sabato 30 novembre 2024

Anno cristiano come anno liturgico, di mons. Giuseppe Liberto

ANNO CRISTIANO COME ANNO LITURGICO

di mons. Giuseppe Liberto




Per chi non lo sapesse o per chi non lo volesse capire, la Chiesa di Cristo con il Concilio Vaticano II riprende in mano la sua Divina Liturgia. Le celebrazioni liturgiche, afferma il Vaticano II, costituiscono il vertice di tutte le azioni della Chiesa e la sorgente di santificazione dei cristiani. Guardando però certi orientamenti dell’attuale situazione, vien da pensare che i Padri del Concilio furono vittime di allucinazioni comunitarie.

Oggi esiste il pericolo che molti cristiani continuano ad avere una concezione pagana del “tempo” e del “culto”. Il Concilio istruisce che il vero culto cristiano celebrato nelle coordinate storiche è sublime dialogo d’amore tra Dio e l’uomo. Dio, essendosi rivelato nel Figlio incarnato, attende dall’uomo non solo la risposta orante e adorante di lode e di rendimento di grazie, ma anche la preghiera filiale di richiesta. Partecipare dunque alle azioni liturgiche non significa assistere a un rito vuoto, ma accogliere i doni della salvezza affinché siano offertori di vita attraverso l’entusiasmo di una “piena, consapevole e attiva partecipazione”.

Il culto cristiano, essendo offerta di tutta la vita messa a servizio dell’evangelizzazione, deve sapere armonizzare catechesi, liturgia, mistagogia e carità. Gli Atti degli Apostoli ci tramandano che i primi cristiani «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere… lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (2,42.47). La Chiesa degli inizi celebrava soltanto la “Domenica”. A metà del secondo secolo, scelse la Pasqua come prima Festa. Poi, dalla Pasqua, si svilupparono i cinquanta giorni del tempo pasquale e gradualmente iniziarono a essere celebrati la Quaresima, il Natale, l’Epifania e poi, a Roma, l’Avvento che preparava il Natale cristiano come una sorta di cristianizzazione della festa pagana del Sole vittorioso nel solstizio d’inverno, simbolo di Cristo vincitore delle tenebre del male e della morte. I Padri della Chiesa, specialmente san Leone Magno, collegavano la venuta del Signore a Betlemme con il suo secondo avvento glorioso alla fine dei tempi. Celebrare il Natale di Gesù, pur attraverso l’umiltà del presepio, è già festa di trionfo connessa con il trionfo redentivo della croce e con il trionfo finale del suo ritorno.

L’Attesa dell’Avvento è attesa reale perché aspettiamo l’attualizzazione dell’Incarnazione e, nella gioia della speranza, attendiamo la sua seconda venuta. Non vi è speranza senza fede e senza amore, si crede e si ama perché si spera. La speranza nutre la fede e rafforza l’amore, la fede e l’amore suscitano la speranza che è certezza di ciò che già possediamo e tocchiamo, e così il non vedere illumina la fede e ravviva l’amore. Purtroppo, si corre sempre il grave pericolo del formalismo religioso dato dall’oscurità della fede, dalla falsa speranza e dalla cecità dell’amore.

L’Avvento ci istruisce che bisogna stare sempre in attesa vigilante e operosa perché non sappiamo né il giorno né l’ora della venuta del Signore. L’attesa è l’atmosfera che caratterizza tutto il corso storico del popolo d’Israele orientato verso la venuta del Messia non soltanto d’Israele ma dell’universo intero. Profezie e Salmi descrivono il giorno definitivo della venuta di Dio che, per un popolo smarrito, sarà incontro di perdono, purificazione e rinnovamento. Il Servo di Jahvè verrà per portare su di sé il peccato del mondo e stabilire l’Alleanza definitiva (cf Is 53,4-5.11). L’attesa d’Israele era tensione ardente verso l’incontro trasfigurante con il suo Dio. La speranza era ricordo del passato in attesa dell’avvenire nella pazienza del presente. La visione di Isaia, rievocando, i primi giorni del paradiso terrestre, profetizzava che la pace si sarebbe stabilita finalmente in terra (cf Is 11,6-9).

Celebrando la Liturgia dell’Avvento, il cristiano condivide la speranza di Isaia che invocava l’evento tanto sospirato dell’incontro con Dio: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (63,19). La spiritualità dell’Avvento non può basarsi su un Dio che ancora non ha inviato nel mondo il Figlio suo. Per il cristiano, il Messia si è incarnato nel grembo verginale di Maria e si è fatto uomo. Con la sua morte e risurrezione, abbiamo ottenuto la salvezza totale e il dono della vita eterna che raggiungeremo quando, alla fine dei tempi, Cristo ritornerà nella gloria. Se l’attesa d’Israele si trova tra il peccato originale e la venuta del Messia, la fede del cristiano si situa tra la sua venuta storica e l’attesa del suo secondo avvento. La fede d’Israele e quella del cristiano s’incontrano, ciascuna a suo modo, nel vivere le due speranze con diversa intensità.

Nell’attesa dell’ultimo giorno e a sostegno del nostro cammino verso la Terra promessa, Gesù ci ha lasciato il suo Corpo da mangiare e il suo Sangue da bere. Il nutrimento del suo Corpo e del suo Sangue fa vivere il cristiano in uno stato di ardente tensione che lo prepara all’incontro con il Signore che è venuto, verrà e continua la sua misteriosa presenza nel venire-restare dolcissimo all’interno della sua Chiesa.

Non possiamo celebrare l’Avvento senza l’Eucaristia che è pregustazione del Paradiso. Non possiamo vivere il presente avendo soltanto la visione della caducità del mondo pensando solo alla “fine” come “la fine di tutto”. Questa mancata speranza immerge l’uomo in uno stato di disperazione e, abbassando i livelli dell’esistenza, cade nel complesso d’inutilità di ogni cosa votata al fallimento. L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio sta al centro della creazione perché tutto ciò che lo circonda è stato creato per lui. Soltanto il peccato frantuma ogni cosa. L’Incarnazione, la Croce e Risurrezione sono descritte da san Paolo con la parola “ricapitolazione” di tutto il creato. L’Avvento di Dio nella storia dell’Antico e del Nuovo Testamento è intervento di “restaurazione” di tutto ciò che esiste.

La Liturgia della Chiesa ha la funzione di attualizzare per l’umanità il gesto redentore di Cristo. È questa la funzione essenziale della celebrazione eucaristica, “culmine e fonte” della vita cristiana. L’assemblea liturgica che celebra la Divina Eucaristia è chiamata, per Cristo, con Cristo e in Cristo, a elevare l’uomo per la ri-creazione di tutto l’universo. Anche se il peccato, il dolore e la morte resteranno il retaggio umano, la speranza cristiana farà passare la creatura dalla morte alla vita. San Paolo ci assicura che, alla fine dei tempi, saremo assunti nella gloria, dopo avere passato il crogiolo della prova. Nella lettera ai Romani, afferma: «Ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza, infatti, siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,18-19;22-25).

Per l’incontro con Cristo alla fine dei tempi, le esigenze sono: la forza della Fede, lo splendore della Speranza, l’efficacia della Carità. Non siamo stati creati per vanificarci nel nulla. Anche se il Vangelo ci parla di “servi addormentati”, incapaci di vegliare per collaborare alla realizzazione del Regno di Dio, Gesù ci esorta: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento» (Mc 13,33). Senza avere alcuna paura, il nostro Signore e Maestro chiede ai credenti la massima vigilanza nella paziente attesa della fine dei tempi.



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Fonte: 

venerdì 29 novembre 2024

La liturgia quotidiana: mistagogia universale della madre chiesa, di Jesus Castellano


LA LITURGIA QUOTIDIANA.

MISTAGOGIA UNIVERSALE DELLA MADRE CHIESA

Jesus Cervera Castellano ocd


 



Introduzione

Proseguendo nella nostra Settimana di Spiritualità la trattazione di alcuni temi emergenti della lettera di Govanni Paolo II “Novo millennio ineunte" abbiamo visto sotto diversi aspetti il bisogno, le prospettive, i modelli, i ministeri e le varie aree nelle quali occorre ridonare slancio al grande tema tradizionale della Chiesa che è l’accompagnamento spirituale, chiamato anche oggi con termine antico e nuovo mistagogia, cioè introduzione al mistero e guida al mistero di Dio perché la sua rivelazione donazione si attui in noi, personalizzata ed attualizzata nel progetto sempre suggestivo e nuovo della chiamata alla santità.

Il mercoledì della prima settimana di quaresima, nella preghiera dopo la comunione, abbiamo invocato il Signore con queste parole: "O Dio, che sempre nutri come pastore il popolo cristiano con la tua parola e i tuoi sacramenti, per questi doni della tua bontà guidaci alla vita eterna”.

Ecco la mistagogia del pastore supremo che guida il popolo cristiano, con la parola ed i sacramenti. Lo scopo di questa relazione è evidenziare la preziosa opera di mediazione della Chiesa, la Santa Madre Chiesa, mistagoga di Dio, attraverso quel ministero costante, quotidiano, universale, semplice ed essenziale, che è la santa liturgia, luogo mistagogico per eccellenza, cioè tempo e spazio, momento e celebrazione della comunicazione del mistero di Dio a ciascuno di noi. Una mistagogia fatta di parola di Dio e parola ecclesiale — l’attualizzazione della parola e la preghiera ecclesiale — di azioni salvifiche santificanti che hanno il loro culmine nella autocomunicazione di Cristo a noi nell’Eucaristia, di gesti di guarigione spirituale, di orientamento, di educazione progressiva.

Una mistagogia che accompagna dalle acque battesimali, e prima ancora dal primo avvio dell’iniziazione cristiana, fino al culmine della vita, con gesti di estrema verità, bontà e bellezza, come sono i sacramenti e i sacramentali. Tutta la nostra vita è accompagnata dalla Madre Chiesa. Nessuno dovrebbe sentirsi solo in questo cammino poiché lo facciamo insieme, nessuno deve lamentarsi se non ha un direttore spirituale dotto e santo. Tutti abbiamo una Mater et Magistra, Madre e Maestra della verità e della vita, la Santa Chiesa se ci lasciamo plasmare da lei e in lei troviamo la mediazione dell’azione dell’unico Maestro interiore e l’azione dello Spirito Santo, grande e interiore pedagogo della vita spirituale in ogni suo momento. Senza escludere perciò il rimando alle mediazioni ecclesiali dell’accompagnamento spirituale, squisito ministero di santità e di santificazione nella Chiesa, oggi più che mai necessario, che precede, accompagna e segue l’azione sacramentale della Chiesa.

Una Chiesa che non si sostituisce al Dio vivente nel suo mistero, ma lo accoglie, lo "mediatizza” umanamente nella struttura sacramentale, passando dalla mediazione al dono immediato. Dal ministero del dono alla personalizzazione libera da parte di ciascuno.

Una Chiesa che offre questo dono a tutti, sempre, tutti i giorni, in tutti i luoghi, in ogni età della vita, anzi con una sacramentalità aperta ad ogni circostanza dell’esistenza. Una mistagogia della ripetizione, della assimilazione, della ricchezza oggettiva. Ma che ha bisogno di essere vissuta con certi atteggiamenti fondamentali, che sono quelli stessi che la liturgia di per sé postula in forza del mistero celebrato e vissuto: cioè l’attenzione al Dio vivente, la fede viva, la carità, la apertura costante alla speranza.


I. La liturgia come mistagogia: un termine antico ritrovato

Nell’attuale desiderio di vivere in pienezza ciò che è celebrato nella santa liturgia acquista una grande importanza la considerazione della liturgia stessa come mistagogia. Tecnicamente, mistagogia è un termine legato alla costellazione semantica di “mistero”, "mistica”, "myeo”, nel senso di iniziare, con la precisa accezione di introduzione, iniziazione, rivelazione, pedagogia personalizzata o comunitaria per arrivare alla comprensione ed esperienza dei misteri. Questo termine, "mistagogia”, così caro alla tradizione liturgica e spirituale dell’antichità cristiana, poi sparito dal linguaggio corrente, sta diventando familiare nell’ambito della teologia liturgica e spirituale. È entrato perfino nei documenti della Riforma liturgica e della Santa Sede. Con varie accezioni che è doveroso ricordare.

Segnaliamo prima di tutto il riferimento esplicito ad un tempo della vita cristiana chiamato "mistagogia” che si ritrova nel Rituale dell’iniziazione cristiana degli adulti. Infatti nelle Premesse generali o Introduzione, si considera come mistagogia l’ultima tappa dell’iniziazione cristiana, quella che segue la celebrazione dei sacramenti del battesimo, della cresima e dell’eucaristia, al termine del cammino iniziato con il precatecumenato ed il catecumenato. Di tale momento si afferma: “Dopo quest’ultimo grado, la comunità insieme con i neofiti prosegue il suo cammino nella meditazione del Vangelo, nella partecipazione all’Eucaristia e nell’esercizio della carità, cogliendo sempre meglio la profondità del mistero pasquale e traducendolo sempre più nella pratica della vita. Questo è l’ultimo tempo dell’iniziazione, cioè il tempo della "mistagogia” dei neofiti”1.

A questa indicazione semplice dell’Introduzione si aggiungono, nel momento della descrizione dei riti, una serie di proposte: l’accompagnamento della comunità, la partecipazione dei neofiti nelle messe dell’ottava di pasqua e del tempo pasquale, una particolare celebrazione di chiusura di questo tempo propizio della vita nuova dei neofiti, la memoria annuale del loro battesimo, l’incontro frequente con il Vescovo.2

Tale descrizione della mistagogia è forse la forma più ampia di far riferimento all’esperienza e al cammino della vita spirituale dei cristiani a partire dai sacramenti dell’iniziazione. In questo senso si può affermare che tutta la vita è un vero e proprio cammino di mistagogia. E una continua esperienza ed assimilazione personale del mistero.

Essa infatti nel suo contenuto anticipa fin dall’inizio tutto il cammino spirituale da percorrere nella vocazione cristiana, e nella metodologia ci presenta le forme concrete di un itinerario mistagogico fatto di ripetizioni, assimilazioni, confronti con Cristo nella Chiesa, sorprese nel passare da un momento all’altro dei riti dell’iniziazione fino al culmine che è appunto, come il culmine mistico della vita che è la comunione eucaristica con Cristo nel suo totale senso di esperienza trinitaria, ecclesiale, sociale.

In un recente contributo ho cercato di illustrare la sintonia che esiste, anche con l’orientamento del Magistero e della Chiesa, e l’itinerario proposto dai grandi maestri della spiritualità, fra il cammino dell’iniziazione cristiana e il cammino spirituale che i cristiani devono percorrere. Tutto quanto propone Ignazio nei suoi esercizi spirituali, Giovanni della Croce nel suo itinerario spirituale, Teresa di Gesù nel progetto spirituale del Castello interiore è in qualche modo lo sviluppo coerente, la riappriopiazione personale e storica del dinamismo del catecumenato e dei riti dell’iniziazione cristiana. È l’itinerario che anche recentemente ha riproposto la Chiesa parlando del cammino spirituale del Cristiano attraverso la preghiera e l’esperienza spirituale che da essa ne deriva, nel documento della Congregazione per la Dottrina della fede Orationis formas (15.10.1989). Un itinerario spirituale che trova conferma anche nella ricca tradizione dell’oriente cristiano, in modo speciale nel libro di N. Cabasilas, La Vita in Cristo3, vero ed autentico cammino sacramentale, evangelico e personalizzato di crescita in quello stesso dono che abbiamo ricevuto.4

Non si può dissociare il progetto personalizzato dell’accompagnamento spirituale dal primo e fondamentale itinerario di santità donata ed esigita, che il Signore ci propone con la sua grazia sacramentale ed accompagna con tante altre grazie fuori dei sacramenti, incontri, ispirazioni, preghiera, aiuto personale, vita comunitaria.


II. Dalla liturgia alla Teologia spirituale

In un’Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica riguardante La formazione liturgica nei Seminari si accenna alla "formazione mistagogica”, giacché si tratta di una iniziazione alla santa liturgia mediante le stesse celebrazioni. In tal senso la mistagogia è la stessa celebrazione liturgica, pienamente compresa e vissuta.5

Il termine ha avuto una particolare risonanza nel documento del Sinodo straordinario del 1985, come chiave del doveroso e qualitativo approfondimento della partecipazione liturgica del popolo di Dio nel presente e nell’avvenire. Si afferma infatti: "È evidente che la liturgia deve favorire e far risplendere il senso del sacro... Deve essere permeata dello spirito della riverenza, dell’adorazione e della gloria di Dio... Le catechesi, come già accadeva all’inizio della Chiesa, devono tornare ad essere un cammino che introduca alla vita liturgica (catechesi mistagogica)”.6

Anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica il termine ricorre come espressione della catechesi liturgica che introduce alla comprensione dei misteri celebrati: "La catechesi liturgica mira ad introdurre nel mistero di Cristo ( essa è infatti "mistagogica”) in quanto procede dal visibile all’invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai "sacramenti” ai “misteri”...”7

Queste diverse accezioni della parola mistagogia coincidono in realtà con l’uso che di questo termine si è fatto nella Chiesa dei primi secoli. Le catechesi come introduzione al mistero, la liturgia stessa come celebrazione mistagogica, la vita cristiana, vissuta come frequentazione del mistero, la sua assimilazione come perenne mistagogia. Oggi ritorna con forza l’interesse per la terminologia e per i contenuti.8

Ma oggi anche la teologia spirituale si appropria del termine, sia per indicare che la vita spirituale è radicata nell’iniziazione cristiana, sia per mettere in luce il carattere "esperienziale” della vita cristiana, che ha costante bisogno di una guida e di una continua assimilazione dei contenuti di grazia per essere portati allo splendore della vita cristiana vissuta.9

La felice convergenza in questo termine da parte di liturgisti e teologi della spiritualità è indice di ritrovata armonia nella visione della vita spirituale cristiana che non può non essere radicata nel mistero e nei misteri di Cristo da vivere e da assimilare. F. Ruiz nel suo Manuale di Teologia spirituale mette in luce il termine e la sua portata indicando l’uso che oggi si fa nell’ambito della pastorale della spiritualità. Si riferisce a Dio come primo mistagogo, al soggetto interpellato per accogliere la comunicazione divina, al mediatore che può essere il ministro o anche il direttore spirituale o confessore, ai mezzi che sono la parola e le varie azioni.10


III. La dimensione mistagogica della liturgia

Nel discorso specifico sulla liturgia come mistagogia, nell’ambito di una Settimana di spiritualità su accompagnamento spirituale e mistagogia, occorre notare che la Chiesa, con le celebrazioni liturgiche non soltanto mette come fondamento della vita dei cristiani, il seme della parola e della grazia dei sacramenti dell’iniziazione, ma accompagna tutta la vita dei credenti, giorno dopo giorno, con la certezza delle verità della fede proclamate nella parola e nelle preghiere; nutre altresì con la grazia dei sacramenti tutta la vita dei credenti, la modella interiormente con la ricchezza del mistero e dei misteri di Cristo, fino all’ultimo viatico. Tutto ha come una concentrazione ideale nell’ambito dell’anno liturgico, massima e completa "mistagogia” della Chiesa e sua programmazione pastorale e spirituale permanente, per aprire i sentieri della vita cristiana, come vita in Cristo e vita nello Spirito.

E la Chiesa stessa che viene implicata, come madre e maestra della fede e della vita dei credenti, nell’accompagnamento dei fedeli verso la piena realizzazione della vita cristiana; essa trova nella liturgia, e in modo speciale nella celebrazione eucaristica, la sorgente ed il culmine; parimenti nella liturgia trovano “la prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano!" Paolo VI ha saputo affermare con parole ispirate questo ruolo mistagogico quando nel lontano 1963, approvando la Costituzione liturgica, primo documento conciliare, così si esprimeva: “Esulta l’animo nostro per questo risultato. Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto, la preghiera nostra prima obbligazione, la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano...”12

La complessità della liturgia si propone oggi con la triplice formula: lex credendi, lex orandi, lex vivendi. Infatti nella liturgia si esprime la fede della Chiesa e si esercita la sua evangelizzazione e la sua catechesi. Essa esprime nella forma più bella e ricca il modo e le modulazioni della preghiera cristiana, comunitaria e personale. Essa inoltre esprime il modo di essere e di agire dei credenti, non solo l’ortodossia ma anche la doverosa ortoprassi morale, apostolica, missionaria, secondo le diverse vocazioni. Questa visione della mistagogia liturgica quotidiana ci induce a completare ancora la sua descrizione con tre note caratteristiche che ci aiutano a cogliere ancora, se ce ne fosse bisogno, la sua bontà, la sua verità, il suo equilibrio. Applico qui una serie di considerazioni che R. Taft fa a proposito della liturgia delle ore, che è nel suo genere un aspetto della mistagogia della Chiesa che accompagna la nostra vita come preghiera ed impegno, la nutre, la sollecita, la plasma e la educa. Essa ripropone continuamente, totalmente, quotidianamente nel suo carattere biblico che la impregna di parola di Dio, la verità oggettiva della storia della salvezza, la sollecitazione quotidiana ad ascoltare la voce del Signore, quella della liturgia e quella che risuona nel cuore. Nel suo stile essa tradizionale, non conservatrice o tradizionalista. Ha superato la prova del tempo.

È soprattutto oggettiva. “ Il fine di tutta la vita cristiana è di entrare sempre più pienamente nel mistero di Gesù Cristo, il nuovo Adamo, paradigma dell’umanità ricreata. Quale memoriale di questo mistero la liturgia è un vero ed efficace incontro con il Padre mediante Gesù nello Spirito, purché i nostri cuori rimangano aperti per rispondere nella fede a questo segno ecclesiale dell’eterna chiamata divina risuonante attraverso i secoli nei riti della Chiesa... Nessuna altra forma di preghiera è così radicata nei misteri della storia della salvezza come essi si dispiegano giorno dopo giorno nel ciclo annuale della Chiesa. Attraverso questo costante nutrimento della Sacra Scrittura, non solo Dio ci rivolge la sua parola, non solo contempliamo sempre meglio i misteri centrali della salvezza, ma le nostre vite personali sono gradualmente sintonizzate con questo ritmo e noi meditiamo sempre più sulla storia d’Israele, ricapitolata in Gesù, che è anche la saga della nostra odissea spirituale... Inoltre, la nostra risposta personale a questa parola profetica nelle nostre vite è ugualmente manifestata”. Si tratta qui della mistagogia dell’essenzialità e dell’equilibrio: "Ciò attribuisce (alla liturgia) una concentrazione sull’essenziale piuttosto che sul periferico, gli dona un equilibrio in quanto i suoi ritmi sono posti dalla Chiesa e non dalla nostra soggettività.

Quanta penitenza, quanta festosità, quanta contrizione, quanta lode, quanta supplica e quanto rendimento di grazie dovrebbe contenere la nostra preghiera? Tutto ciò si realizza grazie all’antica pedagogia degli uffici della Chiesa. Quanta devozione alla Madre di Dio, quanta attenzione ai santi, ai misteri della vita terrena di Gesù?”. La liturgia risponde a tutto ciò. "Questo dona alla preghiera della Chiesa una capacità di accoglienza equilibrata e oggettiva, rimedio sicuro contro gli eccessi unilaterali e le esagerazioni del devozionalismo soggettivo, il quale pone tutta la propria enfasi unicamente su quegli aspetti della vita di preghiera che possono costituire un appello personale per l’individuo in qualche dato momento, spesso nient’altro per ragioni ideali”.

Santa Gertrude pregava, e dovremo pregare anche noi, che la nostra vita e la nostra preghiera, il nostro cammino spirituale, potesse essere in armonia con la liturgia della Chiesa. “Questa è la guida per essere sul giusto sentiero. Giacché una pietra ecclesiale oggettiva non è esclusivamente penitenziale, né esclusivamente eucaristica, o mariana o solo devozionale... Non è soltanto cristologia.... Essa è una sintesi equilibrata di tutto ciò”.13

È questa la ricchezza dell’universalità di contenuti mistagogico per il nostro cammino ed il nostro progetto di vita spirituale.


IV. Tre momenti della mistagogia liturgica

Tutta la liturgia quindi è mistagogica, ma occorre segnalare le implicazioni e viverne le virtualità. Infatti, affinché possa svolgere il suo ruolo essa esige tre indissolubili momenti progressivi e collegati: l’iniziazione catechetica, la celebrazione vissuta, l’assimilazione progressiva e vitale. La mistagogia liturgica nel senso globale di iniziazione al mistero, comprende indissolubilmente questi tre momenti caratteristici che vanno proposti e messi in atto se vogliamo qualificare la partecipazione ai misteri liturgici.

Prima di tutto la catechesi mistagogica o iniziazione catechetica; essa offre ai fedeli, già fondamentalmente iniziati ai misteri (mediante il catecumenato ed il battesimo), la grazia della "illuminazione” o la capacità di capire quanto Dio ci offre per mezzo della sua Chiesa. È la possibilità concreta di entrare nella “conoscenza”, non meramente intellettuale ma viva e sapiente, dei riti, delle preghiere, delle parole, dei simboli; solo in questo modo ci si addentra nella complessità del mistero liturgico, come può essere ad esempio quello dell’anno liturgico e dei suoi tempi e celebrazioni, quello dei singoli sacramenti. L’iniziazione presuppone la fede e la docile accoglienza del dono di Dio.

I Padri della Chiesa sono stati grandi mistagoghi. Ricordiamo Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio, Agostino, Teodoro di Mopsuestia, Giovanni Crisostomo, essi hanno speso molte energie per spiegare ai fedeli prima, durante e dopo le celebrazioni, il senso delle parole e dei riti, specialmente quelli dell’iniziazione cristiana.14

Cirillo di Gerusalemme ha usato nelle catechesi mistagogiche la metodologia della catechesi a posteriori, come evocazione dell’esperienza dei sacramenti celebrati nella veglia pasquale, per invitare i neofiti a far memoria di quanto hanno visto e sperimentato, ed appropriarsi dell’esperienza della grazia, pienamente compresa, dopo essere stata vissuta. In questo metodo, che lascia al momento celebrativo tutta la capacità di stupire il neofita man mano che viene introdotto nella memoria della celebrazione, si sottolinea che non si tratta soltanto di una catechesi dottrinale per capire quanto sta per realizzarsi; è piuttosto un invito alla "conoscenza globale” del mistero ricevuto, all’esperienza viva già fatta. In essa il linguaggio è vivo, biblico, ma anche esistenziale, come quando si fa riferimento a simboli pregnanti di significato, come l’allusione alla vasca battesimale quale "sepolcro e seno materno”. Questo linguaggio tende a coinvolgere tutta la profondità della "psiche” umana.

Normalmente però, la catechesi mistagogica precede la celebrazione dei misteri o è continuamente richiamata, per far memoria di quanto si presuppone che sia conosciuto, ma va continuamente ricordato. In questo senso tutti abbiamo bisogno di essere continuamente istruiti nei santi misteri della liturgia. Ma siamo pure convinti che senza una continua, sistematica e profonda catechesi biblica, simbolica, esistenziale, la liturgia non è ancora coinvolgente. A livello pratico questa necessaria iniziazione catechetica, costantemente ripetuta, ci dice che la liturgia come mistagogia della Chiesa non arriva a donare tutti i suoi frutti se non ci si mette in sintonia anche conoscitiva per sapere perché, come e che cosa celebriamo. Una costante catechesi risveglia il senso di quello che celebriamo e che va accolto con la mente ed il cuore, con l’intelligenza e la sapienza. La liturgia non è la celebrazione di misteri nascosti, ma rivelati, svelati, e donati anche nella semplicità di gesti e di parole di elementi umanissimi, che non possiamo ridurre a livello umano, ma lasciarli che trasmettano tutta la loro realtà anche espressiva, comunicativa, evocativa che arriva perfino al subcosciente.

In secondo luogo vi è la celebrazione stessa, che è propriamente mistagogia o "esperienza dei misteri”, alla quale si accede mediante una viva partecipazione teologale, personale e comunitaria, cioè un’apertura al mistero del Dio trino, Padre, Figlio, Spirito Santo, protagonisti assoluti del mistero. Una partecipazione che esige fede, speranza, amore.

Per salvaguardare il senso teologico e misterico di tale celebrazione nella quale il primato appartiene a Dio che ci introduce nei suoi misteri, sarà utile riportare la descrizione che offre T. Federici della mistagogia liturgica: "La mistagogia è l’operazione della divina grazia gratuita trasformante attraverso la quale il Padre mediante Cristo Signore nello Spirito Santo ‘cura’ i suoi figli diletti nella sua Chiesa, la Una Santa, la Sposa del Signore, la Madre dei viventi, e servendosi di essa, per condurre lungo un esodo doloroso ma decisivo ed in crescendo alla Pienezza nuziale della Vita divina”.15

Emergono qui i tratti fondamentali dell’esperienza liturgica nel senso trinitario, ecclesiale, antropologico; si staglia la dimensione sacramentale, storica ed escatologica. Si sottolinea l’iniziativa e la gratuità del dono da parte di Dio. I celebranti, forse meglio i concelebranti di questa mistagogia trinitaria ed ecclesiale, sono oltre che le persone divine anche i fedeli, nella loro dignità battesimale, nella espressività della loro antropologia concreta e nelle dimensioni storiche e culturali della vita cristiana, insieme ai ministri, ma nella comunione con i santi della Gerusalemme celeste.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica aiuta a cogliere la complessità di questa mistagogia della celebrazione quando indica con alcune fondamentali domande il senso stesso del celebrare.

Chi celebra? Sono i concelebranti della terra e del cielo.16

Come celebrare? Sinteticamente risponde alludendo ai segni e ai simboli, alle parole e alle azioni, al canto e alla musica, alle sacre immagini.17 Tuttavia nella spiegazione dei segni e dei simboli propone, come gli stessi Padri della Chiesa suggerivano, una griglia essenziale per cogliere la profondità dei segni liturgici. Essi sono insieme evocativi o significativi, comunicativi ed efficaci, ma anche impegnativi nell’esigere una accoglienza ed una risposta. Si segnala inoltre che ogni segno, infatti, ha una dimensione umana e cosmica, un significato religioso, come viene esplicitato attraverso le pagine dell’Antico testamento, un riferimento esplicito a Cristo, una sua finale e definitiva espressione nella liturgia della Chiesa. Basti pensare, ad esempio, all’acqua del battesimo, elemento cosmico universale, pieno di significato nei mille episodi dell’Antico Testamento — dalle acque primordiali a quelle del Mar Rosso —, con un esplicito riferimento a Cristo — dal battesimo nel Giordano all’acqua che sgorga dal suo costato e al mandato di "battezzare”; finalmente è la Chiesa che fissa il significato del rito nella sua liturgia secolare. Una catechesi mistagogica sui sacramenti e sulla liturgia non può prescindere dalla spiegazione di queste dimensioni che si possono applicare anche ad altri segni, parole, riti.

Il Catechismo si domanda ancora: Quando celebrare?

Risponde ricordando i tempi liturgici della celebrazione: il tempo e l’anno liturgico, la domenica, il ritmo quotidiano della liturgia delle ore.18

Finalmente alla domanda "Dove celebrare?” risponde illustrando il senso stesso dei luoghi della celebrazione: il tempio, l’altare, il tabernacolo, l’ambone, il battistero...19

Il momento mistagogico fondamentale è quindi la celebrazione stessa, il contatto vivo con il mistero, l’esperienza personale e comunitaria di questo dono divino. Ma a scanso di equivoci, miraggi o delusioni nel campo dell’esperienza liturgica, bisognerà notare alcune cose. Prima di tutto che non siamo noi a dettare le leggi o a determinare le forme e i gradi della percezione esperienziale. Si tratta, lo abbiamo sottolineato, di un dono gratuito. È Dio il primo mistagogo, per Cristo, nel suo Spirito. E Dio offre tutto anche se noi possiamo limitarne il dono con i limiti della nostra accoglienza.

In seconda istanza, anche se è importante la risposta del singolo e della comunità all’azione santificante, la liturgia evidenzia che è Dio colui che agisce o provoca l’esperienza in noi, essendo lui il mistagogo, e non siamo noi a fare di lui, anche se egli entra in comunione con noi attraverso i segni sacramentali... Egli è il soggetto che offre a noi la sua divina parola, la sua grazia che è comunione di vita, ed accoglie le nostre risposte. Ma è lui che sovranamente fissa le norme e le regole del suo autodonarsi a noi nel mistero liturgico. Da noi attende accoglienza piena e risposta perseverante.

Come terza accezione la mistagogia liturgica è la lenta assimilazione dei contenuti del mistero, il passaggio graduale dalla liturgia alla vita, la progressiva presa di possesso da parte di Cristo del nostro essere e del nostro agire, in un impegno reiterato di vivere in conformità con quanto abbiamo celebrato, affinché avvenga quella auspicata osmosi tra celebrazione ed esperienza cristiana, in modo da vivere quanto abbiamo celebrato e reinserire nella celebrazione la propria esistenza cristiana. Salvaguardata l’oggettività del dono, è chiaro che Dio rimane libero di donare una più grande intensità alla sua comunicazione sacramentale, come può accadere sia per il dono gratuito che egli vuole fare, sia anche per l’intensità della vita teologale di coloro che partecipano alla liturgia.

Anche qui una luce di realismo spirituale ci viene offerta dalla liturgia stessa contro ogni illusione e contro ogni scoraggiamento. Come abbiamo detto ripetutamente, la liturgia è una tipica e qualificata esperienza cristiana. Essa viene vissuta in un quotidiano reiterativo, nella dimensione del mistero che può essere solo colto nella fede. Eppure, è esperienza qualificata e qualificante perché indica che anche la vita spirituale concreta si vive nel quotidiano, si svolge nel mistero, si compie attraverso altre “mediazioni” sacramentali della presenza di Cristo nel mondo, nella storia e nei fratelli. L’esperienza liturgica educa all’esperienza quotidiana.

E qui che deve realizzarsi, con l’accompagnamento quotidiano delle celebrazioni liturgiche, il cammino della santità, aiutato dalla preghiera personale, dalla comunione dei fratelli e delle sorelle, dal discernimento spirituale e dalla guida degli accompagnatori o accompagnatrici spirituali.

E qui che occorre personalizzare l’esperienza e sottoporla sempre al discernimento personale passando dall’oggettività dell’incontro misterico con il Dio vivente trinitario, alla soggettività della verità, la soggettività veritativa della nostra esistenza. Questo suppone anche un discernimento degli ostacoli che non permettono vivere a pieno quanto si riceve e ad un progressivo superamento delle neghittosità che si oppongono alla pienezza del dono.

La pienezza oggettiva della liturgia ci assicura la bontà dell’incontro pieno con il Signore, la nostra risposta storica, concreta, dinamica, in cammino, verificata anche nell’esperienza quotidiana, nelle lotte e nelle sconfitte, nei nuovi problemi insorgenti, nelle nuove generosità richieste, è condizione necessaria per non vivere in vano l’immenso dono della liturgia che può non essere pienamente accolto, assimilato, vissuto, corrisposto.


V. Alcune condizioni indispensabili

Nella feconda rilettura dei testi della Sacrosanctum Concilium bisogna ritornare per quanto riguarda il nostro tema al n. 11, dove si auspicava, e rimane sempre compito mai del tutto raggiunto: “I sacri pastori devono vigilare affinché nella azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente” (cfr. 14. 48). A quali condizioni?

a. Prima di tutto "celebrare"

Oggi si afferma che bisogna superare la mentalità di una semplice partecipazione per entrare in una autentica celebrazione o, meglio, “concelebrazione”. La liturgia che è il mistero di Cristo presente nella sua Chiesa chiede un totale coinvolgimento. Non si partecipa a qualcosa, ma si celebra Qualcuno. Non si delega ad altri l’impegno di rispondere in pieno al dono della Parola, dei Sacramenti e dell’Eucaristia, ma si è interpellati personalmente, per agire in ‘sinergia’ con Cristo e con il suo Spirito e sentire la propria voce nella coralità della Chiesa assemblea.
Rinnovati i libri liturgici, bisogna intraprendere una pedagogia del celebrare in Spirito e verità, cioè nella dimensione dello Spirito e nella totale verità dei segni, a partire dal primo segno che è l’assemblea celebrante, che deve essere ‘vera’.

b. La radice del celebrare nella "vita teologale"

All’interno della celebrazione siamo interpellati ad aprirci al mistero che si rende presente e nel quale noi siamo co-partecipi. Non si può pensare ad una liturgia che è dialogo della salvezza in atto senza sentire il forte, deciso richiamo a vivere l’incontro nella fede, nella speranza e nell’amore, le virtù teologali che aprono tutto il nostro essere al mistero di Dio. La liturgia è accoglienza, comunione, risposta. La vita teologale dell’assemblea, suscitata e mantenuta dallo Spirito Santo, è il clima che permette la piena santificazione ed il culto gradito. Sarà questa vita teologale ad "animare”, come l’anima per il corpo, tutta la corporeità nella quale si "esprime”, celebrando il fedele e l’intera comunità dei credenti con parole, preghiere e riti.

c. L'impegno personale e comunitario

Per la piena partecipazione non ci sono deleghe di sorta. Ognuno è interpellato come persona nella comunità. La liturgia celebra ed esige questo fragile ed impegnativo equilibrio fra il personale ed il comunitario. Ognuno va alla celebrazione disposto ad offrire il meglio della sua risposta teologale personale, nell’ascolto, nel canto, nella preghiera. È il dono che può fare a Dio... e agli altri. La grazia della celebrazione passa pure dal clima di fede che si crea, dalla comunione di carità che regna fra i partecipanti, dal fervore della preghiera che si contagia, dall’atmosfera di pace che è frutto di silenzio e di attenzione. Ognuno quindi è chiamato a creare le migliori condizioni del celebrare, secondo l’opportuna varietà di ministeri. E tutta la comunità, come un corpo, è chiamata a mantenere la solidarietà nell’unico Spirito, senza scismi né personalismi, con attenzione reciproca, evidenziando l’armonia con la quale si celebra, lasciandosi unificare dal canto comune, dalle risposte corali, dai movimenti e gesti armoniosi.

d. La verità della espressività rituale

Oggi siamo più portati ad interpretare in maniera globale l’aureo principio della Regola benedettina, tante volte citato dalla Chiesa: “la mente si trovi in accordo con la voce” (SC, nn. 11 e 90): si accordi, concordi con la voce. La partecipazione liturgica, infatti, non chiede soltanto la sintonia fra la mente e la parola, ascoltata o pregata, ma una unificazione totale dei celebranti e dell’assemblea in un complesso di "parole, riti, preghiere, nel quale viene intessuta la ritualità che dà corpo, "incarna” il rapporto fra il Dio invisibile e la Chiesa nella sua umanità, chiamata, essa tutta intera, ad accogliere ed esprimere la comunione con il mistero. Se, come è stato tante volte segnalato, il primo segno che bisogna rinnovare è l’assemblea celebrante, è proprio dalla piena, vera, espressività rituale delle parole e delle azioni liturgiche che dovrà partire questa spiritualità della celebrazione. Certo, ci vuole la profondità teologale e l’unificazione spirituale; ma questo comporta, secondo l’universo simbolico nel quale si realizza il mistero liturgico che rimanda a quello "che era visibile in Cristo” e nei suoi misteri, alla partecipazione totale: occhi per vedere, orecchi tesi all’ascolto, gesti di ricettività e di espressività; la voce che fa cantare tutto il corpo, le mani fatte linguaggio di preghiera; e tutta la persona raggiunta nella sua corporeità dai gesti santificanti sacramentali, essi pure compiuti nella corporeità che si fa trasparente alla presenza di Cristo e all’azione dello Spirito.

Il famoso testo di Tertulliano rivela eloquentemente le implicazioni stupende della sacramentalità e della ritualità liturgica: "Viene lavata la carne perché l’anima sia liberata da ogni macchia; viene unta la carne perché l’anima sia consacrata; viene segnata la carne, perché anche l’anima sia rinvigorita; la carne è adombrata dall'imposizione delle mani, perché anche l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si pasce del corpo e del sangue di Cristo, perché anche l’anima.si nutra abbondantemente di Dio”.20

Il senso di una autentica spiritualità (dove la riduzione verbale allusiva allo spirito non deve essere fuorviante poiché si tratta della vita intera guidata dallo Spirito del Signore), come vita in Cristo e nello Spirito che abbraccia tutto l’uomo e tutte le realtà della sua esistenza, attinge alla sorgente della liturgia, pienamente vissuta nella corporeità, le implicazioni e gli impegni della grazia di Cristo che è sempre “grazia nella visibilità”.21


VI. Normalità, perseveranza, gratuità

In queste tre parole chiavi troviamo una necessaria dimensione della spiritualità liturgica. Dio ci educa alla normalità del nostro rapporto con il mistero dell’esistenza. Nella liturgia, come nel vissuto quotidiano, Egli non infrange il diaframma della fede; chiede a noi di celebrare e vivere come chi vede l’invisibile; ma la visibilità è solo quella dei segni; e la crescita della visione può venire soltanto dalla fede. Nella liturgia Dio si dona a noi attraverso la fragilità dei segni liturgici, come nella vita quotidiana si rende presente nei segni della storia e della creazione. Rimane sempre il “velo” della fede; non possiamo attenderci dalla liturgia visioni, rivelazioni, estasi; ma soltanto, nel rapporto della vita teologale, sempre più accentuato, possiamo crescere nella conoscenza ed esperienza delle cose invisibili attraverso le cose visibili.

Una stupenda lezione per la vita cristiana di ogni giorno. La liturgia rimane normativa per la fede e per la vita dei cristiani nei suoi contenuti e nei suoi impegni. Ma rimane esemplare per la vita di fede che possiede la totalità del mistero senza bisogno di altre esperienze ‘soggettive’, ‘aprocrife’ e comunque fragili e private, nei confronti della fondamentale esperienza cristiana che ci offre la liturgia della Chiesa.

Nella liturgia Dio ci educa alla perseveranza. Ci offre la possibilità di una mistagogia o esperienza permanente del mistero che esprime la sua fedeltà nei confronti dell’uomo e saggia la fedeltà stessa dell’uomo liturgico. L’incontro liturgico non si svolge una volta per sempre — se non nel caso dei sacramenti iniziali ed iniziatici! —, ma ogni giorno, ogni settimana, ogni anno.

Nella Parola e nell'Eucaristia, nella stupenda sinfonia misterica dell’anno liturgico, Dio si dona "Tutto in ciascuno dei frammenti”, in una pienezza oggettiva ed in una polivalente esperienza della multiforme grazia di Cristo. La necessaria reiterazione degli incontri sacramentali esprime e celebra la permanente presenza ed azione di Cristo nella sua Chiesa sempre e ovunque, la preziosità e concretezza del quotidiano che accoglie la salvezza in ima esistenza personale che diventa, ogni giorno, storia salvata, storia di salvezza, presenza dell’eterno nel temporale, del divino con l’umano.

Eppure la novità dell’azione di Dio esclude che la reiterazione liturgica sia una "ripetizione” monotona; come del resto, la novità che Dio chiede in ogni azione liturgica da parte dell’assemblea celebrante e dei singoli, esclude che si tratti di uno sterile ritorno ciclico dei momenti liturgici. Si tratta piuttosto di una nuova, inedita esperienza del mistero, in una dimensione circolare in "spirale” — come amava sottolineare S. Marsili —, in tensione di speranza verso il momento escatologico. E questa ad esempio la novità del quotidiano nell’Eucaristia, la realtà inedita di ogni anno liturgico, nella novità dell’oggi di Cristo ed anche dell’oggi della Chiesa. La ripetizione o reiterazione, oltre ad offrirci di cogliere aspetti nuovi e risonanze inedite della inesauribile grazia di Cristo, permette di inserire nel mistero la storicità del quotidiano, le novità delle esperienze della vita dei singoli e della comunità. Dio finalmente ci educa attraverso la liturgia ad una delle leggi fondamentali della spiritualità cristiana: la legge della gratuità.

L’esperienza della liturgia ci fa entrare in una maniera unica nella fedeltà e nella gratuità del dono di Dio. Egli ogni giorno ci offre la possibilità di entrare in comunione con Lui, anche se non abbiamo assimilato e vissuto la grazia del giorno precedente, egli rinnova ogni giorno la sua alleanza con la Chiesa Sposa. La liturgia è l’espressione mirabile di una grazia che ci precede, ci accompagna e ci segue sempre. Spesso noi sentiamo, ‘‘dalla nostra parte”, l’inutilità o l’inefficacia dell’esperienza liturgica, non soltanto per risolvere i problemi umani e sociali, ma spesso anche quelli spirituali ed ecclesiali. Non si “sente” che la santità aumenta nella vita, anche quando con tutta la buona volontà ogni giorno si entra in contatto con il Santo. Sembra che nulla accada di nuovo, che nulla cambi, almeno se misuriamo gli effetti della liturgia con la nostra esperienza psicologica, dentro e fuori della liturgia.

Eppure questa esperienza è preziosa. Dio — è stato scritto — è gratuito ma non superfluo. La vita cristiana è grazia, nella gratuità di un dono che non meritiamo, nello stupore di vedere che Dio non si stanca di noi e che anzi, ci si affida ogni giorno nella sua Parola e nei Sacramenti. La risposta a questo dono deve essere pervasa insieme da impegno e da senso di gratuità. L’impegno per esprimere il nostro desiderio di risposta, fatta di opere e non solo di parole, compiuta nella vita quotidiana e non soltanto nell’ambito della liturgia. Gratuità perché la nostra riposta a Dio non deve essere mai interessata, fosse pure con il sottile interesse di vederci crescere in santità per appagare il nostro egoismo. La gratuità nei confronti di Dio porta ad una celebrazione liturgica nella quale emergono i più puri sentimenti di lode, adorazione, riconoscenza, anche per il semplice motivo di essere ammessi alla presenza del Signore "per compiere il nostro servizio sacerdotale”.

Ma gratuità, come parola d’ordine, che dà alla vita e all’azione del cristiano il senso più vivo di una partecipazione al mistero e all’amore di Dio. Gratuità del servizio e dell’impegno che è la parola più alta della spiritualità cristiana. E si impara solo, a certi livelli di eroicità, fino al martirio, dalla quotidiana gratuità sperimentata nella liturgia. La via dell’autenticità dell’esperienza liturgica sta nella dimensione "spirituale” che non è un aggettivo senza sostegno, ma un necessario riferimento allo Spirito Santo nel quale bisogna celebrare e vivere; col quale, in qualche maniera, siamo chiamati a concelebrare. Egli garantisce la consistenza della nostra partecipazione personale, ci unisce nella comunione, permea tutte le azioni rituali, assicura la vitalità dell’assemblea nell’unità del sacerdozio e nella varietà dei ministeri e compiti.

Celebrare nello Spirito è una formula che evidenzia una esperienza concreta, pregna di contenuti e di esigenze. S. Marsili in uno dei suoi ultimi scritti, quasi un testamento spirituale sul tema della spiritualità liturgica, auspicava questa ritrovata unità mistagogica fra liturgia ed esperienza spirituale con queste parole: "Affinché la liturgia possa essere fonte e realtà di esperienza spirituale, si richiede che ognuno che fa la liturgia si renda capace di avere questa esperienza... La stessa celebrazione poi non può essere una qualunque. Essa deve svolgersi ad un livello tale di fede e di conseguente attenzione interiore che permetta di scoprire tanto la presenza operante di Cristo, quanto il proprio aprirsi a questa divina presenza ed azione. A queste condizioni la liturgia può e certamente diventerà un po’ per volta un’esperienza spirituale assolutamente valida, e cioè capace di dare quella conoscenza e unione di amore al mistero di Cristo, che non si riduce ad una fuggevole sensazione di presenza di Cristo, quasi esterna a noi, ma diventa ogni giorno di più, nel nostro intimo, esigenza di progressivo inserimento nella realtà di Cristo. Sarà questa la via della conformazione, configurazione a Cristo: attraverso la celebrazione”.22

Questa è la via dell’autentica esperienza spirituale liturgica, ma nella dimensione dello Spirito, nella comunione ecclesiale, nel pieno coinvolgimento dell’uomo liturgico, con la sua corporeità e con la sua esistenza storica, raggiunta dalla liturgia ed in essa elevata a storia di salvezza. Una celebrazione mistagogica allora può risvegliare in noi al contatto con il Dio vivente, nella certezza oggettiva della mediazione ecclesiale, tutti questo sentimenti enumerati da un autore recente: "Ogni celebrazione deve tradursi in un’esperienza del Risorto; la gioia deve contraddistinguere la celebrazione della comunità; essa deve essere unita ad una profonda riverenza; i partecipanti devono sentire una comune appartenenza, al di là di ogni individualismo; la liturgia deve impegnare ed esprimere tutto l’uomo; l’autenticità di fede espressa dalla celebrazione e dai singoli partecipanti non possono essere separate’’.23


VII. Parola, Preghiera, Pane, nella quotidianità

La mistagogia della Chiesa comprende nella quotidianità tutta la ricchezza insita in questi tre doni. La parola. Ogni giorno, nella santa liturgia, specialmente nella celebrazione eucaristica, la Chiesa versa nel palmo della nostra mano la manna quotidiana della parola. Seguendo la liturgia della parola quotidiana, memorizzando un brano, un testo, anche quello del salmo responsoriale, accogliendo un messaggio, abbiamo, come amava ripetere Giovanni Crisostomo, la manna che ci serve per la giornata, ma sempre con quella cura di cui avvertivano Girolamo ed Agostino di non lasciare cadere in vano nell’oblio e nella distrazione ciò che abbiamo ricevuto. Varietà, ricchezza, ripetitività. Tutto un dono prezioso per il viaggio quotidiano della vita. Non mancano a noi i sussidi per una migliore accoglienza quotidiana della parola come sono le varie pubblicazioni per la lectio divina.

Il pane, e il vino dell’Eucaristia. Cioè il dono totale di Cristo con quanto esso comporta di gesti, parole, preghiere impegni che costituiscono la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, formano alla gratuità, alla perseveranza, al dono, al senso della fedeltà, alla pazienza con noi e con gli altri come il Signore stesso è paziente e perseverante nel donarsi, e ci spingono ad una maturità eucaristica del nostro essere e del nostro agire.

La preghiera. Quella quotidiana, specialmente della liturgia delle ore. Dono della Chiesa a noi che non sappiamo come pregare. Scuola di Dio per ciascuno di noi, pedagogia della storia della salvezza. Una Chiesa che ci forma a pregare ed ad essere con la sua preghiera, anche nella varietà non monotona, ma ricca dell’anno liturgico.

Ecco la stupenda mistagogia della Chiesa, quotidiana ed universale, che ci deve rendere attenti a tanti doni come ci vengono offerti e chiedono di essere assimilati.24


Conclusione: Una liturgia mistagogica piena di verità e di bontà, di bellezza e di gioia

In tempi in cui occorre un serio discernimento spirituale, la liturgia ci offre non solo la sicurezza della ortodossia o retta fede -— retta gloria — che viene da Dio e a Dio ritorna, ma anche la vera ed oggettiva santità e santificazione mediante i segni sacramentali nella Chiesa con la sua mediazione obiettiva e non semplicemente soggettiva. Ed è qui, come abbiamo notato che si esprime anche tutto l’impegno della risposta personale e comunitaria per vivere nell’esistenza quotidiana quanto abbiamo ricevuto mediante la fede.

Una autentica mistagogia valorizza i segni e li rende belli ed espressivi; esalta il valore del silenzio e dell’interiorità, ma anche mette in risalto l’espressività dei gesti. Siamo richiamati nella santa liturgia ad una piena partecipazione nella salvezza mediante tutto il nostro essere, corpo e psiche compresi. Ma mette sempre al centro la dimensione teologica e teologale della partecipazione, quella che garantisce non solo la comprensione, ma anche la celebrazione autentica dei misteri, come accoglienza del dono di Dio e risposta alla sua benevola ed amorevole grazia.

Elevare la qualità delle nostre liturgie nella dimensione della verità di quanto si afferma, della bontà di quanto ci viene comunicato, della bellezza intrinseca ed esteriore del celebrare, della gioia interiore ed esteriore che ogni autentica celebrazione deve produrre, è un compito quanto mai necessario. Ma s’impone la necessaria attenzione alla triplice dimensione della mistagogia: iniziazione catechetica, celebrazione viva e teologale, assimilazione quotidiana e perseverante del dono sempre nuovo e sempre fedele di Dio Padre, per Cristo, nello Spirito, nell’ambito insieme familiare e sacramentale dell’assemblea della Chiesa. In mezzo alle difficoltà di questo mondo la Chiesa può salvare i valori più alti della persona umana offrendo la verità e la bontà, la bellezza e la gioia delle sue celebrazioni, capaci di attirare verso Dio l’umanità del nostro tempo.

Per noi che viviamo la liturgia e per gli accompagnatori ed accompagnatrici spirituali il modello e il modulo, anzi lo stampo nel quale dobbiamo essere configurarti a Cristo in un cammino personale e comunitario di santità è essere attenti e rispondere con fedeltà all’azione di Dio — il grande mistero personale ed il grande mistagogo trinitario — il Padre, Cristo, lo Spirito — che ci modella con amore fino alla piena maturazione del suo disegno di santità, in ciascuno e in tutti.

Ma bisogna che tutto diventi esperienza quotidiana del mistero-dono, assimilazione libera e gioiosa del celebrare. Lo diciamo in conclusione con le parole di un amico ed un maestro, Crispino Valenziano: “ La mistagogia è per chi sa, gusta; affinché il suo sapere le cose di Dio cresca, lieviti. Scopo della mistagogia è la dirompente lievitazione nel gustare l’opera di Dio e le sue meraviglie; finalizzata al risconto di un opus Dei nel suo discepolo fedele”25. La meraviglia di Dio nella meraviglia della persona umana che ne sente l’efficacia misteriosa nella propria vita, diventata salvezza, anzi storia quotidiana di salvezza.




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1 Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, Introduzione, n. 37, Libreria Editrice Vaticana 1979, p. 39.
2 Ibidem, nn. 235-239; o.c., p. 138.
3 L'iniziazione cristiana e il cammino spirituale dei cristiani, in Aa.Vv., (a cura di L. Meddi), Diventare cristiani. La catechesi come percorso formativo, Napoli, Luciano Editore, 2002, pp. 75-84. Cfr. N. Cabasilas, La Vita in Cristo, Torino, Utet, 1970, ristampata di nuovo dall’Editrice Città Nuova.
4 Una breve sintesi del pensiero di N. Cabasilas nel nostro libro Incontro al Signore. Pedagogia della preghiera, Roma Ed. Ocd. 2002, pp. 238-249.
5 La formazione liturgica nei Seminari, n. 2 (3 giugno 1979), in Enchiridion Vaticanum voi. 6, pp. 1043 e ss.
6 La Chiesa, nella parola di Dio, celebra i misteri di Cristo per la salvezza del mondo (7 dicembre 1985), II, B, b, n. 2, in Enchiridion Vaticanum voi. 9, p. 1761.
7 Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1075.
8 Cfr. E. Mazza, La mistagogia. Una teologia della liturgia in epoca patristica, Roma, Edizioni Liturgiche, 1988; Id., Mistagogia, in Dizionario di Omiletica, a cura di M. Sodi e A.M. Triaca, Torino-Leumann, Ldc,1998, pp. 972-976.
9 Segnalo à questo proposito un mio contributo: Mistagogia pastorale e spiritualità, in Aa.Vv., La spiritualità. Ispirazione, ricerca, formazione, Roma, Ed. Boria, 1983, pp. 29-42 (con bibliografia) e l’opera Mistagogia e direzione spirituale, a cura di E. Ancilli, Roma-Milano, Teresianum-Ed. O.R., 1985, con un pregevole contributo di T. Federici, La mistagogia della Chiesa, Ibid. pp. 163-245. Recentemente ed in sintesi G. Pesenti, Mistagogia, in Dizionario della mistica, Libreria Editrice Vaticana, 1998, pp. 820-823. Cfr. anche la voce nuova di D. Sartore, Mistagogia, Dizionari San Paolo, Liturgia, Ed. San Paolo 2001, pp. 1208-1215, con ampia bibliografia nelle note.
10 Le vie dello Spirito. Sintesi di teologia spirituale, Bologna, Ed. Dehon. 1999, pp. 37-38.
11 Cfr. Sacrosanctum Concilium nn. 10 e 14.
12 Discorso del 4 dicembre 1963 in Enchiridion Vaticanum voi. 1, pp. [127-129].
13 R. Taft, La liturgia delle ore in Oriente e in Occidente, Ed. Paoline,1988, pp. 469-471
14 Cfr. E. Mazza, La mistagogia, o.c., con testi caratteristici dei singoli Padri.
15 T. Federici, a.c., p. 163.
16 nn. 1136-1144.
17 Ibid., nn. 1145-1162.
18 Ibid., nn. 1163-1178.
19 Ibid., nn. 1179-1186.
20 De resurrectione mortuorum, Vili, 3, CCL, 2; p. 912.
21 E. Schillebeeckx, Cristo, sacramento dell’incontro con Dio, Roma, Ed. Paoline, 1981, pp. 212-213.
22 S. Marsili, La liturgia primaria esperienza spirituale cristiana, in Aa.Vv., Problemi e prospettive di spiritualità, Brescia, Queriniana, 1983, pp. 249-276, testo citato a p. 276.
23 Citato da D. Sartore, Mistagogia, a.c. p. 1212.
24 Abbiamo sviluppato il tema nel nostro libro Ripartire dalla preghiera, Piacenza, Ed. Bergani, 2001, pp. 126-130.
25 C. Valenziano, L'anello della Sposa, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1993, p. 18.

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Fonte: Scaricato da bcd.digicarmel.com, sotto licenza Creative Commons Attribuzione-NonCommerciale 4.0 Internazionale.
Jesus Cervera Castellano, La liturgia quotidiana. Mistagogia universale della Madre Chiesa, Fiamma Viva. N.º 44. 2003. Mistagogia e accompagnamento spirituale, https://repository.teresianum.net/high.raw?id=0000011486&name=00000001.original.pdf&attachment=La+liturgia+quotidiana.+Mistagogia+universale+della+Madre+Chiesa.pdf

mercoledì 27 novembre 2024

Gloria alla Santa Trinità , dell'Arcivescovo Bruno Forte

Gloria alla Santa Trinità 

di + Bruno Forte Arcivescovo di Chieti-Vasto 


Icona della Trinità, di Andrej Rublev


Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era nel principio e ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen! 

Questa breve preghiera di adorazione e di lode risponde all’invito dell’Apostolo Paolo al termine della lettera ai Romani: “A Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen” (16,27). Ripetute innumerevoli volte, ad esempio al termine di tutti i Salmi e i Cantici della liturgia delle ore, queste parole - pregate col cuore - uniscono la Chiesa pellegrina alla liturgia del cielo, così raffigurata nell’Apocalisse: “Udii come una voce potente di folla immensa nel cielo che diceva: ‘Alleluia! Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio, perché veri e giusti sono i suoi giudizi” (19,1-2). È ancora questo libro ispirato, l’ultimo della Bibbia, a riconoscere nella celebrazione della gloria divina la vocazione di tutto il creato: “Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: ‘A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli’” (5,13). Ecco perché la breve “dossologia” - temine greco che significa “parola di glorificazione” - ha un valore al tempo stesso cosmico e trinitario: è voce a Dio dell’intera creazione e si indirizza nello Spirito attraverso il Figlio al Padre, Fonte di ogni esistenza, energia e vita. Meditare questa preghiera può aiutarci a riconoscere e vivere la nostra vocazione di creature, fatte per amare, lodare e servire Dio. Pregarla con spirito e cuore è crescere nell’esperienza del sapersi amati dalla Trinità Santa, da essa messi in grado di amare al di là di ogni nostra incapacità e misura di stanchezza… 

Gloria… 

Il contenuto e la finalità della breve dossologia sono già evocati nella parola iniziale: “gloria”. Si tratta di dare “gloria” a Dio, Trinità Santa. Che cosa significa dare “gloria”? In ebraico “kabod”, corrispondente a “gloria”, deriva da una radice che vuol dire “pesante”, “grave”: la gravità e il peso sono simboli di potenza e di autorità. Dare “gloria” all’Eterno significa allora riconoscere la Sua signoria e il Suo potere su tutto ciò che esiste, a cominciare dal nostro cuore. Il greco traduce il termine con “dóxa”, la cui radice ha il significato di apparire, risplendere, e di conseguenza anche di ciò che soggettivamente appare, l’opinione: applicata a Dio la parola dice il Suo splendore, la luce che da Lui si irradia, tanto che dargli gloria viene a indicare il porsi nella Sua luce per lasciarsi totalmente illuminare e avvolgere dal Suo splendore. Il latino “gloria” deriva, infine, dalla radice indoeuropea “klu”, che ha il senso originario di “udire”, “farsi udire”, donde l’altro di “risuonare”, “essere famoso”. Dare “gloria” a Dio vuol dire riconoscerLo universalmente come l’Unico, cui tutto e tutti nei cieli e sulla terra devono rendere onore. La varietà dei termini e dei significati ci aiuta a comprendere che dà gloria a Dio chi corrisponde alla Sua iniziativa creatrice e salvifica, riconoscendone e celebrandone il potere, la sovranità, lo splendore, l’universale accoglienza, chi, insomma, Gli offre la risposta che sia la meno inadeguata a Lui. E poiché Dio è amore, corrispondere a Lui, glorificarlo, vuol dire amarlo con le labbra e il cuore, con la vita, le parole e le opere. 

al Padre… 

Se Dio è amore, si comprende come non possa essere solitudine: perché ci sia una relazione d’amore bisogna essere almeno in due. Amare soltanto se stessi è egoismo. Dio amore è, dunque, Uno che ama da sempre e Uno che da sempre è amato e ricambia l’amore, un eterno Amante e un eterno Amato, il Padre e il Figlio, e l’amore che li unisce, lo Spirito Santo. L’amore fa dei tre Uno e dell’Uno i Tre nell’eterna relazione di dono e accoglienza, mistero santo da cui veniamo, in cui ci muoviamo ed esistiamo e verso cui andiamo nel cammino del tempo. “In verità vedi la Trinità, se vedi l’amore” (Sant’Agostino, De Trinitate, 8, 8, 12). “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (8, 10, 14). La gloria - risposta d’amore all’amore - va data anzitutto a Colui che è la sorgente, il grembo e la meta di tutto ciò che esiste, il Dio che è amore, il Padre! Dio Padre non è mai stanco di cominciare ad amare e ama per la sola gioia d’amare. È Padre - Madre nell’amore, infinitamente libero e generoso, da null’altro motivato all’amore che dall’amore: “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ci rende buoni e belli perché ci ama” (San Bernardo). Dio Padre è l’Amore che non finirà mai, la gratuità eterna, il principio senza principio dell’amore divino. Dare a Lui gloria è lasciarci colmare dal Suo amore, sempre nuovo, infinito. È Lui che dona l’amore: è Lui che inizia in noi quello che noi non saremmo mai capaci di iniziare da soli. Così Dio ci rende capaci di amare: ci ha amato per primo e non si stancherà mai di amarci. Amati cominciamo ad amare: amandoTi, Padre, e lasciandoci amare da Te, siamo fatti nuovi nell’amore, uomini nuovi che “cantano il cantico nuovo” (Sant’Agostino). È il canto della vita trasformata dall’amore, la gloria e l’onore resi a Te, Padre, che da sempre hai iniziato ad amare e susciti in noi l’amore, imprimendo in noi il segno della Tua gratuità infinita… 

e al Figlio… 

Se il Padre è l’eterno Amante, il Figlio è l’eterno Amato, Colui che da sempre si è lasciato amare e ci fa capire che non è divino solo l’amore, ma divino è anche il lasciarsi amare, il ricevere. Non è divina solo la gratuità: è divina anche la gratitudine. Dio dice eternamente grazie! Il Figlio, l’Amato è l’accoglienza infinita, Colui che da sempre dice sì all’Amore, l’obbedienza e il grazie vivente dell’Amore. Lo Spirito rende in noi presente il Figlio ogni volta che sappiamo rendere grazie, che cioè accogliamo nella verità del cuore l’amore altrui. Non basta cominciare ad amare: occorre lasciarsi amare, essere umili di fronte all’amore, far spazio alla vita dell’altro. È così che diveniamo icona del Figlio: dove non si vive l’accoglienza dell’altro, non si potrà essere immagine di Lui, l’eterno Amato, la gratitudine eterna. Quando il Figlio si è fatto uomo, si è unito a ciascuno di noi: perciò il Padre, amando Lui, ama anche ognuno di noi, amati nell’Amato, resi capaci di ricevere l’amore, che è la vita eterna di Dio. Come l’eterno Amante ci contagia la gratuità, l’eterno Amato ci contagia l’accoglienza, con cui la fede umile si apre all’avvento divino. Dare gloria al Figlio è entrare con Lui nella relazione dell’amore che riceve e ricevendo rende grazie all’eterna Sorgente dell’amore. AmandoTi, diamo gloria a Te, che sei l’Amato, e Tu stesso rendi gloria in noi all’eterno Amante: con Te entriamo nel cuore del Padre, amore mai stanco di cominciare ad amare, per dirgli in Te e per Te il nostro grazie, nel tempo e per l’eternità! 

e allo Spirito Santo… 

Terzo nell’eterno amore è lo Spirito Santo: il Padre e il Figlio vivono un amore così perfetto da rivolgersi insieme alla Terza Persona divina. L’amore non si chiude nel cerchio dei due: “Amare non significa stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta” (Antoine de Saint- Exupéry). Lo Spirito è Colui nel quale l’amore dei Due è sempre aperto a donarsi, a “uscire da sé”: perciò lo Spirito è detto dono di Dio, fonte viva, fuoco che accende in noi la capacità di vivere l’esodo senza ritorno dell’amore. In quanto poi è l’amore ricevuto dal Figlio e donato dal Padre, lo Spirito è anche il loro amore in persona, il vincolo della carità eterna, l’unità e la pace dell’Amante e dell’Amato: “Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo. Nella fatica, riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto…”. Nello Spirito tutti possiamo essere abbracciati dall’amore che unisce. Perciò, quando lo Spirito entra in noi ci riconcilia con Dio e con gli altri e dà pace al nostro cuore inquieto. In questa luce si comprende come dare gloria allo Spirito significhi lasciarsi unire alla Trinità santa nella comunione della Chiesa. Al tempo stesso, però, in quanto lo Spirito è Colui che spezza il cerchio dell’Amore, l’“estasi” e il dono di Dio, quando ci saremo lasciati raggiungere e trasformare da Lui non potremo più restare a guardarci negli occhi, perché sentiremo il bisogno di portare agli altri l’amore con cui siamo stati amati. Solo dove c’è quest’urgenza dell’amore, lo Spirito è veramente glorificato, come ci fa comprendere la preghiera della Chiesa: “Vieni, Spirito Creatore… infondi l’amore nei cuori” - “Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori”...  

come era nel principio… 

È “dal principio” che i Tre sono Uno nell’amore: il “principio” è quello cui si riferiscono tanto l’inizio del libro della Genesi (“In principio Dio creò il cielo e la terra”: 1,1), quanto il prologo del Vangelo di Giovanni, dove si narra l’eterna storia di Dio (“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso il Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso il Dio”: 1,1-2). Ciò che esprime questo richiamo al “principio” è allora che da sempre e per sempre Dio Amore è Trinità: eterno evento dell’amore, che unisce i Tre che sono Uno, il Padre, eterna provenienza, il Figlio, eterno avvento dell’Amore, e lo Spirito, avvenire dell’Amore eterno, nel quale l’amore divino, da sempre uguale a se stesso, è sempre nuovo e insieme immutabile nella Sua fedeltà. Questa storia d’amore, iniziata da sempre (“in principio”), e viva e vera per sempre (“ora e sempre”), ci è stata rivelata nel segno supremo dell’abbandono di Gesù sulla Croce: la Croce è la storia dell’eterno Amante, il Padre, che consegna Suo Figlio per noi; dell’eterno Amato, il Figlio, che si consegna alla morte per amore nostro; e dello Spirito Santo, l’amore eterno che li unisce e li apre al dono che essi ci fanno rendendoci partecipi della loro vita divina. L’infinito dolore dell’abbandono sperimentato dal Dio crocifisso mostra a quale livello di profondità i Tre siano Uno: non tre amori, ma un unico, eterno ed infinito amore, l’unico Dio che è amore, in principio e per sempre. Che cosa chieda alla nostra vita la glorificazione dei Tre che sono Uno dal “principio”, lo si può intravedere allora ai piedi della Croce. Essa mostra come il Dio vivente ci abbia amato per primo, da sempre e per sempre: pertanto, Gli si renderà gloria facendosi avvolgere da questo amore e vivendo l’amore di risposta. La lode non è altro che l’accoglienza grata dell’Amore dei Tre che sono Uno. L’amore viene da Dio, e soltanto chi ama è nato da Dio, conosce Dio e glorifica Dio, partecipando già in qualche modo all’eternità del Suo amore dal principio… 

E ora… 

Questo amore eterno raggiunge “qui ed ora” chi tiene aperti gli occhi della fede: “Vedi la Trinità, se vedi l’amore” (De Trinitate, 8, 8, 12). E vedi l’amore nel Tuo oggi se guardi la Croce dove il Padre ha offerto una volta per sempre il Figlio per noi, mentre lo Spirito - rappresentato in forma di colomba - sta fra l’uno e l’altro, quasi a unirli e ad aprire il loro amore a noi. La Croce è il racconto della Trinità di Dio, la rivelazione dell’infinito amore, offerto a chiunque contempli il Crocifisso con sguardo di fede: perciò, nella tradizione occidentale la Trinità divina è stata spesso rappresentata con la scena di Dio Padre che regge fra le braccia il legno della Croce, da cui pende il Figlio abbandonato, mentre la colomba dello Spirito unisce e separa l’Amante e l’Amato, l’Abbandonato e Colui che Lo abbandona. Chi guarda questa scena con fede è invitato ad entrare nel dialogo eterno del Loro amore e del Loro dolore offerto per noi (vedi la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze). L’Oriente cristiano ha voluto trasmetterci un analogo messaggio con la scena dei tre Angeli che apparvero ad Abramo alle querce di Mamre, figura delle tre Persone divine che accolgono gli uomini qui ed ora nel cerchio del loro amore al banchetto della vita (come fa Andrei Rublev nella celebre icona della Trinità angelica). L’unità del Dio vivo non è, insomma, un morto dato, ma un invito sempre vivo e attuale a entrare nel reciproco inabitarsi delle tre Persone divine. È l’unità accogliente dell’eterno evento dell’amore, di cui possiamo divenire partecipi in ogni ora del tempo grazie al dono della fede. L’eterna comunione dei Tre, per cui ciascuno ritrova se stesso “perdendosi” nell’Altro, è la Loro unità, la “pericoresi” come dicevano i Padri greci, e cioè il Loro reciproco stare l’uno nell’altro, muovendosi da sé all’altro: attraverso la missione del Figlio e dello Spirito questa comunione è stata partecipata a noi nel tempo, affinché possiamo entrare nella vita eterna della Trinità in ogni nostro “oggi” trasfigurato dalla fede, rendendo così gloria a Dio ora e per l’eternità. 

e sempre, nei secoli dei secoli… 

Ciò a cui apre la glorificazione di Dio Trinità non è, allora, un attimo fugace, ma l’eternità pregustata nel tempo, l’ingresso umile e tuttavia reale della nostra esistenza mortale nella vita, che durerà “nei secoli dei secoli”. Prova a farne esperienza, fermandoti davanti a un Crocifisso o all’icona in cui i tre Angeli ti chiamano a entrare nel dialogo divino dell’amore: disponiti ad ascoltare la dichiarazione d’amore di Dio, viva ed efficace ora e sempre, corrispondendovi con la glorificazione che sgorga dalle labbra e dal cuore. Glorifica il Figlio amato, abbandonato e risorto alla vita per Te, unendoti a Lui per sentire l’amore divino che Lo avvolge e lo Spirito che lo unisce al Padre. Capirai, allora, che Dio Amore non è una parola vuota, una storia lontana, ma l’eterno Amore che è venuto a narrarsi nel tempo perché ciascuno di noi, ascoltandolo e credendo all’amore dei Tre, si lasci raggiungere e trasformare da questa storia d’amore, viva e vera “nei secoli dei secoli”. Allora sgorgheranno dal Tuo cuore le parole e il canto della lode, perfino nel gemito e nel silenzio che esprimono lo stupore davanti al Mistero tre volte santo. Allora sentirai il bisogno di glorificare anche con le labbra Dio Trinità Santa, l’unità dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore, che ci accoglie in sé nel tempo e per l’eternità. La piccola dossologia potrà servirTi a farlo in modo semplice e fedele. Dare gloria a Dio sarà così un entrare e dimorare nella vita trinitaria, pregustazione orante del tempo in cui Dio sarà tutto in tutti. Verso quel giorno glorioso e splendido avanziamo nella notte della fede, continuando a ripetere, come gemito di amanti desiderosi: Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo…  

Amen! 

Pronunciando l’Amen della consegna totale della mente e del cuore alla lode della gloria dei Tre che sono Uno, sentiremo il bisogno di ridire ancora il nostro amore, di nasconderci sempre di nuovo con Cristo in Dio, di lasciarci portare sempre più avanti dallo Spirito sui sentieri dell’Eterno. L’Amen della fede e dell’amore ci indurrà al gesto della carità, all’invocazione e alla lode che esplicitino l’esperienza trasmessa dalla breve dossologia in prolungati silenzi di adorazione e di ascolto, come in parole e gesti sempre nuovi d’amore. Chiediamo al Dio che è Amore che sia così per ciascuno di noi e per l’umanità intera: Dio tre volte Santo, Trinità divina, aiutaci a confessare con le labbra e col cuore l’infinita gloria del Tuo eterno amore: di Te, Padre, eterno Amante da cui proviene ogni dono perfetto; di Te, Figlio, eterno Amato che tutto riceve e tutto dona; di Te Spirito Santo, Amore ricevuto e donato, vincolo della carità eterna ed estasi dell’eterno dono. In Te, Trinità Santa vorremmo nasconderci, per essere amati nell’Amato ed imparare ad amare qui ed ora nell’umile svolgersi del tempo e per sempre nel giorno dell’amore che non muore. Amen! Alleluia! 


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Fonte: www.diocesichieti.it/wp-content/uploads/sites/2/2020/06/Gloria.pdf


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