giovedì 16 aprile 2020

LA FESTA DELLA DIVINA MISERICORDIA


LA FESTA DELLA DIVINA MISERICORDIA
II Domenica di Pasqua della Divina Misericordia

 


La Festa della Divina Misericordia occupa il posto più importante tra tutte le forme di devozione alla Divina Misericordia che sono state rivelate a Santa Faustina. Per la prima volta Gesù le ha parlato dell’istituzione di questa festa a Plock nel 1931, quando le trasmise la sua volontà riguardo all’immagine:
« Io desidero che vi sia una festa della Misericordia: voglio che l’immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia »
(Diario, p. 75).
La scelta della prima domenica dopo Pasqua come festa della misericordia ha un suo profondo significato teologico, che indica un forte legame tra il mistero pasquale della Redenzione e il mistero della Divina Misericordia. Questo legame è sottolineato ulteriormente dalla Novena alla Divina Misericordia, che precede la festa e inizia il Venerdì Santo e durante la quale si recita la Coroncina. La festa non è soltanto un giorno di particolare adorazione di Dio nel mistero della misericordia, ma è un tempo di grazia per tutti gli uomini.
« Desidero – ha detto Gesù – che la festa della Misericordia sia di riparo e rifugio per tutte le anime e specialmente per i poveri peccatori »
(Diario, p. 440).
« Le anime periscono, nonostante la Mia dolorosa Passione. Concedo loro l’ultima tavola di salvezza, cioè la festa della Mia Misericordia. Se non adoreranno la Mia Misericordia, periranno per sempre »
(Diario, p. 561)
L’importanza di questa festa si misura con le straordinarie promesse che Gesù ha legato ad essa.
« In quel giorno, chi si accosterà alla sorgente della vita – ha detto Cristo – questi conseguirà la remissione totale delle colpe e delle pene »
(Diario, p. 235)
« In quel giorno sono aperte le viscere della Mia Misericordia, riverserò tutto un mare di grazie sulle anime che si avvicinano alla sorgente della Mia Misericordia. (…) Nessun’anima abbia paura di accostarsi a me, anche se i suoi peccati fossero come lo scarlatto »
(Diario, p. 441)
Per ottenere questi grandi doni bisogna adempiere alle condizioni del Culto alla Divina Misericordia (fiducia nella bontà di Dio e carità attiva verso il prossimo), essere in stato di grazia (dopo la confessione) e ricevere degnamente la santa Comunione.
« Nessun’anima troverà giustificazione finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia e perciò la prima domenica dopo Pasqua deve essere la festa della Misericordia ed i sacerdoti in quel giorno debbono parlare alle anime della Mia grande ed insondabile Misericordia »
(Diario, p.378).


La Domenica della Divina Misericordia è stata istituita dal Servo di Dio il Papa Giovanni Paolo II il 30 Aprile del 2000 durante le Solenne Celebrazione Eucaristica in occasione della Canonizzazione della Beata Suor Maria Faustina Kowalska. Successivamente la Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti ha emanato il Decreto di istituzione il 5 Maggio 2000 che qui riportiamo.


CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI DECRETO
Pietà e tenerezza è il Signore (Sal 111, 4), il quale per il grande amore con il quale ci ha amati (Ef 2,4), ci ha donato con indicibile bontà il suo unico Figlio, nostro Redentore, affinché attraverso la sua morte e risurrezione aprisse al genere umano le porte della vita eterna, e affinché, accogliendo la sua misericordia dentro il suo tempio, i figli dell’adozione esaltassero la sua gloria fino ai confini della terra. Ai nostri giorni i fedeli di molte regioni della terra, nel culto divino e soprattutto nella celebrazione del mistero pasquale, nel quale l’amore di Dio verso tutti gli uomini risplende in massima misura, desiderano esaltare quella misericordia.
Accogliendo tali desideri, il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ha benignamente disposto che nel Messale Romano d’ora innanzi al titolo della II Domenica di Pasqua sia aggiunta la dizione «o della Divina Misericordia», prescrivendo anche che, per quanto concerne la celebrazione liturgica della stessa Domenica, siano da adoperare sempre i testi che per quel giorno si trovano nello stesso Messale e nella Liturgia delle Ore di Rito Romano. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti rende ora note queste norme del Sommo Pontefice affinché esse vengano condotte a compimento. Nonostante qualsiasi norma in contrario.
Dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il 5 Maggio 2000.
Jorge A. Card. Medina Estévez Prefetto e Francesco Pio Tamburrino Arcivescovo Segretario


INDULGENZA PLENARIA

Si annettono Indulgenze ad atti di culto compiuti in onore della Divina Misericordia «La tua misericordia, o Dio, non conosce limiti e infinito è il tesoro della tua bontà...» (Orazione dopo l’Inno «Te Deum») e «O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono...» (Orazione della Domenica XXVI del Tempo Ordinario), umilmente e fedelmente canta la Santa Madre Chiesa. Infatti l’immensa condiscendenza di Dio, sia verso il genere umano nel suo insieme sia verso ogni singolo uomo, splende in modo speciale quando dallo stesso Dio onnipotente sono rimessi peccati e difetti morali e i colpevoli sono paternamente riammessi alla sua amicizia, che meritatamente avevano perduta. I fedeli con intimo affetto dell’animo sono da ciò attratti a commemorare i misteri del perdono divino ed a celebrarli piamente, e comprendono chiaramente la somma convenienza, anzi la doverosità che il Popolo di Dio lodi con particolari formule di preghiera la Divina Misericordia e, al tempo stesso, adempiute con animo grato le opere richieste e soddisfatte le dovute condizioni, ottenga vantaggi spirituali derivanti dal Tesoro della Chiesa. «Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l’uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell’ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell’uomo e mediante l’uomo, nel mondo» (Lett. enc. Dives in Misericordia, 7).
Invero la Misericordia Divina sa perdonare anche i peccati più gravi, ma nel farlo muove i fedeli a concepire un dolore soprannaturale, non meramente psicologico, dei propri peccati, così che, sempre con l’aiuto della grazia divina, formulino un fermo proposito di non peccare più. Tali disposizioni dell’animo conseguono effettivamente il perdono dei peccati mortali quando il fedele riceve fruttuosamente il sacramento della Penitenza o si pente dei medesimi mediante un atto di perfetta carità e di perfetto dolore, col proposito di accostarsi quanto prima allo stesso sacramento della Penitenza: infatti Nostro Signore Gesù Cristo nella parabola del figliuol prodigo ci insegna che il peccatore deve confessare la sua miseria a Dio dicendo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (Lc 15, 18-19), avvertendo che questo è opera di Dio: «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15; 32). Perciò con provvida sensibilità pastorale il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, per imprimere profondamente nell’animo dei fedeli questi precetti ed insegnamenti della fede cristiana, mosso dalla dolce considerazione del Padre delle Misericordie, ha voluto che la seconda Domenica di Pasqua fosse dedicata a ricordare con speciale devozione questi doni della grazia, attribuendo a tale Domenica la denominazione di «Domenica della Divina Misericordia» (Congr. per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Decr. Misericors et miserator, 5 Maggio 2000).
Il Vangelo della seconda Domenica di Pasqua narra le cose mirabili compiute da Cristo Signore il giorno stesso della Risurrezione nella prima apparizione pubblica: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: ’Pace a voi!’. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: ’Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: ’Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi’» (Gv 20, 19-23). Per far sì che i fedeli vivano con intensa pietà questa celebrazione, lo stesso Sommo Pontefice ha stabilito che la predetta Domenica sia arricchita dell’Indulgenza Plenaria, come più sotto sarà indicato, affinché i fedeli possano ricevere più largamente il dono della consolazione dello Spirito Santo e così alimentare una crescente carità verso Dio e verso il prossimo, e, ottenuto essi stessi il perdono di Dio, siano a loro volta indotti a perdonare prontamente i fratelli.
Così i fedeli osserveranno più perfettamente lo spirito del Vangelo, accogliendo in sé il rinnovamento illustrato e introdotto dal Concilio Ecumenico Vaticano II: «I cristiani, ricordando le parole del Signore: ’da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri’ (Gv 13, 35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con sempre maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo... Il Padre vuole che noi riconosciamo ed efficacemente amiamo in tutti gli uomini Cristo fratello, tanto con la parola che con l’azione» (Cost. past. Gaudium et spes, 93). Il Sommo Pontefice pertanto, animato da ardente desiderio di favorire al massimo nel popolo cristiano questi sensi di pietà verso la Divina Misericordia, a motivo dei ricchissimi frutti spirituali che da ciò si possono sperare, nell’Udienza concessa il giorno 13 giugno 2002 ai sottoscritti Responsabili della Penitenzieria Apostolica, Si è degnato di largire Indulgenze nei termini che seguono: Si concede l’Indulgenza plenaria alle consuete condizioni (Confessione sacramentale, Comunione eucaristica e preghiera secondo l’intenzione del Sommo Pontefice) al fedele che nella Domenica seconda di Pasqua, ovvero della «Divina Misericordia», in qualunque chiesa o oratorio, con l’animo totalmente distaccato dall’affetto verso qualunque peccato, anche veniale, partecipi a pratiche di pietà svolte in onore della Divina Misericordia, o almeno reciti, alla presenza del SS.mo Sacramento dell’Eucaristia, pubblicamente esposto o custodito nel tabernacolo, il Padre Nostro e il Credo, con l’aggiunta di una pia invocazione al Signore Gesù Misericordioso (p.e. «Gesù Misericordioso, confido in Te»).
Si concede l’Indulgenza parziale al fedele che, almeno con cuore contrito, elevi al Signore Gesù Misericordioso una delle pie invocazioni legittimamente approvate. Inoltre i naviganti, che compiono il loro dovere nell’immensa distesa del mare; gli innumerevoli fratelli, che i disastri della guerra, le vicende politiche, l’inclemenza dei luoghi ed altre cause del genere, hanno allontanato dal suolo patrio; gli infermi e coloro che li assistono e tutti coloro che per giusta causa non possono abbandonare la casa o svolgono un’attività non differibile a vantaggio della comunità, potranno conseguire l’Indulgenza plenaria nella Domenica della Divina Misericordia, se con totale detestazione di qualunque peccato, come è stato detto sopra, e con l’intenzione di osservare, non appena sarà possibile, le tre consuete condizioni, reciteranno, di fronte ad una pia immagine di Nostro Signore Gesù Misericordioso, il Padre Nostro e il Credo, aggiungendo una pia invocazione al Signore Gesù Misericordioso (p.e. «Gesù Misericordioso, confido in Te»). Se neanche questo si potesse fare, in quel medesimo giorno potranno ottenere l’Indulgenza plenaria quanti si uniranno con l’intenzione dell’animo a coloro che praticano nel modo ordinario l’opera prescritta per l’Indulgenza e offriranno a Dio Misericordioso una preghiera e insieme le sofferenze delle loro infermità e gli incomodi della propria vita, avendo anch’essi il proposito di adempiere non appena possibile le tre condizioni prescritte per l’acquisto dell’Indulgenza plenaria.
I sacerdoti, che svolgono il ministero pastorale, soprattutto i parroci, informino nel modo più conveniente i loro fedeli di questa salutare disposizione della Chiesa, si prestino con animo pronto e generoso ad ascoltare le loro confessioni, e nella Domenica della Divina Misericordia, dopo la celebrazione della Santa Messa o dei Vespri, o durante un pio esercizio in onore della Divina Misericordia, guidino, con la dignità propria del rito, la recita delle preghiere qui sopra indicate; infine, essendo «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7), nell’impartire la catechesi spingano soavemente i fedeli a praticare con ogni possibile frequenza opere di carità o di misericordia, seguendo l’esempio e il mandato di Cristo Gesù, come è indicato nella seconda concessione generale dell’«Enchiridion Indulgentiarum». Il presente Decreto ha vigore perpetuo. Nonostante qualunque contraria disposizione.
Roma, dalla sede della Penitenzieria Apostolica, il 29 giugno 2002, nella solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo 2002.
LUIGI DE MAGISTRIS Arcivescovo tit. di Nova Pro-Penitenziere Maggiore
GIANFRANCO GIROTTI, O.F.M. Conv. Reggente



Immagine di Gesù Misericordioso

Il modello è stato mostrato dallo stesso Gesù nella visione che Santa Faustina ebbe il 22 febbraio 1931 nella cella del convento di Plock.
«La sera, stando nella mia cella – scrisse nel Diario – vidi il Signore Gesù vestito di una veste bianca: una mano alzata per benedire, mentre l’altra toccava sul petto la veste, che ivi leggermente scostata lasciava uscire due grandi raggi, rosso l’uno e l’altro pallido. (…)
Dopo un istante Gesù mi disse: «Dipingi un’immagine secondo il modello che vedi, con sotto scritto: Gesù confido in Te!» (Diario, p. 74). (…)
«Voglio che l’immagine (…) venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia» (Diario, p. 75).
Il significato di questo quadro è strettamente legato alla liturgia di quella domenica. La Chiesa legge in quel giorno il Vangelo secondo San Giovanni che descrive l’apparizione di Gesù risorto nel Cenacolo e l’istituzione del sacramento della penitenza (Gv 20, 19-29). L’immagine rappresenta dunque il Salvatore risorto che porta agli uomini la pace con la remissione dei peccati, a prezzo della sua Passione e morte in croce. I raggi del sangue e dell’acqua, che scaturiscono dal cuore di Gesù trafitto dalla lancia, e le cicatrici delle ferite della crocifissione, riportano agli avvenimenti del Venerdì Santo (Gv 19, 17 18; 33-37). L’immagine di Gesù Misericordioso unisce in sé questi due episodi evangelici che ci parlano dell’amore di Dio per l’uomo. Nell’immagine di Cristo vi sono i due raggi. Santa Faustina chiede a Gesù il significato di questi raggi, e Gesù lo spiega:
«Il raggio pallido rappresenta l’Acqua che giustifica le anime; il raggio rosso rappresenta il Sangue che è la vita delle anime. (…) Beato colui che vivrà alla loro ombra» (Diario, p. 235).
L’anima è purificata dal sacramento del battesimo e della penitenza, mentre il migliore nutrimento per essa è l’Eucaristia. Dunque questi due raggi simboleggiano i santi sacramenti e tutte le grazie dello Spirito Santo, il cui simbolo biblico è l’acqua, ed anche la nuova alleanza di Dio con l’uomo fatta per mezzo del sangue di Cristo. L’immagine di Gesù Misericordioso viene spesso chiamata immagine della Divina Misericordia, perché nel mistero pasquale di Cristo si è rivelato più chiaramente l’amore di Dio per l’uomo. Il quadro non solo rappresenta la misericordia di Dio, ma induce a rammentare il dovere della fiducia cristiana nei confronti di Dio e la carità attiva verso il prossimo. Nella parte inferiore del quadro – per volontà di Cristo – si trovano scritte le parole «Gesù, confido in Te». Questa immagine – ha detto inoltre Gesù – «deve ricordare le esigenze della Mia Misericordia, poiché anche la fede più forte non serve a nulla senza le opere» (Diario, p. 457).
Gesù ha fatto grandi promesse per coloro che venerano l’immagine di Gesù Misericordioso: la salvezza eterna, progressi nel cammino verso la perfezione cristiana, la grazia di una morte felice e le altre grazie, se gli uomini le chiederanno con fiducia. «Attraverso questa immagine concederò molte grazie alle anime, perciò ogni anima deve poter accedere ad essa» (Diario, p. 379).



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Fonte: www.divinamisericordia.it



martedì 14 aprile 2020

IL DIARIO DI MARIA, di Gian Piero Stefanoni




Gian Piero Stefanoni

IL DIARIO DI MARIA





IL DIARIO DI MARIA

Trattiene, medita
la Madonnina bassa
della terra, la ragazza
che discende alle sabbie-
Elisabetta sorpresa dal tempo,
i commensali traditi dal vino.

Più forte del sole
prima che l'asse si sposti,
infinitamente chiaro
il braccio della madre al figlio.





DORMITIO

Non è incoronabile
nel flebile buco dell'aria
tra resistenza ed ala,
nella caduta, la piccola farfalla.

Ma lo è il ritorno,
accanto a noi nel sonno-
nel giro della polvere-
Miriam e Maria in attesa.




LA SALITA

L'odore buono che vigila e attende
allo sguardo basso della luce,
al ritorno grato dei corpi.

Partecipa del cielo alla Passione
nel primo tremore dell'Avvento,
nel sangue che dice al bambino del bambino,
la salita dal chiodo della Pasqua.




MATTEO 25

La rima logica-
che si sposa col pensiero.

La terra che s'abbassa-
e fa radice con il mare.

Ma sta' attento,
Cristo oggi non si tiene.

Sta scendendo dalla croce.



DA UNO SGUARDO IN SAN CARLO AI CATINARI

Prima dell'anima
già si disincarna,
mostra l'osso il ritorno
nell'ultima visione del corpo.

Ricorda la giostra,
il ramo nel becco,
come d'uccello
la vita sulla soglia.




LEGGENDE DAL PERGAMUM
a proposito del Panorama of ancient Metropolis, Berlino

S'è fermata la clessidra
il poeta fattosi pietra-
giacché poi venne il Figlio
a redimere tanta bellezza,
a dare ad ogni uomo speranza.




NOÈ D'AGOSTO

Scuote il capo dal sonno
di un cupo disperdersi,
sorride del nostro perenne
timore del tempo, passa
e muore con noi soccorrendoci
dalla nostra copia dal vero,
dal nostro arcobaleno di gesso

il cielo prima della catastrofe.




FOSSORES
catacombe di San Sebastiano

Qui nel secondo secolo il cielo era sotto,
la terra stratificata di immagini
per restare nell'aria- leoni, meduse
ed uccelli vivi da migliaia di anni
nel tempo clemente del sonno.

Poi nello scavo questa malinconia,
questa scomparsa di animali e campi
rivelava un pensiero più adatto alla luce;
nel simbolo il passaggio dell'ictys
aperta la pietra al fossore.



LA REGOLA SMARRITA
del Padre e del Figlio

E tornato, tra il filo steso dei panni
e la crescita d'edera; richiama in noi il compagno,
la regola smarrita, lui, basso al boccone,
nella nota aspirata: l'uccello a servizio,

il patriota fuori dal nido.





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Fonte: si ringrazia l'Autore Gian Piero Stefanoni che ha inviato la documentazione alla Redazione.
Per approfondimenti: Gian Piero Stefanoni , poeta e critico letterario contemporaneo




lunedì 13 aprile 2020

J. Ratzinger, La fede nella Risurrezione



        J. Ratzinger


La fede nella Risurrezione 

 

    La professione di fede nella Risurrezione di Cristo Gesú costituisce per i cristiani l'espressione che conferma la verità di quel principio, che sembrerebbe essere solo un bel sogno: "L'amore è forte come la morte" (Cant. 8,6). Nell'Antico Testamento, questa massima è incastonata in un inno esaltante la forza dell'eros. Ciò tuttavia non significa affatto che noi siamo autorizzati a relegarla sbrigativamente in un canto, quasi fosse un'enfatica esagerazione innodica. Nelle sconfinate esigenze dell'eros, infatti, nelle sue apparenti esagerazioni e smodate brame, viene in realtà alla ribalta un problema fondamentale, diremmo anzi “il” problema fondamentale dell'esistenza umana, in quanto vi si manifestano la natura e l'intrinseca paradossalità dell'amore: l'amore esige infinità, indistruttibilità; esso “è” addirittura quasi un urlo lanciato dall'uomo per reclamare l'infinito.
   Ma contemporaneamente si rileva come questo suo grido sia irrealizzabile, come esso aneli all'infinito ma sia incapace di ottenerlo; si constata come esso aspiri sí all'eternità, ma si trovi in realtà imprigionato in un mondo di morte, incatenato nella sua solitudine e nei suoi impulsi distruttivi. Ora, da questo si può capire che cosa significhi la 'risurrezione'. Essa “è” la superiorità effettiva dell'amore sulla morte. Essa è però al contempo anche la chiara dimostrazione dell'unica cosa capace di creare l'immortalità: il sussistere in un altro, che continua ancora ad esistere anche quando io mi sono dissolto. L'uomo è quell'essere che non vive eternamente, ma è necessariamente votato alla morte. Per lui, che non ha in sé un principio di sussistenza, umanamente parlando il sopravvivere risulterà possibile soltanto continuando ad esistere in un altro. Gli asserti della Scrittura che affermano lo stretto nesso d'interdipendenza vigente fra peccato e morte, vanno intesi appunto rifacendosi a questa realtà di fatto. Ora infatti appare chiaro che il tentativo fatto dall'uomo per giungere "ad essere come Dio", il suo conato d'autarchia mediante il quale pretenderebbe di sussistere esclusivamente per conto suo, finisce logicamente per comportare la sua morte, in quanto come essere solo a sé stante non potrà mai esistere.
   Allorché l'uomo, disconoscendo i suoi propri limiti, pretende di vivere unicamente per conto suo, in maniera completamente 'autarchica' - e la genuina essenza del peccato sta proprio qui -, non fa che buttarsi volontariamente in braccio alla morte. L'uomo naturalmente capisce molto bene che la sua vita da sola non si regge, per cui si trova obbligato a sforzarsi di sopravvivere negli altri, cercando di restare perennemente nella sfera dei viventi in loro e tramite loro. Per conseguire tale intento, sono state tentate soprattutto due vie. In primo luogo quella di sopravvivere nei propri figli: ecco perché, nei popoli primitivi, il celibato e la mancanza di figli vengono sempre considerati come la peggiore delle maledizioni; essi equivalgono infatti ad un disperato naufragio, ad una morte senza scampo. Viceversa, il maggior numero possibile di figli offre la migliore garanzia possibile di sopravvivenza, la piú vivida speranza d'immortalità, e quindi la piú ambita benedizione che l'uomo possa attendersi. Una seconda via si apre davanti all'uomo, allorché egli scopre di sopravvivere nei figli soltanto in maniera assai imperfetta; egli desidera allora di lasciar superstite una parte ben piú consistente di se stesso. Si rifugia quindi nell'idea della celebrità, che dovrebbe renderlo veramente immortale, portandolo a sopravvivere lungo tutti i tempi nella memoria della gente. Ma anche questo secondo tentativo, messo in opera dall'uomo per crearsi un'immortalità mediante l'essere in altri, fallisce non meno miseramente del primo: ciò che di lui permane non è il suo vero essere, bensí solo una sua eco, una sua ombra. Sicché in sostanza l'immortalità di propria fabbricazione è solo un Ade, uno Sceol: piú un non-essere, che un essere. L'insufficienza di ambedue queste vie sta nel fatto che l'altro, il quale dovrebbe conservare il mio essere anche dopo che io sarò morto, in effetti non è in grado di mantenere in vita questo stesso essere, bensí solo una sua risonanza; e ancor piú nel fatto che anche lo stesso soggetto al quale ho per cosí dire affidato la mia sopravvivenza, non sussisterà per sempre, ma finirà invece per scomparire a sua volta.
    Tutto questo ci porta a fare il prossimo passo avanti nel nostro assunto. Abbiamo sinora detto che l'uomo non possiede in sé alcuna forza di sussistenza, per cui può continuar ad esistere solo in qualcun altro; ma anche in questo altro egli sopravvive sempre e solo in maniera ombratile, e per di piú mai nemmeno stabile e definitiva, in quanto anche l'altro è destinato a sparire dalla circolazione. Ora se le cose stanno cosí, resta soltanto “uno” che sia veramente in grado di offrire una solida base di sussistenza: colui che 'è', colui che non va soggetto al divenire e al tramontare, ma resta invece tetragono ed inconcusso pur in mezzo al divenire e al trascorrere; si tratta del Dio dei viventi, che non si limita a conservare solo un'ombra ed un'eco del mio essere, di quel Dio i cui pensieri non sono soltanto delle mere copie delle realtà esistenti. Io stesso invece sono un suo pensiero, un pensiero che mi pone in essere per cosí dire ancor piú originariamente di quello che sono in me stesso; il suo pensiero infatti non è l'ombra derivata, bensí l'energia fontale del mio essere. In lui, io posso continuar a vivere non soltanto come ombra, ma davvero in maniera ancor piú realisticamente identica a me stesso di quanto non mi riesca di vivere tentando di restarmene convulsivamente aggrappato a me stesso.
   Prima di tornare all'assunto della Risurrezione, cerchiamo ancora di esaminare la stessa cosa osservandola da un dato leggermente diverso. A tal fine, possiamo nuovamente riagganciarci al binomio amore-morte, argomentando cosí: solo quando per un soggetto il valore dell'amore supera quello della stessa vita, ossia quando uno è disposto a collocare la vita in secondo piano dietro l'amore e per far posto all'amore, solo allora - ripeto - l'amore può risultare davvero piú forte e piú alto della morte. Per esser superiore alla morte infatti, l'amore deve innanzitutto contare piú della semplice vita. Ora, quando l'amore potesse davvero esser tale non solo in linea volitiva, ma anche in realtà, vorrebbe dire che la potenza dell'amore avrebbe avuto il sopravvento anche sulla sfera meramente biologica, assoggettandola al suo servizio. Per dirla con la terminologia di Teilhard de Chardin, qualora accadesse davvero questo, si riscontrerebbe verificata la decisiva 'complessità', vale a dire attuato il ciclo complessivo: anche la sfera biologica risulterebbe compresa e inclusa nella potenza dell'amore. Allora esso verrebbe a superare anche il suo limite - la morte -, creando l'unità laddove la morte crea la separazione.
    Qualora la forza dell'amore per un altro fosse cosí intensa, da poter mantenere viva non soltanto la sua memoria, cioè l'ombra del suo 'io', ma anche la sua soggettività personale, si sarebbe raggiunto un nuovo stadio di vita, il quale si lascerebbe alle spalle la zona delle mutazioni ed evoluzioni biologiche, comportando automaticamente il balzo su un piano completamente diverso, in cui l'amore non sarebbe piú soggetto al 'bios', ma lo ingaggerebbe invece al suo servizio. Allora, un tale ultimo stadio di 'mutazione evolutiva' non rappresenterebbe ormai piú un gradino biologico, ma comporterebbe invece l'evasione dalla dispotica tirannia della vita biologica, che è al contempo signoria incontrastata della morte; esso darebbe accesso a quella sfera che la Bibbia greca chiama 'zoè', ossia vita imperitura, la quale si è ormai disimpegnata completamente dalla dittatura della morte. In tal caso, lo stadio ultimo d'evoluzione di cui il mondo abbisogna per raggiungere il suo traguardo, non si troverebbe piú nell'ambito della sfera biologica, ma verrebbe invece offerto dallo spirito, dalla libertà, dall'amore. Esso quindi non sarebbe piú un'evoluzione, bensí una decisione e un dono insieme.
Va bene, si dirà, ma tutto ciò cosa c'entra con la fede nella risurrezione di Gesú? Veniamo subito al dunque. Sinora abbiamo esaminato il problema della possibile immortalità dell'uomo guardandolo da due dati, che attualmente si presentano come aspetti d'un unico e identico dato di fatto. Abbiamo detto che, siccome l'uomo non possiede in sé alcun principio di stabile consistenza, la sua sopravvivenza potrà realizzarsi unicamente quando egli riesca a continuar a vivere in un altro. E a proposito di questo 'altro', abbiamo anche detto come soltanto l'amore, il quale accoglie l'amato in se stesso assorbendolo in sé, sia in grado di render possibile tale sussistere nell'altro. Orbene: a mio modesto modo di vedere, questi due aspetti integrantisi a vicenda si riflettono nelle due formule neo-testamentarie che ribadiscono appunto la risurrezione del Signore: "Gesú è risorto", e "Dio (Padre) ha risuscitato Gesú". Entrambe le formulazioni s'incontrano e si armonizzano nel fatto che l'amore totale portato da Gesú agli uomini, dal quale egli è stato condotto sulla croce, raggiunge lo stadio perfetto nella sua totale traslazione sul Padre, divenendo cosí piú forte della morte, in quanto si tramuta istantaneamente in un totale assorbimento in lui.
   Tenendo presente questo, ci risulta possibile fare un altro passo innanzi. Possiamo ora affermare che l'amore genera sempre una specie d'immortalità; già persino nei suoi stadi pre-umani esso marcia in questa direzione, almeno come mezzo per la conservazione della specie. Tale sua capacità di dar origine ad una immortalità non è qualcosa di accessorio, qualcosa che esso adempie come una funzione qualsiasi fra tante altre; è invece proprio la sua peculiarità, la dote essenziale che manifesta la sua vera natura. Questa affermazione è convertibile, e ci viene a dire che l'immortalità proviene “sempre” dall'amore, mai quindi dall'autarchia di colui che si considera autosufficiente. Possiamo persino spingere la nostra audacia fino ad asserire che questo principio, inteso nel giusto senso, si applica anche a Dio stesso, cosí come lo vede la fede cristiana. Anche Dio infatti è un'assoluta sussistenza e consistenza tetragona ad ogni tramonto, perché è armonica coordinazione di tre persone, è un loro trasfondersi nel mutuo amore, è atto sostanziale del loro amore assoluto eppure integralmente 'relativo', in quanto vive soltanto nel flusso inesauribile dei loro rapporti vicendevoli. Come già dicevamo in precedenza, veramente divina non è l'autarchia, che non conosce nessun altro all'infuori del soggetto stesso; è appunto per questo, che abbiamo individuato la rivoluzione dell'immagine cristiana del mondo e di Dio rispetto all'antichità nel fatto che il cristianesimo c'insegna a concepire l''Assoluto' come assoluta 'relatività', come 'relatio subsistens'.
   Ma torniamo al nostro assunto. L'amore genera l'immortalità, e l'immortalità scaturisce unicamente dall'amore. Questo principio che ci accingiamo ora a sviscerare, comporta poi inoltre che colui il quale ha amato per tutti, ha anche fondato l'immortalità per tutti. È precisamente questo il senso dell'affermazione biblica, secondo cui la “sua” risurrezione è la “nostra” vita. E riallacciandosi a questo fatto, ci diviene comprensibile anche l'argomentazione, di primo acchito cosí estranea ed ostica al nostro sentimento, sviluppata da s. Paolo nella sua prima Lettera ai Corinti: se egli e risorto, anche noi risorgeremo, perché l'amore è piú forte della morte; se invece egli non è risorto, non risorgeremo neppure noi, perché allora è chiaro che la morte ha l'ultima parola e basta (cfr. 1 Cor. 15,16). Dato che si tratta d'un asserto d'importanza centrale, cerchiamo d'interpretarlo dandone un'altra versione ancora: o l'amore è piú potente dalla morte, oppure non lo è. Se in lui esso è davvero divenuto forte cosí, lo è divenuto proprio in veste d'amore verso gli altri. Ciò per altro vuol ovviamente dire che il nostro amore soggettivo, lasciato unicamente a se stesso, non riesce a vincere la morte, ma sarebbe invece costretto per sua stessa costituzione a restare un appello inesaudito. Ciò significa a sua volta che soltanto il suo amore, il quale viene ad identificarsi con la potenza vitale ed amorosa di Dio stesso, è in grado di gettare le basi della nostra immortalità. Tuttavia, resta pur sempre assodato che la “modalità” della nostra immortalità verrà a dipendere dal nostro modo di amare.
Su questo argomento, dovremo tornare ancora quando sarà il momento di parlare del giudizio. Dai rilievi sinora fatti, fluisce un'altra cosa ancora. Va da sé che la vita del risorto non sarà piú il semplice 'bios', ossia la forma biologica della nostra vita attuale infra-storica e quindi votata alla morte, bensí la 'zoè', ossia una vita nuova, diversa, stabile e definitiva; una vita che ha ormai superato la sfera mortale della vicenda biologica, sfera che qui si trova scavalcata definitivamente da una potenza superiore. Infatti, gli stessi racconti neo-testamentari della risurrezione ci fanno vedere chiaramente come la vita del Risorto non si svolga ormai piú nell'ambito della vicenda biologica, ma fuori e sopra di essa. È però altrettanto ovvio e scontato che questa nuova vita si è attestata e doveva necessariamente attestarsi “nella” storia, perché esiste proprio “in funzione” di essa, tanto è vero che la predicazione cristiana in fondo altro non è se non la trasmissione di tale testimonianza, tutta intenta a ribadire che l'amore è riuscito a sfondare la staccionata della morte, cambiando cosí radicalmente la situazione in cui ognuno di noi versa. Partendo da queste nozioni basilari, non risulta piú poi tanto difficile trovare la giusta 'ermeneutica' da adottare nell'intricata questione del come spiegare i testi biblici concernenti la risurrezione, cosí da mettere in chiaro in quale senso vadano esattamente intesi. Ovviamente, non possiamo qui intavolare una particolareggiata discussione sui relativi problemi insorgenti, che oggi si presentano piú difficili di quanto mai non siano stati in passato, soprattutto perché vi si continuano a mescolare in un viluppo sempre piú inestricabile affermazioni storiche e filosofiche - per lo piú insufficientemente ponderate -; e inoltre anche perché non di rado l'esegesi si costruisce una filosofia tutta sua, la quale all'estraneo deve per forza dar l'impressione d'una estremamente raffinata esaltazione del reperto biblico. In merito ai particolari, qui molte cose rimarranno sempre assai discutibili; tuttavia, va pur ammessa una linea fondamentale di demarcazione fra interpretazione che sappia mantenersi tale, e adattamenti spiccatamente arbitrari. In primo luogo è chiarissimo che Cristo, nella risurrezione, non ha ripreso la sua vita terrena antecedente, come ci vien detto ad es. del ragazzo di Naim e di Lazzaro. Egli è risorto invece a quella vita stabile e definitiva, che non sottostà piú alle leggi chimiche e biologiche, e quindi risulta ormai sottratta all'eventualità della morte, posta anzi per sempre al riparo nell'eternità accordata dall'amore. Ecco perché gli incontri avvenuti con lui sono 'apparizioni'; ecco perché colui assieme al quale ancora due giorni prima si era seduti a mensa, non viene piú nemmeno riconosciuto dai suoi migliori amici, e anche una volta riconosciuto rimane estraneo ad essi, cosicché solo quando “egli” stesso concede la facoltà di vederlo “vien” davvero visto; in effetti, solo allorché egli ci apre gli occhi e il nostro cuore si lascia aprire, può risultar percettibile in mezzo al nostro mondo di morte il volto dell'eterno amore vincitore della morte, e in esso il mondo nuovo, completamente diverso dall'attuale: il mondo del futuro.
   Per la stessa ragione, torna tanto difficile, per non dire addirittura impossibile, anche agli stessi vangeli il descrivere gli incontri col risorto; quando ne parlano, non fanno che balbettare, e sembrano persino contraddirsi mentre ce li presentano. In realtà invece, sono sorprendentemente unanimi nella dialettica delle loro affermazioni, nel ribadire la contemporaneità del suo toccare e non toccare, del loro riconoscere e non riconoscere, nell'insistere sulla perfetta identità fra il crocifisso e il risorto, ma anche sulla radicale trasformazione avvenuta in lui. Si riconosce il Signore quasi senza riconoscerlo; lo si tocca, eppure egli è l'intangibile; egli è lo stesso, eppure è tutto diverso da prima. Come si è detto, questa dialettica è sempre la stessa: cambiano solo i mezzi stilistici con cui viene messa a fuoco. Esaminiamo ad esempio l'episodio dei discepoli di Emmaus, nel quale ci siamo già brevemente imbattuti, sviscerandolo un pochino meglio sotto questo aspetto.
    A tutta prima esso suscita l'impressione di aver dinnanzi una descrizione corposa e massiccia della risurrezione; dà la sensazione che non sia rimasta traccia di quell'alone misterioso e indescrivibile che troviamo invece sempre nelle esposizioni paoline. Tutto fa pensare che la tendenza alla narrazione colorita, alla concretezza leggendaria, sostenuta da un'apologetica mirante al tangibile, abbia avuto completamente il sopravvento, riportando di peso il Signore risorto nella storia terrena. Ma risulta subito in netta contraddizione con tale fatto già la di lui misteriosa comparsa, e non meno misteriosa sparizione. E ancor piú contraddittoria è la circostanza che egli qui rimanga irriconoscibile ad occhi pur assuefatti alla sua presenza. Non si è piú in grado di coglierlo come al tempo della sua vita terrena, sicché viene scoperto solo nell'ambito della fede; interpretando le Scritture egli infiamma il cuore dei due pellegrini, e spezzando il pane apre loro gli occhi. Qui abbiamo una chiara allusione ai due elementi basilari della liturgia cristiana primitiva, che si compone appunto di liturgia della parola (lettura e spiegazione della s. Scrittura) e di frazione eucaristica del pane. In tal modo, l'evangelista lascia capire che l'incontro col risorto viene a collocarsi su un piano completamente nuovo; utilizzando le 'cifre' dei dati liturgici, egli tenta di descrivere l'indescrivibile. Ci dà cosí una teologia della risurrezione e al contempo una teologia della liturgia: il risorto s'incontra nella Parola e nel sacramento; l'azione liturgica è la maniera in cui egli si rende a noi percettibile, riconoscibile come il Vivente. E argomentando in modo inverso: la liturgia si fonda sul mistero pasquale; essa va intesa come un avvento del Signore fra noi, che lo porta a farsi nostro compagno di viaggio, ad infiammarci gli ottusi cuori e ad aprirci gli occhi serrati. Egli continua sempre a camminare con noi, trovandoci sempre scoraggiati ed intenti ad almanaccare; ma ha pur sempre il potere di ridarci la vista. Con tutto quanto siam venuti sin qui esponendo, abbiamo ovviamente detto soltanto una metà del dovuto; la testimonianza neo-testamentaria risulterebbe falsata, qualora volessimo arrestarci unicamente a questo. L'esperienza che si fa imbattendosi nel risorto è qualcosa di ben diverso dall'incontro con un uomo tuttora vivente in questa nostra storia; non può però certo venir fatta risalire a discorsi conviviali e a ricordi, che avrebbero finito per condensarsi nel pensiero che egli fosse ancora vivo e che la sua causa proseguisse vittoriosa. Con un'interpretazione del genere, l'evento viene sospinto nella direzione opposta e appiattito nella sfera meramente umana, e quindi privato della sua peculiarità. I resoconti lasciatici sulla risurrezione sono qualcosa di ben diverso e piú sostanzioso di semplici scene liturgiche travestite: mettono invece in risalto l'avvenimento base su cui poggia ogni liturgia cristiana. Essi attestano un fatto che non è sbocciato come un sogno fantastico dal cuore dei discepoli, ma è invece capitato loro dal di fuori, imponendosi ad essi “contro” i loro dubbi e infondendo loro una certezza: il Signore è veramente risorto.
   Colui che giaceva nella tomba, non si trova piú là, ma vive nuovamente e realmente in persona. Egli poi a sua volta, che ormai si era trasferito nell'altro mondo di Dio, aveva però saputo mostrarsi potente al punto, da manifestare sino alla tangibilità come fosse proprio lui stesso che ora stava loro davanti, facendo vedere come in lui la potenza dell'amore si fosse palesata piú forte della potenza della morte. Orbene: solo ammettendo questo altrettanto seriamente quanto si è ammesso ciò che abbiamo detto in precedenza, ci si attiene fedelmente alla testimonianza del Nuovo Testamento; solo cosí si conserva ad essa il suo peso storico intramondano. Il troppo comodo tentativo di risparmiarsi da un lato la fede nel mistero della poderosa azione esercitata da Dio nel mondo, pretendendo al contempo la soddisfazione di rimanere pur sempre sul terreno del messaggio biblico, è un conato destinato ad andare a vuoto: non appaga infatti né l'onestà della ragione, né le esigenze della fede. Non è possibile avere la fede cristiana, e insieme la "religione ristretta nei limiti della mera ragione"; la scelta fra le due s'impone inderogabilmente. A chi crede però, risulterà man mano sempre piú chiaramente discernibile come lo stadio piú perfetto della ragione sia proprio la professione di fede in quell'amore che ha vinto la morte.


Tratto da: Ratzinger J., Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, (Biblioteca di teologia contemporanea 5), Ed. Queriniana, Brescia 1974, 245-253.

domenica 12 aprile 2020

OFFRIAMOCI A CRISTO CHE SI È OFFERTO PER NOI, di San Gregorio Nazianzeno (329-390)




OFFRIAMOCI A CRISTO CHE SI È OFFERTO PER NOI


San Gregorio Nazianzeno (329-390)


    E' la Pasqua del Signore, è la Pasqua, sì, la Pasqua, diciamolo ancora a gloria della Trinità. E' per noi la festa delle feste, la solennità delle solennità. Come il sole supera le stelle col suo splendore, così essa supera tutte le altre feste, e non solo quelle degli uomini, che sono puramente terrene, ma anche quelle che sono di Cristo stesso e che si celebrano in suo onore... Ieri l'Agnello veniva immolato, e gli stipiti delle porte aspersi di sangue. Mentre l'Egitto piangeva i suoi primogeniti, noi, protetti da quel sangue prezioso sfuggivamo all'angelo sterminatore, a cui quel segno incuteva timore e rispetto.  Oggi abbiamo definitivamente lasciato l'Egitto, la tirannia del Faraone crudele e l'oppressione dei sorveglianti; siamo stati liberati dal lavoro dell'argilla e dei mattoni. Nessuno può impedirci di celebrare, a gloria del Signore nostro Dio, la festa dell'Esodo, e di celebrarla non con il vecchio lievito della malizia e della malvagità, ma con gli azzimi della sincerità e della verità (I Cor. 5,8), perché ormai non portiamo più niente con noi dell'empio lievito dell'Egitto. Ieri ero stato crocifisso con Cristo, oggi con lui sono glorificato. Ieri morivo con lui, oggi con lui torno alla vita. Ieri con lui venivo sepolto, oggi con lui risorgo.
    A colui che per noi ha sofferto ed è risuscitato offriamo dunque dei doni. Penserete forse che io parli di oro o di argento, di tessuti o di brillanti e pietre preziose: materie effimere di questa terra, destinate a rimanere quaggiù... Offriamo piuttosto noi stessi, perché queste sono le ricchezze più gradite e più degne di Dio.
    All'immagine di Dio che è in noi, restituiamo tutto lo splendore che le è proprio: riconosciamo la nostra dignità, rendiamo onore al modello originario. Cerchiamo di comprendere la potenza di questo mistero e lo scopo per cui Cristo è morto. Cerchiamo di essere simili a Cristo, dal momento che Cristo si è fatto simile a noi: diventiamo Dio per mezzo di lui, dato che lui si è fatto uomo per noi. Egli ha preso su di sé quello che c'era di più basso, per donarci quello che c'è di migliore. Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà, ha preso forma di schiavo perché noi ottenessimo la libertà. E' disceso perché noi fossimo innalzati ; è stato tentato perché noi superassimo la prova; è stato disprezzato perché noi avessimo la gloria. E' morto perché noi fossimo salvati; è salito al cielo per attirare a sé quelli che giacevano a terra, caduti nel peccato. Ciascuno dia senza riserva, offra tutto a colui che sostituendosi a noi, ha dato se stesso come prezzo della nostra redenzione. Penetrando nel mistero, non possiamo dare nulla di meglio che noi stessi, diventando per Cristo tutto quello che lui è divenuto per noi.


* Eis ton aghiovpascha, XLV: P.G. 36, 624; I, P.G. 35, 397-400. 


 

Una serena e Santa Pasqua a tutti! Cristo è risorto! Alleluia!


Una serena e Santa Pasqua a tutti! 
Cristo è risorto! Alleluia!


Risurrezione di Gesù, di Beato Angelico


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