mercoledì 17 giugno 2020

«ERAT LUX VERA» L’esperienza di Dio tra storia, arte e teologia, a cura del Centro Studi Francescani




«ERAT LUX VERA» 
L’esperienza di Dio tra storia, arte e teologia 

a cura del Centro Studi Francescani 



«Ἦν τὸ φῶς τὸ ἀληθινόν, ὃ φωτίζει πάντα ἄνθρωπον, ἐρχόμενον εἰς τὸν κόσμον [Erat lux vera, quae illúminat omnem hóminem veniente in hunc mundum]» (Gv 1,9).


Il paradosso più grande della Rivelazione biblica è l’incarnazione del Verbo. La carne di Gesù è il corpo del Figlio, è il Dio-Figlio in mezzo a noi. Nella Parola divenuta carne troviamo il carattere scandaloso e assoluto del darsi di Dio nella storia: la sua tenda è “per sempre” tra gli uomini[1]. L’incarnazione avviene in modo pieno, in una misura eccessivamente estroversa eppur vera, reale, concreta, tangibile, personalissima. “Umano, troppo umano”, questo modo di fare e d’essere dell’Emmanuele! Il volto giovane della Parola è l’immagine propria della bellezza che salverà il mondo, di quello splendore della verità che è da sempre presso il Padre[2].
Una tensione fortissima attraversa interamente il quarto Vangelo ed è ben resa dal movimento della luce, cioè dal dinamismo stesso della Rivelazione che spinge il credente a cercare il Mistero non in alto, nel cielo, bensì in basso, nelle radici più nascoste dell’umanità di Gesù, nella certezza di essere preceduti e accompagnati nella conoscenza divina delle cose. Potremmo ripetere, senza sbagliare, con Simon Weil, che il Verbo luce del mondo viene “con ogni uomo”. Perché ogni respiro del Verbo fatto carne è eco di quella Parola eterna che da sempre abita presso il Padre. Qualsiasi lacrima versata da Gesù è una goccia di pianto divino. Il sangue sgorgato dal Messia sofferente è vigore dell’Onnipotente che bagna la terra e il mondo degli uomini affinché siano salvati. Così, il suo viso è il volto visibile, umano, storico, del Padre (cf. Gv 14,9-11), e la sua faccia è quella della gloria di Dio stesso (cf. 2Cor 4,6), lo splendore della sua gloria (cf. Eb 1,3). Attraverso il Cristo-Luce si rivela qualcosa dell’essenza divina, di quel Padre degli astri (cf. Gc 1,5) che nessuno ha mai visto[3].




1. L’arte divina incarnata


Una felice tradizione cristiana antica – particolarmente cara all’Oriente e ripresa nel Medio Evo da san Bonaventura da Bagnoregio – vedrà nel Cristo Verbo incarnato e abbreviato l’opera magna e perfetta uscita dalla mano del Creatore e Artefice di ogni cosa. Gesù Cristo, il Logos eterno, è l’arte divina incarnata, l’opera d’arte più bella che il Padre poteva compiere: nessuna creatura è uscita dalle mani del Creatore senza avere come modello e strumento il Verbo eterno. L’Invisibile si è fatto visibile affinché l’umanità scoprisse il Padre e ritornasse a quel mondo divino oscurato dal peccato che acceca il cuore e gli occhi dei credenti e di tutta l’umanità[4]. Il Padre non ha previsto una seconda incarnazione perché l’opera d’arte del Verbo è perfetta: Cristo è il perfetto comunicatore del Padre e dello Spirito Santo, di tutta la Trinità! In tale prospettiva, ne risulta che la luce di Dio è più interiore a noi della luce razionale[5]. L’uomo, attraverso la rivelazione, deve arrivare a vedere Dio in tutte le cose e sopra tutte le cose[6]. Il mondo, nel quale l’Eterno si manifesta, canta già la sua bellezza e la sua magnificenza, e tanto più è chiamato a fare Adamo, volto di Luce, immagine del Dio invisibile.
A tal proposito, il dottore serafico scrive: «Apri, dunque, i tuoi occhi, tendi le orecchie dello spirito, sciogli le tue labbra e offri [eccita] il tuo cuore, affinché tu veda in tutte le creature il tuo Dio, lo ascolti, lo lodi, lo ami e lo adori, lo canti, lo onori perché non si rivolga forse contro di te tutta la terra»[7].
La nostra conoscenza sensibile avviene, per circa il 70%, attraverso gli occhi: la luce rientra in questo tipo di approccio alla realtà fisica e sensoriale e, rinvia, ovviamente, a una percezione più profonda della realtà, che ben si addice al tema della Rivelazione e dell’arte. In tal senso, la luce colora, riscalda, è simbolo della vita e del divenire di Dio nella forma della comunione. La luce è il simbolo stesso dell’esistenza. In Adamo, la luce riflette la sostanza di Dio e il significato del suo esistere nel mondo. L’uomo, in tal senso, non è solamente pelle, ossa e tendini: in lui s’incontrano il cielo e la terra, ed egli come una menorah, il candelabro a sette braccia che brillava nel tempio di Gerusalemme.
Proveremo a rileggere l’interessante rapporto tra la luce, l’arte e la teologia seguendo soprattutto il Vangelo simbolico di Giovanni e ponendo attenzione ad alcune forme dell’arte nel tempo, riconoscendo nella via pulchritudinis – che sollecita lo stupore e la meraviglia per la vita e per tutto il creato come opera d’arte di Dio – un percorso sempre attuale per l’evangelizzazione e per far sì che l’uomo maturi la dimensione simbolica della sua esistenza, cioè l’essere in comunione con l’Assoluto[8]. È necessario prendere atto di questo principio-guida: dopo l’incarnazione del Verbo, tutto è dominato dal volto, dal volto umano di Dio. Cristo rivela il carattere visivo della Parola: l’ascolto si fa visione.
Il percorso di luce[9] ci permette di affermare chiaramente che non siamo sospesi nel nulla: la vita, la vicenda personale e collettiva, la silenziosa armonia dei cieli, non sono efflorescenze dell’assurdo, interruzioni del nulla, che da esso escono e in esso ritornano, ma frammenti in cui si offre il Tutto di un amore antico, la bellezza di un disegno d’amore, la generosità di un dono eterno e sempre nuovo. Proprio così, il mistero supera ogni nostro tentativo di afferrarlo: esso non è facile preda, oggetto del calcolo o del desiderio, ma grembo e custodia, trama di un più grande disegno, dimora dell’Eterno, patria di Dio. Si comprende, allora, come la grande legge della conoscenza umana non possa essere l’orgoglioso cogito, ergo sum, ma sia il molto più umile e vero cogitor, ergo sum: è perché sono pensato da Altri, che io esisto; è perché Altri mi ama, che io sono uscito dal nulla; è perché questo amore è eterno, che il mio, il nostro destino, non è il nulla, ma la vita che vince la morte. Amor, ergo sum: sono, perché un Altro mi ama, da sempre e per sempre. Si comprende, allora, come sia vero che «non è la conoscenza che illumina il mistero, ma il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai»[10].




2. L’umano simbolico


Lo scandalo della rivelazione cristiana è l’umanità del Verbo che, in qualche modo, copre e svela, nel medesimo tempo, la luce divina del Figlio. Nella logica del quarto Vangelo, ogni atto di Cristo non può non contenere un recondito significato, non può non esprimere un particolare intervento di Dio nella storia degli uomini: tutto ciò che è la persona di Gesù Cristo è rivelazione del Padre e fonte di grazia, dono dello Spirito Santo. In tal senso, tutto ciò che si manifesta è luce. L’essenza di Dio consiste in questo: rivelarsi per creare relazione, comunione, per salvare. Diversamente, il male – ben raffigurato dalle tenebre o dalle ombre e dalla notte – indica ciò che passa, che non ha contenuto e che ha la sua forza nel velarsi, nel nascondersi. La notte, come l’oscurità, significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte oscura del monte degli ulivi per superarla. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità. Anch’egli compie un percorso di luce.
Da qui il carattere simbolico dell’esistenza di Gesù e dello stesso Vangelo di Giovanni. Cristo è il simbolo reale differenziato (personalissimo, unico, originale) del Padre: in lui s’incontrano concretamente e personalmente Dio e l’uomo: «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». Altrove commenta: «Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Cristo è Luce che illumina e acceca allo stesso tempo. L’incontro con lui è sempre carico di tensione e di dramma. È sufficiente rileggere, a tal proposito, la guarigione del cieco fin dalla nascita (cf. Gv 9,1-41) che è interrogato dai sacerdoti di Gerusalemme che vogliono sapere il nome del guaritore e poi pretendono che neghi di essere nato cieco, pur dentro un intrico di consapevoli contraddizioni. Infine, non riuscendo allo scopo, i giudei cacciano fuori dal tempio il cieco risanato che, però, è accolto da Gesù e gli viene rivelato il contenuto simbolico della sua guarigione: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9,39). È chiaro che nella guarigione del cieco prende forma una visione spirituale che permette di scoprire il Cristo-Luce come Figlio di Dio e Signore della vita.
Il Cristo del quarto Vangelo è il Verbo che si è fatto carne e abita fra di noi (cf. Gv 1,14), ed è sostanza di vita. Non solo l’umanità di Cristo, ma anche le cose e la storia diventano sede della sua presenza. Fin dal prologo, Cristo è concepito come il cuore di una nuova creazione, come il Maestro di luce, il Rivelatore celeste attraverso la sua stessa carne o umanità. Cristo si rivela come luce del mondo con i suoi atti e le sue parole, attraverso l’intera esistenza. Da questa certezza teologica scaturisce un particolare ethos o condotta che è quella di essere, per i credenti, figli della luce. La Rivelazione non è mai fine a se stessa: tende a far incontrare l’uomo con Dio e a salvarlo. Diversamente, la conoscenza-esperienza di Dio resterebbe qualcosa di astratto, di gnostico, di superficiale. In tal senso, la luce è un segno che manifesta sempre qualcosa del Signore, il Dio vestito di luce. È come il riflesso della sua gloria (cf. Sal 104,2).
Potremmo rileggere il percorso spirituale e illuminativo del Cristo-Luce presente nel Vangelo di Giovanni – che ben permette di interpretare il nostro percorso artistico e archittettonico – lasciandoci guidare da un principio molto caro non solo alla tradizione giovannea ma alla stessa rivelazione giudaico-cristiana: “Tutto ciò che è luce si manifesta”. Poiché il Verbo è da sempre presso il Padre e la Luce splende nelle tenebre, nessuno è in grado di fermare la forza rivelatrice e liberante della Luce che resta e permane nella sua dinamicità e storicità. La luce illumina il mondo, colora la nostra vita, riscalda i cuori, orienta i nostri passi, illumina d’immenso i nostri volti. Diversamente, invece, le tenebre – ombre – sono ciò che passano (quindi, “non sono”), indicano l’effimero che non ha consistenza ed è destinato a finire, a cadere nel vuoto. La Luce, invece, è ciò che resta – permane nel Bene –: è Dio fatto carne, l’Emmanuele.
Si può non accogliere la rivelazione del Verbo, contrastarla fino a un certo punto, ma non nasconderla, perché la Luce brilla da sé e non può essere fermata proprio per la sua dinamicità e potenza. Un carattere essenziale della luce è la diafanicità: lo splendore non può essere mistificato per la sua stessa evidenza o bagliore. Se è vero che Dio abita una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16) – ed «è egli stesso luce, e in lui non ci sono tenebre» (1Gv 1,5) –, lo spazio di questa luce è Gesù Cristo, impenetrabile splendore dal quale non ci resta che lasciarci toccare e illuminare.
La rivelazione del Cristo-Luce ha un carattere progressivo che l’evangelista Giovanni ha saputo ben evidenziare in tutti i suoi racconti: solamente attraverso la fede si può fare un’esperienza concreta di Gesù Cristo quale Verbo venuto nella carne. Tutto ciò che è luce proviene da Cristo: dalla creazione della luce fisica nel primo giorno fino all’illuminazione dei nostri cuori a opera della grazia (cf. 2Cor 4,6). E tutto ciò che rimane estraneo a questa luce appartiene al dominio delle tenebre. Se è vero che è stato Dio a chiamarci «dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (1Pt 3,9) e che, strappandoci al dominio delle tenebre, ci ha trasferiti nel regno del Figlio suo affinché condividiamo la sorte dei santi nella luce (cf. Col 1,12-13), noi credenti – battezzati – «siamo luce nel Signore» (Ef 5,8) e ciò determina una linea di condotta che è quella di «vivere da figli della luce» (Ef 5,8; cf. 1Ts 5,5).
Per vivere la vita dei figli della luce, raccomandazione già fatta da Gesù (cf. Gv 12,35-36), occorre che noi non lasciamo oscurare la luce interiore (cf. Mt 6,22). In tal senso, l’etica cristiana è pienamente pasquale: il frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero. Invece, le opere sterili delle tenebre comprendono i peccati d’ogni specie (cf. Ef 5,9-14). L’apostolo Giovanni non parla diversamente: «camminare nella luce» per essere in comunione con il Dio che è luce (cf. 1Gv 1,5-7). Il criterio è l’amore fraterno: da questo si riconosce se si è nelle tenebre o nella luce (cf. 1Gv 2,8-11). Chi vive in questo modo, come figlio della luce, fa risplendere tra gli uomini la luce divina di cui è diventato custode.
Il Cristo-Luce diventa il nostro punto di riferimento non solo per l’agire pasquale e agapico, ma anche per il nostro cammino verso il futuro. Impegnati in questa vita, noi possiamo sperare la meravigliosa trasfigurazione che Dio ha promesso ai giusti nel suo Regno (cf. Mt 13,43). Le Sacre Scritture, presentando la Gerusalemme celeste, dicono chiaramente che questa città è illuminata dalla luce divina (cf. Ap 21,23; Is 60): gli eletti contempleranno la faccia di Dio che è Cristo e saranno illuminati dalla luce dell’Agnello (cf. Ap 22,4-5). Questa è la speranza dei figli della luce che accoglie le stesse promesse del Primo Testamento in chiave escatologica: «Il popolo che camminava nelle tenebre vedrà una grande luce» (Is 9,1; cf. 42,7; 49,9; Mi 7,8-9).




3. Il percorso artistico della luce


L’arte che il cristianesimo incontrò ai suoi inizi era il frutto maturo del mondo classico, ne esprimeva i canoni estetici e, al tempo stesso, ne veicolava i valori. La fede imponeva ai cristiani, come nel campo della vita e del pensiero, anche in quello dell’arte, un discernimento che non consentiva la ricezione automatica di questo patrimonio. L’arte d’ispirazione cristiana cominciò, così, in sordina, strettamente legata al bisogno dei credenti di elaborare dei segni con cui esprimere, sulla base della Scrittura, i misteri della fede e insieme un “codice simbolico”, attraverso cui riconoscersi e identificarsi specie nei tempi difficili delle persecuzioni. I simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica furono il pesce, i pani, il pastore: evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova.
Con l’editto di Costantino, ai cristiani fu concesso di esprimersi in piena libertà. Così, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, in cui i canoni architettonici dell’antico paganesimo erano ripresi e insieme piegati alle esigenze del nuovo culto. È sufficiente ricordare l’antica Basilica di S. Pietro e quella di S. Giovanni in Laterano, costruite a spese dello stesso Costantino. O, per gli splendori dell’arte bizantina, la Haghia Sophía di Costantinopoli voluta da Giustiniano.
Mentre l’architettura disegnava lo spazio sacro, progressivamente il bisogno di contemplare il mistero e di proporlo in modo immediato ai semplici spinse alle iniziali espressioni dell’arte pittorica e scultorea. Insieme sorgevano i primi abbozzi di un’arte della parola e del suono, e se Agostino, fra i tanti temi della sua produzione, includeva anche un De musica, Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola, per non citare che alcuni nomi, si facevano promotori di una poesia cristiana che spesso raggiunge un alto valore non solo teologico ma anche letterario. Il loro programma poetico valorizzava forme ereditate dai classici, ma attingeva alla pura linfa del Vangelo, come efficacemente sentenziava il santo poeta nolano: «La nostra unica arte è la fede e Cristo è il nostro canto»[11]. Le immagini sacre, ormai diffuse nella devozione del popolo di Dio, furono fatte oggetto di una violenta contestazione. Il Concilio celebrato a Nicea nel 787, che stabilì la liceità delle immagini e del loro culto, fu un avvenimento storico non solo per la fede, ma per la stessa cultura. L’argomento decisivo a cui i Vescovi s’appellarono per dirimere la controversia fu il mistero dell’incarnazione: se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta.
In Oriente continuò a fiorire l’arte delle icone, legata a significativi canoni teologici ed estetici e sorretta dalla convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto. Proprio per questo, la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce. L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste.
In Occidente i punti di vista da cui partono gli artisti sono i più vari, in dipendenza anche dalle convinzioni di fondo presenti nell’ambiente culturale del loro tempo. Il patrimonio artistico che s’è venuto accumulando nel corso dei secoli annovera una vastissima fioritura di opere sacre altamente ispirate, che lasciano anche l’osservatore di oggi colmo d’ammirazione. Restano, in primo piano, le grandi costruzioni del culto, in cui la funzionalità si sposa sempre all’estro, e quest’ultimo si lascia ispirare dal senso del bello e dall’intuizione del mistero. Ne nascono gli stili ben noti alla storia dell’arte. La forza e la semplicità del romanico, espressa nelle cattedrali o nei complessi abbaziali, si va gradatamente sviluppando negli slanci e negli splendori del gotico. Dentro queste forme, non c’è solo il genio di un artista, ma l’animo di un popolo. Nei giochi delle luci e delle ombre, nelle forme ora massicce ora slanciate, intervengono certo considerazioni di tecnica strutturale, ma anche tensioni proprie dell’esperienza di Dio, mistero “tremendo” e “fascinoso”.
Se guardiamo all’architettura dell’Alto Medioevo, ci accorgiamo che la fisionomia dell’urbe è caratterizzata dalla cattedrale gotica come centro preminente di tutto che richiama l’uomo al di dentro e in alto. Alla luce della cattedrale, l’esistenza povera e piena di preoccupazioni per l’uomo s’illumina; e, con le sue colonne e le sue torri che tendono all’alto, la cattedrale trascina l’uomo verso la vita definitiva. La luce indica anche un percorso di trascendenza e di salita verso l’alto, affinché ci sia comunione con l’Uno e il Tutto, l’Assoluto.
Le irruzioni che prorompono dalle sorgenti della filosofia e delle scienze antiche, l’impetuosità dei giovani popoli dopo la caduta dell’impero romano, la nascita di ordini mendicanti accanto alla forma classica dell’ordine benedettino, e soprattutto la ricca articolazione della vita ecclesiale e sociale, lo sviluppo delle arti e delle scienze: tutta questa inaspettata evoluzione delle possibilità umane non si degrada in un caos, perché rimane – almeno fondamentalmente, anche se soltanto lontanamente ad essa corrisponde la prassi – il Centro che ha il suo simbolo architettonico nella cattedrale gotica. La Luce – simbolo della sovrastante grandezza del Dio trascendente – non schiaccia le possibilità umane, anzi, al contrario, sprigiona il pensiero, l’opera d’arte, e gioia e dolore del cuore, come raramente in altre epoche e in altri spazi culturali. Quanto in alto la luce divina solleva l’uomo e quanto vuole farlo entrare nel suo proprio mistero, lo si vede soprattutto nella cattedrale gotica con la posizione centrale di Maria, nel portale principale e nei quadri degli altari.
Il tempo moderno, diversamente, riscopre soprattutto l’azione illuminativa del pensiero umano, delle energie spirituali del soggetto, e, quindi, per forza di cose, non costruisce più cattedrali, non ne è più capace, perché questa epoca pensa diversamente[12]. Le sue cattedrali sono le fabbriche, nelle quali è evidente il trionfo della tecnica. Già nelle lussuose costruzioni del Rinascimento e del Barocco, l’uomo mette sempre più al centro se stesso. Si punta, allora, sulla “luce interiore”: è stata questa l’esperienza dei mistici e della devotio moderna. L’uomo moderno sperimenta con sempre maggiore coscienza le sue possibilità, come pure la potenza della sua stessa libertà[13]. Dove la ragione trionfa, si alza il sole dell’avvenire. In tal senso, si può dire che la modernità corrisponde al tempo dell’emancipazione e al tempo della luce. Questa emancipazione[14] – del singolo come della società – dalla natura e dai suoi apporti, dalle Chiese e dai loro ordinamenti etico-religiosi, l’emancipazione della filosofia e delle scienze dalla teologia, degli Stati nazionali dall’Impero, dei cittadini dall’autorità dell’aristocrazia, tutto questo non era all’inizio una protesta contro Dio, la Chiesa e il cristianesimo, piuttosto è accaduto indipendentemente da essi.
Affrontare scientificamente e tecnicamente il mondo e l’uomo, sperimentarlo “come se Dio non esistesse” – questo motto di Ugo Grotius all’inizio del tempo moderno è stato soltanto un indirizzo metodico –, non voleva essere una dichiarazione di lotta antireligiosa[15]. Questo movimento di opposizione alla Luce si è rivolto direttamente contro Dio, la Chiesa e la religione soltanto con la rivoluzione francese, la filosofia nichilista di Nietzsche[16] e con l’ateismo di Marx[17]. Nonostante tutto il progresso tecnico e umano del tempo moderno – si pensi soltanto allo sviluppo della medicina e alla proclamazione dei diritti umani –, non si può negare il regresso: per la prima volta nella storia dell’umanità è stata pronunciata ad alta voce e con efficacia la negazione di Dio, e questo proprio in uno spazio culturale che prima era cristiano. La ragione ha vinto e la fine risale all’inizio. L’oggetto supremo è diventato il pensiero stesso: non c’è nulla di inaccessibile alla ragione ma non c’è neanche più alcun aldilà. Il grande edificio della realtà è distrutto: Dio e l’uomo si sono volatilizzati nel concetto limite di un soggetto della conoscenza. La ragione emancipata, assorbendo Dio, ha affogato in sé ogni alterità possibile: orami, essa resta la sola responsabile del divenire del mondo. Tuttavia, ogni limite – come lo stesso pensiero della morte – le è insopportabile, ogni confine le è provocazione al superamento. Così, prende forma l’ideologia – il totalitarismo – in ogni aspetto del pensiero e dell’agire umano.
La benedizione e la maledizione di questa emancipazione richiedono un nuovo inizio, perché è in gioco la sopravvivenza dell’umanità. Con più insistenza che nessun’altra voce del mondo, hanno parlato gli ultimi papi[18], e ha elevato la sua voce il Concilio ecumenico Vaticano II: solamente con il Dio di Gesù Cristo, Luce della vita – e non senza di lui o contro di lui –, possono realizzarsi l’uomo e la società post-moderna che ha vissuto il buio più assoluto con l’esperienza delle due guerre mondiali. Solamente accogliendo la luce vera che illumina ogni uomo è possibile dare una speranza e progettare un futuro per gli uomini e le donne del Terzo Millennio, creando comunione tra tutti gli esseri umani che formano una grande famiglia umana e una sola fraternità universale perché Dio è Padre di tutti (cf. NA 5). Ogni discepolo di Cristo, Luce della vita, è chiamato a far sì che le persone ritrovino la propria grandezza in Dio. Più che di fonti di energia e alternative e di materie prime nuove e di fonti rinnovabili, c’è bisogno che si schiudano delle sorgenti dalle quali possa alimentarsi l’uomo stesso, la sua libertà e la sua bontà. Guardare alla luce che promana da Cristo vuol dire, oggi, a poca distanza dal “Secolo breve” – il più violento della storia[19] – e nella piena crisi economica e finanziaria dell’Occidente emancipato, trarre speranza e vita nuova dalle stesse energie della storia che ancora oggi operano in mezzo a noi per volontà di Dio e che potrebbero affermarsi ancora di più se fossero di nuovo o per la prima volta scoperte. Si tratta di liberare energie umano-divine che sono ancora inutilizzate e di recuperare la dimensione simbolica della nostra esistenza.
È quanto la luce, che viene da ogni vera esperienza religiosa, permette di operare nelle nostre comunità e città. L’uomo ha bisogno sempre più di comunione e di creare nuove relazioni, perché è costitutivamente un essere simbolico. La concezione esclusivamente tecnica dell’uomo e del mondo non è più in grado di fare fronte a quelle domande che tutti quanti ci portiamo dentro: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Perché ci troviamo qui? Qual è il senso della vita?”.
Il revival religioso nella post-modernità, pur con tutte le sue ambiguità di significato, di contenuto e di prassi, è sintomo evidente di quella cifra della Trascendenza – il divino che è in noi o Assoluto – che ci portiamo dentro da sempre e che mai potremo soffocare[20]. Oggi si parla dell’uomo religioso inteso come essere simbolico, capace cioè di intessere legami e di costruire attorno a relazioni autentiche il senso della propria vita. L’homo religiosus et symbolicus crede sempre che esista una realtà assoluta, il sacro appunto, che trascende il mondo in cui viviamo ma che vi si manifesta e, in questo modo, lo santifica e lo rende reale. L’homo religiosus et symbolicus si diversifica nel concreto a seconda delle varie religioni: la sua esperienza e le sue credenze portano il marchio specifico e indelebile della sua propria religione di appartenenza. La visione simbolica dell’esistenza e della vita in genere aiuta il processo di umanizzazione del mondo e l’affermarsi dell’Assoluto come garante di un nostro possibile futuro e del rispetto della dignità d’ogni persona.
In effetti, il sogno di emancipare il mondo e la vita – che costituiva la vera ideologia del “secolo dei lumi” –, si è infranto, e l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni che era proprio dell’illuminismo, non è stato raggiunto, in nessun modo. Anzi, la terra che si pensava interamente illuminata dalla ragione è stata attraversata dalle tenebre della morte e della violenza. I segni ombratili tuttora eloquenti, che coprono le nostre coscienze e ci trasmettono paura, sono le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del secolo XX, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. Il sole della ragione si è oscurato e le pretese fallimentari della ragione forte hanno determinato un tempo di naufragio e di caduta di senso[21]. È la post-modernità, la nostra epoca, segnata dalla finitudine e dalla crisi, da una profonda inquietudine che apre le porte all’indifferenza, al solipsismo, all’individualismo, all’amore liquido, fino a relegarci tutti quanti in quella “notte del mondo” di heideggeriana memoria dalla quale solo un ultimo Dio ci potrà salvare! Si è alla deriva… Persi fra i tempi, privi di orizzonte ultimo e di orientamento, di senso della vita, profughi sbarcati sulla terra del tramonto dell’essere.
L’estremo profilo del secolo che volge alla fine è tracciato nel volto del nichilismo: l’uomo non prova più il piacere d’impegnarsi per la vita ed è diventato una passione inutile. Orfani di ideologie, si rischia di essere tutti più fragili e tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi e nostalgici di una patria comune che più non c’è. Eppure, il mistero della Luce riappare anche nel nostro tempo, ove la totalità ha ceduto posto al frammento e sembra non sussistere più alcuna verità assoluta e siamo tutti alla deriva e vuoti, viandanti nella valle oscura, e la divisione e la separazione sembrano regnare dove prima era ordine e unità. In questo tempo post-moderno – di pensiero debole e di avventure della differenza e di crisi di ideologie –, tempo di notte del mondo, accanto al volto del nichilismo si profila pure un bisogno di rinascita e di attesa, di ricerca del senso perduto, il desiderio o la nostalgia del Totalmente Altro[22]. Si riaffaccia sullo scenario del mondo la riscoperta del sacro rispetto a ogni rinuncia nichilista come bisogno di un orizzonte ultimo e di una patria che è davanti a noi.
Il percorso della luce ci permette, allora, di vedere nell’Altro – Dio, l’Assoluto, il volto d’altri – un cammino di senso ancora da compiere e da scoprire come possibile fondamento delle ragioni del vivere. Il percorso di luce, anche nell’arte, così come nella letteratura, nella musica, nell’architettura e nella stessa liturgia, sembra convincerci che non siamo gettati verso la morte bensì aperti verso il Mistero e preceduti nelle nostre stesse attese e risposte da colui che è la Luce del mondo. La morte, pure essendo una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere, non sovrasta completamente il nostro esserci come invece affermava Martin Heidegger[23]. È il percorso della luce a infondere in noi la forza per lottare contro la morte e suscitare dal profondo del cuore l’insopprimibile nostalgia per Qualcuno, per quel Volto eterno, lucente e bello che dona senso e vita a ogni pellegrino della storia in questo mondo: «Ci hai fatto per te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposa in te»[24].
La sapienza non è che il senso delle cose di Dio, la capacità ricevuta in dono dall’alto di leggere la silenziosa scrittura dell’Eterno che viene a dirsi nella fragilità del tempo, il divenire esperti per grazia della grammatica divina, che cuce parole di vita e d’amore, intessendole nella trama delle opere e dei giorni degli uomini. Vero sapiente non è, dunque, colui che sa, ma chi sapendo di non sapere si lascia illuminare dagli abissi della verità, che risplendono dal profondo: sapienza è contemplazione delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, è accoglienza umile della luce che viene a noi da altrove e che ci schiude i sentieri dell’altrove. Sapienza è conoscenza stupita e amorosa del Logos creatore dell’inizio, che si è manifestata nel Logos incarnato della pienezza del tempo. È grazie a questa sapienza che si lascia cogliere a occhi puri, sgombri da pregiudizi e presunzioni, il disegno del mondo, la bellezza di Dio in esso impressa.
Quanto il riconoscimento di questa struttura sapienziale della realtà sia importante non è difficile capirlo: se le cose stanno così, è possibile a ogni cuore aprirsi alla luce in cui tutti viviamo, dimoriamo e siamo, quella sovrana, luminosa tenebra che è più chiara del giorno per chi in umiltà si lascia raggiungere da essa e vi converte il cuore. È su questa sapienza che è possibile costruire il dialogo fra le civiltà e le religioni, al servizio della causa dell’uomo, che è anche inseparabilmente quella della gloria di Dio. Al dono della luce-sapienza è necessario aprirsi. Tuttavia, quest’apertura accogliente sarà sempre inseparabile dal primato dell’amore. Questo è il compimento della Rivelazione, il suggello del dono: Gesù Cristo non ci ha solo rivelato il Logos di Dio, che è lui stesso, ma ci ha mostrato come questo Logos sia amore, e porti a compimento il suo dono nella consegna dolorosa della croce, che è dal principio alla fine un abbandono motivato e sostenuto dalla carità.
Più grande è la rivelazione del Logos, più grande l’intelligenza che da essa è dilatata e sorretta, più grande dovrà essere l’impegno di amare: ce lo ha ricordato il Vangelo. «Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12,48). Non basta conoscere per essere nella verità: la conoscenza è inseparabile dall’amore. Occorre fare la verità amando, per conoscere così tutta la profondità e la bellezza della sua luce. L’intelligenza senza amore è arida e sfocia facilmente in presunzione e violenza. L’amore senza intelligenza rischia di essere cieco e di non generare vita piena e vera. Occorre pensare e amare, conoscere e servire: è qui il grande compito di ogni uomo e donna chiamato al servizio della verità, specialmente nel campo dell’insegnamento e della ricerca nel mondo dell’Università. Aperti al mistero, nutriti di sapienza, occorre che docenti e studenti siano accomunati dalla responsabilità reciproca nell’amore, coscienti del molto che ad essi è stato dato per aprirsi a dare molto con responsabilità e libertà generosa.




4. Lo splendore della Verità: la via pulchritudinis


Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà.
Di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano, innanzi alle meraviglie dell’universo, l’unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore da cui potrà scaturire quell’entusiasmo che spinge l’uomo a superarsi e a cercare il senso della vita in un mistero più grande che lo sorpassa e lo precede. Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che «la bellezza salverà il mondo»[25]. La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo, la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio, la bellezza ultima. Che cos’è la bellezza? Non è bello ciò che piace. La bellezza non si esprime nell’armonia delle parti, nella perfezione delle forme. È bello ciò che riconcilia, ciò che ci dona pace. In tal senso, la bellezza che salva il mondo è il Cristo crocifisso e risorto che ha vinto la morte e più non muore[26]!
«La bellezza del Cristo è nella coesistenza della trascendenza e dell’immanenza divine […]. La figura del Cristo è il volto umano di Dio; lo Spirito Santo riposa su di lui e ci rivela la Bellezza assoluta, divino-umana, che nessun’arte può mai rendere adeguatamente: solo l’icona può suggerirla mediante la luce taborica»[27]. La bellezza del Figlio è «l’immagine del Padre-Sorgente della Bellezza, rivelata dallo Spirito della Bellezza. Si tratta della Bellezza trinitaria, quella che contempliamo nella figura del Verbo incarnato, perché: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”»[28].
Guardando al mondo dell’arte, comprendiamo che la bellezza è l’evento di una donazione, in cui il Tutto infinitamente al di là di ogni nostra cattura viene a farsi presente in un frammento: nella finitezza di una forma l’Infinito si affaccia; nella fragilità di un evento l’Eterno viene a narrarsi nel tempo. Il Tutto si offre nel frammento! Questo è bellezza, perché «l’esperienza estetica è data dall’unità della massima concretezza della forma singola con la massima universalità del suo significato»[29]. Attraverso il frammento in cui si offre, il bello costituisce una via privilegiata di accesso al significato ultimo dell’esistenza umana, una finestra sulla profondità del vero, che illumina e salva.
Con la crisi delle presunzioni totalizzanti della ragione moderna e la caduta dei mondi ideologici da essa prodotti, questa via di approccio alla verità è stata fatta oggetto di una generale riscoperta. Il bello come splendore del vero si risveglia nelle anime! In un mondo senza bellezza anche il bene perde la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto. In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica[30]. In alternativa a un pensiero che pretendeva di essere totalmente trasparente a se stesso e di abbracciare la realtà intera, si apprezza il valore di ciò che tiene insieme il minimo e l’Infinito, avvicinando quanto è immensamente lontano pur senza annullare le differenze. La bellezza apre all’intelligenza del simbolo (da “syn-bállein”), eccedenza di senso nella pur permanente continuità del significato, tale da tener insieme i distanti senza confonderli. Un pensiero senza ombre o rimanenze non è più ricco di un pensiero simbolico: l’ideale non assorbe il reale, deve anzi riconoscerne l’eccedenza; il concetto è chiamato a trascendersi verso spazi più vasti.
Nella lettera dedicata agli artisti, il beato Giovanni Paolo II, rivolto a quanti con appassionata dedizione cercano nuove epifanie della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica, afferma chiaramente che la chiesa ha bisogno dell’arte «per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo»[31]. Essa, infatti, deve «rendere percepibile» e «affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio»[32]. La chiesa deve «trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile»[33], e si riconosce all’arte la capacità di «cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero»[34].
Ancora, scrive il papa polacco, «la chiesa ha bisogno, in particolare, di chi sappia realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo, operando con le infinite possibilità delle immagini e delle loro valenze simboliche. Cristo stesso ha utilizzato ampiamente le immagini nella sua predicazione, in piena coerenza con la scelta di diventare egli stesso, nell’incarnazione, icona del Dio invisibile. La chiesa ha bisogno, altresì, dei musicisti. Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio. La Chiesa ha bisogno di architetti, perché ha bisogno di spazi per riunire il popolo cristiano e per celebrare i misteri della salvezza. Dopo le terribili distruzioni dell’ultima guerra mondiale e l’espansione delle metropoli, una nuova generazione di architetti si è cimentata con le istanze del culto cristiano, confermando la capacità di ispirazione che il tema religioso possiede anche rispetto ai criteri architettonici del nostro tempo. Non di rado, infatti, si sono costruiti templi che sono, insieme, luoghi di preghiera e autentiche opere d’arte»[35].
Giovanni Paolo II si chiede se l’arte ha bisogno della chiesa e afferma che la religione è una grande sorgente d’ispirazione: perché è nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive[36]. La collaborazione tra chiesa e artisti è fonte di reciproco arricchimento spirituale: ne ha tratto vantaggio la comprensione dell’uomo, della sua autentica immagine e della sua verità. Forte è pure il legame tra arte e rivelazione cristiana che trova il suo punto d’ispirazione più forte nell’incarnazione del Verbo[37] che svela pienamente l’uomo all’uomo (cf. GS 22).
Chi è l’artista se non una persona conquistata dalla bellezza e dal fascino dell’eterno? Egli è un geniale costruttore di bellezza in cui sente l’eco di quel pathos con cui Dio creò il mondo e tutte le creature della terra. Gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, trasmettono l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarli[38].
«L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il Cardinale Nicolò Cusano: “L’arte creativa, che l’anima ha la fortuna di ospitare, non s’identifica con quell’arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione e una partecipazione”. Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo “dono”, tanto più è spinto a guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione»[39].
Attraverso le sue opere, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura. Essi sono portatori dello splendore divino, di quella bellezza ultima che non tramonta e riempie di luce le nostre giornate. Se è vero che la «potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello»[40] – perciò bisogna parlare di “bellezza-bontà” (kalokagathía), in quanto la bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza –, l’artista è colui che ci permette di ammirare lo splendore della verità dell’essere e di stupire innanzi ai segni della luce divina lasciati nella materia forgiata e colorata.
L’artista, attraverso il suo estro, ci educa al senso del bene comune e di quella bellezza ultima che è il mistero del Dio nascosto e rivelato nell’incarnazione del Verbo. «Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo»[41]. La Sacra Scrittura è diventata una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana.
«Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione. A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario e artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del “Verbo fatto carne”. Nella storia della cultura tutto ciò costituisce un ampio capitolo di fede e di bellezza. Ne hanno beneficiato soprattutto i credenti per la loro esperienza di preghiera e di vita. Per molti di essi, in epoche di scarsa alfabetizzazione, le espressioni figurative della Bibbia rappresentarono persino una concreta mediazione catechetica. Ma per tutti, credenti e non, le realizzazioni artistiche ispirate alla Scrittura rimangono un riflesso del mistero insondabile che avvolge e abita il mondo»[42].
Il recupero del percorso estetico nella prassi ecclesiale è ancora ben lontano dall’essere preso in profonda considerazione e, per questo, l’attenzione alla bellezza delle cose sante deve mettere a disagio le nostre comunità chiamate a rendere visibile oggi la bellezza di Cristo, cioè l’amore oltre la morte, l’amore per i nemici. Teologia e bellezza, pastorale e percorso di luce, sono strettamente unite. La comunità cristiana che celebra il mistero pasquale e fa risplendere la luce della bellezza divina è ispirazione e guida per l’architettura e l’arte sacra. Essa stessa genera e crea lo spazio celebrativo. H.U. Von Balthasar, nei suoi libri sull’estetica teologica (Heerlichkeit, 1961-1973), constatava che nell’epoca moderna è avvenuto un distacco tra teologia e bellezza. Allo stesso tempo, però, l’uomo di oggi è particolarmente affascinato dalla bellezza. Sembra quasi che l’estetica abbia sostituito l’etica. Speriamo che un serio e autentico discernimento sulla via pulchritudinis ci permetta di recuperare quella dimensione simbolica della fede e dell’esistenza che è indispensabile per annunciare il Vangelo in un mondo che è già cambiato e che si è rifugiato soprattutto nel progresso tecnologico, scientifico e genetico.



----------------------------------------------------------- 


[1] La shekînâ, il manifestarsi di Jhwh sulla scena del mondo – nel tempio, nel santuario, nel deserto, per strada –, è spesso descritta sotto forma di luce (cf. Ez 43,2). Quando verrà il Messia, secondo un detto ebraico, il nostro volto diventerà un volto di luce: la pelle cederà e saremo illuminati dall’Eterno e risplenderemo della sua luce divina.

[2] «L’uomo giovane è l’ultimo volto che la parola di Dio ha assunto sulla terra. Noi siamo sempre involontariamente inclini a immaginare l’aspetto di Cristo più vecchio di quanto fosse, perché il peso della Parola, la sua definitività farebbero pensare a un cinquantenne. Ma non è stato così. Forse Origene ha ragione: con il suo rapido apparire e di nuovo scomparire, Dio risparmia il mondo. Quali distruzioni avrebbe egli causato, se il suo fuoco fosse divampato quaggiù per decenni? E tuttavia egli non se ne va da solo, viene ucciso violentemente. La sua morte non è naturale; è frutto dell’opposizione a lui. Gli uomini debbono rimanere sempre dinanzi a questa che è la più terribile tra le opere di distruzione; essi debbono sapere: noi stessi abbiamo ucciso Dio, abbiamo costretto al silenzio la Parola di Dio. Egli non è, come gli eroi greci, tolto di mezzo ancora giovane dall’invidia degli dèi; il Padre lo avrebbe concesso più a lungo agli uomini. La sua morte non ci fa pensare ad altro che alla nostra propria colpa. Ma egli non è nemmeno un sacrificio offerto per propiziare la collera degli dèi, come Ifigenia; quelli che lo uccisero non pensavano all’espiazione. Giovanni cita la parola di Caifa, sulla morte vicaria dell’Uno in favore del popolo, solo per lasciare apparire acutamente il contrasto tra la volontà degli esecutori e il misterioso senso salvifico del fatto […]. Nella morte di Cristo non si può parlare di tragico. Essa è semplicemente la rivelazione del peccato […]. La Parola è morta come un giovane ed è ritornata al Padre. A lui è stata risparmiata la curva declinante della vecchiaia. Non c’è alcuna sapienza cristiana della vecchiaia. Cristo non diventa vecchio con i vecchi, ma accompagna la loro vecchiaia con la sua continua fanciullezza e maturità […]. Il volto dell’uomo maturo è assunto e ritorna nel volto di Dio»: (H.U. von Balthasar, Il Tutto nel frammento, Milano 1990, 242-243).

[3] A tal proposito, cf. E. Scognamiglio, Gesù Cristo il Rivelatore celeste. Qui videt me videt et Patrem, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2012.

[4] Cf. Bonaventura da Bagnoregio, Hexaemeron 11, in Opere di san Bonaventura. VI/1. Sermoni teologici/1, a cura di J.G. Bougerol e altri, Città nuova, Roma 1994, 215-231.

[5] Cf. P.N. Evdokimov, La vita trasfigurata in Cristo. Prospettive di morale ortodossa, Città nuova, Roma 2001, 196-2002

[6] Cf. Bonaventura da Bagnoregio, Hexaemeron 18,25 [p. 339].

[7] Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum I,15, in Opere di san Bonaventura. V/1. Opuscoli teologici/1, a cura di J.G. Bougerol e altri, Città nuova, Roma 1993, 511-512.

[8] Per approfondimenti, cf. E. Scognamiglio, Il volto dell’uomo. Saggio di antropologia trinitaria. II. La risposta e le domande, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 68-115.

[9] La luce è tra le immagini più diffuse per esprimere l’azione rivelativa dello Spirito Santo nell’uomo. Scrive in proposito Basilio Magno, Sullo Spirito Santo IX,22-23 (PG 32,108-109): «Se di notte tu togli da te la luce, gli occhi restano ciechi, le facoltà inerti, i valori indistinti; si calpesta l’oro scambiandolo per ferro. Così, nell’ordine spirituale, è impossibile, senza lo Spirito, condurre fino in fondo una vita conforme alla legge». Cf. anche Cirillo di Gerusalemme, Catechesi XVI,16, in Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, a cura di G. Maestri e V. Saxer, Paoline, Milano 1994, 499-500; Gregorio di Nissa, Contro Eunomio I: PG 45,416; Gregorio di Nazianzo, Discorsi XXXI,31-32: PG 36,169.

[10] P.N. Evdokimov, La donna e la salvezza del mondo, Jaca Book, Milano 1980, 13. Cf. anche Id., Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, 39-40.

[11] «At nobis ars una fides et musica Christus »: (Paolino a Nola, Carmen XX,31: CCL 203,144).

[12] L’Illuminismo fa propria la metafora della luce che diviene il principio ispiratore della modernità e il segno dell’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. L’emancipazione è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del “terzo e quarto mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Si è alla ricerca di una società illuminata completamente dal concetto, per potere esprimere, senza residui, la potenza della ragione. A tal proposito, scrive Hegel: «Da quando c’è stato il sole nel firmamento e i pianeti gli hanno girato intorno, mai si era visto che l’uomo si mettesse dritto sulla testa, ossia sul pensiero, e costruisse la realtà secondo quest’ultimo». L’alba preziosa è, per Hegel, il fatto che l’uomo «è giunto a capire che il pensiero deve reggere l’intera realtà dello spirito»: (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1960, IV, 204).

[13] Nell’età moderna si assiste alla «vittoria dell’arte sulla natura» (victoria cursus artis super naturam). La novità – secondo la visione di Bacone – sta in una nuova correlazione tra scienza e prassi. La nuova correlazione di esperimento e metodo rende l’uomo capace di raggiungere un’interpretazione della natura conforme alle sue leggi. La nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all’uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito. Cf. F. Bacone, Novum organum I,117-129; . Sulla storia della modernità, cf. almeno F. Benigno – C. Donzelli e altri (edd.), Storia moderna, Donzelli Editore, Roma 2001, 3-22.

[14] Per Marx, emancipazione è ricondurre il mondo e tutti i rapporti umani all’uomo stesso. È nient’altro che il processo di auto-liberazione e di autoaffermazione dell’uomo, sia preso singolarmente in una sorta di trionfo della soggettività, sia inteso collettivamente nei dinamismi storici di cambiamento rivoluzionario. L’emancipazione resta il progetto di fondo, nonché l’ansia e la meta agognata della modernità.

[15] In tal senso, la scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Tuttavia, essa può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non è orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D’altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito, anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti. Il principio secondo il quale la Luce è rivelazione e crea comunione nel suo stesso venire al mondo, significa anche che l’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno o da forze antropologiche a lui immanenti. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell’età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l’uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace.

[16] Il folle, personaggio chiave di molte opere di Nietzsche, è colui che annuncia la morte di Dio: «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!» (F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano 1978, aforisma 125).

[17] Marx ha completamente oscurato la dimensione simbolica e trascendente della persona. Egli ha dimenticato che l’uomo rimane sempre tale. Ha dimenticato l’uomo e la sua libertà e dignità. Ha taciuto che la libertà rimane sempre tale, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: la persona, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarla solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli. La persona è più di ogni analisi del plusvalore.

[18] A tal proposito, il compianto Paolo VI si farà portavoce e sostenitore della cosiddetta “civiltà dell’amore”, mentre il beato Giovanni Paolo II vivrà fino in fono l’impegno per il dialogo e la comunione tra i cristiani e le altre comunità religiose, invitando gli uomini e le donne del nostro tempo a “costruire ponti e non muri” e a ritrovare in Cristo vera dell’uomo (cf. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptor hominis [4-3-1979], n. 8). Sulla loro scia, fedele alla tradizione cristiana e al Vaticano II, Benedetto XVI affermerà più volte che l’uomo non si salva per mezzo della scienza, bensì attraverso l’esperienza dell’amore. «Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato»: (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi [30-11-2007], n. 26).

[19] Cf. E. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991. L’epoca più violenta della storia dell’umanità, Rizzoli, Milano 1995; F. Benigno – C. Donzelli e altri (edd.), Storia contemporanea, Donzelli Editore, Roma 2001, 283-302.

[20] A tal proposito, cf. E. Scognamiglio, Homo religiosus et symbolicus. Breve introduzione alla storia delle religioni, Ldc, Leumann (Torino) 2012.

[21] Cf. M. Horkheimer – Th. Adorno, Dialectic of Enlightenment, New York 1944, 3-7.

[22] Cf. M. Horkheimer, La nostalgia del Totalmente Altro [1970], Morcelliana, Brescia 2001. Belle e suggestive, a tal proposito, di B. Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, 15-25.

[23] Cf. M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Torino 1986, 377-378.

[24] Agostino d’Ippona, Confessiones I,1: PL 32,661.

[25] F. Dostoevskij, L’idiota, III/5, Milano 1998, 645.

[26] Per approfondimenti, cf. B. Forte, La porta della bellezza. Per un’estetica teologica, Morcelliana, Brescia 1999.

[27] Evdokimov, Teologia della bellezza, 39-40.

[28] Ivi 49.

[29] H.U. von Balthasar, Gloria. I. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1975, 217.

[30] Cf. ivi 11.

[31] Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti Personne mieux que vous (4-4-1999), n. 12: EV 18,406-449, qui 438.

[32] Ivi.

[33] Ivi.

[34] Ivi.

[35] Ivi: ivi 438-440.

[36] Cf. ivi 13: ivi 441.

[37] Cf. ivi: ivi 442.

[38] Cf. ivi 1: ivi 406.

[39] Ivi: ivi 409. «Ogni autentica ispirazione […] racchiude in sé qualche fremito di quel “soffio” con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione. Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta d’illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di “momenti di grazia”, perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende»: (ivi 15: ivi 446).

[40] Platone, Filebo 65A.

[41] Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti Personne mieux que vous, n. 5: EV 18,416.

[42] Ivi: ivi 417-418.



----------------------------------------------------
Fonte: http://www.centrostudifrancescani.it/site/2012/05/%C2%ABerat-lux-vera%C2%BB-l%E2%80%99esperienza-di-dio-tra-storia-arte-e-teologia/




Post più popolari negli ultimi 30 giorni