sabato 26 settembre 2020

Francesco d'Assisi: un uomo di pace formato dalla liturgia, di Pietro Messa

 

 Vita di San Francesco - Biografia e opere

Francesco d'Assisi: un uomo di pace formato dalla liturgia
 

di Pietro Messa


Non si può non riconoscere che in un certo qual senso Francesco d’Assisi ha avuto una fortuna invidiabile rispetto ad altri santi: dichiarato nel 1992 dal Time Magazine uno degli uomini più rappresentativi del secondo millennio, studiato da centri di ricerca universitari laici e non, innumerevoli pubblicazioni scientifiche e divulgative inerenti alla sua storia, diversi film a lui dedicati, riconosciuto come riferimento ideale da persone di diverse culture e religioni. A tutto ciò si aggiunga la scelta di Assisi, la città di san Francesco, da parte di Giovanni Paolo II per la storica giornata del 27 ottobre 1986 che diede inizio al cosiddetto “spirito di Assisi”, ossia quel movimento interreligioso in favore della pace; il Pontefice vi fece ritorno ancora il 9 e il 10 gennaio 1993 e, nonostante le numerose riserve e perplessità su tale opportunità, il 24 gennaio 2002, cioè dopo gli atti terroristici dell’11 settembre 2001.
Quindi un san Francesco molto valorizzato e anche se il giorno della sua festa, il 4 ottobre, in Italia non è diventato festa nazionale, il suo nome è comunque sinonimo di dialogo interculturale e interreligioso. Tuttavia sappiamo tutti che il confine tra aver successo ed essere inflazionati è molto sottile, e questo vale anche per il santo di Assisi.
Gli studi francescani hanno vagliato le fonti inerenti alla sua esperienza cristiana, mentre innumerevoli studiosi continuano a cercare di perfezionare la conoscenza di tali fonti onde scoprire il volto di questo santo, al di là di ogni immagine agiografica o manipolazione ideologica. Si è approfondita la sua formazione culturale e spirituale, riconoscendovi diverse stratificazioni, ossia: la cultura del figlio del mercante, una ideologia cavalleresca che lo conduceva a indossare ideologicamente i panni dei cavalieri, la cultura cortese che rimase anche dopo la conversione, l’elemento evangelico e perfino le reminiscenze delle antiche vite dei Padri del deserto[1]. Davanti a questi innumerevoli studi, i cui inizi si riconoscono in Paul Sabatier, sembra che ormai su frate Francesco d’Assisi, il figlio del mercante Pietro di Bernardone, non ci sia altro da approfondire. L’immagine maggiormente divulgata però appare non solo inflazionata, a volte si ha la sensazione che sia monca di qualche aspetto importante, quando non è vittima di qualche operazione ideologica strumentalizzante. Certamente, come avviene per ogni uomo, anche la vicenda di Francesco d’Assisi rimarrà sempre in un certo qual senso un mistero. Riconoscere questo non impedisce però di continuare ad approfondirla, grazie anche ai risultati già raggiunti fin qui. Proprio in questa prospettiva si sta riconoscendo il ruolo importante, per non dire fondamentale, della liturgia nella vicenda di Francesco. 


1. Un periodo di riforma liturgica

Il tempo in cui visse Francesco furono anni di grandi cambiamenti e trasformazioni culturali: lo sviluppo dei comuni, la nascita delle università, l’incentivo agli scambi commerciali, il sorgere di nuove esigenze religiose spesso sfociate nell’eresia ma anche in movimenti pauperistici. Tutti questi aspetti normalmente vengono presi in considerazione dagli studiosi più avveduti, quando inquadrano storicamente la vicenda di Francesco d’Assisi. Tuttavia quasi totalmente trascurata è la considerazione che quegli anni furono uno dei momenti nevralgici della storia della liturgia. Infatti se si prende un qualsiasi manuale di storia della liturgia, si può constatare che Innocenzo III diede inizio a una riforma della liturgia della Curia romana i cui esiti proprio tramite i Frati minori si diffusero ovunque, tanto da essere ancora oggi l’elemento caratterizzante la liturgia latina di rito romano.
Agli inizi del Duecento a Roma esistevano fondamentalmente quattro tipi di liturgia: quella della Curia romana, che risiedeva nel Palazzo del Laterano, quella della vicina Basilica di San Giovanni, quella della Basilica di San Pietro e quella cosiddetta dell’Urbe, ossia della città di Roma. Innocenzo III nel suo programma di riforma, che vide uno dei suoi momenti di massima espressività nel Concilio Lateranense IV del 1215, non escluse la liturgia. Della riforma della liturgia uno dei frutti più prestigiosi fu il breviario. Accostando, integrando e adeguando alla vita della Curia romana, spesso soggetta a trasferimenti, testi che precedentemente erano distribuiti in libri diversi, Innocenzo III fornì uno strumento maneggevole soprattutto a coloro che erano spesso in viaggio. Tale breviario, proprio per la sua fruibilità, venne presto adottato anche da alcune diocesi, tra cui quella di Assisi. In questo modo Francesco e la fraternitas minoritica ebbero accesso a un libro liturgico che presto si rivelò conforme alle loro esigenze di persone itineranti che vivevano da “stranieri e pellegrini”[2]. Così i Frati minori fecero propria la preghiera liturgica e specificatamente quella della Curia romana, ossia del pontefice.

 
2. Non semplicemente questione di preghiera

Adottare un libro liturgico o l’altro non era indifferente. Lo aveva già compreso precedentemente papa Gregorio VII che vedeva con timore una disparità liturgica perché in alcuni casi conduceva non solo a una disparità giurisdizionale, ma anche dottrinale, vale a dire all’eresia. Ad esempio, adottare il breviario della Curia romana riformato da Innocenzo III significava accogliere tutta una tradizione precedente. La disposizione in esso delle diverse feste, la scelta di determinate letture, l’assemblaggio di passi biblici per formare antifone, versetti e responsorii, la presenza di innumerevoli letture sia patristiche che degli antichi martirologi, erano fondamentalmente il risultato della riflessione ecclesiale e del vissuto soprattutto monastico di tutto il millennio precedente. Quindi, nel far proprio il breviario, Francesco e la fraternitas minoritica si inserirono in una storia che li aveva preceduti e che era stata trasmessa lungo i secoli. Ciò non significa che essi si sentirono oppure agirono come fossero prigionieri di quella tradizione: infatti, come annota una fonte, Francesco non mancò di affermare la propria peculiarità respingendo alcuni modelli a lui precedenti.
Comunque, accogliendo la preghiera del breviario, essi si inserirono dentro quella tradizione spirituale e teologica maturata lungo i secoli nella Chiesa, come si può constatare nella lettura degli scritti di Francesco, in cui le reminiscenze liturgiche sono innumerevoli. Tali reminiscenze, che tecnicamente sono definite casi di “intertestualità e interdiscorsività” – cioè citazioni vere e proprie o semplici rimandi concettuali –, spesso sono una trasmissione di testi patristici interiorizzati dal santo. Se ciò appare sorprendente, soprattutto rispetto a una certa storiografia che ha presentato Francesco di Assisi come il Santo del solo Vangelo – quasi una sorta di precursore della riforma protestante –, ancora più ricco di conseguenze è il fatto che spesso persino la Bibbia, e quindi il Vangelo, è presente nei suoi scritti mediata dalla liturgia. Ciò, naturalmente, conduce a rivedere certe descrizioni dell’esperienza spirituale di Francesco che lo presentano come uno che ha avuto un rapporto immediato, senza mediazioni, con la Scrittura. Invece ciò che appare a uno studio più approfondito è che egli conobbe la Scrittura mediante la liturgia, ossia grazie alla mediazione della Chiesa. E la liturgia è essa stessa una spiegazione della Scrittura, cioè un’esegesi: infatti anche semplicemente la collocazione di una determinata lettura in una festa piuttosto che in un’altra dice già della chiave di lettura e quindi della comprensione di quel determinato brano. Così la lettura del capitolo 11 di Isaia in cui si parla del germoglio che spunta dal tronco di Iesse nel Comune della Vergine Maria è già in sé stessa una prospettiva mariana data a quel determinato brano, accresciuta notevolmente se poi al posto di virga, cioè germoglio – come dovrebbe essere – vi è virgo, cioè Vergine, come risulta esserci nel breviario appartenuto a san Francesco d’Assisi: «Spunterà la Vergine dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici, su di lui si poserà lo spirito del Signore»[3]


3. La testimonianza del Breviarium sancti Francisci

L’importanza della liturgia nella fraternitas minoritica e nella vicenda di Francesco d’Assisi è testimoniata non solo dalla Regola dei Frati minori confermata da papa Onorio III nel 1223, ma soprattutto da un codice conservato tra le reliquie del protomonastero Santa Chiara presso l’omonima Basilica in Assisi. Come testimonia una scritta autografa di frate Leone, cioè di uno dei compagni nonché testimoni del Santo, questo codice fu usato dallo stesso Francesco: «Il beato Francesco procurò questo breviario per i suoi compagni frate Angelo e frate Leone, poiché, mentre era in salute, volle sempre dire l’ufficio, come è contenuto nella Regola; e nel tempo della sua malattia invece, non potendo recitarlo, voleva ascoltarlo; e questo continuò a fare finché visse»[4].
Il codice, denominato Breviarium sancti Francisci, consiste fondamentalmente in un breviario, il salterio e l’evangeliario; la prima parte è la più consistente ed è costituita dal breviario della Curia romana riformato da Innocenzo III. L’antichità del testo, che lo rende un testimone privilegiato di tale riforma e quindi della storia dei libri liturgici in generale, è confermata dalla presenza, soprattutto nelle solennità mariane o di santi legati al ministero pontificio, come Pietro, Paolo e Gregorio Magno, di letture tratte dai sermoni dello stesso Innocenzo III; tali letture dopo la sua morte nel 1216 saranno rese facoltative dal successore, papa Onorio III, e immediatamente scompariranno dal breviario[5]. Infatti il Breviario di san Francesco è l’unico breviario vero e proprio che contiene tali letture per esteso. Questo codice fu usato da Francesco e certamente cooperò a formare in lui una seppur rudimentale cultura teologica che gli permise di esprimere la sua spiritualità e il suo pensiero in alcuni scritti, tre dei quali sono ancora oggi in nostro possesso in formato autografo[6].
Considerato questo ruolo svolto dalla liturgia nella formazione culturale e spirituale di Francesco, essa deve essere tenuta nel dovuto conto quando si cerca di comprendere il messaggio del santo d’Assisi. Quindi, soprattutto il contenuto di tale codice va tenuto presente ogniqualvolta si voglia approfondire una tematica particolare del suo pensiero; così il ruolo di Maria Vergine, nel suo pensiero, diventerà maggiormente intelligibile nella misura in cui si leggeranno i suoi scritti tenendo conto dell’Ufficio della Beata Vergine e delle quattro feste mariane contenute nel suddetto codice, cioè la Presentazione di Gesù al Tempio, il 2 febbraio; l’Annunciazione, il 25 marzo; l’Assunzione con la sua ottava, dal 15 al 22 agosto; e la Nascita di Maria, l’8 settembre. Anche se le prime due feste, ossia la Presentazione al Tempio e l’Annunciazione, celebrano due misteri della vita di Gesù Cristo, già da secoli avevano assunto una forte connotazione mariana, tanto che la prima è denominata nel suddetto Breviarium come festa della Purificazione di Maria Vergine[7].
L’importanza del Breviarium sancti Francisci fu riconosciuta e testimoniata dallo stesso frate Leone che lo diede alla badessa Benedetta del monastero Santa Chiara in Assisi perché lo conservasse come un testimone privilegiato della santità di Francesco. Tuttavia, prima di consegnarlo, egli segnò nel calendario diversi giorni anniversari di defunti, tra cui quelli di Innocenzo III e di Gregorio IX. Dopo ancora alcuni anni durante i quali fu usato come libro liturgico, il breviario del Santo fu definitivamente collocato tra le reliquie del suddetto monastero, dove ancora oggi si può ammirare. Proprio a causa di tale importanza, nel Seicento la sua copertina fu decorata con due ornamentazioni d’argento raffiguranti san Francesco e santa Chiara. 


4. Francesco e la Chiesa

Uno degli argomenti più dibattuti nella storiografia francescana è il rapporto di Francesco con la Chiesa. C’è chi ha parlato di Francesco come di una sorta di rivoluzionario, chi invece, non potendo contraddire le fonti, ha cercato la ragione della sua obbedienza alla gerarchia nella sua scelta di vivere nella minorità: sia in un senso che nell’altro, il suo è sempre un atteggiamento visto in un modo che possiamo definire distaccato, estrinseco. La considerazione dell’importanza della liturgia nella vicenda di Francesco può aiutare a comprendere meglio il suo rapporto con la Chiesa: egli visse l’inserimento, certamente non in modo passivo, in una storia che lo precedeva e che si era espressa anche mediante determinate formule liturgiche. La preghiera e la meditazione di testi a lui precedenti, espressione della vita e della santità della Chiesa lungo i secoli, divennero per Francesco il luogo di comunione con la storia della salvezza. Proprio per questo egli fu molto determinato contro coloro che non volevano recitare l’Ufficio, come è testimoniato da quanto scrive nel suo testamento: «E sebbene io sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico che mi reciti l’Ufficio così come è prescritto nella Regola. E tutti gli altri frati siano tenuti a obbedire così ai loro guardiani e a dire l’Ufficio secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non dicessero l’Ufficio secondo la Regola, e volessero variarlo in altro modo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque siano, siano tenuti per obbedienza, ovunque trovassero qualcuno di essi, a farlo comparire davanti al custode più vicino al luogo dove l’avranno trovato. E il custode sia fermamente tenuto per obbedienza a custodirlo severamente, come un uomo in prigione giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano finché non lo consegni di persona nelle mani del suo ministro. E il ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a mandarlo per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un uomo imprigionato, finché non lo presentino davanti al signore di Ostia, che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternità»[8]. Tale trafila che si conclude con la consegna al “signore di Ostia”, cioè al cosiddetto cardinal protettore dell’Ordine minoritico, è stata considerata una delle “durezze” di frate Francesco che tanto contrasta con una certa sua immagine irenica; e tale durezza è nei confronti di coloro che non recitano il breviario. Ciò è dovuto al fatto che quella determinata preghiera, e quindi anche il suo rifiuto, era direttamente correlata all’ortodossia o meno della persona e della comunità.
L’assioma lex orandi, lex credendi, lex vivendi lo possiamo constatare vissuto da Francesco e anche ritenuto dallo stesso, anche se non esplicitamente, uno dei riferimenti della sua esperienza cristiana. La modalità con cui Francesco ha pregato, e che ha voluto fosse anche quella della fraternitas minoritica, ossia la recita del breviario, è espressione della sua fede, quella della Chiesa rappresentata dal pontefice, che si è espressa nel suo vissuto concreto. Quindi, se si vuole comprendere appieno il vissuto del santo di Assisi e della sua predicazione di pace – con il significato che ha assunto lungo la storia e soprattutto grazie al pontificato di Giovanni Paolo II – non può essere trascurata la sua fede espressa mediante la preghiera, soprattutto liturgica, e la recita del breviario.



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Note

[1] J. Dalarun, Francesco: un passaggio. Donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi, postfazione di G. Miccoli, Roma 1994.
[2] P. Messa, Un testimone dell’evoluzione liturgica della fraternitas francescana primitiva: il Breviarium sancti Francisci, in Revirescunt Chartae, codices documenta textus; miscellanea in honorem fr.Caesaris Cenci, OFM, ed. A.Cacciotti-P.Sella, vol.I, Romae 2002, pp. 5-141.
[3] P.Messa, L’Officium mortuorum e l’Officium beatae Mariae virginis nel Breviarium sancti Francisci, in Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani, 4 (2002), pp. 111-149.
[4] Frate Leone d’Assisi, Nota al Breviario di san Francesco, in Fonti Francescane, a cura di Ernesto Caroli, Padova 2004, p. 2696.
[5] P.Messa, I sermoni di Innocenzo III nel Breviarium sancti Francisci, in Archivium Franciscanum Historicum, 95 (2002), pp. 249-265.
[6] P.Messa, Le fonti patristiche negli scritti di Francesco di Assisi, prefazione di G.Miccoli, Assisi 1999.
[7] P.Messa, Le feste mariane nel Breviarium sancti Francisci, in L’Immacolata Concezione. Il contributo dei francescani. Atti del Congresso mariologico francescano in occasione del 150° anniversario della proclamazione dogmatica (Santa Maria degli Angeli-Assisi, 4-8 dicembre 2003), Città del Vaticano 2005.
[8] Francesco d’Assisi, Testamento, 29-33, in Fonti Francescane, op.cit., pp. 125-126.

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 Fonte: http://www.gliscritti.it/approf/2005/papers/francesco01.htm

 

giovedì 24 settembre 2020

I «fuochi» della Loreto Mariana di Aleardo Aleardi, di Francesco Di Ciaccia



Francesco Di Ciaccia

I «fuochi» della Loreto Mariana 
di Aleardo Aleardi



Nei Canti «I fuochi dell’Appennino», scritti dall’Aleardi all’«Italia rinascente» (VI, 39), il canto VIII è dedicato alla terra lauretanai:

Sorride il colle de la tua Loreto,
O mistico geranio de le notti,
Questa notte t’offriamo e questi fuochi,
Regina dei dolenti, Ave Maria (vv. 4-7).

In questo contesto lauretano, il poeta dimentica la polemica contro gli oppressori dell’Italia – gli Austriaci –, per fissare la sua attenzione sul valore intrinseco della «materna casa» (v. 10) di Maria, in virtù della quale egli implora la protezione celeste per la stessa patria (cfr. vv. 11-12).

Il canto si apre con la descrizione naturalistica dei «folti / Vigneti, e gli orti, e la divota china» del dolce e affascinante colle di Loreto. Questo colle, già cantato dal Tassoii, rappresenta nella letteratura mariana un quadro di incanto, in perfetto parallelismo con quel «colle di Assisi» della letteratura francescana cui si ispirò anche un Carducci nel mirabile sonetto Santa Maria degli Angeli e un D’Annunzio nella trepida Assisi. Perciò si può affermare che, nella terra d’Italia, il colle di Loreto appare il simbolo per eccellenza della terra di Maria: «de la tua Loreto».

Prima di spiegare una tale appartenenza «familiare» (cfr. v. 11), vogliamo insistere sulla dolcezza del luogo stesso. Il poeta contrappone il sorriso (v. 4) del colle al «mesto» mare (v. 3), quasi in contrasto morale oltre che psicologico: il mare è, tradizionalmente, simbolo della vita, ma che contiene l’inesorabile pericolo, e la morte; è immagine della sofferente esistenza, che attrae ma inghiotte.

Su questo mondo, contrastato tra la sua vitalità e la sua terribile angoscia, si affacciano i «cari» (v. 1) lidi di Loreto. Il mondo termina là dove finisce la turbolenza del vivere, necessario ma che richiede un punto sicuro di salvezza: dove, cioè, inizia il momento della pace. La sosta è nella «divota china» (v. 2), che sale verso la solidità della cima in cui si eleva la basilica e che evoca, nel termine appunto di «devozione», la cosiddetta via della «scala santa», soprattutto un tempo, compreso quello dell’Aleardi, percorsa dai pellegrini, a piedi, per giungere al Santuario. Il poeta sembra vedere, fra quelle viti e gli orti che ancor oggi fanno la costa lauretana, soprattutto verso il mare, dolce nella sua ripidità, un atteggiamento umano di abbandono alla bontà del paesaggio e alla speranza: sentimento, questo, che è un dono, ricevuto ed offerto. Per questo, egli dice: «t’offriamo questa notte e questi fuochi».

I «fuochi» lauretani fanno parte della tradizione popolare, che accendeva i falò in onore della Traslazione della Santa Casa, nella data appunto che menziona il poeta, in riferimento anche ad un altro avvenimento, nel sottotitolo della raccolta in esame.

Tra questi «fuochi» di Loreto, svanisce ogni facile euforismo: né rivolta, né guerra, né offesa, né controffensiva. L’atteggiamento patriottico si ricompone nella serietà della «Regina dei dolenti» (v. 7). La «divota» terra e la Madre degli afflitti permettono solo il più umano, e prima ancora cristiano, sentimento: la riconciliazione con il mondo.

Prima di tutto, il «sorriso», «Sorride» la terra, e sorride agli afflitti la Madre. Capire il sorriso non è poco: è un dono, che si riceve e si offre, e che è tremendo. Sembra che il poeta lo abbia capito sul «colle de la tua Loreto».

In questo colle, dice l’Aleardi, la «celeste viaggiatrice» (v. 8) ha scelto dove posar «la povertà de la materna casa». Sorriso e povertà: accostamento non inutile. Il dono del sorriso, che risana i «dolenti», può regalarlo solo chi è povero, come Maria e la sua famiglia, che San Francesco d’Assisi e i suoi fratelli imitarono mirabilmente e senza pari.

Dunque, sorriso, povertà, e grazia. Si tratta, infatti, non di un sorriso pietistico; si tratta del sorriso che salva, e trasforma, per cui il poeta dice:

Il pescadore in disperata angoscia
Tra la furia d’ingorde onde ti chiami
Stella del mare (vv. 13-15).

Il pescatore è l’uomo che vive nel «mare» cui accennavamo, nel mondo dalle «ingorde» tensioni: la salvezza viene dalla donna della povertà, o dalla «poverella», come San Francesco chiamava la Madre di Dio.

L’immagine del «pescadore» e del «mare» si esplica, nei vv. 15-18, attraverso le figure consuete dell’«esule che passa», della «prole esule d’Eva». Con i termini «esule» e «passare» che convalidano il concetto iniziale dell’uomo nelle vie dell’esistenza, il colle di Loreto si configura ancor meglio come «patria» dell’uomo. Ritorno alla propria casa è dunque il passaggio «devoto» a Loreto: se l’esule, nella poesia dell’Aleardi, è lontano per forza, il pellegrino è colui che, volontariamente, è lontano per un po’ dalla vita consueta, e si accosta ai segni di salvezza, cioè alla «casa materna» della povertà e della pace, speranza e segno della definitiva «casa del Padre», come si esprime il Vangelo di Giovanni.

A Loreto, c’è inoltre la «viril preghiera» (v. 19), c’è l’«Arca» di alleanza (v. 20), che l’autore attribuisce alla Madonna dalla tradizione patristica. Per tutto questo, il poeta poteva indicare, all’inizio, la terra di Loreto come cosa «familiare» a Maria, affettuosamente: «de la tua Loreto».



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FONTE. Francesco Di Ciaccia, I «fuochi» della Loreto Mariana di Aleardo Aleardi, «Messaggio della Santa Casa», 9 (1982) pp. 277-278.

i Canti di Aleardo Aleardi, Firenze 18805, pp. 195-206. 
ii Cfr. Francesco Di Ciaccia, «A la Beatissima Vergine di Loreto» di Torquato Tasso, in «Messaggio della Santa Casa», n. 3, a. 102, marzo 1982.


Il pensiero mariologico di Alessandro Manzoni nell’inno «Il nome di Maria», di Francesco Di Ciaccia


Francesco Di Ciaccia

Il pensiero mariologico di Alessandro Manzoni
nell’inno «Il nome di Maria»




Il nome di Maria, scritto fra il 9 novembre 1812 e il 19 aprile 1813, è uno degli Inni Sacri redatti dal Manzoni poco dopo il ritorno alla pratica religiosa. Questi canti della fede ritrovata raggiungono il loro apice estetico e teologico ne La Pentecoste (1822), mentre rivelano in altri casi uno stato affettivo ancora immaturo nell’evidente contraddizione fra il momento volitivo, o del bisogno psicologico, e quello intuitivo, o dell’immediatezza creativa. Ancora legato a quel che «voleva» dire, il Manzoni non ha in essi dato sempre prova di quella sintesi di concretezza – in questo caso dottrinale – e assolutezza di ispirazione, in cui consiste l’«universale» della poesia. Ciò sarà da noi, qui, appena notato; al contrario, vogliamo mettere in rilievo quanto, malgrado i limiti estetici e a dispetto dell’interesse critico più diffuso, emerga il messaggio teologico ne II nome di Maria, che pur già anticipa l’unità manzoniana di fede e umanità, di sentimento e dato teologico, di idealità e realtà che ha reso celebri altre sue opere.

L’inno evidenzia subito, nel primo verso, un impaccio dell’autore, che sembra non saper bene che cosa scrivere, nel senso che ciò che egli sa, intellettualmente, dover scrivere non trova corrispondenza emotiva: «[…] a non so qual pendice; Maria, d’un fabbro nazaren la sposa», «salia», non si sa dove. Appare dunque chiaro che questo particolare geografico non interessa all’autore, che pur si ritiene come in dovere di indicarlo. La vaghezza del riferimento è infatti inutile, dato che non ha giustificazioni poetiche, in quanto, in realtà, non c’è motivo di immaginarsi nessuna misteriosità. Ed è inutile perché, di fatto, il mistero, in questo, non c’è. La prima parola, invece, con cui si apre l’inno, è altamente teologica, e poeticamente racchiude tutta la mariologia evangelica: «Tacita».

«Tacita un giorno». L’aggettivo, in posizione enfatica, è solenne: è come una definizione totale.

Maria è silente come quando, secondo l’intuizione spirituale della patristica, fu visitata dall’angelo, nel silenzio delle cose e delle passioni, ma anche nel silenzio delle parole: a nessuno è dato capire il mistero con il rumore delle labbra. È quello stesso silenzio che «custodiva in cuore» il mistero del Figlio, perso a Gerusalemme, o che accompagnava la morte del Crocifisso, sul Golgota: tutti modi per esprimere l’operosità della salvezza. E perciò questa «sposa» non dubita di mettersi in cammino verso la «magion felice» (v. 3), con un ovvio riferimento manzoniano al significato evangelico, d’«una pregnante annosa» (v.4): un cammino, questo, che è conseguenza e forma di quel silenzio.

Nella seconda strofa non si individuano ancora originalità, ma è degna di segnalazione, tuttavia, la citazione testuale del Magnificat, notevole per la sua incisività e brevità: «[…] tutte le genti / Mi chiameran beata»: sintesi, degna dell’essenzialità espositiva del vangelo, di questo nuovo mistero che si apre al mondo. Poi l’autore penetra nella dinamica della storia, contrapponendo le due «civitates», per dirla con sant’Agostino: quella della «superbia» e quella, contraria, dell’umiltà. L’«età superba» avrebbe «udito» con «scherno» i «lontani / Presagi»: è lo stesso concetto de Il Natale, in cui l’annunzio «Non de’ potenti volgesi / Alle vegliate porte, ma ai pastor devoti, / Al duro mondo ignoti» (vv. 73-76).

Non è questione di esser poveri o ricchi, materialmente parlando: è questione di «potenza» presuntuosa, che cresce nelle case dove si progettano le sorti degli uomini senza tener conto di questo «annuncio», come è ribadito nel «superbo Romano» e nel «delirio potente» (vv. 62 e 63) dell’Inno La passione. Lo spartiacque, che pone da un lato «gl’intenti umani», dall’«antiveder bugiardo» e dall’altro gli «ignoti» al mondo dei potenti, è costituito dalla disposizione ad accogliere o meno il messaggio di debolezza, salvifica e potente, del Cristo. Ne Il Natale, i pastori non frappongono ostacoli, perché sono senza preconcetti: tutto potrebbe, per loro, accadere, anche che un «re» nasca in una povera camera; ma soprattutto, perché non hanno mire di ambiziosa strapotenza.

Da qui, il privilegio degli umili, disposti ad amare; da qui, l’indisponibilità degli strateghi della storia, di cui si può dire manzonianamente che il «consiglio» è «tardo» (vv. 10-11). Agostino, dicevamo, distingue l’umanità fra coloro il cui «consiglio» è conforme a Dio e coloro il cui consiglio è «bugiardo»; per ritornare al Manzoni, possiamo dire che i primi sono i «testimoni che alla tua parola / Ubbidiente l’avvenir rispose» (vv. 13-14), sono «i serbati all’amor». Ancora, sulla scia di Agostino, qui è definita la «città di Dio»: non dei poveri in quanto tali, ma dei poveri dell’ubbidienza e nell’amore.

L’amore, grande tema de I Promessi Sposi – in cui Dio non affligge che per un avvenir migliore – e, nonostante il sottofondo pessimistico, dell’Adelchi e del Cinque Maggio, è ampiamente sviluppato nel corale Inno de La Pentecoste, in cui le «umili / Erbe» del «povero» si innalzano nell’«ineffabil riso» dell’«ineffabil segno».

Di questa visione pentecostale, in cui speranza e morte si compenetrano giustificandosi (v. 144) nella discesa dell’Amore (v. 97), il «Noi serbati all’amor» de Il nome di Maria costituisce una anticipazione sintetica ed esaustiva.

L’immediato prosieguo tende a spiegare questo concetto, in modo poeticamente scialbo («nati alla scola / delle celesti cose») ma teoricamente importante, per la correlazione tra l’amore e la fonte del medesimo: tale amore è solo quello che deriva dall’insegnamento di Dio. Entro questa «scola»,

«[…] a noi solenne / è il tuo nome [...]».

«Maria» (v. 20), di cui si parla all’inizio dell’inno come colei cui fu detto «Salve», non ha senso se estrapolata da «L’alta promessa che da Te s’udia, posta in cor» (vv. 18-19) alla Madonna, che è la stessa dell’Inno de La Pentecoste: «Stanca del vil ossequio / La terra a Lui ritorni: / E voi che aprite i giorni / [...]» (vv. 53-55): un ritorno, quello cui accenna il poeta, che è anche un «sollevar i miseri» (cfr. vv. 69-70), un’emancipazione terrena e celeste, una «franchigia» (vv. 73) totale, una novità di genti (v. 74), un’unità degli «sparsi per tutti i liti» (cfr. vv. 87-88).

«A noi, Madre di Dio quel nome sona» (v. 41) è, benché d’imitazione, di decisa definizione dottrinale. C’è qui il Concilio di Efeso, così come, nei successivi versi, c’è tutta la mariologia di Bernardo («[…] che s’agguagli ad esso / Qual fu mai nome di mortal persona, / O che gli venga appresso?»).

Poi il Manzoni, con un andamento descrittivo più popolare che teoretico, nota l’universalità dell’invocazione a Maria, insegnata dai padri ai figli, risonante in tutte le «lande» e in tutti i «mari», riproposta in tutti i «bei nomi», ricordata dalle campane a mezzogiorno e a vespro e alla quale ricorre il fanciulletto nelle sue paure notturne, come il navigante quando «ingrossa ruggendo la fortuna» (vv. 33 ss.).

Riprende poi una delle osservazioni più peculiari della sua (anche futura) poesia: in Maria, come Madre di Dio, è la realizzazione esistenziale della realtà sociale di umiltà e «piccolezza». Certo, anche nel «fanciulletto» di cui sopra, che nei brutti sogni trova in lei una consolazione incoraggiante, o nel marinaio alle prese con la tempesta, c’è un’implicita indicazione esistenziale. Ma lì, soffocati dalla retorica, quegli esempi parevano un po’ come concetti ad effetto. Dal v. 59, invece, anche lo stile si fa «prosaico», perde la cadenza marcata: la «femminella» che è «spregiata» non appare solo una bella frase; appare una realtà. Qui c’è la donna senza gloria, qui senti la femmina senza onore, la signora senza servitù, la popolana in angustie, la nobildonna affranta; chiunque abbia una «spregiata lacrima» (v. 50) e la «depone» nel «tuo sen regale» (v. 49), a lei «gli affanni espone» (v. 51).

Poesia consolatoria, certamente: tutta quella del Manzoni lo è, e non solo quella del Manzoni. Il problema è se è una consolazione con certezza; inoltre, se è una consolazione con conseguenza e, nel caso, se solo individuale o se anche sociale e pubblica. «A Te che i preghi ascolti» (v. 53): è con certezza; «[…] e le querele»: la rivendicazione nasce da un pianto, da una realtà, non da un odio né da un’astrazione. Per questo, è consolazione che merita rispetto, e che deve ottenere effetto. In questo profilo, che è teologico e sociale, non c’è differenza tra «imi» e «grandi» (vv. 54-55): la conseguenza non è ideologica, né selettiva, ma reale e universale. Discernere (v. 56) tra un gruppo e l’altro, tra un partito e l’altro, è «crudele» (v. 55): l’unica distinzione è quella per cui c’è chi patisce e compatisce, chi né patisce né compatisce. Fuori di questa distinzione, non c’è che la politica «crudele» del «mondo» (v. 54), che opera differenze a seconda della potenza o meno di chi patisce, dell’ignominia di chi, non compatendo, ha la forza o meno di impunemente in-compatire. Il malvagio è ascoltato dal mondo, il mondo ascolta solo il malvagio. Il miracolo, cioè un fatto semplicissimo ma terribile, è questo:

«tu […] beata, un dì provasti il pianto».

Non è solo contrapposizione retorica di concetti («beata», «pianto»), ma è anche indicazione teologica di mistero, ed è riflessione politica.

Dal punto di vista teologico, qui il Manzoni echeggia con evidenza l’epistola di San Paolo agli Ebrei, in cui è rappresentato il Cristo – Figlio di Dio, nei «giorni della sua carnalità». Dal punto di vista politico, l’autore sembra sottendere il meccanismo dell’efficacia in campo sociale: il «beato» è colui che conosce il «dolore». Perché, infatti, non basta essere miseri per sovvenire al misero: un misero può essere reattivo e servirsi della miseria per le proprie tensioni di rivalsa. Capisce davvero il misero, e lo solleva psicologicamente e politicamente, chi lo è in qualche modo volutamente, pur essendo non-misero, e lo è, al contempo, vivendo una dimensione su un altro piano, cioè interiore, di supremità, di beatitudine eterna.

Questo pianto mariano del Manzoni costituisce la prova dell’autenticità della compassione cristiana; e quello di Maria non tramonta mai. Ciò è detto nei vv. 59-60, a dire il vero, molto trascinati e poveri dal punto di vista poetico; ma subito dopo l’autore ripropone un’altra riflessione teologica: «Teco la terra si rallegra ancora» (v. 63). Il dolore si è tramutato in gioia, come per un «fresco evento». Il problema, nel Manzoni, non sembra quello se il mondo gioisce di fatto per questo miracolo rivoluzionario: ma, nel caso, perché non gioisce. E la risposta sembra essere questa: che esso può e deve gioire:

«Tanto piacque al Signor di porre in cima

Questa fanciulla ebrea.

Qui c’è di nuovo la meraviglia del Magnificat, e c’è anche la ri-velazione manzoniana del povero che è innalzato da Dio (anche un’ispirazione da Isaia) dove è simboleggiata l’umanità che, attraverso «[…] Costei, che in onor tanto avemo» (v. 71), è elevata alla regale dignità di uomini.




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FONTE. Francesco Di Ciaccia, Il pensiero mariologico di Alessandro Manzoni nell’inno: «Il nome di Maria», «Messaggio della Santa Casa», 6 e 9 (1981) pp.169-171 e 269-270.



La devozione mariana di Giacomo Leopardi negli scritti giovanili, di Francesco Di Ciaccia



Francesco Di Ciaccia

La devozione mariana di Giacomo Leopardi 
negli scritti giovanili




Si sa che Giacomo Leopardi annotò, da giovane, diversi appunti di carattere religioso, scrisse alcuni pensieri sulla Madonna con l’intenzione di svilupparli in poesie, ed anche alcuni versi nell’Appressamento della morte (1816), un componimento stilato in soli undici giorni. Le interpretazioni di questi scritti possono rispondere a criteri di diversa natura; a noi sembra plausibile che il pensiero di Maria corrispondesse, nel Leopardi, ad un profondo bisogno di affetto, e che questo richiamasse a sua volta l’esigenza della fede nel senso più liberante della parola.

Il Leopardi attribuisce alla Vergine l’appellativo di «Diva»: e ciò non solo per il suo neoclassicismo giovanile. Infatti lo stesso termine è usato tutte le volte che egli vuole indicare una idealità, un archetipo, nella sua concezione, superiore. Egli la chiama in soccorso («Deh, tu m’aita») del suo «spirito lasso», stanco, e si richiama alla propria devozione per lei: «Se mai ti dissi Madre e se t’amai»; la invoca poi per il momento più terribile dell’esistenza terrena, la morte: «Quando de l’ore udrà l’ultimo sono». Sembra che il poeta quasi ricordi i suoi occhi rivolti all’immagine della Madonna, mentre, afflitto dai contrasti interiori, accennava con le labbra il nome di Maria, nello sconforto per la precaria salute che, con il vigore, gli rubava la speranza: umilmente, teneramente, disperatamente: lei era la «mater amabilis», la «stella maris», la «consolazione degli afflitti».

Nel Supplemento al progetto degl’Inni Cristiani dell’estate del 1818, il ventunenne Leopardi poi scrisse: «A Maria. È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici».

Qui il Leopardi evidenzia la innaturalità della «malvagità», poiché essa, afferma, non dà la felicità, e, dopo aver osservato che, pur essendo «brevi e nulli» i «mali» della vita terrena, essi «riescono lunghissimi e insopportabili» a noi uomini che del resto «siamo piccoli» e deboli, si rivolge supplice a Colei che è «grande e sicura», invocando «pietà di tante miserie».

È stato osservato da critici che l’atteggiamento verso questa «Maria» è tutto leopardiano e poco cristiano. Certamente, esso «esprimeva concetti leopardiani» (R. Wis); tuttavia, non travalicava dai concetti cristiani. Infatti, quali che siano le dinamiche psicologiche che lo determinano, resta fermo che questo rapporto affettivo verso Maria è storico ed ha riscontri nel filone della tradizione mariana. Basti pensare ad un Bernardo da Chiaravalle, ad un Grignon di Montfort, ad un Bartolo Longo, l’autore della preghiera O Regina delle vittorie. Dopo un martellante «pensa a Maria, invoca Maria», San Bernardo ad esempio così si esprimeva: «in mezzo ai pericoli, alle angosce, alle incertezze, pensa a Maria […]. Se ella ti tiene per mano, non puoi cadere, sotto la sua protezione non hai nulla da temere; sotto la sua guida nessuna incertezza». (Homilia I De laudibus Virginis Matris). Similmente si esprimeva Luigi Maria Grignon, il cui stile e i cui accenti si potrebbero pensare usciti dalla penna di un Giacomo Leopardi.

Se manca nel discorso leopardiano la portata morale della devozione, le sue espressioni religiose non contrastano affatto con il Cristianesimo; anzi, se, in questo periodo giovanile, il Leopardi recepì indubbiamente e visse la dimensione religiosa non in forma esclusivamente esteriore, ciò fu possibile per la partecipazione ai significati archetipi della religione. Del resto, ogni persona umana ha un suo modo di partecipare alla fede. E fu proprio questa sinfonia psicologica con il contenuto essenziale della religione a persistere nella vita, pur dichiaratamente atea, del Leopardi maturo, il quale, come noi intendiamo dimostrare in una serie di saggi, se rifiutò la fede fu nella misura in cui credette che quella che conobbe «sociologicamente» era una fede falsa, e fu perché egli cercava una fede autentica.




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FONTE. Francesco Di Ciaccia, La devozione mariana di Giacomo Leopardi negli scritti giovanili, «Messaggio della Santa Casa», 3 (1981) pp.87-88.


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