sabato 26 aprile 2025

Potenza della Bellezza, mistero e richiamo al trascendente, del Card. Gianfranco Ravasi


Potenza della Bellezza, Mistero e richiamo al Trascendente

del Card. Gianfranco Ravasi
 



È con qualche emozione che inizio questa riflessione, con emozione scontata anche se non è la prima volta che parlo nell’interno di questo spazio meraviglioso, mirabile. È un’emozione appunto per il contesto, ed è un’emozione anche per tutte le persone che sono qui presenti, a partire da chi rappresenta la città di Firenze, sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista religioso. Desidero fare una riflessione piuttosto libera sul tema che dominerà poi dopo, che attraverserà in filigrana tutti gli interventi che seguiranno. Avevo pensato varie strade da percorrere attorno a un tema così immenso, dalle mille iridescenze come quello della bellezza. Avevo pensato anche di fermarmi su un argomento che in questo periodo mi affascina ma anche mi tormenta, ovvero quello del rapporto tra arte e fede fino ad arrivare all’arte e liturgia. Ho pensato, invece, di proporre un pensiero di natura più generale che presenta due momenti o due movimenti di riflessione. 

Comincio subito col primo elemento collocandolo sulla base di una frase (è una battuta soltanto) che si trova nell’interno della Bibbia, in un libro conosciuto, ma poco letto, dell’Antico Testamento, il Siracide. Gesù ben Sira è un autore che rappresenta certamente il giudaismo palestinese ma che avverte il respiro continuo dell’orizzonte che sta attorno che è quello dell’ellenismo incombente, con il quale non ha ancora il coraggio di confrontarsi del tutto. Siamo, quindi, nel clima forse anche di un Cortile dei Gentili, clima che sarà poi del tutto aperto, direi quasi dissolto da ogni ombra col libro della Sapienza, su un altro testo anticotestamentario sorto ad Alessandria d’Egitto, con un confronto ormai diretto col mondo greco, con la cultura greca. Ebbene la frase che troviamo – in verità la troviamo in uno dei tanti testi che sono giunti a noi, perché il testo del Siracide è piuttosto mobile – recita così: «nell’interno dell’elogio dei grandi d’Israele, uomini che si sono appassionati a cercare la potenza della bellezza». Ecco allora il primo elemento della mia riflessione, la potenza della bellezza e perché dobbiamo in qualche modo riproporla ai nostri giorni, per quale ragione? 
È una potenza, io direi grande ma anche oscura. I greci l’hanno capito chiaramente perché hanno messo alla genesi, se si vuole dell’arte, da una parte Apollo, se volete Ermes, che per esempio inventa la musica inciampando in un guscio di tartaruga e tendendo i fili su di esso e scoprendo l’armonia, oppure se volete anche dall’altra parte Orfeo, la seduzione, il fascino della musica ma dall’altra parte abbiamo anche Dioniso, l’aspetto dionisiaco, orgiastico, che la musica, l’arte e la bellezza crea fino ad avere persino l’ottundimento delle menti. Ecco ci sono due volti nell’interno della bellezza, tutti e due necessari, io direi, perché noi siamo impastati di oscurità e di luce e la bellezza è anche nell’oscurità, è anche nell’interno del “male” persino, del dolore, della lacerazione. De Mousseau diceva che i canti più belli sono i canti più disperati. Effettivamente se non ci fosse stato il problema del male, per esempio, pensate quanta letteratura non esisterebbe.
Tra poco sentiremo, come saprà fare il prof Givone, anche se su un aspetto particolare, la Leggenda del Grande Inquisitore, ma pensiamo Dostoevskij non esisterebbe semplicemente se non ci fosse il dramma del delitto e del castigo, della colpa, dei bassifondi, dei demoni che attraversano l’umanità. Nelle sue elegie udinesi, una figura di poeta e i poeti sono anche profeti a me particolarmente caro anche se devo riconoscere sommamente arduo nella lettura, Rilke, nelle elegie duinesi, scriveva nella prima delle elegie: il bello è nient’altro che l’inizio del tremendo. Il bello parte solare e poi precipita nel tremendo, nel terrore. Se volete ancora si possono ripetere definizioni che vanno in questa linea. Ho scelto ancora un’altra testimonianza molto diversa per cultura, Virginia Woolf, in una stanza tutta per sé quest’opera del 1929.

La bellezza ha sempre due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore. Anche l’allora cardinale Ratzinger, in un testo che ha scritto proprio sulla bellezza, ha questa espressione: la bellezza ferisce ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo. Vedete? Il negativo e il positivo: una ferita aperta che però ti fa tendere a una guarigione estrema, a una salvezza ultima. Ecco perché ho voluto evocare questo primo elemento, soltanto accennandolo, l’ho voluto evocare soprattutto tenendo conto del contesto in cui siamo ai nostri giorni in cui, e qui dico anche qualcosa a proposito del Cortile dei Gentili, è facilissimo incontrare, dialogare, trovarci insieme con grande frutto, con personalità anche non credenti che però hanno una tensione profonda dentro di sé comunque essa approdi. E dall’altra parte invece abbiamo, ecco il vero dramma, questo orizzonte, che è simile alla mucillaggine, incolore, inodore, insapore, la superficialità, l’indifferenza, la banalità, la stupidità, la volgarità che sono quasi come l’atmosfera fondamentale, quasi il basso continuo della nostra società. E nell’interno di questo orizzonte, la bellezza, se esiste, esiste per essere fotografata al massimo. Non c’è assolutamente la capacità di lasciarsi ferire da questa bellezza, per questo dobbiamo riproporla e rimetterla in tutta la sua forza perché inquieti, perché crei ancora, almeno un sussulto, un fremito. Vedete? C’era una ballata che ha scritto una poetessa ebrea tedesca, che si è rifugiata poi in Svezia per sfuggire alla persecuzione nazista, Nellis Axe, e ha ricevuto anche il premio nobel insieme a un grande scrittore ebreo, Shemuel Agnon. Ebbene, ha scritto una ballata sui profeti che ha una sorta di antifona, che a me piace ripetere spesso perché dovrebbe essere un po’ la funzione anche delle nostre parole che a volte, anche un po’ per colpa nostra sono anch’esse grigie, incolori, non hanno la forza offensiva che, per esempio, aveva la parola di Cristo. A me fa sempre impressione quel passo del Vangelo di Giovanni quando i sommi sacerdoti decidono di arrestare Gesù e mandano le guardie per arrestarlo e le guardie tornano a mani vuote e allora i sacerdoti dicono: ma perché non ce l’avete condotto? E questi poliziotti semplici rispondono con una dichiarazione straordinaria: mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! La parola che non si arresta, non s’imprigiona e loro restano con le mani vuote. Ecco quindi l’importanza dell’avere una parola bella, nel senso pieno, potente, che riesca ancora a incrinare questo clima, che riesca ancora a lacerare, a ferire appunto. Diceva questa sorta di antifona: se i profeti rompessero per le porte della notte, incidendo ferite nei campi dell’abitudine (notate: proprio un ritratto del nostro tempo) incidere ferite nei campi dell’abitudine, nel terreno incolore. Se i profeti rompessero per le porte della notte cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini ostruito di ortiche, sapresti tu ascoltare? E la risposta è una domanda che resta sospesa, ai nostri giorni in maniera particolare, le chiacchiere, la volgarità, la miseria anche generale che ci ottunde l’ascolto, la conchiglia dell’ascolto non ha più l’eco del mare, ha l’eco piuttosto di un chiacchiericcio continuo, nel mondo appunto morirà in un mormorio, in una lania, diceva Eliott, non in un urlo. Ecco perché credo che sia importante ancora riproporre la potenza della bellezza, della parola, dell’arte in tutta la sua forza.

La seconda e ultima riflessione che voglio fare e questa è evidentemente a prima vista un po’ scontata. La bellezza, è stato ricordato, anzi anch’io vorrei recitare questa frase di Giovanni Paolo II nella lettera agli artisti citata dal prof Natali: la bellezza è cifra del mistero ed è richiamo al trascendente. 
La bellezza di sua natura tende all’oltre e all’altro; è per eccellenza il tentativo di varcare le frontiere e di dire l’ultima parola, di dire il tutto, di dire l’assoluto quasi. Io vorrei anche qui mettere alla base una frase della Bibbia, dell’Antico Testamento di matrice greca, quel libro della Sapienza a cui prima facevo cenno. Sorto ad Alessandria d’Egitto, alle soglie del cristianesimo in contatto con la cultura platonica, conosce certamente il pensiero stoico questo autore, vedete proprio col paganesimo che era l’ateismo allora, era in dialogo, in ascolto e si lascia anche, riceve dei riflessi, scrive al capitolo 13 versetto 5: dalla grandezza e bellezza delle creature (ana logos) per analogia, gradino per gradino, da questa bellezza ( theoreitai) l’autore, theoreitai di solito si traduce “si contempla” l’autore, ed è vero, theorei vuol dire vedere anche, ma theorei contiene anche la nostra parola “teoria”, quindi c’è anche la riflessione, c’è anche la razionalità che è se vogliamo dire l’arte ha una sua metarazionalità, non un’irrazionalità, è una razionalità superiore, la poesia, la grande poesia di sua natura suppone un’altra grammatica rispetto alla grammatica immediata. Ed ecco allora questa dimensione, la bellezza che ci porta ad andare verso orizzonti più alti, a salire sui sentieri d’altura. E dico qui in questo caso non solo per il credente, appunto come diceva, contempla l’autore, contempla Dio, anche per chi non lo è. E difatti io ricordo spesso quella testimonianza che aveva dato Fontana, Lucio Fontana, quando i giornalisti gli avevano chiesto ragione del suo taglio famoso che veniva letto o in maniera molto superficiale o comunque non veniva compreso nel suo significato simbolico e lui aveva detto semplicemente: ma io vorrei con questo taglio (almeno diceva così ai giornalisti ma lo diceva anche la vedova di Fontana) io volevo soltanto creare uno spiraglio sull’assoluto. È interessante questo. Vedete, qui “ferita” – prima dicevo – che diventa feritoia, feritoia su quell’infinito e quell’eterno verso cui si tende. E io sono appena reduce da Bucarest dove ho voluto evocare, quando mi hanno dato la laurea honoris causa all’Università di Bucarest, due grandi figure di atei, che però sono estremamente interessanti per questo discorso che stiamo facendo. Il sogno è se fossero ancora atei come Cioran e come Ionesco, io penso anche come Camus(Camù) per esempio. Ebbene c’è, lo ricordavo anche quando abbiamo inaugurato a Bologna il Cortile dei Gentili, c’è una frase, anzi una considerazione scagliata contro noi teologi da Cioran. Cioran, figlio di un prete ortodosso che abbandona completamente il cristianesimo ma che ininterrottamente dice: io sono il delatore di Dio, continuamente lo spio per vedere se il suo nome sia nulla o tutto. Ebbene egli scrive a un certo punto: voi teologi avete perso un’infinità di tempo e un’infinità di energie, uno scialo di energie intellettuali per cercare di dimostrare l’esistenza di Dio e avete dimenticato l’unica che avevate lì, così facile, disponibile: dopo che si è ascoltato la messa in si minore o una cantata o la passione di Bach, Dio deve esistere. Vedete, la via della bellezza, come via che apre il trascendente, che apre il mistero. Ed è per questo motivo che, e mi avvio alla conclusione, è stato significativo che a un certo momento nella teologia, un teologo molto noto del secolo scorso, von Balthasar, ha pensato di costruire, ed è interessante il titolo della sua grande opera monumentale “Gloria”, però sappiamo anche che il sottotitolo è ed è interessante “Per un’estetica teologica”, non per una teologia estetica. È la via dell’estetica la grande via. Nel medioevo si diceva la via pulchritudinis per riuscire a scoprire il trascendente, anzi egli affermava esplicitamente che è la categoria ermeneutica interpretativa fondamentale dell’essere e dell’esistere di Dio, dell’uomo e del cosmo ed è significativo perciò che il Nuovo Testamento, ma già l’Antico se si vuole, curiosamente usa ininterrottamente un aggettivo che è l’aggettivo kalos per indicare quello che noi abbiamo ininterrottamente tradotto con buono nelle nostre traduzioni, che è vera anche, perché appunto la trascendenza ha in sé verità, bellezza, bontà, giustizia e così via, è simbolica, circolare, perché non sappiamo, molti di voi lo sanno già che Cristo è il “Bel pastore” egò eimi o kalos poimeno kalos, ma dall’altra parte non sappiamo che per esempio nel Nuovo Testamento quando si deve dire nelle vostre bibbie avete opere buone, in greco c’è kalà: opere belle, buona condotta è bella condotta, buona coscienza è bella coscienza, fare il bene 2 lettera tessalonicesi al capitolo terzo di paolo, fare il bene, il verbo kalopoiein, fare il bello, e ancora, quando la folla nel vangelo di marco davanti a Gesù, vede la sua opera , dice: “ha fatto bene ogni cosa”, la traduzione greca è “ha fatto kalos (in bellezza) ogni cosa”. Ecco allora la categoria estetica come la grande categoria interpretativa dell’etica stessa ed è per questo motivo che ai nostri giorni abbiamo bisogno di ritrovare la bellezza che ci salvi da due grandi mostri che incombono. Sono in italiano basati sulla stessa radice, sulla stessa etimologia ma sono diversi dal punto di vista semantico questi due vocaboli anche se noi li confondiamo. Noi siamo assediati dalla “bruttura” che è una categoria di tipo etico e dalla “bruttezza” che è una categoria di tipo estetico. Ecco la bellezza ci libera da questo peso e ci fa tendere verso quella bellezza assoluta che per il credente è Dio, Dio è bello, il bel pastore ma che per il non credente è in assoluto, forse, il grande mistero che ci avvolge, quell’oceano nel quale Wittgenstein ci insegnava le cui onde battono sulla nostra pelle ed è al di fuori di noi. Io spesso ripeto, soprattutto quando facciamo questi incontri sul tema dell’arte una frase che vorrei mettere a conclusione ed è la voce di un non credente, di un ateo, di un anticristiano, ferocemente anticristiano, giunto fino al punto di, si dice, essersi fatto incidere nelle suole delle scarpe due croci per poter calpestare questo segno mentre si muoveva, era Henry Miller, un autore scandaloso, come ben sappiamo, “il tropico del capricorno”, “il tropico del cancro”
Il quale, in un suo saggio intitolato “La sapienza del cuore” ha questa frase che, a mio avviso, è il riassunto un po’ di tutto il discorso che ho fatto fin’ora e che unisce paradossalmente in maniera folgorante arte e fede: “l’arte e la fede non servono a nulla, tranne che a mostrare il senso della vita”.




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venerdì 25 aprile 2025

Lettera Apostolica "MISERICORDIA ET MISERA" Papa FRANCESCO


Lettera Apostolica 
"MISERICORDIA ET MISERA"

Papa FRANCESCO




a quanti leggeranno questa Lettera Apostolica
misericordia e pace

Misericordia et misera sono le due parole che sant’Agostino utilizza per raccontare l’incontro tra Gesù e l’adultera (cfr Gv 8,1-11). Non poteva trovare espressione più bella e coerente di questa per far comprendere il mistero dell’amore di Dio quando viene incontro al peccatore: «Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia».[1] Quanta pietà e giustizia divina in questo racconto! Il suo insegnamento viene a illuminare la conclusione del Giubileo Straordinario della Misericordia, mentre indica il cammino che siamo chiamati a percorrere nel futuro.

1. Questa pagina del Vangelo può a buon diritto essere assunta come icona di quanto abbiamo celebrato nell’Anno Santo, un tempo ricco di misericordia, la quale chiede di essere ancora celebrata e vissuta nelle nostre comunità. La misericordia, infatti, non può essere una parentesi nella vita della Chiesa, ma costituisce la sua stessa esistenza, che rende manifesta e tangibile la verità profonda del Vangelo. Tutto si rivela nella misericordia; tutto si risolve nell’amore misericordioso del Padre.
Una donna e Gesù si sono incontrati. Lei, adultera e, secondo la Legge, giudicata passibile di lapidazione; Lui, che con la sua predicazione e il dono totale di sé, che lo porterà alla croce, ha riportato la legge mosaica al suo genuino intento originario. Al centro non c’è la legge e la giustizia legale, ma l’amore di Dio, che sa leggere nel cuore di ogni persona, per comprenderne il desiderio più nascosto, e che deve avere il primato su tutto. In questo racconto evangelico, tuttavia, non si incontrano il peccato e il giudizio in astratto, ma una peccatrice e il Salvatore. Gesù ha guardato negli occhi quella donna e ha letto nel suo cuore: vi ha trovato il desiderio di essere capita, perdonata e liberata. La miseria del peccato è stata rivestita dalla misericordia dell’amore. Nessun giudizio da parte di Gesù che non fosse segnato dalla pietà e dalla compassione per la condizione della peccatrice. A chi voleva giudicarla e condannarla a morte, Gesù risponde con un lungo silenzio, che vuole lasciar emergere la voce di Dio nelle coscienze, sia della donna sia dei suoi accusatori. I quali lasciano cadere le pietre dalle mani e se ne vanno ad uno ad uno (cfr Gv8,9). E dopo quel silenzio, Gesù dice: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? … Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (vv. 10-11). In questo modo la aiuta a guardare al futuro con speranza e ad essere pronta a rimettere in moto la sua vita; d’ora in avanti, se lo vorrà, potrà “camminare nella carità” (cfr Ef 5,2). Una volta che si è rivestiti della misericordia, anche se permane la condizione di debolezza per il peccato, essa è sovrastata dall’amore che permette di guardare oltre e vivere diversamente.

2. Gesù d’altronde lo aveva insegnato con chiarezza quando, invitato a pranzo da un fariseo, gli si era avvicinata una donna conosciuta da tutti come una peccatrice (cfr Lc 7,36-50). Lei aveva cosparso di profumo i piedi di Gesù, li aveva bagnati con le sue lacrime e asciugati con i suoi capelli (cfr v. 37-38). Alla reazione scandalizzata del fariseo, Gesù rispose: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (v. 47).
Il perdono è il segno più visibile dell’amore del Padre, che Gesù ha voluto rivelare in tutta la sua vita. Non c’è pagina del Vangelo che possa essere sottratta a questo imperativo dell’amore che giunge fino al perdono. Perfino nel momento ultimo della sua esistenza terrena, mentre viene inchiodato sulla croce, Gesù ha parole di perdono: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Niente di quanto un peccatore pentito pone dinanzi alla misericordia di Dio può rimanere senza l’abbraccio del suo perdono. È per questo motivo che nessuno di noi può porre condizioni alla misericordia; essa rimane sempre un atto di gratuità del Padre celeste, un amore incondizionato e immeritato. Non possiamo, pertanto, correre il rischio di opporci alla piena libertà dell’amore con cui Dio entra nella vita di ogni persona.
La misericordia è questa azione concreta dell’amore che, perdonando, trasforma e cambia la vita. È così che si manifesta il suo mistero divino. Dio è misericordioso (cfr Es 34,6), la sua misericordia dura in eterno (cfr Sal 136), di generazione in generazione abbraccia ogni persona che confida in Lui e la trasforma, donandole la sua stessa vita.

3. Quanta gioia è stata suscitata nel cuore di queste due donne, l’adultera e la peccatrice! Il perdono le ha fatte sentire finalmente libere e felici come mai prima. Le lacrime della vergogna e del dolore si sono trasformate nel sorriso di chi sa di essere amata. La misericordia suscita gioia, perché il cuore si apre alla speranza di una vita nuova. La gioia del perdono è indicibile, ma traspare in noi ogni volta che ne facciamo esperienza. All’origine di essa c’è l’amore con cui Dio ci viene incontro, spezzando il cerchio di egoismo che ci avvolge, per renderci a nostra volta strumenti di misericordia.
Come sono significative anche per noi le parole antiche che guidavano i primi cristiani: «Rivestiti di gioia che è sempre gradita a Dio e gli è accetta. In essa si diletta. Ogni uomo gioioso opera bene, pensa bene e disprezza la tristezza [...] Vivranno in Dio quanti allontanano la tristezza e si rivestono di ogni gioia».[2] Fare esperienza della misericordia dona gioia. Non lasciamocela portar via dalle varie afflizioni e preoccupazioni. Possa rimanere ben radicata nel nostro cuore e farci guardare sempre con serenità alla vita quotidiana.
In una cultura spesso dominata dalla tecnica, sembrano moltiplicarsi le forme di tristezza e solitudine in cui cadono le persone, e anche tanti giovani. Il futuro infatti sembra essere ostaggio dell’incertezza che non consente di avere stabilità. È così che sorgono spesso sentimenti di malinconia, tristezza e noia, che lentamente possono portare alla disperazione. C’è bisogno di testimoni di speranza e di gioia vera, per scacciare le chimere che promettono una facile felicità con paradisi artificiali. Il vuoto profondo di tanti può essere riempito dalla speranza che portiamo nel cuore e dalla gioia che ne deriva. C’è tanto bisogno di riconoscere la gioia che si rivela nel cuore toccato dalla misericordia. Facciamo tesoro, pertanto, delle parole dell’Apostolo: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4; cfr 1 Ts 5,16).

4. Abbiamo celebrato un Anno intenso, durante il quale ci è stata donata con abbondanza la grazia della misericordia. Come un vento impetuoso e salutare, la bontà e la misericordia del Signore si sono riversate sul mondo intero. E davanti a questo sguardo amoroso di Dio che in maniera così prolungata si è rivolto su ognuno di noi, non si può rimanere indifferenti, perché esso cambia la vita.
Sentiamo il bisogno, anzitutto, di ringraziare il Signore e dirgli: «Sei stato buono, Signore, con la tua terra […]. Hai perdonato la colpa del tuo popolo» (Sal 85,2-3). È proprio così: Dio ha calpestato le nostre colpe e gettato in fondo al mare i nostri peccati (cfr Mi 7,19); non li ricorda più, se li è buttati alle spalle (cfr Is 38,17); come è distante l’oriente dall’occidente così i nostri peccati sono distanti da lui (cfr Sal 103,12).
In questo Anno Santo la Chiesa ha saputo mettersi in ascolto e ha sperimentato con grande intensità la presenza e vicinanza del Padre, che con l’opera dello Spirito Santo le ha reso più evidente il dono e il mandato di Gesù Cristo riguardo al perdono. È stata realmente una nuova visita del Signore in mezzo a noi. Abbiamo percepito il suo soffio vitale riversarsi sulla Chiesa e, ancora una volta, le sue parole hanno indicato la missione: «Ricevete lo Spirito Santo: a coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,22-23).

5. Adesso, concluso questo Giubileo, è tempo di guardare avanti e di comprendere come continuare con fedeltà, gioia ed entusiasmo a sperimentare la ricchezza della misericordia divina. Le nostre comunità potranno rimanere vive e dinamiche nell’opera di nuova evangelizzazione nella misura in cui la “conversione pastorale” che siamo chiamati a vivere[3] sarà plasmata quotidianamente dalla forza rinnovatrice della misericordia. Non limitiamo la sua azione; non rattristiamo lo Spirito che indica sempre nuovi sentieri da percorrere per portare a tutti il Vangelo che salva.
In primo luogo siamo chiamati a celebrare la misericordia. Quanta ricchezza è presente nella preghiera della Chiesa quando invoca Dio come Padre misericordioso! Nella liturgia, la misericordia non solo viene ripetutamente evocata, ma realmente ricevuta e vissuta. Dall’inizio alla fine della celebrazione eucaristica, la misericordia ritorna più volte nel dialogo tra l’assemblea orante e il cuore del Padre, che gioisce quando può effondere il suo amore misericordioso. Dopo la richiesta di perdono iniziale con l’invocazione «Signore pietà», veniamo subito rassicurati: «Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna». È con questa fiducia che la comunità si raduna alla presenza del Signore, particolarmente nel giorno santo della risurrezione. Molte orazioni “collette” intendono richiamare il grande dono della misericordia. Nel periodo della Quaresima, ad esempio, preghiamo dicendo: «Dio misericordioso, fonte di ogni bene, tu ci hai proposto a rimedio del peccato il digiuno la preghiera e le opere di carità fraterna; guarda a noi che riconosciamo la nostra miseria e poiché ci opprime il peso delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia».[4] Siamo poi immersi nella grande preghiera eucaristica con il prefazio che proclama: «Nella tua misericordia hai tanto amato gli uomini da mandare il tuo Figlio come Redentore a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana».[5] La quarta preghiera eucaristica, inoltre, è un inno alla misericordia di Dio: «Nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare». «Di noi tutti abbi misericordia»,[6] è la richiesta impellente che il sacerdote compie nella preghiera eucaristica per implorare la partecipazione alla vita eterna. Dopo il Padre Nostro, il sacerdote prolunga la preghiera invocando la pace e la liberazione dal peccato grazie all’«aiuto della tua misericordia». E prima del segno di pace, scambiato come espressione di fratellanza e di amore reciproco alla luce del perdono ricevuto, egli prega di nuovo: «Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa».[7] Mediante queste parole, con umile fiducia chiediamo il dono dell’unità e della pace per la santa Madre Chiesa. La celebrazione della misericordia divina culmina nel Sacrificio eucaristico, memoriale del mistero pasquale di Cristo, da cui scaturisce la salvezza per ogni essere umano, per la storia e per il mondo intero. Insomma, ogni momento della celebrazione eucaristica fa riferimento alla misericordia di Dio.
In tutta la vita sacramentale la misericordia ci viene donata in abbondanza. Non è affatto senza significato che la Chiesa abbia voluto fare esplicitamente il richiamo alla misericordia nella formula dei due sacramenti chiamati “di guarigione”, cioè la Riconciliazione e l’Unzione dei malati. La formula di assoluzione dice: «Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace»[8] e quella dell’Unzione recita: «Per questa santa Unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo».[9] Dunque, nella preghiera della Chiesa il riferimento alla misericordia, lungi dall’essere solamente parenetico, è altamente performativo, vale a dire che mentre la invochiamo con fede, ci viene concessa; mentre la confessiamo viva e reale, realmente ci trasforma. È questo un contenuto fondamentale della nostra fede, che dobbiamo conservare in tutta la sua originalità: prima di quella del peccato, abbiamo la rivelazione dell’amore con cui Dio ha creato il mondo e gli esseri umani. L’amore è il primo atto con il quale Dio si fa conoscere e ci viene incontro. Teniamo, pertanto, aperto il cuore alla fiducia di essere amati da Dio. Il suo amore ci precede sempre, ci accompagna e rimane accanto a noi nonostante il nostro peccato.

6. In tale contesto, assume un significato particolare anche l’ascolto della Parola di Dio. Ogni domenica, la Parola di Dio viene proclamata nella comunità cristiana perché il giorno del Signore sia illuminato dalla luce che promana dal mistero pasquale.[10]Nella celebrazione eucaristica sembra di assistere a un vero dialogo tra Dio e il suo popolo. Nella proclamazione delle Letture bibliche, infatti, si ripercorre la storia della nostra salvezza attraverso l’incessante opera di misericordia che viene annunciata. Dio parla ancora oggi con noi come ad amici, si “intrattiene” con noi[11] per donarci la sua compagnia e mostrarci il sentiero della vita. La sua Parola si fa interprete delle nostre richieste e preoccupazioni e risposta feconda perché possiamo sperimentare concretamente la sua vicinanza. Quanta importanza acquista l’omelia, dove «la verità si accompagna alla bellezza e al bene»,[12]per far vibrare il cuore dei credenti dinanzi alla grandezza della misericordia! Raccomando molto la preparazione dell’omelia e la cura della predicazione. Essa sarà tanto più fruttuosa, quanto più il sacerdote avrà sperimentato su di sé la bontà misericordiosa del Signore. Comunicare la certezza che Dio ci ama non è un esercizio retorico, ma condizione di credibilità del proprio sacerdozio. Vivere, quindi, la misericordia è la via maestra per farla diventare un vero annuncio di consolazione e di conversione nella vita pastorale. L’omelia, come pure la catechesi, hanno bisogno di essere sempre sostenute da questo cuore pulsante della vita cristiana.

7. La Bibbia è il grande racconto che narra le meraviglie della misericordia di Dio. Ogni pagina è intrisa dell’amore del Padre che fin dalla creazione ha voluto imprimere nell’universo i segni del suo amore. Lo Spirito Santo, attraverso le parole dei profeti e gli scritti sapienziali, ha plasmato la storia di Israele nel riconoscimento della tenerezza e della vicinanza di Dio, nonostante l’infedeltà del popolo. La vita di Gesù e la sua predicazione segnano in modo determinante la storia della comunità cristiana, che ha compreso la propria missione sulla base del mandato di Cristo di essere strumento permanente della sua misericordia e del suo perdono (cfr Gv20,23). Attraverso la Sacra Scrittura, mantenuta viva dalla fede della Chiesa, il Signore continua a parlare alla sua Sposa e le indica i sentieri da percorrere, perché il Vangelo della salvezza giunga a tutti. È mio vivo desiderio che la Parola di Dio sia sempre più celebrata, conosciuta e diffusa, perché attraverso di essa si possa comprendere meglio il mistero di amore che promana da quella sorgente di misericordia. Lo ricorda chiaramente l’Apostolo: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia» (2 Tm 3,16).
Sarebbe opportuno che ogni comunità, in una domenica dell’Anno liturgico, potesse rinnovare l’impegno per la diffusione, la conoscenza e l’approfondimento della Sacra Scrittura: una domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo. Non mancherà la creatività per arricchire questo momento con iniziative che stimolino i credenti ad essere strumenti vivi di trasmissione della Parola. Certamente, tra queste iniziative vi è la diffusione più ampia della lectio divina, affinché, attraverso la lettura orante del testo sacro, la vita spirituale trovi sostegno e crescita. La lectio divina sui temi della misericordia permetterà di toccare con mano quanta fecondità viene dal testo sacro, letto alla luce dell’intera tradizione spirituale della Chiesa, che sfocia necessariamente in gesti e opere concrete di carità.[13]

8. La celebrazione della misericordia avviene in modo del tutto particolare con il Sacramento della Riconciliazione. È questo il momento in cui sentiamo l’abbraccio del Padre che viene incontro per restituirci la grazia di essere di nuovo suoi figli. Noi siamo peccatori e portiamo con noi il peso della contraddizione tra ciò che vorremmo fare e quanto invece concretamente facciamo (cfr Rm 7,14-21); la grazia, tuttavia, ci precede sempre, e assume il volto della misericordia che si rende efficace nella riconciliazione e nel perdono. Dio fa comprendere il suo immenso amore proprio davanti al nostro essere peccatori. La grazia è più forte, e supera ogni possibile resistenza, perché l’amore tutto vince (cfr 1 Cor 13,7).
Nel Sacramento del Perdono Dio mostra la via della conversione a Lui, e invita a sperimentare di nuovo la sua vicinanza. È un perdono che può essere ottenuto iniziando, anzitutto, a vivere la carità. Lo ricorda anche l’apostolo Pietro quando scrive che «L’amore copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8). Solo Dio perdona i peccati, ma chiede anche a noi di essere pronti al perdono verso gli altri, così come Lui perdona i nostri: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Quanta tristezza quando rimaniamo chiusi in noi stessi e incapaci di perdonare! Prendono il sopravvento il rancore, la rabbia, la vendetta, rendendo la vita infelice e vanificando l’impegno gioioso per la misericordia.

9. Un’esperienza di grazia che la Chiesa ha vissuto con tanta efficacia nell’Anno giubilare è stato certamente il servizio dei Missionari della Misericordia. La loro azione pastorale ha voluto rendere evidente che Dio non pone alcun confine per quanti lo cercano con cuore pentito, perché a tutti va incontro come un Padre. Ho ricevuto tante testimonianze di gioia per il rinnovato incontro con il Signore nel Sacramento della Confessione. Non perdiamo l’opportunità di vivere la fede anche come esperienza di riconciliazione. «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20) è l’invito che ancora ai nostri giorni l’Apostolo rivolge per far scoprire ad ogni credente la potenza dell’amore che rende una «creatura nuova» (2 Cor 5,17).
Esprimo la mia gratitudine ad ogni Missionario della Misericordia per questo prezioso servizio offerto per rendere efficace la grazia del perdono. Questo ministero straordinario, tuttavia, non si conclude con la chiusura della Porta Santa. Desidero, infatti, che permanga ancora, fino a nuova disposizione, come segno concreto che la grazia del Giubileo continua ad essere, nelle varie parti del mondo, viva ed efficace. Sarà cura del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione seguire in questo periodo i Missionari della Misericordia, come espressione diretta della mia sollecitudine e vicinanza e trovare le forme più coerenti per l’esercizio di questo prezioso ministero.

10. Ai sacerdoti rinnovo l’invito a prepararsi con grande cura al ministero della Confessione, che è una vera missione sacerdotale. Vi ringrazio sentitamente per il vostro servizio e vi chiedo di essere accoglienti con tutti; testimoni della tenerezza paterna nonostante la gravità del peccato; solleciti nell’aiutare a riflettere sul male commesso; chiari nel presentare i principi morali; disponibili ad accompagnare i fedeli nel percorso penitenziale, mantenendo il loro passo con pazienza; lungimiranti nel discernimento di ogni singolo caso; generosi nel dispensare il perdono di Dio. Come Gesù davanti alla donna adultera scelse di rimanere in silenzio per salvarla dalla condanna a morte, così anche il sacerdote nel confessionale sia magnanimo di cuore, sapendo che ogni penitente lo richiama alla sua stessa condizione personale: peccatore, ma ministro di misericordia.

11. Vorrei che tutti noi meditassimo le parole dell’Apostolo, scritte verso la fine della sua vita, quando a Timoteo confessa di essere stato il primo dei peccatori, «ma appunto per questo ho ottenuto misericordia» (1 Tm 1,16). Le sue parole hanno una forza prorompente per provocare anche noi a riflettere sulla nostra esistenza e per vedere all’opera la misericordia di Dio nel cambiare, convertire e trasformare il nostro cuore: «Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia» (1 Tm 1,12-13).
Ricordiamo con sempre rinnovata passione pastorale, pertanto, le parole dell’Apostolo: «Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5,18). Noi per primi siamo stati perdonati in vista di questo ministero; resi testimoni in prima persona dell’universalità del perdono. Non c’è legge né precetto che possa impedire a Dio di riabbracciare il figlio che torna da Lui riconoscendo di avere sbagliato, ma deciso a ricominciare da capo. Fermarsi soltanto alla legge equivale a vanificare la fede e la misericordia divina. C’è un valore propedeutico nella legge (cfr Gal 3,24) che ha come fine la carità (cfr 1 Tm1,5). Tuttavia, il cristiano è chiamato a vivere la novità del Vangelo, «la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Anche nei casi più complessi, dove si è tentati di far prevalere una giustizia che deriva solo dalle norme, si deve credere nella forza che scaturisce dalla grazia divina.
Noi confessori abbiamo esperienza di tante conversioni che si manifestano sotto i nostri occhi. Sentiamo, quindi, la responsabilità di gesti e parole che possano giungere nel profondo del cuore del penitente, perché scopra la vicinanza e la tenerezza della Padre che perdona. Non vanifichiamo questi momenti con comportamenti che possano contraddire l’esperienza della misericordia che viene ricercata. Aiutiamo, piuttosto, a illuminare lo spazio della coscienza personale con l’amore infinito di Dio (cfr 1 Gv 3,20).
Il Sacramento della Riconciliazione ha bisogno di ritrovare il suo posto centrale nella vita cristiana; per questo richiede sacerdoti che mettano la loro vita a servizio del «ministero della riconciliazione» (2 Cor 5,18) in modo tale che, mentre a nessuno sinceramente pentito è impedito di accedere all’amore del Padre che attende il suo ritorno, a tutti è offerta la possibilità di sperimentare la forza liberatrice del perdono.
Un’occasione propizia può essere la celebrazione dell’iniziativa 24 ore per il Signore in prossimità della IV domenica di Quaresima, che già trova molto consenso nelle Diocesi e che rimane un richiamo pastorale forte per vivere intensamente il Sacramento della Confessione.

12. In forza di questa esigenza, perché nessun ostacolo si interponga tra la richiesta di riconciliazione e il perdono di Dio, concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto. Quanto avevo concesso limitatamente al periodo giubilare[14] viene ora esteso nel tempo, nonostante qualsiasi cosa in contrario. Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente. Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre. Ogni sacerdote, pertanto, si faccia guida, sostegno e conforto nell’accompagnare i penitenti in questo cammino di speciale riconciliazione.
Nell’Anno del Giubileo avevo concesso ai fedeli che per diversi motivi frequentano le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X di ricevere validamente e lecitamente l’assoluzione sacramentale dei loro peccati.[15] Per il bene pastorale di questi fedeli, e confidando nella buona volontà dei loro sacerdoti perché si possa recuperare, con l’aiuto di Dio, la piena comunione nella Chiesa Cattolica, stabilisco per mia propria decisione di estendere questa facoltà oltre il periodo giubilare, fino a nuove disposizioni in proposito, perché a nessuno venga mai a mancare il segno sacramentale della riconciliazione attraverso il perdono della Chiesa.

13. La misericordia possiede anche il volto della consolazione. «Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1) sono le parole accorate che il profeta fa sentire ancora oggi, perché possa giungere a quanti sono nella sofferenza e nel dolore una parola di speranza. Non lasciamoci mai rubare la speranza che proviene dalla fede nel Signore risorto. È vero, spesso siamo messi a dura prova, ma non deve mai venire meno la certezza che il Signore ci ama. La sua misericordia si esprime anche nella vicinanza, nell’affetto e nel sostegno che tanti fratelli e sorelle possono offrire quando sopraggiungono i giorni della tristezza e dell’afflizione. Asciugare le lacrime è un’azione concreta che spezza il cerchio di solitudine in cui spesso veniamo rinchiusi.
Tutti abbiamo bisogno di consolazione perché nessuno è immune dalla sofferenza, dal dolore e dall’incomprensione. Quanto dolore può provocare una parola astiosa, frutto dell’invidia, della gelosia e della rabbia! Quanta sofferenza provoca l’esperienza del tradimento, della violenza e dell’abbandono; quanta amarezza dinanzi alla morte delle persone care! Eppure, mai Dio è lontano quando si vivono questi drammi. Una parola che rincuora, un abbraccio che ti fa sentire compreso, una carezza che fa percepire l’amore, una preghiera che permette di essere più forte... sono tutte espressioni della vicinanza di Dio attraverso la consolazione offerta dai fratelli.
A volte, anche il silenzio potrà essere di grande aiuto; perché a volte non ci sono parole per dare risposta agli interrogativi di chi soffre. Alla mancanza della parola, tuttavia, può supplire la compassione di chi è presente, vicino, ama e tende la mano. Non è vero che il silenzio sia un atto di resa, al contrario, è un momento di forza e di amore. Anche il silenzio appartiene al nostro linguaggio di consolazione perché si trasforma in un’opera concreta di condivisione e partecipazione alla sofferenza del fratello.

14. In un momento particolare come il nostro, che tra tante crisi vede anche quella della famiglia, è importante che giunga una parola di forza consolatrice alle nostre famiglie. Il dono del matrimonio è una grande vocazione a cui, con la grazia di Cristo, corrispondere nell’amore generoso, fedele e paziente. La bellezza della famiglia permane immutata, nonostante tante oscurità e proposte alternative: «La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa».[16] Il sentiero della vita che porta un uomo e una donna a incontrarsi, amarsi, e davanti a Dio a promettersi fedeltà per sempre, è spesso interrotto da sofferenza, tradimento e solitudine. La gioia per il dono dei figli non è immune dalle preoccupazioni dei genitori riguardo alla loro crescita e formazione, riguardo a un futuro degno di essere vissuto intensamente.
La grazia del Sacramento del Matrimonio non solo fortifica la famiglia perché sia luogo privilegiato in cui vivere la misericordia, ma impegna la comunità cristiana, e tutta l’azione pastorale, a far emergere il grande valore propositivo della famiglia. Questo Anno giubilare, comunque, non può far perdere di vista la complessità dell’attuale realtà familiare. L’esperienza della misericordia ci rende capaci di guardare a tutte le difficoltà umane con l’atteggiamento dell’amore di Dio, che non si stanca di accogliere e di accompagnare.[17]
Non possiamo dimenticare che ognuno porta con sé la ricchezza e il peso della propria storia, che lo contraddistingue da ogni altra persona. La nostra vita, con le sue gioie e i suoi dolori, è qualcosa di unico e irripetibile, che scorre sotto lo sguardo misericordioso di Dio. Ciò richiede, soprattutto da parte del sacerdote, un discernimento spirituale attento, profondo e lungimirante perché chiunque, nessuno escluso, qualunque situazione viva, possa sentirsi concretamente accolto da Dio, partecipare attivamente alla vita della comunità ed essere inserito in quel Popolo di Dio che, instancabilmente, cammina verso la pienezza del regno di Dio, regno di giustizia, di amore, di perdono e di misericordia.

15. Particolare rilevanza riveste il momento della morte. La Chiesa ha sempre vissuto questo passaggio drammatico alla luce della risurrezione di Gesù Cristo, che ha aperto la strada per la certezza della vita futura. Abbiamo una grande sfida da accogliere, soprattutto nella cultura contemporanea che spesso tende a banalizzare la morte fino a farla diventare una semplice finzione, o a nasconderla. La morte invece va affrontata e preparata come passaggio doloroso e ineludibile ma carico di senso: quello dell’estremo atto di amore verso le persone che ci lasciano e verso Dio a cui si va incontro. In tutte le religioni il momento della morte, come quello della nascita, è accompagnato da una presenza religiosa. Noi viviamo l’esperienza delle esequie come preghiera carica di speranza per l’anima del defunto e per dare consolazione a quanti soffrono il distacco dalla persona amata.
Sono convinto che abbiamo bisogno, nell’azione pastorale animata da fede viva, di far toccare con mano quanto i segni liturgici e le nostre preghiere siano espressione della misericordia del Signore. È Lui stesso che offre parole di speranza, perché niente e nessuno potranno mai separare dal suo amore (cfr Rm 8,35). La condivisione di questo momento da parte del sacerdote è un accompagnamento importante, perché permette di vivere la vicinanza alla comunità cristiana nel momento di debolezza, solitudine, incertezza e pianto.

16. Termina il Giubileo e si chiude la Porta Santa. Ma la porta della misericordia del nostro cuore rimane sempre spalancata. Abbiamo imparato che Dio si china su di noi (cfr Os 11,4) perché anche noi possiamo imitarlo nel chinarci sui fratelli. La nostalgia di tanti di ritornare alla casa del Padre, che attende la loro venuta, è suscitata anche da testimoni sinceri e generosi della tenerezza divina. La Porta Santa che abbiamo attraversato in questo Anno giubilare ci ha immesso nella via della carità che siamo chiamati a percorrere ogni giorno con fedeltà e gioia. È la strada della misericordia che permette di incontrare tanti fratelli e sorelle che tendono la mano perché qualcuno la possa afferrare per camminare insieme.
Voler essere vicini a Cristo esige di farsi prossimo verso i fratelli, perché niente è più gradito al Padre se non un segno concreto di misericordia. Per sua stessa natura, la misericordia si rende visibile e tangibile in un’azione concreta e dinamica. Una volta che la si è sperimentata nella sua verità, non si torna più indietro: cresce continuamente e trasforma la vita. È un’autentica nuova creazione che realizza un cuore nuovo, capace di amare in modo pieno, e purifica gli occhi perché riconoscano le necessità più nascoste. Come sono vere le parole con cui la Chiesa prega nella Veglia Pasquale, dopo la lettura del racconto della creazione: «O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti».[18]
La misericordia rinnova e redime, perché è l’incontro di due cuori: quello di Dio che viene incontro a quello dell’uomo. Questo si riscalda e il primo lo risana: il cuore di pietra viene trasformato in cuore di carne (cfr Ez 36,26), capace di amare nonostante il suo peccato. Qui si percepisce di essere davvero una “nuova creatura” (cfr Gal 6,15): sono amato, dunque esisto; sono perdonato, quindi rinasco a vita nuova; sono stato “misericordiato”, quindi divento strumento di misericordia.

17. Durante l’Anno Santo, specialmente nei “venerdì della misericordia”, ho potuto toccare con mano quanto bene è presente nel mondo. Spesso non è conosciuto perché si realizza quotidianamente in maniera discreta e silenziosa. Anche se non fanno notizia, esistono tuttavia tanti segni concreti di bontà e di tenerezza rivolti ai più piccoli e indifesi, ai più soli e abbandonati. Esistono davvero dei protagonisti della carità che non fanno mancare la solidarietà ai più poveri e infelici. Ringraziamo il Signore per questi doni preziosi che invitano a scoprire la gioia del farsi prossimo davanti alla debolezza dell’umanità ferita. Con gratitudine penso ai tanti volontari che ogni giorno dedicano il loro tempo a manifestare la presenza e vicinanza di Dio con la loro dedizione. Il loro servizio è una genuina opera di misericordia, che aiuta tante persone ad avvicinarsi alla Chiesa.

18. È il momento di dare spazio alla fantasia della misericordia per dare vita a tante nuove opere, frutto della grazia. La Chiesa ha bisogno di raccontare oggi quei «molti altri segni» che Gesù ha compiuto e che «non sono stati scritti» (Gv 20,30), affinché siano espressione eloquente della fecondità dell’amore di Cristo e della comunità che vive di Lui. Sono passati più di duemila anni, eppure le opere di misericordia continuano a rendere visibile la bontà di Dio.
Ancora oggi intere popolazioni soffrono la fame e la sete, e quanta preoccupazione suscitano le immagini di bambini che nulla hanno per cibarsi. Masse di persone continuano a migrare da un Paese all’altro in cerca di cibo, lavoro, casa e pace. La malattia, nelle sue varie forme, è un motivo permanente di sofferenza che richiede aiuto, consolazione e sostegno. Le carceri sono luoghi in cui spesso, alla pena restrittiva, si aggiungono disagi a volte gravi, dovuti a condizioni di vita disumane. L’analfabetismo è ancora molto diffuso e impedisce ai bambini e alle bambine di formarsi e li espone a nuove forme di schiavitù. La cultura dell’individualismo esasperato, soprattutto in occidente, porta a smarrire il senso di solidarietà e di responsabilità verso gli altri. Dio stesso rimane oggi uno sconosciuto per molti; ciò rappresenta la più grande povertà e il maggior ostacolo al riconoscimento della dignità inviolabile della vita umana.
Insomma, le opere di misericordia corporale e spirituale costituiscono fino ai nostri giorni la verifica della grande e positiva incidenza della misericordia come valore sociale. Essa infatti spinge a rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle, chiamati con noi a costruire una «città affidabile».[19]

19. Tanti segni concreti di misericordia sono stati realizzati durante questo Anno Santo. Comunità, famiglie e singoli credenti hanno riscoperto la gioia della condivisione e la bellezza della solidarietà. Eppure non basta. Il mondo continua a generare nuove forme di povertà spirituale e materiale che attentano alla dignità delle persone. È per questo che la Chiesa dev’essere sempre vigile e pronta per individuare nuove opere di misericordia e attuarle con generosità ed entusiasmo.
Poniamo, dunque, ogni sforzo per dare forme concrete alla carità e al tempo stesso intelligenza alle opere di misericordia. Quest’ultima possiede un’azione inclusiva, per questo tende ad allargarsi a macchia d’olio e non conosce limiti. E in questo senso siamo chiamati a dare volto nuovo alle opere di misericordia che conosciamo da sempre. La misericordia, infatti, eccede; va sempre oltre, è feconda. È come il lievito che fa fermentare la pasta (cfr Mt 13,33) e come un granello di senape che diventa un albero (cfr Lc 13,19).
Pensiamo solo, a titolo esemplificativo, all’opera di misericordia corporale vestire chi è nudo (cfr Mt 25,36.38.43.44). Essa ci riporta ai primordi, al giardino dell’Eden, quando Adamo ed Eva scoprirono di essere nudi e, sentendo avvicinarsi il Signore, ebbero vergogna e si nascosero (cfr Gen 3,7-8). Sappiamo che il Signore li punì; tuttavia, Egli «fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelle e li vestì» (Gen 3,21). La vergogna viene superata e la dignità restituita.
Fissiamo lo sguardo anche su Gesù al Golgota. Il Figlio di Dio sulla croce è nudo; la sua tunica è stata sorteggiata e presa dai soldati (cfr Gv 19,23-24); Lui non ha più nulla. Sulla croce si rivela all’estremo la condivisione di Gesù con quanti hanno perso dignità perché privati del necessario. Come la Chiesa è chiamata ad essere la “tunica di Cristo”[20] per rivestire il suo Signore, così è impegnata a rendersi solidale con i nudi della terra perché riacquistino la dignità di cui sono stati spogliati. «(Ero) nudo e mi avete vestito» (Mt 25,36), pertanto, obbliga a non voltare lo sguardo davanti alle nuove forme di povertà e di emarginazione che impediscono alle persone di vivere dignitosamente.
Non avere il lavoro e non ricevere il giusto salario; non poter avere una casa o una terra dove abitare; essere discriminati per la fede, la razza, lo stato sociale...: queste e molte altre sono condizioni che attentano alla dignità della persona, di fronte alle quali l’azione misericordiosa dei cristiani risponde anzitutto con la vigilanza e la solidarietà. Quante sono oggi le situazioni in cui possiamo restituire dignità alle persone e consentire una vita umana! Pensiamo solo a tanti bambini e bambine che subiscono violenze di vario genere, che rubano loro la gioia della vita. I loro volti tristi e disorientati sono impressi nella mia mente; chiedono il nostro aiuto per essere liberati dalle schiavitù del mondo contemporaneo. Questi bambini sono i giovani di domani; come li stiamo preparando a vivere con dignità e responsabilità? Con quale speranza possono affrontare il loro presente e il loro futuro?
Il carattere sociale della misericordia esige di non rimanere inerti e di scacciare l’indifferenza e l’ipocrisia, perché i piani e i progetti non rimangano lettera morta. Lo Spirito Santo ci aiuti ad essere sempre pronti ad offrire in maniera fattiva e disinteressata il nostro apporto, perché la giustizia e una vita dignitosa non rimangano parole di circostanza, ma siano l’impegno concreto di chi intende testimoniare la presenza del Regno di Dio.

20. Siamo chiamati a far crescere una cultura della misericordia, basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri: una cultura in cui nessuno guarda all’altro con indifferenza né gira lo sguardo quando vede la sofferenza dei fratelli. Le opere di misericordia sono “artigianali”: nessuna di esse è uguale all’altra; le nostre mani possono modellarle in mille modi, e anche se unico è Dio che le ispira e unica la “materia” di cui sono fatte, cioè la misericordia stessa, ciascuna acquista una forma diversa.
Le opere di misericordia, infatti, toccano tutta la vita di una persona. E’ per questo che possiamo dar vita a una vera rivoluzione culturale proprio a partire dalla semplicità di gesti che sanno raggiungere il corpo e lo spirito, cioè la vita delle persone. È un impegno che la comunità cristiana può fare proprio, nella consapevolezza che la Parola del Signore sempre la chiama ad uscire dall’indifferenza e dall’individualismo in cui si è tentati di rinchiudersi per condurre un’esistenza comoda e senza problemi. «I poveri li avete sempre con voi» (Gv 12,8), dice Gesù ai suoi discepoli. Non ci sono alibi che possono giustificare un disimpegno quando sappiamo che Lui si è identificato con ognuno di loro.
La cultura della misericordia si forma nella preghiera assidua, nella docile apertura all’azione dello Spirito, nella familiarità con la vita dei santi e nella vicinanza concreta ai poveri. È un invito pressante a non fraintendere dove è determinante impegnarsi. La tentazione di fare la “teoria della misericordia” si supera nella misura in cui questa si fa vita quotidiana di partecipazione e condivisione. D’altronde, non dovremmo mai dimenticare le parole con cui l’apostolo Paolo, raccontando il suo incontro con Pietro, Giacomo e Giovanni, dopo la conversione, mette in risalto un aspetto essenziale della sua missione e di tutta la vita cristiana: «Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10). Non possiamo dimenticarci dei poveri: è un invito più che mai attuale che si impone per la sua evidenza evangelica.

21. L’esperienza del Giubileo imprima in noi le parole dell’apostolo Pietro: «Un tempo eravate esclusi dalla misericordia; ora, invece, avete ottenuto misericordia» (1 Pt 2,10). Non teniamo gelosamente solo per noi quanto abbiamo ricevuto; sappiamo condividerlo con i fratelli sofferenti perché siano sostenuti dalla forza della misericordia del Padre. Le nostre comunità si aprano a raggiungere quanti vivono nel loro territorio perché a tutti giunga la carezza di Dio attraverso la testimonianza dei credenti.
Questo è il tempo della misericordia. Ogni giorno del nostro cammino è segnato dalla presenza di Dio che guida i nostri passi con la forza della grazia che lo Spirito infonde nel cuore per plasmarlo e renderlo capace di amare. È il tempo della misericordia per tutti e per ognuno, perché nessuno possa pensare di essere estraneo alla vicinanza di Dio e alla potenza della sua tenerezza. È il tempo della misericordia perché quanti sono deboli e indifesi, lontani e soli possano cogliere la presenza di fratelli e sorelle che li sorreggono nelle necessità. È il tempo della misericordia perché i poveri sentano su di sé lo sguardo rispettoso ma attento di quanti, vinta l’indifferenza, scoprono l’essenziale della vita. È il tempo della misericordia perché ogni peccatore non si stanchi di chiedere perdono e sentire la mano del Padre che sempre accoglie e stringe a sé.
Alla luce del “Giubileo delle persone socialmente escluse”, mentre in tutte le cattedrali e nei santuari del mondo si chiudevano le Porte della Misericordia, ho intuito che, come ulteriore segno concreto di questo Anno Santo straordinario, si debba celebrare in tutta la Chiesa, nella ricorrenza della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, la Giornata mondiale dei poveri. Sarà la più degna preparazione per vivere la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il quale si è identificato con i piccoli e i poveri e ci giudicherà sulle opere di misericordia (cfr Mt 25,31-46). Sarà una Giornata che aiuterà le comunità e ciascun battezzato a riflettere su come la povertà stia al cuore del Vangelo e sul fatto che, fino a quando Lazzaro giace alla porta della nostra casa (cfr Lc 16,19-21), non potrà esserci giustizia né pace sociale. Questa Giornata costituirà anche una genuina forma di nuova evangelizzazione (cfr Mt 11,5), con la quale rinnovare il volto della Chiesa nella sua perenne azione di conversione pastorale per essere testimone della misericordia.

22. Su di noi rimangono sempre rivolti gli occhi misericordiosi della Santa Madre di Dio. Lei è la prima che apre la strada e ci accompagna nella testimonianza dell’amore. La Madre della Misericordia raccoglie tutti sotto la protezione del suo manto, come spesso l’arte l’ha voluta rappresentare. Confidiamo nel suo materno aiuto e seguiamo la sua perenne indicazione a guardare a Gesù, volto raggiante della misericordia di Dio.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 novembre,
Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo,
dell’Anno del Signore 2016, quarto di pontificato.


FRANCESCO




Note:

[1] In Joh 33,5.
[2] Il Pastore di Erma, XLII, 1-4.
[3] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 27.
[4] Messale Romano, III Domenica di Quaresima.
[5] Ibid., Prefazio delle domeniche del Tempo Ordinario VII.
[6] Ibid., Preghiera eucaristica II.
[7] Ibid., Riti di comunione.
[8] Rito della Penitenza, n. 46.
[9] Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi, n. 76.
[10] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 106.
[11] Id., Cost. dogm. Dei Verbum, 2.
[12] Esort. ap. Evangelii gaudium, 142.
[13] Cfr Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 86-87.
[14] Cfr Lettera con la quale si concede l’indulgenza in occasione del Giubileo della Misericordia, 1 settembre 2015.
[15] Cfr ibid.
[16] Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 1.
[17] Cfr ibid., 291-300.
[18] Messale Romano, Veglia Pasquale, Orazione dopo la Prima Lettura.
[19] Lett. enc. Lumen fidei, 50.
[20] Cfr Cipriano, L’unità della Chiesa cattolica, 7.



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giovedì 24 aprile 2025

La Chiesa della carità, di Bruno Forte


La Chiesa della carità

dell'Arcivescovo Bruno Forte 




1 In principio la carità. Nelle lettere pastorali degli ultimi anni ho trattato il tema dell’educazione alla fede, presentandola come proposta della buona novella di Gesù (2011-2012: Sulla via di Emmaus), trasmissione dell’esperienza dell’incontro con il Dio vivo (2012-2013: In cammino con i Magi), attività fondamentale in cui si esprime la maternità della Chiesa (2013-2014: La Chiesa madre dei credenti), volto concreto della sua missione (2014-2015: Chiesa “in uscita”), che si realizza pienamente solo se si dà il primo posto in tutto all’amore misericordioso con cui l’Eterno ci raggiunge e ci salva (2015-2016: La misericordia, cuore del Vangelo, anima della Chiesa). In continuità con l’attenzione rivolta all’educazione alla fede, vorrei ora riflettere sull’educazione alla carità, certo di quanto afferma l’Apostolo Paolo per il quale “la fede si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). La carità sta all’inizio dell’esistenza della Chiesa, generata dal dono dell’amore trinitario, è l’anima profonda e il respiro della sua vita e si offre al suo cammino come la meta verso cui tendere, perché nella Città celeste Dio sarà tutto in tutti e la carità che unisce le Persone divine sarà gioia e pace in eterno per tutti i beati. “Ecclesia de Trinitate - Ecclesia de caritate”: la Chiesa che nasce dalla Trinità e tende verso la patria trinitaria, è la Chiesa della carità, che è suscitata dall’amore e vive dell’amore, per giungere alla Gerusalemme del cielo, dove l’amore non avrà mai fine.

2. La carità e il rinnovamento della Chiesa. Ci aiuta a comprendere il significato fondamentale della carità per la vita della Chiesa una considerazione di Joseph Ratzinger, futuro Papa Benedetto XVI, che da giovane professore di teologia scriveva: “Il rinnovamento ecclesiale non consiste in una quantità di esercizi e istituzioni esteriori, ma nell’appartenere unicamente ed interamente a Gesù Cristo... Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella semplicità vera… che è eco della semplicità del Dio uno” (J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303). Chi intende rinnovare la vita ecclesiale deve sforzarsi di divenire semplice, partecipando alla vita del Dio che è Amore e mettendo ordine nella propria vita, sì da dare il primo posto alla carità nella docilità allo Spirito dell’amore eterno, infuso dal Figlio nel cuore di chi crede. Questo sarà possibile se i battezzati si nutriranno dell’incontro con Cristo, perché - come scriveva nella Sua prima Enciclica Benedetto XVI - “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, n. 1). A sua volta Papa Francesco afferma: “La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale” (Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, 24 Novembre 2013, n. 264). Chi è innamorato di Cristo, vive di Lui e lo annuncia, testimoniando la carità in ogni gesto o parola.

3. La carità e la sequela di Gesù. È dunque nella sequela di Gesù che s’impara ad amare nel grembo vivo della comunità cristiana: “Sì, amore è ‘estasi’, estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio” (Deus caritas est, n. 6). L’amore di cui Gesù ci ha dato prova e che Lui accende in noi è la via per realizzare la nostra vocazione di creature fatte a immagine del Dio che è carità: “L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati a immagine di Dio” (n. 40). Chi accoglie il Signore Gesù nel suo cuore sperimenta l’incontro con l’amore che rende capaci di amare al di là di ogni misura di stanchezza, di ogni ferita dell’anima. Proprio così l’amore di Cristo mette sempre di nuovo in moto la giovinezza della Chiesa, il suo slancio operoso e creativo d’amore fra gli uomini: “Fare quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: ‘L’amore del Cristo ci spinge’ (2 Cor 5, 14)” (n. 35). L’esercizio umile e concreto della carità - dalle sue espressioni personali alle sue forme organizzate, in particolare la Caritas, che è l’organismo pastorale cui è ufficialmente affidato il compito di coordinare le iniziative e le opere caritative della comunità cristiana - si offre come la via per ritrovare lo slancio che rende il discepolo e la Chiesa presenti e attivi sul proprio territorio e nel mondo, capaci di anticipare nel presente degli uomini l’avvenire dell’amore eterno. Tutti siamo chiamati a interrogarci su come viviamo la carità nei confronti di quelli con cui Gesù stesso s’identifica (cf. Mt 25,35s): gli indigenti (“ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito”), gli infermi (di malattie fisiche e/o psichiche: “ero malato e mi avete visitato”), i carcerati (dai detenuti, a quanti sono schiacciati dalle prove della vita, in particolare alle famiglie oppresse dalla disoccupazione, ai bambini figli di genitori in difficoltà, a quanti non riescono a uscire dalla prigione del male e del peccato: “ero in carcere e siete venuti a trovarmi”…).

4. Vivere la carità nella vita quotidiana. Per essere fonte di vita nuova in Cristo, la carità va vissuta anzitutto a livello personale e nei rapporti immediati: l’inno all’amore della prima lettera ai Corinzi di Paolo lo spiega in maniera chiara, specialmente nei versetti su cui ha voluto riflettere Papa Francesco nel capitolo IV dell’Esortazione Amoris Laetitia (19 Marzo 2016): “La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,4-7). Papa Francesco applica le espressioni di questo testo a ogni relazione di amore, specie a quelle in cui si realizza l’esistenza concreta della famiglia: così, la pazienza è frutto dell’amore, “che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato” (n. 92); la benevolenza è l’aspetto attivo della pazienza (cf. n. 93), il rifiuto di ogni invidia, vanagloria e arroganza; l’amabilità è l’amore che “non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto” (n. 99); il perdono nasce dal sapere che, “se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi” (n. 108). Da questa carità vissuta nascono la gioia e la capacità di rallegrarsi con l’altro: in tal senso, la famiglia, dove la persona umana nasce, si sviluppa e vive la prima esperienza dell’amore, “dev’essere sempre il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui” (n. 110). Ed è sempre la carità che induce a scusarsi e a scusare, perché “l’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata” (n. 113), dando fiducia e sperando sempre “che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza”, in se stessi e nell’altro (n. 116). “L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa” (n. 119). Il perdono è l’espressione più alta dell’amore.

5. Esaminiamoci sulla carità. Alla luce di queste riflessioni, vorrei invitare tutti noi a fare un esame di coscienza personale e comunitario, come stimolo a maturare i doni di carità che lo Spirito potrà seminare in ciascuno. Elenco gli impegni cui siamo chiamati, affinché la nostra Chiesa dia volto al cuore di Cristo, amore incarnato di Dio, che pulsa in lei. In primo luogo, dobbiamo aver sempre presente che Gesù ha fatto in tutto la scelta dei poveri, è presente nei poveri e ci chiama ad amarli (cf. Mt 25,31ss). Nei poveri possiamo “scorgere i tratti del volto di Dio - spesso sfigurato e senza apparenza né bellezza alcuna (cf. Is 53,2) - e la sua chiamata a conversione” (cf. “Lo riconobbero nello spezzare il pane” - Carta Pastorale della Caritas Italiana, 16 aprile 1995, 1). Perciò i poveri hanno diritto a essere al centro della nostra attenzione e del nostro amore: lo sono? La povertà è, inoltre, lo stile di vita di Gesù, che è nato povero, ha vissuto da povero ed è morto povero. Sul Suo esempio chi vuol servire i poveri deve “essere con” loro, prima ancora dell’“essere per” loro. Siamo una Chiesa povera e serva dei poveri, senza orpelli, libera dalle seduzioni della ricchezza e del potere? Ci sforziamo di vivere la sobrietà, la semplicità, l’umiltà e la compagnia degli ultimi, nei loro bisogni e nelle loro prove? L’amore che viene da Cristo e l’esempio che Lui ci dà sono la motivazione prima del nostro servizio del prossimo? Chiediamoci se la carità è viva e riconoscibile nei nostri rapporti fraterni, come nelle diverse forme del nostro impegno per gli altri: siamo la Chiesa della carità, che Cristo vuole, secondo quanto ci ha detto: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35)? Diamo ascolto ai poveri, ai piccoli, ai deboli, ai giovani, agli anziani, alle famiglie in difficoltà? Nelle nostre parrocchie i poveri sono presenti solo come “utenti” dei vari servizi o sono parte attiva della vita della comunità?

6. Le opere della carità. Compito fondamentale di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa è quello di annunciare e testimoniare Gesù nell’amore reciproco, educandoci all’impegno caritativo come prioritario, secondo la parola del Signore: “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17). Dobbiamo perciò chiederci: come viviamo concretamente il primato della carità in tutte le espressioni della nostra vita, a tutti i livelli, dalla vita personale a quella familiare, dalle relazioni sociali alla vita parrocchiale, dal livello zonale a quello diocesano, nella comunione della Chiesa universale? Le opere segno della carità richiedono nel loro sorgere come nella loro attività ordinaria il coinvolgimento il più largo possibile di tutti i battezzati e la collaborazione di tutte le donne e gli uomini di buona volontà. Mentre siamo chiamati a riconoscere nelle opere di accoglienza e di servizio ai più poveri, che già esistono fra noi, uno stimolo a sensibilizzarci tutti alle sfide sempre nuove della povertà, cerchiamo di conoscerle da vicino e di collaborarvi, vedendo in esse una scuola concreta di educazione al volontariato. Vorrei sottolineare che il volontariato non è una via per cercare gratificazioni, ma dovere intrinseco alla vita del cristiano e di chiunque voglia realizzare se stesso secondo il disegno di Dio, che ci chiama alla gratuità. L’accoglienza del povero, dell’immigrato, del rifugiato, è il segno visibile della nostra accoglienza di Cristo: “Ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito” (Mt 25,35). Nell’avvicinare e accogliere il povero - dice Papa Francesco (Misericordiae Vultus 15) - “le nostre mani stringano le loro mani… ed essi sentano il calore della nostra persona …”. I “centri di ascolto”, attivati a livello diocesano, in diverse zone pastorali e in singole parrocchie, siano luoghi di vera accoglienza, di ascolto e di accompagnamento delle persone e abbiano come finalità l’integrazione del nuovo arrivato nella comunità.

7. I protagonisti della carità. Tutti nella Chiesa sono chiamati a essere testimoni e protagonisti attivi della carità. Il vescovo e i presbiteri devono vivere la carità come nutrimento decisivo e segno forte di credibilità del loro servizio, via necessaria per la formazione della comunità e dei singoli battezzati. Possiamo dire che come pastori ci sforziamo fino in fondo nel realizzare questa chiamata? Ci impegniamo tutti a promuovere, sostenere e far conoscere la Caritas, nelle svariate forme della sua azione, a cominciare da quella educativa, che è premessa di ogni altra? Chi è stato chiamato al diaconato permanente ricordi che sin dalle origini la Chiesa ha affidato ai diaconi il servizio delle mense, espressione di un esercizio assiduo e perseverante della carità, e s’impegni a promuovere, seguire e sostenere tutte le attività ispirate dalla carità nella comunità cristiana. I religiosi e le religiose, consacrati a imitare Cristo nella povertà e ad amarlo servendo in modo peculiare i poveri, vivano fedelmente questa loro vocazione alla carità, che rende credibile e attraente la loro consacrazione a Dio con cuore indiviso. La carità deve infine essere il segno di riconoscimento di ogni battezzato: tutti i fedeli si sentano chiamati a collaborare alle iniziative della carità della Chiesa nella misura delle loro capacità e delle loro possibilità e rispondano generosamente a questa chiamata. Diversamente non si testimonierà il Vangelo, perché - come ha detto Gesù - “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Non c’è nessuno così povero di doni che non possa dare qualcosa, anche un’ora sola del suo tempo per gli altri o l’offerta a Dio delle proprie sofferenze e fatiche per il bene di chi più ha bisogno.

8. Chiediamo a Dio il dono della carità! Invito tutti a pregare con perseveranza affinché l’esercizio generoso della carità qualifichi la vita di ognuno di noi e sia segno eloquente di credibilità della nostra testimonianza e di quella di tutta la comunità cristiana. Ci aiuti l’esempio di Maria, madre dell’Amore incarnato di Dio e testimone della carità in ogni suo atto, dall’ora dell’annunciazione a quella della visitazione, dalla presenza a Cana a quella presso la Croce, dall’esperienza del Cenacolo e degli inizi della missione cristiana alla Sua costante intercessione in cielo per tutti noi. Ci aiutino l’esempio e l’intercessione dei Santi della nostra Chiesa diocesana: San Giustino, che per amore del nostro popolo rinunciò alla pace dell’eremo e si fece carico del ministero episcopale, promuovendo l’unità nella carità della comunità a quel tempo lacerata; San Camillo de’ Lellis, modello di carità verso gli ammalati; San Francesco Caracciolo, testimone di operosa carità verso i poveri, attinta a un grande amore all’eucaristia. Ci sostengano i Santi della carità del nostro tempo, a cominciare da Madre Teresa di Calcutta, la cui canonizzazione indica alla Chiesa intera che il primato assoluto spetta in tutto alla carità. Chiediamo al Padre il dono dell’amore che viene da Lui, perché grazie ad esso seguiamo con radicalità il Signore Gesù e ci lasciamo guidare dal soffio dello Spirito sulle vie, a volte impervie e spesso nuove e sorprendenti, cui la carità ci chiama: Dio, Padre di misericordia, che hai rivelato il Tuo amore infinito nel Figlio Tuo Gesù Cristo, fatto uomo per noi, donaci di sperimentare così profondamente il Tuo amore da diventare noi stessi testimoni e operatori di carità per tutti quelli a cui ci mandi e che ci affidi. E Maria, madre di misericordia, interceda per noi, per aiutarci a vivere con fede e cuore generoso la carità in ogni scelta e in ogni tempo, docili all’azione dello Spirito Santo, soffio dell’eterno Amore. Amen!





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La Chiesa della carità, Lettera pastorale per l’anno 2016-2017, dell'Arcivescovo di Chieti Mons. Bruno Forte


domenica 20 aprile 2025

Messaggio "URBI ET ORBI" di Papa Francesco Pasqua 2025


MESSAGGIO «URBI ET ORBI»
DEL SANTO PADRE FRANCESCO

PASQUA 2025

Piazza San Pietro
Domenica, 20 aprile 2025



Cristo è risorto, alleluia!

Fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Oggi nella Chiesa finalmente risuona l’alleluia, riecheggia di bocca in bocca, da cuore a cuore, e il suo canto fa piangere di gioia il popolo di Dio nel mondo intero.

Dal sepolcro vuoto di Gerusalemme giunge fino a noi l’annuncio inaudito: Gesù, il Crocifisso, «non è qui, è risorto» (Lc 24,6). Non è nella tomba, è il vivente!

L’amore ha vinto l’odio. La luce ha vinto le tenebre. La verità ha vinto la menzogna. Il perdono ha vinto la vendetta. Il male non è scomparso dalla nostra storia, rimarrà fino alla fine, ma non ha più il dominio, non ha più potere su chi accoglie la grazia di questo giorno.

Sorelle e fratelli, specialmente voi che siete nel dolore e nell’angoscia, il vostro grido silenzioso è stato ascoltato, le vostre lacrime sono state raccolte, nemmeno una è andata perduta! Nella passione e nella morte di Gesù, Dio ha preso su di sé tutto il male del mondo e con la sua infinita misericordia l’ha sconfitto: ha sradicato l’orgoglio diabolico che avvelena il cuore dell’uomo e semina ovunque violenza e corruzione. L’Agnello di Dio ha vinto! Per questo oggi esclamiamo: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale).

Sì, la risurrezione di Gesù è il fondamento della speranza: a partire da questo avvenimento, sperare non è più un’illusione. No. Grazie a Cristo crocifisso e risorto, la speranza non delude! Spes non confundit! (cfr Rm 5,5). E non è una speranza evasiva, ma impegnativa; non è alienante, ma responsabilizzante.

Quanti sperano in Dio pongono le loro fragili mani nella sua mano grande e forte, si lasciano rialzare e si mettono in cammino: insieme con Gesù risorto diventano pellegrini di speranza, testimoni della vittoria dell’Amore, della potenza disarmata della Vita.

Cristo è risorto! In questo annuncio è racchiuso tutto il senso della nostra esistenza, che non è fatta per la morte ma per la vita. La Pasqua è la festa della vita! Dio ci ha creati per la vita e vuole che l’umanità risorga! Ai suoi occhi ogni vita è preziosa! Quella del bambino nel grembo di sua madre, come quella dell’anziano o del malato, considerati in un numero crescente di Paesi come persone da scartare.

Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti!

In questo giorno, vorrei che tornassimo a sperare e ad avere fiducia negli altri, anche in chi non ci è vicino o proviene da terre lontane con usi, modi di vivere, idee, costumi diversi da quelli a noi più familiari, poiché siamo tutti figli di Dio!

Vorrei che tornassimo a sperare che la pace è possibile! Dal Santo Sepolcro, Chiesa della Risurrezione, dove quest’anno la Pasqua è celebrata nello stesso giorno da cattolici e ortodossi, s’irradi la luce della pace su tutta la Terra Santa e sul mondo intero. Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo. In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!

Preghiamo per le comunità cristiane in Libano e in Siria che, mentre quest’ultimo Paese sperimenta un passaggio delicato della sua storia, ambiscono alla stabilità e alla partecipazione alle sorti delle rispettive Nazioni. Esorto tutta la Chiesa ad accompagnare con l’attenzione e con la preghiera i cristiani dell’amato Medio Oriente.

Un pensiero speciale rivolgo anche al popolo dello Yemen, che sta vivendo una delle peggiori crisi umanitarie “prolungate” del mondo a causa della guerra, e invito tutti a trovare soluzioni attraverso un dialogo costruttivo.

Cristo Risorto effonda il dono pasquale della pace sulla martoriata Ucraina e incoraggi tutti gli attori coinvolti a proseguire gli sforzi volti a raggiungere una pace giusta e duratura.

In questo giorno di festa pensiamo al Caucaso Meridionale e preghiamo affinché si giunga presto alla firma e all’attuazione di un definitivo Accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian, che conduca alla tanto desiderata riconciliazione nella Regione.

La luce della Pasqua ispiri propositi di concordia nei Balcani occidentali e sostenga gli attori politici nell’adoperarsi per evitare l’acuirsi di tensioni e crisi, come pure i partner della Regione nel respingere comportamenti pericolosi e destabilizzanti.

Cristo Risorto, nostra speranza, conceda pace e conforto alle popolazioni africane vittime di violenze e conflitti, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan, e sostenga quanti soffrono a causa delle tensioni nel Sahel, nel Corno d’Africa e nella Regione dei Grandi Laghi, come pure i cristiani che in molti luoghi non possono professare liberamente la loro fede.

Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui.

Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura gli uni degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona umana.

In questo tempo non manchi il nostro aiuto al popolo birmano, già tormentato da anni di conflitto armato, che affronta con coraggio e pazienza le conseguenze del devastante terremoto a Sagaing, causa di morte per migliaia di persone e motivo di sofferenza per moltissimi sopravvissuti, tra cui orfani e anziani. Preghiamo per le vittime e per i loro cari e ringraziamo di cuore tutti i generosi volontari che svolgono le attività di soccorso. L’annuncio del cessate-il-fuoco da parte di vari attori nel Paese è un segno di speranza per tutto il Myanmar.

Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma a usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere la fame e favorire iniziative che promuovano lo sviluppo. Sono queste le “armi” della pace: quelle che costruiscono il futuro, invece di seminare morte!

Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano. Davanti alla crudeltà di conflitti che coinvolgono civili inermi, attaccano scuole e ospedali e operatori umanitari, non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli, ma persone con un’anima e una dignità.

E in quest’anno giubilare, la Pasqua sia anche l’occasione propizia per liberare i prigionieri di guerra e quelli politici!

Cari fratelli e sorelle,

nella Pasqua del Signore, la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello, ma il Signore ora vive per sempre (cfr Sequenza pasquale) e ci infonde la certezza che anche noi siamo chiamati a partecipare alla vita che non conosce tramonto, in cui non si udranno più fragori di armi ed echi di morte. Affidiamoci a Lui che solo può far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5)!

Buona Pasqua a tutti!




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