sabato 7 dicembre 2024

Il Dogma dell'Immacolata Concezione e il suo significato attuale, di Fra Pierre Sampula


Il Dogma dell'Immacolata Concezione e il suo significato attuale

di Fra Pierre Sampula




Oggi, se bisogna parlare del dogma dell’Immacolata Concezione, c’è di che interrogarsi su ciò che la dottrina della Chiesa vorrebbe esprimere con questo termine. Per questa ragione, è opportuno anzitutto aprire questa esposizione con alcune osservazioni che permettono di dissipare i malintesi in quanto al significato di questo dogma. Poi si dirà ciò che significa per noi e cosa c’insegna. Parlando del dogma dell’Immacolata Concezione, non dobbiamo riportarlo alla concezione verginale di Gesù nel seno di Maria, né all’idea secondo la quale Maria avrebbe concepito il Cristo senza che la sua maternità l’abbia macchiata di peccato; questo dogma è lontano da esprimere questa realtà. Non significa neanche che la nascita di Maria abbia presentato alcune differenze dal punto di vista fisico rispetto a quella degli uomini o che Maria avrebbe ricevuto un privilegio per evitare ogni sozzura che accompagna la nascita di un essere umano generato dell’amore coniugale di due esseri umani.


Il contenuto teologico del dogma dell’Immacolata Concezione

Promulgato dal Papa Pio IX nel 1854 nella bolla Ineffabilis Deus, questo dogma dichiarava che: “La Beata Vergine e Madre di Dio, Maria, è stata, in considerazione dei meriti di Gesù Cristo suo figlio, e dunque a causa della redenzione operata da suo figlio, gratificata da Dio, fin dal primo istante della sua esistenza, della grazia santificante e, di conseguenza, non ha conosciuto lo stato del peccato originale” (DZ, n°2803). La dottrina della chiesa, attraverso questo dogma, vorrebbe e vuole proclamare semplicemente che la Beata Vergine Maria è stata concepita nel seno di Anna, sua madre, senza che essa contraesse il minimo peccato originario. Detto diversamente, è stata esentata dal peccato originale per l’amore e la misericordia di Dio. Risulta che per meglio cogliere il senso ed il significato del dogma dell’Immacolata Concezione, si rivela necessario conoscere ciò che è il peccato originale, e in quale modo si contrae. La dottrina teologica del peccato originale c’insegna che tutti gli uomini, fin dal loro concepimento, sono già colpiti dal peccato originale e, alla nascita, vengono al mondo privi della grazia divina, e questo a causa del peccato commesso dal primo uomo. Ciò mostra che il peccato originale non è un peccato personale dovuto ad un’azione cattiva fatta dall’uomo con la sua piena responsabilità. Si tratta, al contrario, di un peccato di natura che ogni uomo contrae a partire dalla sua nascita e fin dalla sua concezione per il fatto proprio di appartenere in maniera solidale ad un’umanità peccatrice che, fin dalle sue origini, aveva scelto la disobbedienza al posto della sottomissione a Dio. Andando nello stesso senso, J. Bur fa questa affermazione: “lo stato di peccato originale alla nascita significa che la nostra condizione nativa non comporta in se stessa l’amicizia con Dio né la partecipazione effettiva alla sua vita divina. Questa sarà conferita, dopo la nascita, dalla rinascita filiale in Gesù Cristo, operata dal sacramento del Battesimo o da quello che lo supplisce”. Presentato sotto questa prospettiva, non concepiamo il peccato originale come una macchia che si cancella con il battesimo. Ammettiamo semplicemente che per il peccato originale l’uomo è privato, fin dalla sua concezione ed alla nascita, della grazia santificante che gli sarà data solamente attraverso il Battesimo. Allo stato del peccato originale, l’uomo è consegnato a due attrattive opposte, l’attrattiva verso il bene e l’attrattiva verso il male. Nel linguaggio cristiano, questa ultima attrattiva è chiamata concupiscenza. Per quel che riguarda Maria, la teologia cattolica afferma che non è stata segnata dal peccato originale e non ha conosciuto, di conseguenza, neanche la concupiscenza. Inoltre, “non ha provato mai nessuna tendenza a fare il male” (Leysbeth). Ammettere che Maria è stata preservata, fin dalla sua concezione, dal peccato originale, vuole dire semplicemente che Maria è stata santificata fin dal primo istante della sua esistenza dalla grazia della vita divina. Così, si può dire che l’immacolata concezione di Maria consiste nel possesso, fin dall’inizio della sua esistenza, della vita della grazia divina che gli è data senza merito da parte sua, ma per la grazia premurosa di Dio, che è accordata agli altri uomini solo dopo la loro nascita. Perché questa differenza e quali sono le ragioni?


Le ragioni del Privilegio dell’Immacolata Concezione

Se Maria ha ricevuto fin dalla sua concezione la grazia santificante, è a causa della sua maternità divina. Numerosi sono quelli che sostengono che se colui che doveva nascere da lei era Uomo-Dio, senza peccato, era inconcepibile che fosse concepito in una natura portatrice di peccato. Dio non poteva dunque fare altro che preparare al suo Figlio beneamato una dimora degna di lui. È anche ciò che ci rivela l’orazione di apertura della messa dell’Immacolato Concezione: “Tu hai preparato a tuo Figlio una dimora degna di lui, per la concezione Immacolata della Vergine Maria (…)”. La seconda ragione del privilegio dell’immacolata concezione per Maria gli viene in virtù della redenzione operata da Cristo, perché, di Maria, la chiesa insegna che appartiene alla comunità dei redenti. Ciò che vuole dire che anche lei fu come noi, redenti in virtù dei meriti di Cristo. Ma bisogna sottolineare che “la sua redenzione fu preservatrice, mentre la nostra è riparatrice”. Possiamo ora interrogarci su cosa significa l’Immacolata concezione per noi.


Significato attuale del dogma dell’Immacolata Concezione

Attraverso il dogma dell’Immacolata concezione comprendiamo che il principio di ogni essere spirituale è stabilito da Dio. È Dio solo che possiede il nostro destino ed è solo Lui che lo traccia. Noi non possiamo mai ritornare al di sotto del principio che Dio ci ha fissato. Questo dogma ci mostra anche che Dio avvolge tutta la vita dell’uomo col suo amore redentore e con la sua fedeltà amante. Ricorda anche che “Dio che ha l’iniziativa è sempre al di là delle nostre rappresentazioni, delle nostre attese, in una chiarezza che intravediamo solamente man mano” (Rouet). Un altro autore (Fairweather) è più chiaro quando dichiara che “non bisogna comprendere l’immacolata Concezione come una purezza morale, come facevano i giansenisti, ma piuttosto come l’espropriazione di un essere da parte di Dio e come l’accettazione, nella fede, da parte di questa persona, a collaborare al progresso divino che gli è progressivamente svelato”. A partire da questo dogma abbiamo un’idea di ciò che era l’uomo prima della caduta. Notiamo che Sant’Anselmo, San Bernardo e San Tommaso d’Aquino hanno rifiutato l’immacolata Concezione per la sola ragione che contraddice, secondo loro, l’universalità del peccato originale; mentre San Bonaventura e Giovanni Duns Scoto l’hanno difesa con tanta energia.




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Fonte: https://www.latheotokos.it/modules.php?name=News&file=print&sid=1976

giovedì 5 dicembre 2024

I pilastri della prima comunità cristiana, di fra Maurizio Erasmi


I PILASTRI DELLA PRIMA COMUNITA' CRISTIANA

di fra Maurizio Erasmi




(Atti 2, 42-47)

“Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. 43 Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; 45 chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46 Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo”.

La chiesa delle origini è sempre il modello di ogni comunità cristiana, modello che bisogna tenere sempre davanti ai nostri occhi come ideale. Questo modello ha quattro fondamenti sui quali si regge la vita della comunità cristiana.

Consideriamo innanzitutto il contesto nel quale Luca colloca la prima comunità di Gerusalemme. Il contesto lo troviamo al cap 2 quando Pietro si alza nell’assemblea e, fortificato dallo Spirito Santo, fa il suo discorso che si conclude con questa affermazione fondamentale: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni». Il discorso di Pietro all’assemblea raggiunge, con questo versetto, il suo nucleo principale. E’ il Kerigma, il primo che risuona dalla bocca di Pietro in un contesto liturgico assembleare. Questo Kerigma o annuncio della salvezza, è costituito da tre elementi:

Storico: Gesù di Nazaret è morto sulla croce. L’annuncio della salvezza parte da questo dato inconfutabile. Il Figlio di Dio è Gesù di Nazaret, un uomo concreto, vissuto in Palestina, che a motivo della sua predicazione è stato condannato alla crocifissione. Anche Tacito nelle Annales ci riporta questo evento, dicendo che i cristiani sono i seguaci di un certo “Cristo” morto sulla croce perché si è fatto re dei giudei. Questo è il primo elemento del Kerigma perché la nostra fede non si appoggia su qualcosa, su una dottrina imparata a memoria o su una filosofia di pensiero, ma su Qualcuno e questo Qualcuno è un uomo realmente esistito che ci ha parlato di Dio e ce l’ha fatto vedere. Noi abbiamo fatto esperienza di Dio mediante l’uomo Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio.

Teologico: questo Gesù che è morto sulla croce Dio, il Padre, lo ha risuscitato. E qui c’è il movimento dell’azione di Dio. Dio è la vita, la pienezza della vita, e risvegliando il Figlio dalla morte rivela che Egli dona la vita.

Ecclesiologico: quando Pietro in assemblea dice: “e noi tutti ne siamo testimoni”, egli sta dicendo che l’ha visto crocifisso, morto e risorto e per questo lo può raccontare. Il Kerigma è il grido della fede convinta e convincente. Da qui nasce la Chiesa!

Dinanzi a questo proclamo di Pietro c’è una reazione: «All’udire tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: che cosa dobbiamo fare fratelli?» Dinanzi all’annunzio del Kerigma così esposto quella adunanza si sente provocata e si pone in un atteggiamento di ricerca: cosa dobbiamo fare?

Questa domanda lasciata lì da Luca nei libri degli Atti trova risposte concrete che toccano il fare. Quattro risposte, i quattro pilastri che reggono la vita della comunità cristiana:

Ascoltare l’insegnamento degli apostoli (la didachè)
L’unione fraterna (la koinonia)
La frazione del pane
Le preghiere (i salmi e il Padre Nostro)


1. L’insegnamento degli Apostoli: Che cosa insegnavano gli apostoli? La loro esperienza accanto al Signore Gesù. Un’esperienza che traduce gesti che sono stati visti e parole che sono state ascoltate. Quindi la didachè è il magistero di Gesù, tutto ciò che Gesù ha detto e ha fatto. Gli apostoli lo ricevono e lo trasmettono. Qui inizia la “tradizione”, il “tradere”. I discepoli annunziano, proclamano tutto quello che hanno udito e visto. Troviamo un parallelo interessante in Luca 24,13ss: i discepoli di Emmaus. Questo misterioso viandante che si accosta ai due discepoli “litigiosi”- che stavano litigando perché ognuno voleva avere ragione – e in una situazione di litigio, di dissidio, di incomprensione Gesù si accosta ma loro non lo riconoscono. E quando si accorgono che era Lui dicono: «Non ci ardeva il cuore nel petto mentre ci spiegava le Scritture?». Spiegava, cioè faceva l’esegesi di tutta la Parola a partire da quello che Lui era e aveva fatto a Gerusalemme. La Scrittura parlava di Lui, della sua Pasqua e i discepoli dovevano svegliarsi da quel torpore, da quella delusione e da quella contestazione e ricordare quello che avevano visto e udito.

2. L’unione fraterna: rappresenta lo stare insieme in un certo modo. E per essere concreti Luca ci dice in che modo i primi cristiani stavano insieme. In due modi: tenevano ogni cosa in comune a tal punto che chi teneva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno. Questo è il primo modo, cioè, la condivisione di quello che avevano. Il secondo modo: Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio, spezzavano il pane a casa – non in chiesa – prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Questo viene ripreso anche al cap 4, 32-35: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano e portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno». È un tratto caratteristico la condivisione di quello che si ha. Non solo. La condivisione di quello che si è. La preghiera che unisce l’uno all’altro perché preghiamo insieme e stiamo insieme sotto lo stesso Dio. La preghiera dice la nostra identità, il nostro essere. Siccome siamo tutti figli suoi, di conseguenza, noi siamo fratelli. Ed è nella preghiera, nella lode a Dio che scopriamo la fraternità, la Koinonia. Vediamo qui la praticità: fare ed essere. Quello che ho lo condivido e condivido anche quello che sono. Preghiera e azione.

3. La frazione del pane, questo ritrovarsi insieme nelle case perché la casa è il luogo, è la piccola chiesa domestica. La casa, luogo della relazione, della vita insieme, diventa anche luogo della liturgia perché quello che noi viviamo lo mettiamo sull’altare perché tutto ciò che c’è nella casa venga offerto e salga gradito a Dio. La casa, il luogo dell’eucaristia, dello spezzare il pane.

4. Le preghiere, la spiritualità orazionale contraddistingue la fisionomia della prima comunità cristiana che pregava secondo i tempi della tradizione ebraica nelle tre ore prestabilite: terza, sesta e nona, perché tutta la giornata era articolata e ritmata dalla preghiera: I salmi, il salterio ai quali si aggiungeva la preghiera insegnata da Gesù: il Pater.

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Questi quattro pilastri che reggono la vita della prima comunità cristiana, cosa possono dirci a noi che viviamo in una comunità cristiana?

1. In che modo io posso ascoltare l’insegnamento degli apostoli?

L’esperienza ci dice che molte volte, per mancanza di tempo o per la molteplicità dei servizi che siamo chiamati a svolgere nell’istituto e a nome dell’istituto, ci capita di disattendere l’ascolto della didachè. La nostra vita a volte è molto frazionata e frammentata da tante cose che sono buone, belle, giuste ma .. la didachè l’ascolto?. E ascoltare la didachè significa formare il mio spirito e formare lo spirito della comunità a partire da quello che Gesù ha detto e ha fatto. Significa che io devo trovare un momento per confrontarmi con Lui, per mettermi davanti a Lui e chiederGli che cosa devo fare. E questo vale anche per la comunità, dobbiamo trovare un momento per confrontarci con Lui, per fermarci insieme davanti al Signore, per ascoltare cosa pensa Lui di noi, cosa dice Lui sul nostro lavoro, sul nostro apostolato. Confrontare, ad esempio, la mia idea di povertà, di aiuto alle forme di precarietà esistenziali con quello che è scritto nel Vangelo, con quello che ha detto Lui sui poveri, con quello che ha fatto Lui a favore dei poveri. Perché noi non siamo degli imprenditori, siamo dei consacrati. Confrontare, ad esempio, la nostra idea di giustizia perché io ho la mia idea di giustizia, la comunità ha la sua idea di giustizia, ma sappiamo qual è il pensiero del Signore sulla giustizia?. Bisogna ricuperare l’ascolto e l’incontro con la didachè a livello personale e a livello comunitario.

2. La sfida della Koinonia, l’unione fraterna.

Essere in comunione, perché noi lo siamo, perché c’è qualcuno che ci ha messo insieme per essere in comunione. Una comunione espressa a partire di ciò che sei e a partire di ciò che hai. Quello che io sono e come sono; quello che io so fare e che fa parte del mio patrimonio lo metto in comunione con te che vivi con me. Ma qui il punto di partenza, e che fa la differenza, è la FEDE in Dio. Se tu hai un problema in comunità è perché hai un problema con Dio. Se tu non vai d’accordo con qualcuno che ti sta antipatico… il problema non è quello lì che ti sta antipatico, ma il problema è che tu hai una fatica con Dio. La radice è la nostra relazione personale con Dio, perché se io credo che Dio è mio Padre e io sono figlia sua e anche l’altra è figlia di Dio, allora siamo sorelle.
Come è il mio rapporto con il Signore? Credo che veramente Dio è mio Padre e che io sono figlia sua?. Ripartiamo da qui, questa è la base della koinonia, da qui parte la fraternità: dalla paternità di Dio.

3. La frazione del pane

L’eucaristia costituisce l’elemento cardine della nostra giornata, dovrebbe essere vissuta come “il momento” di tutta la giornata perché tutto parte da lì, da quel pane spezzato. Cerchiamo quindi di essere “sveglie” per vivere bene questo momento significativo della nostra vita personale e comunitaria. È importante celebrare insieme, mettendo sull’altare le gioie e le fatiche, i momenti belli del nostro stare insieme come gratitudine a Dio per il dono della comunità. Anche l’intercessione è importante, quando la comunità è un po’ scollata, divisa, frazionata, quando ci sono i conflitti.. pregare il Signore che venga a stare in mezzo a noi, a guarirci, a illuminarci… La gratitudine dunque e l’intercessione per la vita insieme, mettere sull’altare tutta la vita comunitaria, quello che siamo e quello che facciamo. E concretizzare tutto ciò in alcuni momenti particolari con dei segni, dei gesti che rendano più concreto e più visibile il mistero che celebriamo insieme. Fare ad alta voce anche delle preghiere per le consorelle e per i momenti di particolare difficoltà che si possono vivere. La preghiera insieme GUARISCE!. Ci crediamo?

4. Nelle preghiere

Ogni versetto del Padre Nostro è un motivo per entrare nel mistero di Dio con il cuore del Figlio, ma anche nel mistero dell’uomo con il cuore da figlio. Il Padre Nostro è la preghiera più bella, più completa, più profonda perché ci parla di Dio e ci parla di noi, ci dice chi è Dio e chi siamo noi. Sarebbe interessante pensare un programma di vita comunitaria spirituale a partire dal Padre Nostro che è la preghiera di Dio e dei figli di Dio, la preghiera della Chiesa.

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Che il Signore Gesù possa confermare la nostra vocazione, che stiamo vivendo in comunità, nel nostro Istituto, a partire da questi quattro pilastri e se qualche pilastro è un po’ pericolante cerchiamo di rinforzarlo perché ognuno di essi è indispensabile perché la comunità possa reggersi e perché possa rispondere a quella vocazione che ha ricevuto dal Signore. Amen



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lunedì 2 dicembre 2024

Discorso sulla Dedicazione della Sacra Famiglia e la mia attività di scultore, di Sotoo Etsuro


Discorso sulla Dedicazione della Sacra Famiglia e la mia attività di scultore (Premio Ratzinger 2024)

di Sotoo Etsuro




Eminentissimo cardinale Pietro Parolin, eminentissimo cardinale Gianfranco Ravasi, eccellentissimo monsignor Salvatore Fisichella, Reverendo padre Federico Lombardi,

Cari signori, signore e amici,

Oggi, nel ricordare quel giorno indimenticabile in cui la Sagrada Familia fu consacrata da Papa Benedetto XVI, il 7 novembre 2010, avverto ancora una volta le sue parole risuonare in me, come un’eco sacra in ogni pietra, in ogni dettaglio di quest’opera vivente. La sua omelia non è stata solo un messaggio di fede e di speranza, è stata come la nota di una melodia; penso che noi siamo semplicemente parte di una nota della partitura divina, un alito che sembrava dare vita al tempio e a noi stessi. Ho sentito in quel momento, come lo sento oggi, che lavorare alla Sagrada Familia non è solo un progetto architettonico o artistico, ma una chiamata, uno scopo divino. La dedicazione ha significato molto più di una cerimonia religiosa. È stata un momento in cui ognuno di noi, dagli architetti, scultori e artigiani, fino al visitatore più umile, si è fatto testimone della trascendenza di quest’opera e ha avvertito che quel giorno avevamo ricevuto un grande compenso. Percepivamo di stare costruendo qualcosa che non appartiene solo a Barcellona, alla Catalogna o alla Spagna, ma a tutta l’umanità, un dono rivolto a noi tutti. È apparsa evidente l’universalità di questa chiesa, che si erge non solo come un simbolo di fede, ma come invito alla pace, all’incontro tra culture e credenze. Quel giorno ho capito, in modo molto personale, che il sogno di Gaudí, creare una «cattedrale del popolo», aveva smesso di essere un sogno. Era diventato realtà!

Quando giunsi per la prima volta a Barcellona dal Giappone, nel 1978, ricordo di essermi sentito come uno straniero in terra straniera. Ogni strada, ogni angolo, appariva pieno di storie e simboli che, all’inizio, mi erano estranei. Tuttavia, quando ho cominciato a lavorare la pietra, quando ho preso lo scalpello e ho cominciato a scolpire, sapevo che la pietra ha un suo linguaggio, un linguaggio che non ha bisogno di traduzione, per questo sono venuto a cercare la pietra dal Giappone all’Europa. La pietra è grande arte o qualcosa di più. L’arte, nella sua forma più pura, è un universo di pietra, fino alla fine dell’universo dove nessuno è andato e non possiamo andare, ma so che la pietra c’è.

Lavorare alla Sagrada Familia mi ha fatto capire che, pur provenendo da culture diverse, condividiamo un’essenza comune che può essere espressa non solo attraverso l’arte, perché ho scoperto che Gaudí aveva un intuito un po’ orientale. Col tempo ho cominciato a sentire che le mie radici giapponesi e questa terra catalana erano connesse, come due rami dello stesso albero, che s’incontrano nella spiritualità della creazione. Voglio spiegare i frutti e le foglie che ho lavorato: più di 200 pezzi, ognuno più o meno di una tonnellata, ogni pezzo terminato in cinque giorni, cioè lunedì portavo la pietra e venerdì la consegnavo. Nessuno allora sapeva che senso avessero. I discepoli di Gaudí mi avevano ordinato di metterci frutti con sotto foglie, i frutti in pietra; sopra i frutti, colorato mosaico veneziano, e al di sotto frutti e foglie in pietra. Ma perché, che cosa significa? Capirlo mi era necessario per scolpire, perché uno scultore non si limita a tagliare la pietra senza senso e senza significato, e se non lo comprendevo non potevo lavorare. Quindi ho indagato, ma poiché nessuno lo sapeva, ho dovuto inventare. Noi cresciamo grazie alle parole. E noi stessi siamo frutti, lo dico con parole di papa Ratzinger: «Siamo frutti della natura». Non dobbiamo solo rispettare la natura, Gaudí ha detto che la natura è la sua maestra, per esempio i frutti e le foglie. In Giappone, in natura senza foglie i frutti non nascono né maturano. In Giappone noi cresciamo e maturiamo grazie alle parole, perché le parole le scriviamo con i segni. L’ideogramma per Kotoba, parola è composto da due segni: “dire” e “foglie”, e letteralmente significa “fare del dire una foglia”.

Il mio cuore mi dice che con questa verità le persone sentono o imparano, e che qui si cela il segreto che animava Gaudí: foglie e frutti come simbolo della crescita della nostra anima, perché questo tempio è uno strumento per farci crescere. Immagino che Gaudí non conoscesse la lingua giapponese, ma poiché egli ha imparato dalla natura, cioè la natura è stata la sua maestra, e anche la nostra cultura viene dalla natura, arriviamo alla medesima risposta. È così che mi sono immerso nello spirito di quest’opera, sentendomi profondamente giapponese e allo stesso tempo figlio di questa città, come un seme che nato in Giappone è volato fino a Barcellona, città mediterranea, terra ricca dove cresce adattandosi e sviluppandosi ben oltre le mie aspettative. In ogni scultura, in ogni figura che ho sbozzato, ho voluto trasmettere qualcosa di quella dualità, di quell’incontro tra mondi che arricchisce, somma e approfondisce la nostra identità, perché quanto più sono diverse le culture che si uniscono, più nuova e più forte è la cultura che nasce.

Forse non c’è esempio migliore del Portale della Natività, dove gli angeli musicanti e il coro dei bambini celebrano la nascita di Gesù Bambino. Per me queste sculture non sono solo figure di pietra. Sono un canto alla vita, un tentativo di catturare quei bambini nella pietra come se fossero i miei figli vivi, come se ogni figura stesse per muoversi, ballare o cantare. Questo è il segreto di Gaudí: egli cercava sempre forme che facessero sembrare la statua di pietra viva, in movimento. Molte persone discutono di arte. L’arte non è tale per la sua antichità, tantomeno per il prezzo che le si attribuisce, ma perché è sempre viva, così che ogni volta che vediamo quadri, leggiamo libri, ascoltiamo musica, sentiamo sempre qualcosa di nuovo: questo è arte. E Gaudí diceva: «La bellezza è lo splendore della verità». Per questo il coro dei bambini occupa un posto molto speciale nel mio cuore. C’è un bambino birichino che sembra voler scendere ad accarezzare Gesù Bambino, un gesto così semplice e umano e, allo stesso tempo, così sacro. Quando iniziai a lavorare la pietra, venne a trovarmi un signore molto anziano, e mi disse: «Quel bambino sono io, quando avevo nove o dieci anni giocavo a palla davanti alla Sagrada Familia e ogni volta che passava il signor Gaudí interrompevamo il gioco, ci fermavamo in segno di rispetto. Un giorno questo signor Gaudí si avvicinò a me e, mettendomi una mano sulla testa, mi disse: “Ti darò una caramella se farai da modello”. Io non sapevo che cos’è un modello, con i miei amici sono andato a visitare il suo studio». Non mi aspettavo di poter vedere un modello vivente di quella facciata, pensavo che fossero tutti morti, e sono anche felice di aver reso qualcosa di molto simile a quell’uomo. Non è quello che sentiamo tutti dentro? Quell’impulso ad avvicinarsi, a toccare il divino. Non stiamo semplicemente realizzando una figura e tanto meno un monumento, ma dobbiamo realizzare qualcosa di vero. Il Gesù Bambino che è lì non è di pietra, tutti vogliono vederlo come duemila anni fa, là dove davvero esisteva, tutti vogliono esserci, insieme ai Magi, presenti all’evento più importante e magnifico di quel momento.

Credo che in quel gesto sia racchiuso il messaggio vivo di Gaudí, il suo desiderio che la Sagrada Familia fosse un luogo d’incontro tra il celeste e l’umano. In quei piccoli dettagli, in quelle espressioni di tenerezza e curiosità, ho voluto lasciare un messaggio a tutti coloro che visiteranno questa chiesa: che l’amore, nella sua forma più pura, è ciò che ci unisce tutti. Questa facciata-pala d’altare, che normalmente si troverebbe all’interno del tempio, è stata posta all’esterno per invitare le persone, siano o non siano interessate; chiama tutti. Il modello in gesso a grandezza naturale che ho impiegato dieci anni a trasformare in pietra ora si trova a Kyoto, in Giappone, dove il prossimo dicembre verrà inaugurato nella Kyoto City Fine Arts University, che è accanto alla stazione di Kyoto: se un giorno andate in Giappone e visitate Kyoto, potrete vederla gratuitamente.

La gente si chiede come si possa continuare a costruire senza Gaudí. L’arte non è che qualcuno ha sbagliato e noi seguiamo questa strada sbagliata, l’arte è, come la scienza, ricerca della risposta giusta, perché anche se Gaudí non c’è più e non ha lasciato dati, se guardiamo dove guardava Gaudí, troviamo sempre la risposta corretta. Questo è il mio modo di costruire la Sagrada Familia. Oggi, dopo quasi un secolo e mezzo da quando Gaudí iniziò a lavorare, siamo più vicini che mai a vedere la Sagrada Familia completata. Ma mi chiedo: anche quando il progetto architettonico verrà portato a termine, è davvero possibile che un’opera come questa sia terminata? Si può dire completato qualcosa che sta crescendo?

La Sagrada Familia non è solo una costruzione; è un simbolo della nostra capacità di creare qualcosa più grande di noi, qualcosa che dura, che trascende. Gaudí ha detto: «Quanto più ci mettiamo, meglio è, perché il padrone di quella casa non ha fretta». Aggiungo che questo tempio è uno strumento eterno che costruisce noi: Papa Benedetto ha detto nella sua omelia che «la Chiesa non ha consistenza da se stessa; è chiamata ad essere segno e strumento». Personalmente so che la mia missione in quest’opera non è terminata. Ci sarà sempre qualcosa in più da fare, qualche dettaglio da perfezionare, qualche spazio da riempire di significato, qualcosa da restaurare e migliorare. Diceva Gaudí che il suo vero committente era Dio e credo che, in qualche modo, tutti noi che lavoriamo qui sentiamo questa stessa vocazione. Il mio lavoro non è solo scolpire la pietra, ma darle vita, trasmettere attraverso di essa la fede e l’amore che Gaudí ha sognato. Pensando sempre: come possiamo dare felicità a questo grande cliente, Dio? La risposta è: «Cerchiamo semplicemente di rendere felici noi stessi, come ogni genitore si sente felice quando vede i propri figli felici, amati». Pertanto, finché ci sarà una scintilla di creatività, finché ci sarà una pietra in attesa di essere scolpita, resterò qui, a servire quest’opera con umiltà e devozione.

Nel frattempo cerchiamo di migliorare il lavoro, imparando, costruendo noi stessi come esseri umani. Per me la Sagrada Familia non è solo un edificio in costruzione: è una preghiera che si eleva, un canto che celebra la grandezza di Dio e la nobiltà dello spirito umano. E so che, in questo luogo, troverò sempre una casa, una ragione per andare avanti, uno scopo che mi riempie il cuore. Siamo semplicemente una nota all’interno della partitura che armonizza la musica di Dio. Quando vedo i visitatori meravigliarsi davanti alle sculture, fermarsi a osservare ogni dettaglio, so che il mio lavoro, il nostro lavoro, acquista significato. L’opera della Sagrada Familia è un invito al dialogo con Dio, alla pace, alla comunione. Ed è questo, alla fine, che mi dà la forza. Sento che la mia vita, la mia cultura, la mia storia e ciascuno dei giorni che ho dedicato a questa Basilica non solo sono valsi la pena, ma mi sento costruito da essa, non lei da me. La Sagrada Familia continuerà a essere un faro di speranza e di amore per tutti coloro che la visiteranno. E io, finché Dio e il destino lo permetteranno, resterò qui, a prendermi cura di lei, scolpendo, sognando e lavorando affinché ogni angolo di questo tempio rifletta la luce divina, quella luce che ci unisce e ci ricorda che, alla fine, «tutti siamo uno nell’amore».

Un aneddoto di quel 7 novembre 2010: dopo la solenne cerimonia mi chiesero di aspettare Papa Benedetto XVI «Ratzinger» sul percorso verso la Porta della Natività, che Gaudí aveva iniziato a costruire e io avevo portato a termine. Prima che Papa Ratzinger andasse a rivolgersi alla gente, dovevo avere una breve udienza con lui. Ma quando il Papa era quasi arrivato, a un passo da dov’ero io, una giovane guardia venne e si fermò proprio davanti a me. E il Papa, vedendola, con un gesto che immediatamente compresi, aprì le braccia e con il suo sguardo, con quel gesto mi disse: «Non si può evitare», e mi passò davanti, fissandomi (pensai di dare un calcio nel tallone alla giovane guardia, ma non l’ho fatto). Perché è andata così? Mi sento ancora oggi stupito e impotente. Tuttavia, grazie a tutti voi che siete qui oggi, mi sento fortemente abbracciato da Papa Ratzinger, ciò che era stato impossibile allora, e sono profondamente commosso. Le persone sono imperfette. Vorrei aggiungere «per fortuna». Il motivo è che non importa quanto lo desideri o quanto ci provi, non sempre le cose si realizzano. Tuttavia, se aspetti obbedientemente, ci sarà sempre un risultato che gli esseri umani non possono produrre attraverso i calcoli, a cui gli esseri umani non potrebbero mai pensare. Gaudí lo chiamava Gozo, «Gioia», e sperava che la Basilica fosse piena di Gozos. Inoltre, anche le «parole» sono imperfette, il che dimostra che lo siamo anche noi esseri umani.

Solo la Parola di Dio è perfetta e dice la verità. Ciò che Dio desidera veramente sono persone che continuino a imparare mentre la Basilica viene costruita con la sincerità. Dobbiamo costruirla come noi stessi eternamente! Per aiutare gli esseri umani imperfetti e le loro parole instabili, Gaudí ha utilizzato tanti nuovi simbolismi per trasmettere direttamente al mondo, soprattutto ai giovani, il significato della Bibbia, che va oltre le parole, oltre il linguaggio. Secondo la parola del Papa Benedetto: «Non con parole, ma con pietre». Questa è la missione moderna del costruire la Basilica della Sagrada Familia. Attualmente sto lavorando e aspetto che sia finito il progetto degli interni della Torre di Gesù, la torre più grande e importante dell’intera Sagrada Familia. Qui i miei riflessi del firmamento moderno richiamano l’idea dell’essenza semplice: «Padre, Figlio e Spirito Santo». Sono 60 metri di altezza, un unico spazio da riempire di messaggi di Dio e fisica e quantistica, con più di 32.000 pezzi di ceramica colorata. Rispecchierà tutti gli elementi che Dio ci ha dato. Per via del regolamento della Sagrada Familia non posso ancora mostrare le foto al pubblico, ma l’anno prossimo sarà completata con dei colori in ceramica, un sistema che ho inventato, simili all’acquerello, e sarà possibile visitarla. Inoltre sto lavorando su alcuni simboli delle chiavi della volta del chiostro, su entrambi i lati della Facciata della Natività; uno è nuovo per la Vergine di Montserrat e sull’altro lato c’è la continuazione della Vergine del Rosario, che Gaudí costruì come un testamento a cui teneva molto, ma purtroppo venne distrutta durante la Guerra Civile spagnola e l’ho restaurata su richiesta dei discepoli di Gaudí. Sono un messaggio molto importante per proseguire, camminare, verso il futuro dell’umanità. Inoltre supervisionando il monumento enorme che è in fase di completamento come nuovo simbolo del cristianesimo, accanto alla Torre di Gesù, poiché Gaudí non ha lasciato nulla, è compito mio creare un nuovo simbolo, di acqua, fuoco e vento. E la terra rappresenta la Torre della Vergine Maria. Lavoro lì da 46 anni e continuerò a farlo con ancora più forza grazie a questo premio e al vostro supporto.
Molte grazie. 
Sotoo Etsuro

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