
«Io, frate Francesco, dico […] che abbiano presso di sé questo
scritto […]. E supplico […] che facciano custodire e
diligentemente osservare le cose che vi sono scritte, secondo il
beneplacito di Dio onnipotente». Queste
parole (14) rappresentano, per quell’atteggiamento radicale
indicato nella chiusura – «secondo il beneplacito»
–, la migliore introduzione al Cantico delle creature o
Cantico di Frate Sole. Esso non è un testo normativo né
teologico, ma contiene tutta l’essenza della Regola e della
visione cristiana dell’autore (15).
Nella supplica appena citata ho saltato le parole seguenti: «Io,
frate Francesco, uomo inutile e indegna creatura del Signore Iddio».
Poiché nel Cantico, a parte un’indicazione su cui
rifletteremo, non compare alcun termine di «inutilità»,
è solo questione di diplomazia con i frati, non necessaria con Dio?
Non crediamo. Nel Cantico, in effetti, «l’uomo quasi
scompare, ha rilievo solo Dio» (16). Ma
perché? Sotto l’aspetto in questione, perché la coscienza del
proprio limite, non negata, è immersa intrinsecamente
nell’ammirazione per Lui solo, e a Lui affidata, nella gioia. Non
abbiate paura, mio piccolo gregge, per la vostra indegnità:
Francesco lo sapeva. Finché c’è lo sposo, gli amici fanno festa:
Francesco lo sapeva. Egli era con lo sposo: «mi bon Signore».
Poi la poesia irrompe alla presenza del «bon Signore»,
poiché «tue so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione».
Nella Lettera a tutti i fedeli, X, 61-62, parafrasando
l’Apocalisse 5,13, Francesco giustifica così la «lode a
Dio»: «egli è la nostra virtù e la
nostra forza», «egli che solo è
buono, che solo è altissimo, che solo è onnipotente […] degno di
lode». La glorificazione di Dio implica
in se stessa la coscienza di quell’indegnità, su cui numerosi
dicta del santo pur insistono: «l’onore e la gloria vanno
resi a Dio solo, mentre a se stesso (l’uomo) attribuirà vergogna e
dispiacere» (17). Ma la glorificazione
deve essere dilatata con purezza, e si espande nell’«onne
benedizione» che dice molto di più di
ogni poesia sulla miseria umana, e la stessa coscienza di sé si
purifica da ogni tentazione autolesionistica. E l’una e l’altra è
fatta umiltà perfetta: gioiosa, libera, soave.
È sulla grandezza di Dio, in effetti, che l’autore insiste,
sull’esclusività del diritto divino: «a te solo […] se
confano». Non occorre evidenziare
l’eredità biblica di questa verità fondamentale (18). Ma la
preziosità del verso francescano sta in quell’atteggiamento che
chiamerei di pudore nella stessa celebrazione di Dio: una intima
riservatezza, quasi gelosa, che scolpisce per una confessione
stilisticamente traboccante di forza. «La parola, osserva il Getto,
nasce ed è pronunciata e si mantiene in un clima di profonda
necessità, di rispettosa sobrietà, e si sviluppa quindi in una
musicalità originalissima» e sacra
(19).
«Nullo omo è digno te mentovare». È
strano: perché egli lo nomina. Oltre che nel Cantico, più
analiticamente nelle Lodi per ogni ora, nella Preghiera
davanti al Crocifisso, nella Regola non bollata, XXI, 1
«Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il
Signore Dio onnipotente nella Trinità e nell’Unità, Padre e
Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose»,
e XXIII, 1-2: «Onnipotente, Altissimo, Sommo Dio…».
Il santo non fa un’eccezione per sé, poiché è scritto nella
citata Regola, XXII, 9-10, «tutti noi miseri e
peccatori non siamo degni di nominarti».
La soluzione ci sembra deducibile da un altro passo della medesima
Regola, XXIII, 1-4 in cui, dopo aver osannato a Dio che per la
sua «santa volontà» ha creato «tutte
le cose spirituali e corporali, e noi fatti a immagine e somiglianza»
di lui, l’autore conclude: «e noi per nostra colpa siamo caduti».
Non solo dunque all’indegnità dell’uomo è contrapposta la
degnazione di Dio verso l’uomo, ma anche l’indegnità dell’uomo
sta fuori delle opere di Dio. È l’uomo che se ne deve ricordare
(Dio se ne è già dimenticato, possiamo dire nel senso in cui lo
diceva San Paolo!), ma, soprattutto, per la propria
confusione, non per rattristare la festa delle «creature»,
per il loro «Signore».
Il poeta dirà «guai!» a quelli che
saranno «nelle peccata»: ma allora si
rivolgerà agli uomini. Ora, invece, sta con quelle creature in cui
non c’è peccato. L’umiltà non contrista la gioia, neppure col
pretesto della propria debolezza.
E la gioia è questa: «Laudato sie, mi Signore, cun tutte le tue
creature».
L’universo non è una maledizione, né «la bellezza del mondo una
trappola diabolica» (20), ma una benedizione: il testo, pur nel
«carattere di espressione indefinita che spesso anima il linguaggio
mistico e liturgico» (21), pone le creature subito accanto al
Signore, ma, emotivamente, Francesco le vede sue e del «Signore»
perché, semplicemente, le vede fatte, «in corteo al seguito del
Signore» (22).
Scartata l’interpretazione di un «naturalismo mistico» (23), noi
diciamo che l’ammirazione, benché abbia come oggetto terminativo
Dio, cui sempre la lode è diretta, si appunta sulle «creature»
stesse. In questo quinto verso, il poeta non dice «Altissimo»; dice
«mi Signore»: che è espressione affettuosa e rispettosa, da
«giullare di corte» e membro di una comunità regale e domestica
insieme. Tale emozione di intimo possesso e insieme di venerazione
nei confronti del «mi Signore» si espande alle cose, diciamo, del
Signore: «tue creature».
Ed è con questo spirito che l’amico del Creatore è dalla parte
delle creature. È ben vero che nel Cantico non c’è
«prospettiva rinascimentale», che con la sua «autonoma curiosità
o passione per la natura (è) di là da venire» (24); ma, con altro
spirito, c’è nel Cantico lo sguardo alle creature nel loro
essere, in se stesse, creature. L’ideologia francescana è quella
dell’Apocalisse XXI 5: «Ecce nova facio omnia». Nell’amore
e nell’umiltà dell’uomo, le creature ottengono quella dimensione
per cui si fruiscono puramente. Francesco ha, in sé e
profeticamente, indicato e vissuto, come già intuito dal Celano
(Vita Seconda, CXXIV, 166), questa purezza, pur senza
stravolgerne il senso nel modo del catarismo. Certo, c’è ancora il
rischio delle «peccata». Ma vedremo.
«L’amore ineffabile» di Francesco per le creature non ha bisogno
di citazioni (25). Egli traeva incitamento da esse ad amare Dio,
risalendo «alla Causa che tutto fa vivere» (26). A proposito del
«sole» o della «luce», il Celano li riferisce al «Sole di
giustizia», alla «Luce eterna», di cui essi rappresentano un
simbolo (27). Lo stesso rapporto è sottolineato per l’amore di
Francesco nei confronti delle pietre, degli agnelli, per il ricordo
che essi accendono della Pietra, dell’Agnello, che è Cristo. Non è
discutibile che la religiosità dell’Assisiate, profondamente
compresa del simbolismo patristico-medioevale, sia vissuta con
riferimento all’oggetto finale, trascendente, nel quale le creature
«sono contenute» (28). Lo dimostra inequivocabilmente il rilievo:
«de te, Altissimo, porta significazione».
Ma l’amore di Francesco verso Dio per mezzo e con le creature è
molto più profondo e immediato. «Al mattino, quando sorge il sole,
ogni uomo dovrebbe lodare Dio che ha creato il sole per nostra
utilità […] la sera […] per fratello fuoco, a mezzo del quale i
nostri occhi sono illuminati nella notte […] è mediante questi due
nostri fratelli che il Signore dà luce ai nostri occhi. Dobbiamo
lodare il Signore specialmente per queste creature e per le altre, di
cui usiamo ogni giorno» (29). Il ringraziamento è per le cose,
anche perché servono, cioè per quello che sono.
«… spezialmente messer lo frate Sole / lo quale è iorno, e
allumini noi per lui». La coscienza che il servizio e la gioia, che
le creature ci danno, sono voluti e ordinati da Dio, c’è. E
c’è tanto, che il ringraziamento può essere puro e semplice per
il servizio e per la gioia. Infatti, è Lui, propriamente ed
unicamente, l’autore di tale servizio e di tale gioia, e le
creature costituiscono l’occasione attraverso cui Dio
manifesta l’amore. Chi più crede nel trascendente, colui può
gioire, puramente, dell’immanente; a lui non occorrono tanti
sillogismi. Se è assolutamente vero che per il credente la natura
«significa il soprannaturale» e riveste un «carattere
soprannaturale» (30), se è vero che per il medioevale le creature
erano sapute «vestigia della divinità» (31), il problema non è
qui. Francesco sembra, spiritualmente, andare oltre, da grande santo
e giullare quale fu: sono appunto queste «vestigia» stesse ad
essere amate dall’innamorato, per quello che sono, compenetrate
mirabilmente nell’amore del «mi Signore» perché, nella fede,
egli sa che le cose ne contengono la carità. Non concordiamo dunque
con la critica secondo cui «riuscirà pur sempre impossibile
giungere ad attribuire a san Francesco una disinteressata
contemplazione delle creature». Dato come pacifico e indiscusso che
per san Francesco «le cose sono certamente buone […] perché sono
un dono di Dio e belle perché sono un segno di Dio […] e a Dio ci
riducono, (e) non bastano né a se stesse né all’uomo» (32), il
problema è che la pura fede, fuori di ogni cerebralità, vive tale
«dono» nell’immediatezza appunto della gioia. E il nostro
Francesco non insiste sull’insufficienza delle creature.
Il termine «fratello» e «sorella» è spiegato da Bonaventura,
correttamente, in riferimento all’«unico Principio» da cui
provengono l’uomo e le altre creature (33). Ma in Francesco opera
una dinamica più immediata: egli si sente sullo stesso piano
delle cose tutte, nell’amore e nell’umiltà. La rivoluzione
religiosa dell’Assisiate consiste essenzialmente nell’aver
immesso la dimensione del «fattosi carne, in tutto simile», nella
deviata gerarchizzazione storica. Con questa «fratellanza», san
Francesco non intende una non-disuguglianza, ma un superamento della
non-uguaglianza operato dall’amore. In tal senso va intesa la
poetica figura, che è insieme figura teologica, del sole come
«significazione» dell’Altissimo. Esistono diverse forme di
rapporto con Dio, non negate dall’autore; ma, nel suo porsi di
fronte all’Altissimo, l’uomo sa che deve trascendere le diversità
egoistiche ed invidiose. È solo tale atteggiamento di amore che
elimina il disordine della gerarchizzazione, disordine che sta solo
nella superbia, non nella dignità e nella funzione ordinata
dall’Onnipotente.
L’umiltà è, dunque, il segno dell’amore, ed è il suo strumento
sociale. Il porsi dalla parte delle creature nella lode a Dio, per la
loro stessa utilità, significa già di per sé riconoscere
l’amorevolezza del Signore. L’uomo la ricambia col porgere la
propria voce alle «cose» del «bon» Signore (34).
L’amore non è gonfio di sé, diceva l’Apostolo. Ed è per questo
che il «fratello», in Francesco d’Assisi, ha il sapore della
naturalezza. Non è solo questione, dunque, di «ricordo» (35) o di
simbologia, su cui ha insistito la critica, ma della «sudditanza e
servizio a Dio condivisi dall’uomo con tutte le creature». Il
meraviglioso dialogo di Francesco con il fuoco («sii gentile con me
in quest’ora, perché sempre ti ho amato e ti amerò») e la difesa
che egli prese del fuoco: «Carissimo fratello, non far male a
fratello fuoco» (36), sono tremendamente emblematici della
cordialità tra il «giullare di Dio» e le sue bellezze create. Il
«Principio comune», a fondamento di questa cordialità, certamente
è inteso: ma è troppo naturale questo sapere per inficiare la
naturalezza «fraterna».
Da questo spirito nasce una poesia di gioia per l’utilità delle
creature, per la loro bellezza (37). Il sole è «bello», «belle»
son la luna e le stelle; l’uno è «radiante», le altre sono
«clarite»; anche il fuoco è «bello», e dà giocondità. Le
stagioni, come «sora nostra madre terra», che offre «fructi con
coloriti fiori ed erba», rendono un servizio all’uomo, per la
bontà di Dio. L’acqua pure è molto «utile», anzi «preziosa»,
e «casta».
Ma l’aggettivo «prezioso» è usato da san Francesco anche per il
«regno di Dio» (38), e l’attributo «forte» del fuoco è
applicato anche a Dio, come altri: Tu sei umiltà […] Tu sei
bellezza! […] Tu sei letizia […] Tu sei fortezza» (39). L’uso
linguistico manifesta la teologia di san Francesco: le creature,
perché create, hanno in sé qualcosa del Creatore, come avrebbe
teorizzato il dotto discepolo san Bonaventura (40).
Desta meraviglia che il poeta non abbia ricordato gli animali, egli
che aveva barattato il mantello per alcuni agnelli, aveva richiesto
la soppressione della caccia delle «sorelle allodole». Il motivo ci
sembra nel fatto che l’utensilità delle cose appare incorrotta
solo per quel genere di creature menzionato nel Cantico (41):
essa è pura, quando non vi si frapponga la violenza delle cose.
È questo il senso, nel contesto della visione gioiosa
dell’utensilità delle creature, della difesa assunta da Francesco
a favore di animali condotti al macello. Infatti, né fu egli stesso
vegetariano, né vietò ai frati di mangiare carne; anzi, andava a
questuarne egli stesso per i fratelli ammalati e voleva che il giorno
di Natale anche «i muri mangiassero carne», quantunque di venerdì
(42). L’armonia del creato con Dio non è realizzata da Francesco
con una mutazione delle regole della natura; è, invece, questione di
mutamento di animo: va tolta l’inimicizia fra gli esseri per
l’amicizia con Dio. Il Natale è più importante del venerdì e la
festa elimina il digiuno, la sussistenza vale un animale. Ma più
importante di tutto è l’amore.
Anche la morte rientra nella lode dell’Altissimo; ma l’uso che fa
l’uomo della vita animale richiama alla mente la prevaricazione
umana sul creato, della quale l’uccisione dell’agnello si
presenta come un vivido simbolo. Non ci sentiamo perciò di seguire
l’interpretazione per cui gli animali sarebbe «visti […] come
creature capaci di esercitare un certo dominio sull’uomo» senza
che l’uomo possa opporvisi, avvertite come «dominatori e quindi
tormentatori» (43). E allora, che diremo della morte? La lode al
poeta non viene, perché gli animali possono essere essi tormentati.
Anche in questo senso, Francesco è dalla parte delle creature.
Infatti, se egli ricorderà con lode quelli che «sostengono
infirmitate e tribulazione», lo farà in tensione positiva, per il
bene che è la santa pazienza. Ma la carità non gode della pura
sofferenza, e tanto meno della sofferenza in quanto degli altri.
L’uomo si eleva a Dio camminando dalle minori alle cose maggiori,
insegnò il francescano san Bonaventura. Ma noi crediamo che la
collocazione, in subordine, della menzione dell’uomo rispetto alla
natura si ispiri ad un altro sentimento. Certo, il santo non ignora
che la virtù conquistata è più glorificante della bellezza
naturale, e che Dio risplende ed è esaltato più nel minimo gesto di
carità che in tutte le stelle del firmamento. Ma Francesco sa anche
che l’uomo tende a porsi, per amore di sé, sopra, se non contro, i
suoi simili e le cose. Egli, invece, deve imparare a porsi dopo,
superare quell’accentramento su di sé che fu rimproverato ad un
uccellino ingordo, «invidioso degli altri fratelli» (44), e, solo
in assenza del quale, pregiudizialmente, è possibile l’autentica
lode di Dio.
Oltre alla rivoluzionaria «perfetta letizia», una delle più dolci
e forti eredità lasciate dal «piccolo Francesco» al «piccolo
gregge» è la seguente: «Quelli che […] avevano nella fraternità
un ruolo preminente, si facevano più umili e piccoli di tutti»
(45). Le fonti che annotano, con suggestività poetica, questo
costume mirabilissimo ed evangelico dei frati lo connettono con
l’osservazione: «profondamente umili e maturi nella carità»,
«trasfigurati nella carità». La carità non è invidiosa, la
carità gode del bene altrui. Anche in questo senso, Francesco è
dalla parte delle creature. Pur assentendo con la critica che vede
l’uomo protagonista del Cantico per la «relazione dell’uomo
con Dio», non troviamo esatto il giudizio per cui «le lasse delle
creature sembrano intervenire come un’aggiunta» (46). Non è,
quella di Francesco, una negazione di dignità: è un’affermazione
di gioia e di serenità.
Precisato questo, possiamo contemplare la gioia del perdono con un
solo rilievo, essendo troppo vasto l’argomento. Nel regalare il
mantello ad «un povero a Colle, nella campagna di Perugia», per
indurre l’infelice a perdonare al padrone che «gli aveva tolto i
suoi averi» (47), Francesco non s’introduceva nel problema della
rivendicazione giusta dei propri diritti, individuali o sociali. E
non perché non lo ritenesse importante. Anzi, perché lo riteneva
importante. Infatti, con quell’insegnamento indicava che nessuna
rivendicazione giusta è giusta, se compiuta con l’«odio mortale»,
secondo l’espressione di Tommaso da Celano. Fuori della logica
dello spirito del perdono, il dovere stesso delle legittime istanze
si risolve, nell’economia generale dei rapporti umani e della
storia, in una dinamica di violazione, che ricade tragicamente sulle
stesse legittime istanze (48).
Al perdono delle ingiurie umane il poeta accosta il perdono delle
ingiurie, per così dire, naturali. Il tutto, vissuto nella gioiosa
consapevolezza della «volontà di Dio»: «E prego il frate infermo
di rendere grazie di tutto al Creatore; e quale lo vuole il Signore,
tale desideri di essere sano o malato […] Se invece si turberà o
si adirerà contro Dio e contro i frati […], dal maligno questo gli
viene» (49). Anche qui, non c’è masochistico desiderio di essere
malati, né stupida rassegnazione, ma la forza di reagire alle
insinuazioni momentanee. Il male acquista un senso che lo salva, un
senso di fratellanza nel servizio, che permetteva a Francesco di
chiamare «sorelle» le tribolazioni (50).
Solo grazie a questo sentimento dialettico di obbedienza deriva, come
in Francesco, la capacità di alleviare le tribolazioni, la
«compassione» verso i fratelli nelle loro pene non solo naturali,
ma anche ascetiche (51). Essendo impossibile qui soffermarsi sul
grande tema della compassione francescana, notiamo soltanto come il
santo la esigesse praticata da tutti i frati, specialmente se
ministri: «Consoli gli afflitti […] perché non avvenga che gli
infermi si sentano sopraffatti dal morbo della disperazione» (52).
Poi, avendo fedelmente seguito la sua «dura intenzione» (Paradiso,
XI, 91), Francesco sta per morire. «Laudato si, mi Signore, per sora
nostra Morte corporale». Il verso successivo esprime
l’ineluttabilità. Ma nella gratitudine, non nel cinismo.
Qui, solo un accenno su questa meravigliosa fraternità. Benché il
santo vedesse la morte «come porta alla vita» (53), non era il tipo
da consolarsi semplicemente pensandola conseguenza del peccato
originale, come non gli bastò sapere il corpo nemico dello spirito
per non chiamarlo «fratello» e chiedergli perdono (54). La lettera
dolcissima di Francesco morente a Donna Jacopa, cui ricordava di
portargli dei dolci, spiega bene l’atteggiamento di umiltà e di
fraternità di Francesco con le cose. Francesco era troppo sensato
per non stimare troppo poco il godimento di leccornie poco prima di
morire; ma non si vergognò d’essere «piccolo» con le piccole
gioie del mondo. E in questo fu troppo grande. Così grande, che
frate Elia si scandalizzava dei canti, e dei dolcetti del Fondatore
sul punto di morte.
Ma, tutto, è un unico segno di amore. «Laudate e benedicite mi
Signore / e rengraziate e serviteli cun grande umiltate».
E, tutto, un segno della fede di quell’amore. «Cun grande
umiltate».
È spiacevole terminare, in fretta, sul grande tema di coloro che
muoiono nelle «peccata». Il «guai! » di Francesco è perentorio.
Ma per capire la gioia perché sia tolto il «guai! » e sia detto
«beati» per coloro che la morte «troverà nelle tue santissime
voluntati», non mi resta che riportare un brano, tra i più umani e
poetici della prosa francescana, che traduco liberamente: «Io
riconoscerò se tu ami il Signore e se ami me, suo e tuo servo, se
farai esattamente questo: che non ci sia alcun frate al mondo, per
quanto abbia peccato, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, si
allontani senza il tuo perdono, se lo chiede; e, se non lo chiedesse,
senza che tu stesso chieda a lui se vuole essere perdonato. E se egli
comparisse davanti ai tuoi occhi mille volte, amalo più di me. E ciò
per questo motivo, perché tu possa conquistarlo al Signore […]. E
tutti i frati che sapessero che egli ha peccato, non lo facciano
arrossire né dicano male di lui […]. Ed essi non abbiano altra
potestà di dare altra penitenza che questa: Va’ e non peccare
più» (55).
Anche in questo senso, Francesco è dalla parte delle creature: in
questo caso, di quelle stesse che sono nella colpa.
Perché essere dalla parte delle creature, per amore di Dio, è, per
Francesco, essere dalla parte di Dio.
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(1) Stanislao da Campagnola,
Introduzione alla Sezione I di Fonti
Francescane, Assisi
1979, p. 49. Ci serviamo di queste Fonti
per le citazioni dei testi francescani.
(2) Cfr. Leggenda
dei Tre Compagni,
III, 10 e VII, 23 e 24; Tommaso da Celano, Vita
prima VII, 16 e
Vita seconda VIII,
13 e XC, 27 (abbrevieremo I
Celano, II
Celano); Specchio
di perfezione, VI,
93; Bonaventura, Leggenda
maggiore, II, 5.
(3) Cfr. E. Franceschini,
Scritti di san
Francesco d’Assisi,
Milano 1976, p. 13.
(4) II
Celano, CXXII, 163:
«Voleva che i ministri della parola di Dio attendessero agli studi
sacri e non fossero impediti da nessun altro impegno».
(5) Regola
bollata, X, 9.
(6) Ammonizioni,
VII, 2-3.
(7) II
Celano, XC, 127;
Specchio di
perfezione, VI, 93:
«II ruscello della voce divina che gli sussurrava nell’intimo…».
(8) Renan, Francois
d’Assise, in
Nouvelles études
religieuses, Paris
1884, p. 351.
(9) I
Celano, 82.
(10) Ammonizioni,
VII, 4.
(11) Fra cui C. Ginzburg,
Folklore, magia,
religione, in
Storia d’Italia,
I, Torino 1972, pp. 614 ss.
(12) Stanislao da Campagnola,
op. cit.,
p. 87. Cfr. S. Ruggeri, Materiali
per uno studio sul «Cantico di Frate Sole»,
in «Accademie e biblioteche d’Italia»,
XLIII (1950), pp. 60-102.
(13) G. Getto, Letteratura
religiosa dal Due al Novecento,
I, Firenze 1967, p. 81.
(14) Lettera
al Capitolo generale di tutti i frati,
VI, 58-60.
(15) Sulla spontaneità del
Cantico
cfr. il classico ed acuto L. F. Benedetto, Il
Cantico di Frate Sole,
Firenze 1941.
(16) G. Getto, op.cit.,
60.
(17) Leggenda
perugina, 104;
Specchio di
perfezione, I, 45:
«vergogna e tribolazione».
(18) Per le citazioni dei
Salmi cfr. L. Spitzer, Nuove
considerazioni sul «Cantico di Frate Sole»,
in «Convivium»
XXV (1957) n. 1, pp. 84-87.
(19) Op.cit.,
pp. 35 e 81.
(20) Raoul Manselli, Rassegna
di storia francescana,
in «Rivista di storia e letteratura religiosa» I (1965), pp. 122
ss.
(21) G. Getto, op.cit.,
p. 81.
(22) Idem, op.
cit., p. 53.
Giustamente è così spiegato il concetto: «io loderò te, o
Signore, e al tempo stesso le tue creature» (cum comitativo) dal
Pagliaro, Il Cantico
di Frate Sole, in
«Saggi di critica semantica», Messina-Firenze 1955, p 218.
(23) Viscardi, Problemi
di critica francescana,
in «La Nuova Italia», II, (1931), pp. 9-11.
(24) G. Getto, op.
cit., pp. 33 e 55.
(25) I
Celano, XXI, 58
(per gli animali), XXIX, 80 (per il sole, la luna, le stelle, il
firmamento), XXIX, 81 (per i fiori); II
Celano, CXXIV, 165
(per tutte le creature); Legenda
perusina, 4 e
(specialmente per il fuoco), 51 (per le pietre e per i fiori);
Specchio di perfez.,
XI, 113-115 (per gli animali e il fuoco).
(26) Bonaventura, Legg.
maggiore, IX, 1; II
Celano, CXXIV, 165.
Per la «rivelazione» di Dio attraverso le creature cfr. Scoto
Eriugena, De
divisione naturae,
V, 3 e Bonaventura, In
Hexaemeron, XIII,
12.
(27) II
Celano, CXXIV, 165;
Specchio di perfez.,
119.
(28) Così si esprime,
riferendo l’Ep. ai Colossesi, 1,17, Chiara d’Assisi, interprete
spontanea del suo maestro, in Lettera
terza, 26.
(29) Specchio
di perfez., 119.
(30) G. Getto, op.
cit., pp. 40 e 43.
(31) E. Gilson, L’esprit
de la philosophie médiévale,
Paris 19482,
pp. 101 ss.
(32) G. Getto, op.
cit., p. 55.
(33) Bonaventura, Leg.
minore, VI.
(34) In questo senso
giustamente il Getto parla di «affratellamento dell’uomo e delle
creature, realizzato nel comune servizio di lode a Dio» e ricorda,
in tale contesto, «il senso della strumentalità delle cose», op.
cit., p. 40.
(35) Senza negare che il Santo
ricordasse Gesù vedendo alcune creature, come la pecorella immagine
di Gesù mansueto (cfr. I
Celano, XXVIII,
77).
(36) Specchio
di perfez., XI,
115; Leg. perusina,
48.
(37) Circa le disquisizioni
sulla preposizione «per», condividiamo il parere di Getto sul
significato di agente (op.
cit., pp. 55-59),
in quanto, «se nella struttura grammaticale le creature si pongono
lodanti, nella concretezza oggettiva delle immagini esse sono sempre
lodate» (p. 63). Del resto, la parola in Francesco è «ribelle a
troppe rigide distinzioni e a troppe precise definizioni» (p. 63).
Tuttavia non riteniamo contraddittorio il giudizio di M. Casella, che
intende il «per» in senso causale, «per il fatto che esse
esercitano la stessa causalità divina come cause seconde» (Il
Cantico delle creature,
in «Studi medievali», XVI (1950), pp. 124-125), e quello suggestivo
di A. Pagliaro, che attribuisce al «per» un valore locale-mediano:
«la lode deve arrivare al Signore attraverso le sue creature, cioè,
la lode rivolta alle sue creature è lode al Signore» (Saggio
di critica semantica
cit., p. 216).
(38) Legenda
perusina, 43;
Specchio di perfez.,
VIII, 100. In questo senso pensiamo che si debba parlare di
prospettiva umana del Cantico.
Cfr. Spitzer contro Casella, in Getto, op.
cit., p. 54.
(39) Lodi
di Dio Altissimo,
2.
(40) Cfr. U. Ulivi, Il
sentimento delle cose e san Bonaventura,
in «Lettere italiane», XIV (1959), n. 1, pp. 1-32.
(41) Anche se con angolo
visuale diverso, è il vedere in tali esseri «lodi stabili» (De
Robertis, Studi,
Firenze 1944). In effetti, «di fronte a tanta abbondanza di
testimonianze, riesce assai strano il fatto che nel Cantico
delle creature gli
animali non siano assolutamente nominati» (Getto, op.
cit., pp. 27-28).
(42) II
Celano, CXXX1II,
175 e CLI, 200; Specchio
di perfez., I, 42.
(43) G. Getto, op.cit.,
p. 36.
(44) II
Celano, XVIII, 47.
(45) Leggenda
dei Tre Compagni,
42; Leggenda
perugina, VI, 26.
(46) G. Getto, op.
cit., pp. 48-49. A
parte le disquisizioni sui tempi della stesura del Cantico,
su cui cfr. Stanislao da Campagnola, in op
cit., pp. 85-86 e
nota.
(47) II
Celano, LVI, 89 e,
sul «perdono», anche I
Celano, VII, 16.
(48) Il senso della «giusta
rivendicazione dei propri diritti» è dimostrato da san Francesco
nella sua forte istanza per l’approvazione di una Regola propria,
rifiutando quelle precedenti e rintuzzando le opposizioni: Leggenda
perugina, 114;
Specchio di perfez.,
III, 68; Angelo Clareno, Cronache
delle sette tribolazioni,
I, 5 e II, 3.
(49) Regola
non bollata, X,
3-7.
(50) II
Celano, CLXI, 212.
(51) Leggenda
dei Tre Compagni,
XIV, 59; Anonimo
perugino, VIII, 39;
II Celano,
CXXXIII, 175; Regola
non bollata, X,
1-2; «Se un frate cadrà ammalato, ovunque sarà, gli altri frati
non lo lascino…». Ciò è ripetuto nella Regola
bollata, tanta
importanza il fondatore attribuiva a questa partecipazione affettiva
e fattiva.
(52) II
Celano, CXXXIX,
185.
(53) II
Celano, CLXIII,
217, secondo le parole di Francesco stesso: «Coraggio, frate medico,
dimmi pure che la morte è imminente: per me sarà la porta della
vita».
(54) Leggenda
dei Tre Compagni,
V, 14.
(55) Lettera
ad un ministro,
7-11.
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FONTE. Francesco di Ciaccia, Dalla
parte delle creature, “cun grande umiltate”,
«Frate Francesco», 3-4 (1982) pp. 230-240.