ANNO CRISTIANO COME ANNO LITURGICO
di mons. Giuseppe Liberto
Per chi non lo sapesse o per chi non lo volesse capire, la Chiesa di Cristo con il Concilio Vaticano II riprende in mano la sua Divina Liturgia. Le celebrazioni liturgiche, afferma il Vaticano II, costituiscono il vertice di tutte le azioni della Chiesa e la sorgente di santificazione dei cristiani. Guardando però certi orientamenti dell’attuale situazione, vien da pensare che i Padri del Concilio furono vittime di allucinazioni comunitarie.
Oggi esiste il pericolo che molti cristiani continuano ad avere una concezione pagana del “tempo” e del “culto”. Il Concilio istruisce che il vero culto cristiano celebrato nelle coordinate storiche è sublime dialogo d’amore tra Dio e l’uomo. Dio, essendosi rivelato nel Figlio incarnato, attende dall’uomo non solo la risposta orante e adorante di lode e di rendimento di grazie, ma anche la preghiera filiale di richiesta. Partecipare dunque alle azioni liturgiche non significa assistere a un rito vuoto, ma accogliere i doni della salvezza affinché siano offertori di vita attraverso l’entusiasmo di una “piena, consapevole e attiva partecipazione”.
Il culto cristiano, essendo offerta di tutta la vita messa a servizio dell’evangelizzazione, deve sapere armonizzare catechesi, liturgia, mistagogia e carità. Gli Atti degli Apostoli ci tramandano che i primi cristiani «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere… lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (2,42.47). La Chiesa degli inizi celebrava soltanto la “Domenica”. A metà del secondo secolo, scelse la Pasqua come prima Festa. Poi, dalla Pasqua, si svilupparono i cinquanta giorni del tempo pasquale e gradualmente iniziarono a essere celebrati la Quaresima, il Natale, l’Epifania e poi, a Roma, l’Avvento che preparava il Natale cristiano come una sorta di cristianizzazione della festa pagana del Sole vittorioso nel solstizio d’inverno, simbolo di Cristo vincitore delle tenebre del male e della morte. I Padri della Chiesa, specialmente san Leone Magno, collegavano la venuta del Signore a Betlemme con il suo secondo avvento glorioso alla fine dei tempi. Celebrare il Natale di Gesù, pur attraverso l’umiltà del presepio, è già festa di trionfo connessa con il trionfo redentivo della croce e con il trionfo finale del suo ritorno.
L’Attesa dell’Avvento è attesa reale perché aspettiamo l’attualizzazione dell’Incarnazione e, nella gioia della speranza, attendiamo la sua seconda venuta. Non vi è speranza senza fede e senza amore, si crede e si ama perché si spera. La speranza nutre la fede e rafforza l’amore, la fede e l’amore suscitano la speranza che è certezza di ciò che già possediamo e tocchiamo, e così il non vedere illumina la fede e ravviva l’amore. Purtroppo, si corre sempre il grave pericolo del formalismo religioso dato dall’oscurità della fede, dalla falsa speranza e dalla cecità dell’amore.
L’Avvento ci istruisce che bisogna stare sempre in attesa vigilante e operosa perché non sappiamo né il giorno né l’ora della venuta del Signore. L’attesa è l’atmosfera che caratterizza tutto il corso storico del popolo d’Israele orientato verso la venuta del Messia non soltanto d’Israele ma dell’universo intero. Profezie e Salmi descrivono il giorno definitivo della venuta di Dio che, per un popolo smarrito, sarà incontro di perdono, purificazione e rinnovamento. Il Servo di Jahvè verrà per portare su di sé il peccato del mondo e stabilire l’Alleanza definitiva (cf Is 53,4-5.11). L’attesa d’Israele era tensione ardente verso l’incontro trasfigurante con il suo Dio. La speranza era ricordo del passato in attesa dell’avvenire nella pazienza del presente. La visione di Isaia, rievocando, i primi giorni del paradiso terrestre, profetizzava che la pace si sarebbe stabilita finalmente in terra (cf Is 11,6-9).
Celebrando la Liturgia dell’Avvento, il cristiano condivide la speranza di Isaia che invocava l’evento tanto sospirato dell’incontro con Dio: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (63,19). La spiritualità dell’Avvento non può basarsi su un Dio che ancora non ha inviato nel mondo il Figlio suo. Per il cristiano, il Messia si è incarnato nel grembo verginale di Maria e si è fatto uomo. Con la sua morte e risurrezione, abbiamo ottenuto la salvezza totale e il dono della vita eterna che raggiungeremo quando, alla fine dei tempi, Cristo ritornerà nella gloria. Se l’attesa d’Israele si trova tra il peccato originale e la venuta del Messia, la fede del cristiano si situa tra la sua venuta storica e l’attesa del suo secondo avvento. La fede d’Israele e quella del cristiano s’incontrano, ciascuna a suo modo, nel vivere le due speranze con diversa intensità.
Nell’attesa dell’ultimo giorno e a sostegno del nostro cammino verso la Terra promessa, Gesù ci ha lasciato il suo Corpo da mangiare e il suo Sangue da bere. Il nutrimento del suo Corpo e del suo Sangue fa vivere il cristiano in uno stato di ardente tensione che lo prepara all’incontro con il Signore che è venuto, verrà e continua la sua misteriosa presenza nel venire-restare dolcissimo all’interno della sua Chiesa.
Non possiamo celebrare l’Avvento senza l’Eucaristia che è pregustazione del Paradiso. Non possiamo vivere il presente avendo soltanto la visione della caducità del mondo pensando solo alla “fine” come “la fine di tutto”. Questa mancata speranza immerge l’uomo in uno stato di disperazione e, abbassando i livelli dell’esistenza, cade nel complesso d’inutilità di ogni cosa votata al fallimento. L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio sta al centro della creazione perché tutto ciò che lo circonda è stato creato per lui. Soltanto il peccato frantuma ogni cosa. L’Incarnazione, la Croce e Risurrezione sono descritte da san Paolo con la parola “ricapitolazione” di tutto il creato. L’Avvento di Dio nella storia dell’Antico e del Nuovo Testamento è intervento di “restaurazione” di tutto ciò che esiste.
La Liturgia della Chiesa ha la funzione di attualizzare per l’umanità il gesto redentore di Cristo. È questa la funzione essenziale della celebrazione eucaristica, “culmine e fonte” della vita cristiana. L’assemblea liturgica che celebra la Divina Eucaristia è chiamata, per Cristo, con Cristo e in Cristo, a elevare l’uomo per la ri-creazione di tutto l’universo. Anche se il peccato, il dolore e la morte resteranno il retaggio umano, la speranza cristiana farà passare la creatura dalla morte alla vita. San Paolo ci assicura che, alla fine dei tempi, saremo assunti nella gloria, dopo avere passato il crogiolo della prova. Nella lettera ai Romani, afferma: «Ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza, infatti, siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,18-19;22-25).
Per l’incontro con Cristo alla fine dei tempi, le esigenze sono: la forza della Fede, lo splendore della Speranza, l’efficacia della Carità. Non siamo stati creati per vanificarci nel nulla. Anche se il Vangelo ci parla di “servi addormentati”, incapaci di vegliare per collaborare alla realizzazione del Regno di Dio, Gesù ci esorta: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento» (Mc 13,33). Senza avere alcuna paura, il nostro Signore e Maestro chiede ai credenti la massima vigilanza nella paziente attesa della fine dei tempi.
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