lunedì 30 dicembre 2019

Al di là della banalità del bello di Gianfranco Ravasi


Al di là della banalità del bello

di Gianfranco Ravasi



Devo confessare che ormai mi infastidisce il sentir ripetere a mo' di antifona la frase «La bellezza salverà il mondo»: è uno stereotipo vacuo se non si connette a un pensiero più ampio e alto, lo stesso appunto che era all'interno di quella grandiosa opera che è L'idiota di Dostoevskij (parte III, cap. V) da cui l'assioma è desunto. Sì, perché il principe Myškin che lo proclama lo intesse con l'ascesa verso lo zenit del mistero, con la discesa nel nadir del male, con la purezza della fede, con l'ardire dell'amore. Siamo, quindi, lontani da una generica fruizione estetica o da una retorica esaltazione di un'armonia psichica. Come scriveva Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti (1999), «la bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente», e solo così redime dalla «vita banale» (per usare la nota formula kierkegaardiana) e dalla depressione della colpa.
È in questa prospettiva che si muove il testo di un monaco di quella Santa Montagna che è l'Athos, Basilio di Iviron, ed è per questo che gli concediamo la legittimità di intitolare il suo saggio proprio con l'asserto La bellezza salverà il mondo. Con un linguaggio ibridato di evocazioni bibliche e della tradizione monastica, con un procedimento mentale a ramificazione secondo i canoni dello stile orientale, con la trasparenza di una teologia che veleggia nella contemplazione, ma lambisce anche la terra della morale, Basilio scarta l'ovvietà della bellezza fenomenica ("bello a vedersi" è anche il frutto dell'Eden) per intrecciare bellezza-bontà-amore-verità. Folgorante è un passo dei Nomi divini di Dionigi l'Areopagita, autore geniale e misterioso del V-VI secolo, che su una base filologica non saprei quanto fondata ma suggestiva dichiara: «Il bene è bello e bellezza ma anche amore e amato. Esso chiama (kaléo) a sé tutte le cose, donde appunto si dice bellezza (kalós/kállos)».
È un po' anche per questa tensione "sim-bolica" unitaria che la liturgia delle Chiese orientali reca una livrea di splendore, di gloria, di numen, cioè di mistero invisibile, e di lumen, ossia di bellezza visibile. È, però, un occidentale, anzi, un cattedratico dell'università cattolica di Lille, Paul Christophe, a illustrare La bellezza dei gesti del cristiano all'interno del rito. Fa impressione sempre al turista superficiale l'approdo al Muro del Pianto del tempio gerosolimitano, davanti alla folla dei corpi in agitazione degli oranti ebrei. In realtà, quella è una metafora vivente della totalità armonica della preghiera: il fedele parla a Dio non solo con la voce, ma anche con tutte le articolazioni, le nervature, gli organi e la complessità del suo corpo, strumento supremo di comunicazione. È per questo che Christophe fa scorrere davanti a noi la lode "somatica" che nella liturgia cristiana l'orante eleva al suo Dio, stando in piedi, tendendo braccia e mani, segnandosi con la croce, scambiandosi il bacio, giungendo o imponendo le mani, inginocchiandosi, battendosi il petto, prostrandosi e fin sedendosi (sì, anche questo atto ha un significato che travalica la mera quiete del riposo).
Ma all'interno della liturgia un segno di bellezza suprema è rappresentato dalla musica (ahimé, cosa che non spesso si verifica oggi in tante celebrazioni, affidate a repertori corali, a partiture e a strumenti di basso profilo, indegni del monito biblico: «Cantate a Dio con arte!»). Un rilievo particolare ha avuto al riguardo la Riforma protestante, accanto alla gloriosa tradizione gregoriana e polifonica cattolica. La causa è da cercare storicamente anche nell'ascesi aniconica che il protestantesimo introdusse, operando una catarsi eccessiva sull'"immaginario" artistico precedente che aveva colmato le chiese di statue, dipinti, segni, arredi, e stendendo non di rado una sorta di colata bianca e asettica su quel mirabile mondo iconografico (si legga, ad esempio, il curioso romanzo Fratello Jacob dello scrittore danese, Henrik Stangerup, tradotto da Iperborea nel 1993). La musica con la sua purezza evocativa e non descrittiva, con la sua potenza trascendente e col suo linguaggio mistico e universale, divenne la nuova epifania della bellezza sacra.
Dobbiamo essere grati al musicologo Nicola Sfredda per aver inseguito lungo i secoli, dagli innari e dai 36 Kirchenlieder di Lutero e dal Salterio ginevrino calvinista fino al Novecento di Honegger, Hindemith e Ives, La musica nelle chiese della Riforma. Naturalmente al centro c'è l'imponente figura sovrana di Bach, senza però ignorare le meraviglie armoniche di Schütz, Buxtehude, Haendel. Tra le tante ricchezze imbandite in questa mensa della bellezza vorremmo far emergere i molteplici rimandi all'intreccio tra musica e teologia negli stessi padri della Riforma come Lutero, Calvino, Zwingli, ma anche nello stesso Bach, giù giù fino a Bonhoeffer e all'omaggio di Barth a Mozart: «Se dovessi giungere in paradiso, domanderei innanzitutto di Mozart, e soltanto dopo cercherei Agostino e Tommaso, Lutero, Calvino e Schleiermacher». Altrettanto interessante è l'ingresso in scena non solo di Mendelssohn – cosa piuttosto naturale – ma anche di Meyerbeer e del Brahms dell'Ein deutsches Requiem, per non parlare di una sorprendente nota sulle «suggestioni del mondo protestante nell'opera di Verdi»...
Una domanda finale un po' provocatoria: Cristo era bello? Anche in questo caso la risposta di Dostoevskij, in una lettera del 1868 alla nipote Sonia, è da assumere solo nel contesto già evocato: «Al mondo c'è una sola persona positivamente bella: Cristo. L'apparizione di questa persona infinitamente bella è già un miracolo infinito». Eppure c'è chi parla della «mostruosità di Cristo», come fa il filosofo sloveno Slavoj Žižek, sia pure in forma paradossale all'interno di una lettura hegeliana del cristianesimo non proprio ineccepibile (è, questo, anche il titolo dato al volume che raccoglie il suo dialogo col teologo radicale inglese Alasdair J. Milbank, da poco tradotto in italiano da Transeuropa). L'iconografia delle origini ha oscillato tra un Cristo "brutto", sulla scia del Servo del Signore cantato da Isaia come una figura che «non ha bellezza per attrarre il nostro sguardo» (53,2), e un Cristo stupendo sulla base del Salmo regale-messianico 45 ove si proclama: «Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo» (v. 3). In realtà, la croce e la gloria pasquale, l'umanità e la divinità legittimano entrambe le rappresentazioni che ancora una volta ci riportano al valore non solo estetico, ma anche teologico della bellezza cristiana.

https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-07-10/banalita-bello-190947.shtml?uuid=Aa2n74mD



MARIA "Madre della Chiesa", di Stefania Falasca



MARIA "Madre della Chiesa"
Stefania Falasca



    «La Madre di Cristo diviene così la grande figura materna della Chiesa Madre» scriveva Gertrud Von le Fort in L’eterno femminino osservando come nel mattino di Penetecoste Maria, per la seconda volta, veniva visitata dallo Spirito Santo. Così quello che si dice della maternità dell’una si può dire della maternità dell’altra. Era il 21 novembre 1964 quando Paolo VI nel discorso conclusivo della terza sessione del Concilio proclamava, davanti a più di duemila vescovi riuniti in San Pietro, Maria come «Madre della Chiesa». E non era secondario che proprio durante quella seduta nella quale veniva promulgata la costituzione Lumen gentium – dedicata alla Chiesa e ai decreti sull’ecumenismo e sulle Chiese orientali – fosse stabilito come «l’intero popolo cristiano rendesse sempre più onore alla Madre di Dio con questo soavissimo nome»: «Madre della Chiesa», cioè di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei pastori. Ciò voleva ribadire che della Chiesa Maria è typus, è il modello. Voleva perciò proporre il suo esempio da imitare nella fede, nella docilità a qualsiasi stimolo della grazia, nel conformare fedelmente la vita ai comandamenti di Cristo e all’impulso della carità, in modo che tutti i fedeli si sentissero sempre più fermi nel seguire Cristo. «E nello stesso tempo – affermava ancora Paolo VI nel discorso – ardano di più intensa carità verso i fratelli, promuovendo l’amore ai poveri, la ricerca della giustizia e la difesa della pace, come già ammoniva il grande sant’Ambrogio». Figlia di quella Gerusalemme che è nostra madre celeste, Maria è così madre della Chiesa che siamo noi. È la madre del popolo nuovo, è la terra nella quale è stata seminata la Chiesa.
   La decisione del Papa non fu affrettata, né improvvisa. Maturò dopo attenta considerazione del dibattito e lunga riflessione, perché questo titolo illumina il senso dell’intima unione di Maria con la Chiesa, dove occupa, in modo eminente e singolare il primo posto. Da allora però, nel corso di mezzo secolo (forse perché non ne era stato poi riscontrato il bisogno?), tra le tante ricorrenze nelle quali lungo l’anno liturgico si celebra la Vergine Maria non è mai stata inserita quella di Madre della Chiesa. Fino a oggi. Con un decreto della Congregazione per il Culto divino che porta la data dello scorso 11 febbraio, centosessantesimo anniversario della prima apparizione di Lourdes, il Papa ha stabilito adesso che il lunedì dopo Pentecoste la memoria di Maria Madre della Chiesa diventi obbligatoria e sia celebrata ogni anno da tutta la Chiesa. Perché? Perché come è voluto da Francesco, in perfetta continuità con il suo predecessore, «possa favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
   Questo è l’unico modo di stare nella Chiesa. «Altrimenti viviamo un cristianesimo fatto di idee, di programmi, senza affidamento, senza tenerezza, senza cuore – come ha detto di recente in un’omelia davanti all’icona della Salus populi romani –, e senza cuore non c’è amore e la fede rischia di diventare una bella favola di altri tempi. La Madre non è un optional, è il testamento di Cristo... Non è galateo spirituale, è un’esigenza di vita. Amarla non è poesia, è saper vivere. Perché senza Madre non possiamo essere figli. E noi, prima di tutto, siamo figli, figli amati, che hanno Dio per Padre e la Madonna per Madre... Il cuore di una madre non si vergogna delle ferite, delle debolezze dei figli, ma le vuole con sé. E la Madre di Dio e nostra sa prendere con sé, consolare, vegliare, risanare».





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domenica 29 dicembre 2019

OMELIA DI PAOLO VI, SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO, 1976





SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
OMELIA DI PAOLO VI
Sabato, 25 dicembre 1976



Fratelli e Figli, accorsi a questa convocazione notturna!
Voi sapete perché!
    È la ricorrente memoria d’un fatto estremamente umile e immerso in un povero paese lontano (ma era un paese predestinato), e inseriti in una ignota vicenda del tempo (ma era anch’esso un tempo profeticamente calcolato); d’un fatto si direbbe insignificante quale la nascita d’un Bambino in condizioni poverissime, prive d’ogni importanza esteriore e d’ogni interesse ambientale (ma era l’arrivo nel mondo, nel genere umano, del Verbo di Dio, del Figlio consustanziale del Padre Creatore e Signore dell’universo, che rimanendo qual era, si faceva Figlio di Maria; Figlio così di Dio e Figlio dell’uomo).
   È questo fatto ambi valente umile e immenso, umano e divino, che nell’unica Persona del Verbo unisce due nature, di cui una, l’umana, sì, rispecchia costituzionalmente (Cfr. Gen. 1, 26-27) una meravigliosa, ma certo sempre remota immagine dell’altra, la divina, l’eterna, l’infinita; immagine ineffabile dell’invisibile Iddio (Cfr. Col. 1, 15; 2 Cor. 4, 4) e pone nell’abissale mistero della divinità questa simbiosi ch’è Cristo Gesù; «natus est Christus; . . . de Padre, Deus; de Matre, homo» (S. AUGUSTINI Sermo 184: PL 38, 997). Essa lo pone nell’umanità e nella storia, centro in cui si ricollegano tutte le cose celesti e terrestri (Cfr. Eph. 1, 10), ed a cui ogni singolo essere umano può avere accesso e salvezza (Cfr. Luc. 3, 6); è questo il fatto, il mistero che noi ora ricordiamo e celebriamo.
     «Lux in tenebris lucet», la luce splende nelle tenebre (Io. 1, 5).
     Non ci fermeremo a considerare questo aspetto del mistero del Natale, cioè il modo scelto da Dio per rivelarsi nel suo Messia; quasi volesse nascondersi nell’atto stesso in cui si manifestava personalmente e umanamente agli uomini, che pur lo attendevano. È un aspetto che lascia intravvedere molte altre divine intenzioni, degne d’essere in altro momento esplorate e meditate. Voleva il Signore che noi, anche davanti alla sua suprema rivelazione temporale, non fossimo esonerati dal dovere di ricercarlo? voleva Egli che la nostra ricerca ci obbligasse a curvarci sui sentieri dell’umiltà, per correggere l’ostacolo principale che ci impedisce un autentico incontro col Cristo rivelatore, non altrimenti possibile che nella mortificazione del nostro fallo capitale, l’orgoglio? o voleva che non per altro interesse egoista lo avessimo a cercare, ma per quello del puro amore?
    Come si debba infatti cercare la divina rivelazione ce lo ricordano le memorabili parole di S. Agostino «amore petitur, amore quaeritur, amore pulsatur, amore revelatur . . .»: «con l’amore si domanda, con l’amore si cerca, con l’amore si bussa, con l’amore si rivela» (S. AUGUSTINI De moribus Ecclesiae Catholicae, 1, c. XVII: PL 32, 1321).
    Ma ci fermeremo sul fatto stesso, sul mistero del Natale. Ancora ascoltiamo S. Agostino, che anticipa sui Concilii posteriori la formula conclusiva: «Homo verus Deus verus, Deus et homo totus Christus, Hoc est catholica fides» (IDEM Sermo 92, 3: PL 38, 573). Ci fermeremo con quell’adesione della nostra fede, che celebrando con la Messa di questa notte i santi misteri noi stiamo a Lui tributando. Sì, noi confermiamo con questo rito natalizio la nostra piena, ferma, cordiale adesione a Cristo Gesù. Noi crediamo in Lui! Egli solo è il Salvatore nostro e del mondo (Cfr. Act. 4, 12).
Lasciamo che questo atto religioso e cosciente confermi e rinnovi la nostra accettazione di quella fede in Gesù Cristo, che abbiamo ereditato dalle generazioni cristiane a noi precedenti, e che il magistero della Chiesa sigilla in formule limpide e indiscutibili, e insieme feconda di perenne vitalità di effusione spirituale, di operosità evangelica, di predicazione missionaria, di cattolicismo sociale. E lasciamo che la fede stessa della Madonna, la Madre di Gesù, Colei che fu predicata «beata . . . per aver creduto nell’adempimento di ciò che le era stato detto da parte del Signore» (Luc. 1, 45) «con fede non inquinata da alcun dubbio», come insegna il Concilio (Lumen Gentium, 62), penetri nelle nostre anime, e conforti la nostra schietta conversazione col mondo presente, vacillante d’insanabili dubbi. Lasciamo che la nostra certezza nel mistero cristiano ci abiliti al duplice atteggiamento reclamato da chi si professa cristiano, quello della logica di pensiero e di azione, coerente e sapiente, proprio di chi appunto cristiano si qualifica, e quello della leale capacità comprensiva comunicativa d’ogni giusto ed amichevole rapporto sociale.
   E procuriamo infine d’onorare la grande festa del Natale con l’espressione nel cuore e nel culto dei sentimenti che scaturiscono dalla sua realtà religiosa; della nostra meraviglia dapprima, che per quanto essa cerchi di ammirare il prodigio dell’Incarnazione, del Verbo di Dio che si fa uomo, non troverà mai una sufficiente misura, per iperbolica ch’essa si faccia, per adeguare l’espressione dello stupore e della gioia alla realtà che la suscita. Ancora S. Agostino che esorta: «Svégliati, uomo; per te Dio si è fatto uomo!: «expergiscere, homo: pro te Deus factus est homo!» (S. AUGUSTINI Sermo 185: PL 38, 907). Sentimento questo che accompagnerà poi sempre, anche nelle ore amare della vita e nelle celebrazioni dolorose della liturgia ogni altro sentimento, come una inesauribile riserva di ottimismo contemplativo ed attivo proprio di chi è stato ammesso a pregustare la trascendente fortuna del mistero cristiano (Cfr. Eph. 5, 14). Riascoltiamo S. Paolo per fare delle sue parole stile della nostra vita cristiana, augurio e ricordo della nostra celebrazione di questo Natale: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora: rallegratevi!» (Phil. 4, 4; 2, 18; 3, 1). L’Angelo del presepio ha intonato dal cielo il messaggio della nuova letizia, anche per noi: «Non temete! Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà per tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Luc. 2, 10-11).


 http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1976/documents/hf_p-vi_hom_19761225.html

GIOVANNI XXIII, ALL'EPISCOPATO, AI FEDELI E AI POPOLI DI TUTTO IL MONDO IN OCCASIONE DELLA SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE





RADIOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE
GIOVANNI XXIII

ALL'EPISCOPATO, 
AI FEDELI E AI POPOLI DI TUTTO IL MONDO
IN OCCASIONE DELLA SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE


Sabato, 22 dicembre 1962


    Venerabili Fratelli, diletti figli, 

 

    Il Natale di quest'anno reca l'impronta del Concilio Ecumenico, grazie al Signore, già così bene avviato. Dall'11 ottobre infatti all'8 dicembre, si rincorsero qui in Roma due mesi di intensa commozione religiosa. Orizzonti miti e luminosi si videro dischiusi sopra le teste di tutti i credenti in Cristo, sparsi nel mondo, come un invito alle anime più lontane, a volgere l'attenzione al richiamo del Figlio di Dio fatto uomo, al Nato di Betlemme, Redentore di tutti gli uomini e Maestro di tutte le genti. 
   Certo, nessuna solennità della Santa Chiesa potrebbe meglio convenire alla celebrazione del Concilio, e a segnarne i contorni, come il Natale di Gesù, annunziato in gloria sublime di tutti i cieli, e in letizia rinnovantesi di umana fraternità per quanti furono creati e si succederanno abitatori della terra. 
    Di fatto, oh! quanta felicità di accordi lo spirito cristiano sa trovare, anche immediatamente, nelle acclamazioni dei Padri del Concilio Vaticano II, e nelle voci angeliche diffuse ogni anno a Natale sopra i vigilanti pastori, e ripetute nella santa notte della più grande esaltazione del divino incontro tra il cielo e la terra! Quale emozione di accenti in quell'annunzio celeste che diffonde il gaudium magnum quod erit omni populo; e poi in quello stringersi a volo dei cori angelici laudantium Deum et dicentium: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis! [1]. 
    Ebbene, venerabili Fratelli e diletti figli, lasciateCi, in questo Natale, alla gioia di riposare alquanto, tocchi ancora come siamo tutti dalle emozioni dell'iniziato Concilio, di riposarCi, diciamo, su queste parole della liturgia natalizia. 
    Tre vibrazioni armoniose vengono a noi dalle imminenti festività, in piena luce e celebrazione del grande avvenimento Conciliare :
1. La gloria del Signore affermata dal canto angelico.
2. L'avvento e il godimento della pace sulla terra, in corrispondenza alle aspirazioni delle anime e dei popoli.
3. L'apostolato e il trionfo della unità della Santa Chiesa nel pensiero, nella preghiera e nel sacrificio di Cristo a spirituale vantaggio di tutto il mondo.


LA GLORIA AL SIGNORE CELEBRATA DA TUTTE LE GENTI

I.

   Gloria in excelsis Deo. Verso questa liturgica sublimità si leva innanzi tutto l'inno di Natale. Ed è lo stesso inno della Chiesa Cattolica riunita nel Concilio ed insieme aprentesi come il fiorire di una umanità nuova riconciliata col suo Creatore, e da Cristo Salvatore rigenerata in letizia ed in pace di anime e di popoli. 
  Quale emozione all'inizio dei lavori Conciliari di ogni giornata questo Gloria in excelsis della S. Messa, ripetuto in molte lingue, secondo la varietà dei riti, di cui felicemente venivano dati saggi copiosi ed attraenti : Romano e Ambrosiano, Greco e Slavo, Armeno, Antiocheno e Alessandrino, Bizantino, Caldeo, Melchita, Siro e Maronita, ed altri ed altri, di edificantissima e commovente glorificazione, e amoroso incontro! 
   Tale ci apparve e tale gustammo questo intreccio di lode, che trascende ogni altezza di gaudio e di omaggio alla bontà misericordiosa del Padre celeste. 
 Chi ne fu testimone, chi ne accolse gli echi soavissimi non potrà dimenticare questo « Gloria in excelsis Deo » a cui non semplicemente a voce di popolo, ma a vibrazione pienissima di motivo Gregoriano, risposero ben oltre due mila petti episcopali, qui riuniti da tutto il mondo cattolico, nella solennità della Immacolata, la Madre di Gesù e la Madre nostra, splendente del prestigio, tra i più singolari, della sua esaltazione. 


LA PACE: SOMMO BENE ESICUREZZE DELLA TRANQUILLITÀ NEL MONDO

II.

   E colla gloria a Dio negli altissimi cieli, il mistero del Natale di Cristo e della sua commemorazione torna a noi pellegrini quaggiù, come augurio di pace per tutta la terra. In terra pax hominibus bonae voluntatis. 
    Il vocabolo caelum ricorre con frequenza nei due Testa menti. Ma esso è di gran lunga sorpassato in pagine e pagine dal vocabolo terra. Ora della terra la ricchezza più preziosa e più degna di essere ricordata è la pace. Pax in terra — noi cantiamo infatti cogli angeli di Betlemme — pax in terra hominibus bonae voluntatis. 
    Fra tutti i beni della vita e della storia: delle anime, delle famiglie e dei popoli, la pace è veramente il più importante e prezioso. La presenza, lo studium pacis, è la sicurezza della tranquillità del mondo. Ad essa però si congiunge come condizione la buona volontà di tutti e di ciascuno, pax hominibus bonae voluntatis, poiché ove questa manchi è vano sperare letizia e benedizione. 
   Cercare la pace dunque, in ogni tempo: sforzarci di crearla intorno a noi perchè si diffonda nel mondo intero, difenderla da ogni rischio pericoloso e preferirla ad ogni cimento, pur di non offenderla, pur di non comprometterla. Oh! che grande impegno è questo di ogni Papa, di ora e di sempre! Lo sforzo che si accompagna a questi quattro anni del Nostro umile servizio — quale lo intendiamo e lo intenderemo usque in finem — è servizio di Servo dei servi del Signore, che è veramente Dominus et princeps pacis. 
   Pronunciando e trasmettendo alla radio-televisione queste parole, quanti Ci ascoltano in buona fede e con retta coscienza, Noi pensiamo che vogliano risentire ancora in esse l'eco della Nostra più recente invocazione di pace per l'intesa e la concordia dei popoli, contenuta nel Nostro Radiomessaggio del 25 ottobre scorso: « Nous renouvelons aujourd'hui cette solennelle adjuration. Nous supplions tous les Gouvernants de ne pas rester sourds à ce cri de l'humanité. Qu'ils fassent tout ce qui est en eux pour sauver la paix... Qu'ils continuent à traiter, car cette attitude loyale et ouverte a grande valeur de témoignage pour la conscience de chacun et devant l'histoire. Promouvoir, favoriser, accepter des pourparlers, à tous les niveaux et en tout temps, est une règle de sagesse et de prudence qui attire les bénédictions du Ciel et de la terre ».
   Il richiamare questo invito Ci è tanto più caro e gioioso, venerabili Fratelli e diletti figli, poiché segni indubbi di alta comprensione Ci assicurano che non furono parole pronunciate al vento, ma hanno toccato intelligenze e cuori, e vengono dischiudendo nuove prospettive di fraterna confidenza e bagliori di sereni orizzonti di vera pace sociale e internazionale. 
    Di questi felici orientamenti dell'ordine interno dei popoli e internazionale, anche come semplice svolta per l'avvio di una nuova storia del mondo contemporaneo, è graditissima la constatazione di ciò che il Nostro Radiomessaggio venne a rappresentare, messo in coro armonioso ed esultante colle voci dell'episcopato mondiale della Chiesa Cattolica, inteso in quei giorni qui in Roma ai suoi lavori Conciliari in santa fraternità, sotto l'amabile guida del Successore di S. Pietro, nel tempio suo. È soffio di alta spiritualità evangelica, è fiamma viva di schietto apostolato cattolico, che attua il divino precetto del Signore e lo consacra: Quaerite primum regnum Dei, et iustitiam eius: et haec omnia adiicientur vobis [2].
   È naturale che, in questa attesa e poi nell'attività festosa del Natale, prenda rilievo come beneficio della pace cristiana il riferimento alla prosperità dell'ordine domestico e familiare. Questa triplice apparizione di Betlemme e di Nazareth, con i tre personaggi, Gesù, Maria e Giuseppe oh! quale fonte di letizia, di soavità, e di pace. 
   E quanta profondità nella dottrina del piccolo libro della « Imitazione di Cristo », là dove colorisce la figura « De bono pacifico homine» [3], del quale è detto che « omnia ad bonum convertit ». 


FRATERNITÀ DEI PASTORI DI ANIME NEL CONCILIO ECUMENICO

III.

   La terza vibrazione armoniosa ed esultante della festività Natalizia insieme associata alla gioia intima, di cui i venerabili prelati santamente godettero con la loro partecipazione personale alla celebrazione del Concilio, Ci viene espressa in forma commovente di santa fraternità episcopale.        Oh! veramente la grazia del Signore si è riversata sopra la sua Chiesa in proporzioni superiori ad ogni attesa. Eravamo tremanti al pensiero che la bontà di Gesù benedetto volesse volgersi sulle miserie di un mondo, di cui egli è il Salvatore e il Redentore: ma che dopo venti secoli di storia è ancora così lontano dal rispondere con pienezza di consenso al suo invito. La realtà ha di gran lunga superato ogni attesa: A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris [4]. 
   Iddio h orate, asc gar presentare, messo in coro armonioso ed esultante colle voci dell'episcopato mondiale della Chiesa Cattolica, inteso in quei giorni qui in Roma ai suoi lavori Conciliari in santa fraternità, sotto l'amabile guida del Successore di S. Pietro, nel tempio suo. È soffio di alta spiritualità evangelica, è fiamma viva di schietto apostolato cattolico, che attua il divino precetto del Signore e lo consacra: Quaerite primum regnum Dei, et iustitiam eius: et haec omnia adiicientur vobis [5]. 
   È naturale che, in questa attesa e poi nell'attività festosa del Natale, prenda rilievo come beneficio della pace cristiana il riferimento alla prosperità dell'ordine domestico e familiare. Questa triplice apparizione di Betlemme e di Nazareth, con i tre personaggi, Gesù, Maria e Giuseppe oh! quale fonte di letizia, di soavità, e di pace. E quanta profondità nella dottrina del piccolo libro della « Imitazione di Cristo », là dove colorisce la figura « De bono pacifico homine » [6], del quale è detto che « omnia ad bonum convertit ». 



FRATERNITÀ DEI PASTORI DI ANIME NEL CONCILIO ECUMENICO III.

   La terza vibrazione armoniosa ed esultante della festività Natalizia insieme associata alla gioia intima, di cui i venerabili prelati santamente godettero con la loro partecipazione personale alla celebrazione del Concilio, Ci viene espressa in forma commovente di santa fraternità episcopale.         Oh! veramente la grazia del Signore si è riversata sopra la sua Chiesa in proporzioni superiori ad ogni attesa. Eravamo tremanti al pensiero che la bontà di Gesù benedetto volesse volgersi sulle miserie di un mondo, di cui egli è il Salvatore e il Redentore: ma che dopo venti secoli di storia è ancora così lontano dal rispondere con pienezza di consenso al suo invito. La realtà ha di gran lunga superato ogni attesa: A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris [7].
  Iddio ha accolto ed esaudito le preghiere delle anime consacrate dei bambini, degli ammalati e dei sofferenti. Egli ha ascoltato la supplicazione anche di chi desidera e non sa pregare; di chi anela a ricostituire nella intimità della coscienza l'armonia delle leggi eterne con le esigenze della vocazione personale. 
   Fiore caratteristico di questo avvenimento del Concilio Ecumenico è il dischiudersi spontaneo, quasi inatteso dai più, del senso di unità, meglio si direbbe di avvertita e riconosciuta e a attrazione verso la fraternità cristiana, espressa nel Simbolo Apostolico in suadente affermazione della Chiesa una. santa, cattolica e apostolica, non a dominio, ma a servizio delle genti per le quali il disegno di Cristo è aspirazione sinceramente desiderata, anche se non sempre avvertita nei suoi nei suoi sviluppi. 
   Sul vasto e complicato e ancora turbatissimo orizzonte della creazione, la cui immagine è nelle prime righe del Genesi, lo Spiritus dei ferebatur super aquas. Al di là di precisazioni e i più minute gli è certo che nei riferimenti a quanto del patrimonio spirituale della Santa Chiesa, anche là dove esso non è nella sua pienezza, poche volte nella successione dell'èra cristiana — venti secoli trascorsi — si è avvertita una inclinazione così struggente nei cuori verso l'unità voluta dal Signore. La sensibilità che si potè constatare in questo primo affacciarsi, attraverso il Concilio Ecumenico, all'attenzione dei nostri contemporanei del problema religioso, questa sensibilità tutti raccoglie preferibilmente intorno alla figurazione dell'unum ovile et unus Pastor. È un raccogliersi talora altra non senza qualche apprensione di pregiudizio, che noi sappiamo immaginare e vogliamo anche comprendere, perchè con la grazia divina lo si possa superare. 
   L'unum ovile et unus Pastor — che trova accenti di accorata supplicazione nell'unum sint dell'ultima cena [8] — imperiosa dal fondo di venti secoli cristiani, e batte al cuore di ciascuno.



UNIONE PERFETTA DELLE ANIME ATTRAVERSO LA CHIESA VISIBILE 



     Unum sint, unum sint! « Che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, e io in te, che siano anch'essi una sola cosa in noi: onde creda il mondo che tu mi hai mandato » [9]. Questa è la spiegazione ultima del miracolo di amore, iniziato a Betlemme, di cui i pastori e i magi furono le primizie: la salvezza di tutte le anime, la loro unione nella fede e nella carità, attraverso la Chiesa visibile da Cristo fondata.  

     Ut unum sint! È il disegno del Redentore Divino, che dobbiamo attuare, venerabili Fratelli, e resta grave impegno, affidato alla coscienza di ciascuno. Nell'ultimo giorno del giudizio particolare e del giudizio universale sarà chiesto a questa coscienza, non se ha fatto l'unità, ma se per essa ha pregato, lavorato e sofferto; se si è imposta disciplina saggia e prudente, paziente e lungimirante; e se ha dato vigore agli slanci della carità.
    Questo palpito del cuore di Cristo deve invitarci a rinnovato proposito di dedizione perchè tra i cattolici resti saldissimo l'amore e la testimonianza verso la prima nota della Chiesa; e perchè nel vasto orizzonte delle denominazioni cristiane ed oltre si compia quella unità, verso cui sale l'aspirazione dei cuori retti e generosi.



TENEREZZA DEL SALUTO 

ED AUGURIO PATERNO AGLI INDIVIDUI E ALLE FAMIGLIE 


Venerabili Fratelli e diletti figli. 


    Nell'attesa natalizia, ravvivata dai riflessi del Concilio Ecumenico, il cui lavoro continua verso il suo auspicato corona- mento, il Nostro cuore si apre a voi con trepidazione paterna. Questo del 1962 vuol essere un Natale di più intima e raccolta gioia e pace dello spirito per tutta l'umana società, e specialmente per il suo fondamento, che è la famiglia; vuol essere un Natale di preghiera e di riflessione per corrispondere all'ansia di Gesù Cristo Nostro Signore per l'unità dei credenti nel nome suo e nel suo Vangelo: ut unum sint; vuol essere un Natale di più vissuta carità nelle reciproche relazioni delle membra del Corpo Mistico, in applicazione generosa per il bene dei singoli e delle comunità familiari, sociali e internazionali.

   Il Nostro cuore, che è preso dal commosso incanto di quest'ora, viene presso ciascuno di voi, venerabili Fratelli e diletti figli; con l'ausilio potente e pur sommesso delle onde radiofoniche e televisive, entra nelle vostre case, che brillano di più ardente attesa per la nascita del Salvatore Divino, si apre alla tenerezza del saluto e augurio paterno. Vorremmo soffermarCi al desco dei poveri, nelle officine del lavoro, nelle aule dello studio e della scienza, al letto dei sofferenti e degli anziani, ovunque sono uomini che pregano e soffrono, lavorano per sè e per gli altri, lavorano con animo grande, in esercizio e disciplina della mente, del cuore, delle braccia. Sì, desidereremmo posare la Nostra mano sulle teste dei piccoli, guardare negli occhi i giovani, incoraggiare i papà e le mamme al proseguimento del quotidiano dovere! A tutti vorremmo ripetere le parole dell'Angelo: Vi annunzio un grande gaudio, è nato per voi il Salvatore. E continuare con le riflessioni di Sant'Agostino: « Cristo è nato, e giace nel presepio, ma regge il mondo : ... è avvolto di poveri panni, ma ci riveste di immortalità :... non trovò posto nell'albergo, ma vuole farsi un tempio nel cuore dei credenti... Accendiamo dunque la carità, affinché possiamo pervenire alla sua eternità » [10]. Questa è la realtà del Natale, e questa auguriamo a voi piena e gioiosa, avvalorando il voto paterno con preghiera fervida e prolungata
    O Verbo Eterno del Padre, Figlio di Dio e di Maria, rinnova ancora nell'arcano segreto delle anime il prodigio mirabile della tua nascita! Rivesti di immortalità i figli della tua redenzione; infiammali di carità, unifica tutti nei vincoli del tuo Mistico Corpo affinché la tua venuta porti la gioia vera, la pace sicura, l'operosa fraternità negli individui e nei popoli Amen, amen. Come a riverbero delle celesti compiacenze del Divino In fante di Betlemme, scenda su di voi tutti, venerabili Fratelli e diletti figli, la confortatrice Benedizione Apostolica, che l'umile Vicario di Colui, che è il Principe della Pace, il Padre dei secoli venturi [11], su tutti effonde con pienezza di paterno amore.



[1] Luc. 2, 11-14.
[2] Matth. 6, 33; Luc. I2, 31.
[3] Imit. Lib. II, c. 3
[4] Matth. 21, 42.
[5] Matth. 6, 33; Luc. 12, 31.
[6] Imit. Lib. II, c. 3.
[7] Matth. 21, 42.
[8] Io. 17, 21.
[9] Io. 17, 21.
[10] Serm. 190 In Natali Domini VII, 4, Migne P. L. 38, 1009.
[11] Cfr. Io. 9, 6.


 http://www.vatican.va/content/john-xxiii/it/messages/urbi_et_orbi/documents/hf_j-xxiii_mes_19621222_urbi-natale.html

sabato 28 dicembre 2019

Gianfranco Ravasi, Il presepe nella storia, quando fede e arte firmano il Natale


Il presepe nella storia, quando fede e arte firmano il Natale

    «Vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’ asinello». Era l’ anno 1223 e mancavano quindici giorni al Natale: san Francesco – che due settimane prima aveva avuto la gioia di veder approvata da papa Onorio III la Regola dei suoi frati – esprime questo desiderio a un certo Giovanni, «un uomo molto caro» al santo. E la notte di Natale «Greccio diventa la nuova Betlemme», con la scena della nascita di Cristo resa viva e palpitante, mentre Francesco «vestito da levita, perché era diacono, canta con voce sonora il santo Vangelo e parla poi al popolo con parole dolcissime».
   Anche se tutti conoscono questa storia della genesi del presepio, ho voluto rievocarla attraverso la testimonianza di un suo contemporaneo, Tommaso da Celano nella sua biografia del santo, nota come Vita Prima. È ancora lui a spiegare il senso di quella sacra rappresentazione natalizia: «In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’ umiltà». Sono queste le tre stelle simboliche che brillano nella notte del Natale di Gesù ed è proprio questa costellazione a far comprendere quanto il presepio travalichi la stessa fede cristiana e diventi un segno universale per tutti gli uomini e le donne dal cuore e dalla vita semplice, povera e umile.
Anzi, quel quadretto, modellato un po’ liberamente sul racconto dell’evangelista Luca (2,1˗20), da allora si è trasformato in un caposaldo della storia dell’ arte e, quindi, cancellarlo dalla conoscenza delle giovani generazioni attuali vorrebbe dire rendere incomprensibile una serie sterminata di opere d’ arte distribuite nei secoli.
   Qualche tempo fa ero stato invitato a stendere una lista di raffigurazioni della nascita di Cristo selezionando i maggiori pittori nei secoli: dopo aver iniziato la ricerca, ho dovuto abbandonarla perché in pratica avrei dovuto inseguire tutta la storia dell’ arte occidentale, da Giotto all’ Angelico, da Masaccio a Donatello, da Duccio di Buoninsegna a Jacopo della Quercia, da Botticelli a Raffaello, al Correggio al Bassano e così via, solo per fare alcuni nomi.
     Inoltre, è curioso notare che miniscene raffiguranti il presepio erano già scolpite sui sarcofagi cristiani dei primi secoli e, a partire dalle icone della scuola pittorica russa di Novgorod (XV sec.), era facile vedere il Bambino deposto in una mangiatoia a forma di sepolcro. Si voleva, così, esaltare il nesso tra la vita fisica di Gesù e la vita gloriosa e divina che sarebbe sfolgorata nella sua risurrezione. Perdere il presepio, perciò, vuol dire non solo cancellare un emblema spirituale nel quale si possono ritrovare le famiglie misere dei barconi che approdano alle nostre coste con madri che stringono al seno bambini denutriti e sfiniti, ma è anche strappare un numero enorme di pagine della nostra storia culturale più alta.
    Nel presepio, dunque, s’ incontrano componenti squisitamente cristiane, come l’ incarnazione del Figlio di Dio («Il Verbo divenne carne», scriverà san Giovanni), assumendo un volto, una storia, una patria terrena, o temi come la maternità divina di Maria e il compimento dell’ attesa messianica. Essi, però, s’ intrecciano con soggetti universali, come la vita, la maternità, l’ infanzia, la sofferenza, la povertà, l’ oppressione, la persecuzione. L’ altezza teologica, spirituale, umana di questi temi è espressa con grande sobrietà e intensità nel racconto evangelico, ma è stata anche resa più calda e colorita attraverso la tradizione popolare e persino il folclore.
   Pensiamo solo alla pittoresca sequenza dei presepi napoletani che dal Settecento cercano di attualizzare il Natale di Gesù con l’ introduzione di elementi delle vicende contemporanee, cadendo talora nel cattivo gusto, ma dimostrando sempre l’ importanza di quel segno religioso per la vita quotidiana delle persone semplici. Dopo tutto, come è noto, l’ entrata in scena – già con san Francesco – dell’ asino e del bue è apocrifa e non evangelica, perché nasce dall’ applicazione molto libera all’ evento di Betlemme di un passo del profeta Isaia il quale bollava così l’ indifferenza del popolo ebraico nei confronti del suo Dio: «Il bue conosce il suo proprietario e l’ asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (1,3).
   Siamo partiti dalla figura di un santo che è davanti al presepio. Vorremmo ora concludere con un ateo, il celebre drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che in una sua poesia ricompone il suo presepio vivente costituito da una famiglia povera, simile a quella dei tanti profughi che vivono negli accampamenti o nelle città sotto l’ incubo della guerra e anche di non poche case italiane che stanno vivendo momenti difficili. «Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, / noi, gente misera / in una gelida stanzetta. / Il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù, da noi!/ Volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario».

 https://m.famigliacristiana.it/articolo/quando-fede-e-arte-firmano-il-natale.htm

GIANFRANCO RAVASI, Betlemme - Terra Santa - Atma-o-Jibon





GIANFRANCO RAVASI
("Avvenire", 16/12/’07)



Betlemme - Terra Santa - Atma-o-Jibon



    Il "Simbolo apostolico" professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il "Credo Niceno Costantinopolitano" che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del "Vangelo di Luca" (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
    Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della "Madonna del Natale" per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della "XIX Ode di Salomone", appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti "antitetici": alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del "Vangelo di Giovanni": «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
    Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, "skenoun", contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica "Shekinah" ("s-k-n"), il termine con cui il giudaismo definiva la "Presenza" divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla "Lettera agli Ebrei", una potente e monumentale omelia "neotestamentaria", che applica al Cristo il "Salmo 8", un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
   Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al "Protovangelo di Giacomo" del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto "gnostico" egizio, l’"Interpretazione della gnosi": «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti... Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo "Pseudo-Matteo", redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del "Museo Pio" e in quello di "Stilicone" della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
    Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle "Meditazioni sulla vita di Cristo" ("Città Nuova", Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il "Physiologus", poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
    Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai "Sermoni del Natale" di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari ("Stille Nacht"; "Tu scendi dalle stelle"; "Adeste, fideles"...), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
    Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
   La prima coordinata è quella "spaziale", legata a
Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della "promessa davidica". È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti "topografici". Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il "katalyma" (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
   Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
   Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne "Basilica Giustinianea", iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di
Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
   L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da "seminomadi" pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine "evangelo" per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della "buona novella" ("evangelo") per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
   C’è una seconda coordinata da considerare, quella "temporale". Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso "primo censimento", ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una "prima" operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato... Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» ("Sermone su Nostro Signore", 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
   Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un "prima" e in un "dopo" di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…
"L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato...
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo!".
   Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
    I primi sono "i pastori" ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo... vediamo... conosciamo... andarono senza indugio... trovarono... videro... riferirono... tornarono...». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi "evangelizzatori".
    C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè "la folla". Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
   Ci sono poi "gli angeli" col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni "spazio-temporali" dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il "Kyrios", il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della "Natività", appartenente alla "Scuola di Novgorod" (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
    Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un "carme" che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua "eudokía", la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il "shalôm" biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
   L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la "Theotókos", la Madre di Dio, come proclamerà il "Concilio di Efeso". Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
    Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto "kontakion", sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo "monologo-dialogo" col Figlio…

"Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio... Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia!".

venerdì 27 dicembre 2019




SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE
OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII
Cappella dell'appartamento privato
del Sommo Pontefice
Lunedì, 24 dicembre 1962

   Venerabili Fratelli, diletti figli, 
 
    Questa Messa in nocte nativitatis Domini santifica le più care intimità delle anime, che aspirano a ciò che è sostanza viva di unione con Cristo : cioè religione sincera, liturgia ben penetrata e anelito di cristiana perfezione. Lo avvertiamo in quest'ora di soave raccoglimento, sotto lo sguardo del Divino Infante!
    In realtà, a Natale i grandi problemi della vita sociale e individuale vengono accostati alla culla di Betlemme, mentre gli Angeli invitano a dar gloria a Dio, gloria a Cristo redentore e salvatore, ed a scuotere gioiosamente le buone volontà per la celebrazione della pace universale.
Grande dono, grande ricchezza in vero, è questo della pace del mondo, che alla pace anela. Lo abbiamo ripetuto nel radiomessaggio natalizio, e Ci piace ringraziare il Signore che l'ha fatto ben accogliere da un capo all'altro della terra, a conforto di quella luce di speranza che sta accesa e sollevata sopra tutte le nazioni.
    Per la conservazione e il perfezionamento di questo dono celeste vuol continuare la supplicazione universale, mentre si sta facendo più attento e prudente ogni movimento di pensiero, di parola, di attività e si moltiplicano in ogni campo gli sforzi e gli accorgimenti per allontanare o superare gli ostacoli, conoscere e togliere le cause che provocano conflitti.
   Vogliate comprenderCi, diletti figli, se per la Messa di Natale, anche in questa notte come negli anni passati, alle volte maestose dei templi romani, abbiamo preferito la semplicità della Nostra cappella privata, come a lasciarCi avvolgere dall'ambiente delle umili chiese di campagna e di montagna, e degli innumerevoli istituti di assistenza sociale, che sono rifugio della innocenza povera e derelitta, conforto e raddolcimento di lacrime ascose, riparazione di ingiustizie palesi o non sufficientemente dimostrate.
   E anche a voi pensiamo, cari malati, cari anziani, che soffrite dolori e solitudine; che dolore e solitudine riuscite a volgere a grande merito per voi e a propiziazione di bene per l'umanità. Ci sono inoltre circostanze e situazioni che in questa solennità rendono più evidente ed accorato il contrasto con il gaudio del Natale. Richiamo efficace non a deprimere il servizio che rendiamo alla verità e alla giustizia, non a dimenticare l'immenso bene compiuto dalle anime rette, che hanno scelto di far onore alla legge divina e all'Evangelo santo; ma ad incoraggiare le buone energie per riparare i torti e riaccendere nel mondo il libero slancio del fervore religioso e delle tradizioni piissime dei padri, a gioia serena del Natale.
    Figli diletti. Accanto alla culla del Nato Bambino, del Figlio di Dio fatto uomo, ogni uomo che cammina quaggiù riflette con coscienza aperta e schietta che al varco supremo gli sarà chiesto stretto conto del dono della vita; e questa avrà sanzione definitiva di merito o di castigo, di gloria o di abbominazione.
    È di qua, dunque, dalla consapevolezza di questo rendiconto che si misura la partecipazione dei cristiani, e di tutti gli uomini al grande mistero che commemoriamo in questa notte; di qua viene l'auspicio, perchè dalla luce del Verbo di Dio le civiltà umane ricevano la scintilla che le può portare a fulgore più vivo, a beneficio delle genti.
Intorno alla culla di Gesù gli Angeli suoi cantarono pace. E chi credette al messaggio celeste e gli fece onore ebbe gloria e letizia. Così ieri; come sarà sempre nei secoli.
La storia di Gesù si perenna. Beato chi la intende e ne attinge grazia, robustezza e benedizione.
Amen, amen.

http://www.vatican.va/content/john-xxiii/it/homilies/1962/documents/hf_j-xxiii_hom_19621225_messa-natale.html
 

giovedì 26 dicembre 2019

I pensieri di Giovanni Paolo II sul Natale



I pensieri di Giovanni Paolo II sul Natale 
 

   Gesù Cristo è la rivelazione più piena e definitiva dell’avvento di Dio nella storia dell’umanità e nella storia di ogni uomo. Di ciascuno di noi. E in lui, nella sua venuta, nella sua nascita nella stalla di Betlemme, poi in tutta la sua vita ed insegnamento, infine nella sua croce e nella sua risurrezione, siamo chiamati, tutti e ciascuno di noi, in modo definitivo alla “vigna”. Egli, che è pienezza dell’avvento di Dio, è anche pienezza della chiamata divina rivolta all’uomo. In lui Dio sembra dire a ciascuno di noi: “non tardare”! (18 dicembre 1979)
 
   Quale potere si è posato sulle spalle di Cristo in quella notte? Un potere unico. Il potere, che soltanto lui possiede. Infatti soltanto lui ha il potere di penetrare l’anima di ogni uomo con la pace del Divino Compiacimento. Soltanto lui ha il potere di far sì che gli uomini diventino figli di Dio. Soltanto lui è in grado di elevare la storia dell’uomo all’altezza della gloria di Dio. “Soltanto lui”. (24 dicembre 1982)

    Perché Dio si è fatto uomo? Come è possibile che Dio sia diventato uomo? Così si chiedono i secoli e le generazioni. E molti si allontanano con questa domanda sulle labbra, si allontanano increduli. A volte con una comprensibile indignazione, con una obiezione riguardo a un evento che trascende la loro mente. È inconcepibile che Dio sia Padre e Figlio . . . È inconcepibile che Egli diventi uomo . . . È un mistero difficile e inscrutabile come quello dell’unità e trinità di Dio. Noi tuttavia, credendo alla onnipotenza di Dio, sappiamo che niente gli è impossibile. Dio è onnipotenza. Ma soprattutto è Amore. Nulla è impossibile all’onnipotenza, che è Amore. E proprio questo crediamo: “per noi e per la nostra salvezza . . . si è fatto uomo”. Per noi vuol dire: per amore verso di noi. Quando ci inginocchiamo durante la liturgia del Natale pronunciando le suddette parole del Credo, diventiamo simili ai pastori di Betlemme. Loro per primi si sono trovati nel raggio di questo mistero, che illumina le tenebre della storia dell’uomo sulla terra. (24 dicembre 1985

Il Natale costituisce l’occasione privilegiata per sottolineare uno dei valori cristiani più sentiti. Con la nascita di Gesù, nella semplicità e nella povertà di Betlemme, Dio ha ridato dignità all’esistenza d’ogni essere umano; ha offerto a tutti la possibilità di partecipare alla sua stessa vita divina. Possa questo dono incommensurabile trovare sempre cuori pronti a riceverlo! (11 dicembre 2003)

    Nell’angusta povertà del presepe contempliamo “un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2,12). Nell’inerme e fragile neonato, che vagisce fra le braccia di Maria, “è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini” (Tt 2,11). Sostiamo in silenzio e adoriamo! O Bambino, che hai voluto avere per culla una mangiatoia; o Creatore dell’universo, che Ti sei spogliato della gloria divina; o nostro Redentore, che hai offerto il tuo corpo inerme come sacrificio per la salvezza dell’umanità! Il fulgore della tua nascita illumini la notte del mondo. La potenza del tuo messaggio d’amore distrugga le orgogliose insidie del maligno. Il dono della tua vita ci faccia comprendere sempre più quanto vale la vita di ogni essere umano. Troppo sangue scorre ancora sulla terra! Troppa violenza e troppi conflitti turbano la serena convivenza delle nazioni! Tu vieni a portarci la pace. Tu sei la nostra pace! Tu solo puoi fare di noi “un popolo puro” che ti appartenga per sempre, un popolo “zelante nelle opere buone” (Tt 2,14). (24 dicembre 2003)

   Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (Lc 2,7). Ecco l’icona del Natale: un fragile neonato, che le mani di una donna proteggono con poveri panni e depongono nella mangiatoia. Chi può pensare che quel piccolo essere umano è il “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32)? Lei sola, la Madre, conosce la verità e ne custodisce il mistero. In questa notte anche noi possiamo ‘passare’ attraverso il suo sguardo, per riconoscere in questo Bambino il volto umano di Dio. Anche per noi, uomini del terzo millennio, è possibile incontrare Cristo e contemplarlo con gli occhi di Maria. (24 dicembre 2002)
 
   Al popolo oppresso e sofferente, che camminava nelle tenebre, apparve “una grande luce”. Sì, una luce davvero “grande”, perché quella che s’irradia dall’umiltà del presepe è la luce della nuova creazione. Se la prima creazione cominciò con la luce (cfr Gn 1,3), tanto più fulgida e “grande” è la luce che dà inizio alla nuova creazione: è Dio stesso fatto uomo! Il Natale è evento di luce, è la festa della luce: nel Bambino di Betlemme la luce originaria torna a risplendere nel cielo dell’umanità e squarcia le nubi del peccato. Il fulgore del trionfo definitivo di Dio appare all’orizzonte della storia per proporre agli uomini in cammino un nuovo futuro di speranza. (24 dicembre 2001

   Ecco l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che viene a riempire di grazia la terra. Viene al mondo per trasformare il creato. Si fa uomo tra gli uomini, perché in lui e per mezzo di lui ogni essere umano possa profondamente rinnovarsi. Con la sua nascita, egli ci introduce tutti nella dimensione della divinità, elargendo a chi nella fede si apre ad accogliere il suo dono la possibilità di partecipare alla sua stessa vita divina. Questo è il significato della salvezza di cui odono parlare i pastori nella notte di Betlemme: “Vi è nato un Salvatore” (Lc 2,11). La venuta di Cristo fra noi è il centro della storia, che da allora acquista una nuova dimensione. In un certo senso, è Dio stesso che scrive la storia inserendosi al suo interno. L’evento dell’Incarnazione si dilata così ad abbracciare tutta l’ampiezza della storia umana, dalla creazione alla parusia. Ecco perché nella Liturgia tutta la creazione canta, esprimendo la propria gioia: plaudono i fiumi, esultano gli alberi della foresta, si allietano le isole tutte (cfr Sal 98,8; 96,12; 97,1). Ogni essere creato sulla faccia della terra accoglie l’annuncio. Nel silenzio attonito dell’universo, rimbalza con eco cosmica ciò che la Liturgia pone sulle labbra della Chiesa: Christus natus est nobis. Venite, adoremus! (24 Dicembre 1998)

 https://it.aleteia.org/2017/12/25/8-pensieri-natale-giovanni-paolo-ii/

Papa Paolo VI, L’omelia che Paolo VI tenne il 25 dicembre 1971 alla parrocchia di Santa Maria Regina Mundi a Torre Spaccata





Papa Paolo VI 



    L’omelia di Paolo VI
 del 25 dicembre 1971 alla parrocchia di Santa Maria Regina Mundi a Torre Spaccata


        È venuto per darci confidenza

    Fratelli e figli carissimi: perché sono venuto fra voi? Sono molte le ragioni, anche semplici, salvo una che semplice non è. Dunque sono venuto prima di tutto per conoscervi e per farmi conoscere: forse molti di voi non hanno visto ancora da vicino il Papa. Eccolo qua: è così lontano?
    No! Vuole essere vicino, vicino al popolo che il Signore gli ha dato che è il popolo di Roma. E sono quindi venuto per salutarvi e salutarvi tutti.
       Vedete abbiamo qui il cardinale Dell’Acqua, che è colui che fa le nostre veci per la vita pastorale in Roma e pubblicamente, davanti a lui, conoscendo il suo zelo e conoscendo quanto lui si prodiga per il bene della popolazione romana, io lo ringrazio nel nome del Signore che oggi celebriamo: lo incoraggio e lo benedico. E con lui i vescovi, vedete, sono qui i vescovi ausiliari, quelli che condividono con lui questa grande opera di evangelizzare e predicare la Parola del Signore, di assistere spiritualmente tutta questa grande città che continua a crescere e a dilatarsi e aumentare di popolazione, e abbiamo — io per primo e loro con me — il dovere e l’onore di servirvi, di essere vicini, di curare i vostri interessi spirituali e perciò io ringrazio e saluto quelli che in questa grande opera, che è l’opera di Dio, prestano il loro aiuto.
      Primo fra essi chi è? È il vostro parroco. Come lo chiamate voi? Padre Nazareno? Nazareno Mauri? Ecco, lo salutiamo davanti a voi, perché gli vogliate bene, perché cercate di assecondare le sue cure, perché abbiate cuore a chiedergli di assistervi: «Ci faccia pregare, ci insegni, ci renda buoni, ci renda cristiani, ci santifichi, ci renda degni del grande destino che a noi è prefisso, quello di andare tutti in Paradiso».
       Se non abbiamo chi ci dà una mano, chi ci dà questo ministero, questo servizio di Dio potremmo smarrirci, potremmo restare senza il grande scopo della nostra vita che è quello di salvare le nostre anime. E quindi anche lui, il vostro parroco, lo ringraziamo di dare tutto se stesso al vostro servizio, al vostro bene, e lo incoraggiamo, lui e i suoi confratelli, che lo aiutano in questa non piccola ma tanto degna fatica, e con lui estendiamo il nostro saluto reverente e grato a tutta la famiglia dei Padri Carmelitani dell’Antica Osservanza, che hanno loro affidato il servizio pastorale, il ministero parrocchiale di questa borgata.
     Io avrei tanto da dire su questi cari religiosi, perché? Ma perché la loro casa, come dire, centrale qui a Roma è San Martino ai Monti, e San Martino ai Monti era il titolo che Papa Giovanni aveva dato a me quando volle che fossi anch’io associato al Sacro Collegio, cioè diventato cardinale mi disse: «Tu avrai per titolo San Martino ai Monti» che è la chiesa dei carmelitani, che vi prestano servizio. E poi sono nostri amici perché hanno la chiesa della Traspontina, che è a due passi dal Vaticano e quindi siamo in stretta comunicazione, tanto che qualcuno di loro, e anche il vostro parroco per un tempo ha prestato servizio presso il nostro ufficio centrale, diciamo così, la Segreteria di Stato, e quindi è tutta la grande famiglia carmelitana — anche alle carmelitane, vero — a tutte queste anime che si stringono intorno al Carmelo, diamo il nostro saluto e la nostra benedizione questa mattina.
    Dicevo: sono venuto per conoscervi e conosco un po’ la vostra parrocchia. So che siete già una comunità. Che sarebbe una parrocchia se fosse una folla senza legame, senza coscienza della propria unità, senza gli organi che la debbono tenere insieme, che sono le associazioni?
    Sappiano di tutti quelli che appartengono alle associazioni parrocchiali, che sono tante, è vero: c’è l’Azione Cattolica, ci sono quelle spirituali, religiose, eccetera, quelle che si occupano degli altri, ci sono i catechisti mi dicono. Ebbene a tutti quelli che sono appunto in questa organizzazione e in questa nervatura che tiene insieme e fa corpo della vostra grande popolazione, io do un saluto speciale e incoraggiamento. Sento il dovere di ringraziare anche loro e di incoraggiarli, perché anche essi sono innestati nel grande sforzo che si fa per arrivare a tutti.
     Siete, mi dicono, qui quasi 30.000! Oh quanti… quanti! E qui non c’entrano neanche tutti; se tutti fossero qui. Voi porterete il mio saluto anche a quelli che sono rimasti a casa e che sono fuori. A tutto questo corpo. E ricordate che non abbiamo gli occhi chiusi neanche per quelli che hanno ancora bisogno delle cose elementari e indispensabili per la vita: la casa, il lavoro. Per tutti questi che sono qui, in questo quartiere, voglio lasciare un saluto e una benedizione e potrei anche lasciare una promessa, e cioè di fare quello che si può perché siano consolati e assistiti e siano lieti. Abbiamo qui anche le autorità cittadine che vengono appunto per attestare la loro buona volontà.
    Credetelo: vogliono fare per voi tutto quello che possono. È vero? E allora ringraziamo e benediciamo appunto quelli che impegnano il loro tempo, la loro vita, la loro capacità per aiutare la popolazione di Roma, specialmente quella che ha maggior bisogno di questo soccorso, che non è facile e lo sapete, ma credete però che dietro a questa difficoltà c’è un volere preciso, assoluto ed espresso di fare quanto è possibile per venire in aiuto di tutti. Ecco perché sono venuto.
     Sono venuto, vi confiderò una cosa, anche per consolare me stesso, cioè per fare un Natale bello; voglio dire che anche il Papa deve fare un buon Natale e il mio Natale più bello è quando posso essere insieme a quelli che il Signore mi ha dato per fratelli e per figli. Essere insieme nella mia famiglia spirituale: voi siete una parte di questa famiglia, avete una bella chiesa nuova. Non è ancora del tutta finita ma indica già, anche qui, uno sforzo per fare le cose nuove, proporzionate ai bisogni e tutto questo per me è una grande, una grande consolazione.
Voi forse immaginate che il Papa sia l’uomo più felice di questa terra? Non è vero: beh, «felice come un Papa» si dice. Se sapeste! Perché? Ma perché tutti i dolori di questo mondo, tutte le necessità, le guerre, le controversie fra gli uomini, e soprattutto il vedere tanti che sono lontani dal Signore, che tanti lo combattono, lo negano, lo offendono, e tutto questo viene a finire nel nostro cuore.
     E allora trovare una comunità come la vostra: migliaia di fedeli, di gente buona, di gente che spera e crede nel Signore, per me è una grandissima gioia, è una grandissima consolazione e perciò non siete voi che dovete ringraziare me di questa visita, ma sono io che debbo ringraziare voi per avermi accolto questa mattina per augurare a tutti proprio con il cuore aperto l’augurio di buon Natale … di buon Natale.
      È qui che si incentra la ragione precisa per la quale io sono venuto fra voi: per celebrare il Natale. Io vorrei avere qui alcuni ragazzi del catechismo per sentire da loro se sanno che cosa è il Natale. Beh, sì che lo sanno: c’è qui un bel presepio, sanno subito che Natale è la festa che commemora la nascita di Gesù, e fino a qui ci arriviamo tutti, anche i bambini del catechismo, i più piccoli possono dire: «Oggi è Natale, è venuto Gesù Bambino».
       Ma se io vado avanti con le domande: «Ma chi era Gesù Bambino?», «Gesù bambino è il figliolo della Madonna, è il figlio di Maria». Ed è tutto? Ecco, la grande cosa che dobbiamo avere presente nell’anima, facciamo uno sforzo, un po’, non dico per capire, ma almeno per farvi attenzione: Gesù, quel Gesù che vediamo nel presepio, quel bambino che vagisce lì, che non ha nessuna forza, nessuna espressione di sé, proprio perché è un bambino appena nato: quel Gesù è Figlio di Dio!
     Da dove viene? Ma viene dal cielo, dove, lo diremo adesso, fra poco cantando il Credo: descendit de caelis, «è disceso dal cielo», ha questa prerogativa, questa singolarità unica, misteriosa e immensa, che racchiude in sé due figliolanze: è Figlio di Maria e quindi è fratello nostro, è uomo, ed è figlio di Dio, è figlio di Dio! Viene dal cielo, in lui vive la divinità.
     Colui che ha creato il cielo e la terra, colui che è sempre stato e sempre sarà, colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita, della nostra esistenza, colui che conosce tutto, che vede nei nostri pensieri, colui che è presente a noi più che noi stessi, quello che si chiama Figlio di Dio, è venuto a farsi insieme figlio dell’uomo e allora la meraviglia deve essere la caratteristica di questa festività: siamo meravigliati, siamo ammirati, siamo sorpresi, siamo incantati per questo fatto che Dio si è fatto uomo, e che è in mezzo a noi.
     Tenetelo bene a mente, perché questo è quello che io vi volevo dire venendo fra voi.
     Il Natale è la visita fatta, non dal Papa che viene in mezzo a noi, non è che un simbolo questo, non è che un segno. È la visita, è la venuta di Cristo tra noi e Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo. È la discesa di Dio in mezzo a noi. Come è lontano Iddio, cioè come è misterioso, come è inaccessibile, come è incomprensibile. Tanta gente non ci crede, perché? Ma perché non lo vede con gli occhi, perché non lo sente, perché non capisce, perché comprende una cosa: che se c’è Dio, Dio è un mistero senza confini e viene da questo mistero senza confini, da questo Dio nella profondità del tempo e dello spazio.
    Avete mai guardato il cielo? Avete mai pensato ai secoli che sono passati? Tutti gli esperimenti recenti di questi astronauti che vanno alla Luna ci hanno almeno abituati a guardare un po’ di più la volta stellata che sta sopra di noi. E pensare a queste distanze immense, a questi secoli senza numero, che segnano l’età dell’universo e quindi il Dio di questo universo. Ebbene il Dio di queste profondità, il Dio infinito, il Dio che sta nei cieli. «Padre nostro che sei nei cieli», che sei in questo tuo ... in questo immenso, immenso mistero; questo Dio che è inafferrabile ai nostri occhi, e così poco pensabile anche ai nostri cervelli, questo Dio vero.
      Lui è venuto in mezzo a noi e per farsi conoscere, per farsi direi afferrare da noi si è fatto nostro fratello, si è fatto uno di noi, si è rivestito di carne umana, si è fatto uomo, per venire proprio a essere nostro amico, nostro collega, nostro compagno. Per darci confidenza!
     Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza, a farci paura, a farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No, no! È venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e lui.
      C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di voi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da lui pensato, da lui amato… da lui amato: guardate che questa è una grande parola! Se voi capite questo, se voi ricordate questo che vi sto dicendo, voi avete capito tutto il Cristianesimo.
      Che cosa è il Cristianesimo? Che cos’è questa nostra religione che ci fa costruire queste case, che ci organizza in parrocchie, che ci fa una famiglia sola, che ci fa diventare Chiesa sua? Che cosa è? È l’amore di Dio per noi. La capite questa parola: Dio ci ama, dilexit nos, ci ha voluto bene ancora prima che nascessimo; ha riconosciuto le nostre cose, e ha avuto un occhio, ha avuto un raggio di bontà e si è fermato sopra ciascuno di noi.
      Mi dite chi di voi può dire: «Io non sono amato da Dio». Un malato? Ma se il Signore è venuto per quelli che soffrono. Un bambino? Ma se si è fatto bambino. Una povera donna di famiglia? Ma se è venuto anche lui per vivere in questa nostra famiglia umana. Un povero? Ma se ha voluto essere anche lui un povero. Un operaio? Ma se è voluto essere lui un povero falegname in un piccolissimo paese, Nazareth, dove ha passato trent’anni della sua vita, la maggior parte, per essere nostro compagno, per condividere con noi questa fatica della esistenza umana.
     Gesù ha voluto venire tra di noi — Dio fatto uomo — perché comprendessimo il suo linguaggio, la sua parola divina, ma pronunciata non nel linguaggio misterioso con cui parla agli angeli e con cui parla nel silenzio degli spazi e dei secoli. Ha voluto assumere le nostra labbra per farsi capire e diventare… Come lo chiamiamo Gesù di solito? Maestro! È venuto per parlarci, per effondere la sua scienza, la sua sapienza. E come? Chissà che parole difficili che ha detto.
      Ma no! Sono parole fatte apposta per i nostri poveri cervelli, per la nostra povera intelligenza, ma sono sempre parole divine, immense, che scoppiano quando noi le riceviamo nella nostra anima, tanto sono grandi e ha detto il suo grande messaggio che è come un programma di tutto il Vangelo: «Beati voi poveri, perché di voi è il mio regno, beati voi che piangete e soffrite perché io sono venuto a consolarvi, beati voi che amate e soffrite per la giustizia, perché io vi sfamerò, vi darò questa giustizia, e beati voi puri di cuore perché voi vedrete Dio, avrete la simpatia e l’intuizione di che cosa sono le cose divine».
Questo è il linguaggio che ha usato il Signore e si è fatto quindi maestro, senza sedere sulla cattedra, ma in mezzo al popolo, seduto per terra, passeggiando con i suoi discepoli.
    E poi? Tutto qui? Guardate: è venuto Gesù, è venuto per dare la sua vita per noi. Non capiremo mai abbastanza Nostro Signore Gesù Cristo, se non comprenderemo questa sua intenzione, questo destino che segna davvero il perimetro della sua vita. Gesù è venuto per morire, ecco, è venuto per salvarci.
    Se uno di voi fosse stato salvato da un incidente che, ahimè, succede spesso sulla strada, avreste gratitudine per quel coraggioso che si è esposto al pericolo per salvare voi?
      Avete sentito la storia di quello che abbiamo beatificato qualche settimana fa, padre Kolbe? Forse sì. Però fatevela raccontare lo stesso, perché è tanto bella: un religioso francescano polacco, molto bravo, che ha fatto tanto bene parlare di sé per le opere grandi, riguardo la stampa specialmente, viene preso dai tedeschi e messo in un campo di concentramento.
    Un prigioniero fugge, non si trova dove sia questo, e allora — come era metodo di questa inumana gente — il sistema prevede: «Noi ne uccideremo dieci, per vendicarci di questo che è scappato». Ne hanno trovati nove. Il decimo era un padre di famiglia, che io ho veduto, sapete. Quando ho fatto la beatificazione in San Pietro lui c’era. «Sono stato io salvato da Massimiliano Kolbe».
     Perché? Perché questo prigioniero è uscito dalle file e si è presentato all’ufficiale e gli ha detto: «Questo è un povero padre di famiglia, lo lasci andare, prenda me», e hanno preso lui. Ed è morto per salvare questo polacco: è un gesto eroico, gratuito, spontaneo, senza nessuna gloria, senza nessuna ricompensa. Ebbene è morto per salvare questo padre di famiglia e Gesù è morto per salvare ciascuno di noi: Diléxit nos, et trádidit semetípsum pro nobis. Ha dato se stesso per noi.
    Io vorrei che vi restasse nel cuore, per ricordo di questo Natale, proprio questo pensiero. Se siamo stati amati da Cristo, da Dio in Cristo che dobbiamo fare? Rispondete voi. È una cosa che sembra semplice, ma comprende tutta la nostra vita: dobbiamo dare anche noi. Se è così ricco per noi, se è così buono con noi, se è stato così generoso con noi, se ha dato la sua vita per noi, allora gli vorrò bene, mi guarderò anch’io di volergli bene, mi sentirò cristiano, cioè legato dalla gratitudine, da riconoscenza, da amore a questo Gesù che ha dato la sua vita per me.
     Ed è tutto. Quelli che rispondono a questo amore sono cristiani.
    E avviene un secondo fatto. Se davvero siamo stati tutti amati in Gesù Cristo eccoci qua! Ci troviamo insieme, si produce una comunità, si produce una comunità, si produce una simultaneità, si produce un corpus, si produce una società: come si chiama? Si chiama Chiesa. Siamo noi la Chiesa. Noi che siamo i salvati di Cristo.
    Quindi due conseguenze da tutta questa meditazione.
    Primo: bisogna che davvero comprendiamo meglio, non essere distratti. Non siamo gente che dimentica e non siamo degli ingrati, perché la cosa più grave, più generale della nostra povera umanità è questa, di non avere la gratitudine, quanta dovrebbe avere per Dio che così ci ha amati. E amare Gesù vuol dire pregarlo, vuol dire venire in chiesa, vuol dire davvero essere religiosi, per via di amore.
    Tanti vedono nella religione una cosa che opprime, una cosa difficile, una cosa incomprensibile, una cosa noiosa: no! La religione, l’essere a contatto con Cristo e con Dio è una cosa che ci riempie di felicità, di gioia. Perché? Perché è l’amore.Il primo, il grande comandamento che il Signore ci ha lasciato è questo: ama, ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le tue forze. Anzi ha detto una parola che sembra, a me fa sempre tanta impressione e che anche a voi certo la farà: se ci pensate: «Amatevi». Come? Quel come che fa cascare le braccia: «Come io vi ho amato». Ma come è possibile amare come il Signore ci ha amato?
     Dov’è il nostro piccolo cuore, lui che ha il cuore che comprende tutto il mondo, lui che ci ha dato questo saggio di generosità, che è infinita, questa donazione eroica di sé. Ma posso io amare in questa misura?
     La misura no, ma l’esempio sì: come Signore tu hai amato me, io cercherò di amare te, la mia vita sarà tesa in questo desiderio di rispondenza, in questo desiderio di dialogo, di incontro, di amore con te. Voi sapete che cosa è l’amore, questo sentimento fondamentale della nostra vita verso Cristo e verso Dio. Siete cristiani che sarete salvati.
    E in secondo luogo su questo «amate ancora come io ho amato», Gesù ha amato tutti gli uomini, Gesù non ha detto di no a nessuno. Gesù non ha avuto odio nemmeno per colui che lo ha tradito, Giuda. Ha udito parole amare di condanna e quando Giuda col bacio, con la profanazione, con la ipocrisia più fiera e più crudele, lo ha tradito, Gesù che cosa ha detto? «Amico, amico, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo», cioè Lui. Vedete chi è Gesù: lo conoscete adesso questo cuore di Cristo? Ebbene noi dovremmo imitare il cuore del Signore, cioè essere capaci anche noi di amare tutti.
      Vorrei fare delle domande e poi finisco. Per celebrate il Natale: avete fatto qualche opera buona? Avete perdonato a qualcheduno? Avete pregato per qualcheduno che ne ha bisogno? Avete detto una buona parola per consolare qualcuno? Avete dato un po’ di gioia a qualche bambino, a qualche parente o a qualche persona? Avete cercato di effondere e di trovare in fondo al vostro cuore un po’ di calore, un po’ di dolcezza da dare intorno a voi? Avete fatto un atto di amore per questa vostra comunità, questa nostra società spirituale, che è la parrocchia? Beh, fatelo con me adesso! Noi celebreremo la Messa proprio per questa parrocchia, perché diventi davvero una famiglia in Cristo, perché l’amore di Cristo regni, trionfi nella vostra comunità parrocchiale.
      L’amore deve essere il sole che illumina la nostra vita, il sole che scende e che dirige il nostro amore dal senso verticale al senso orizzontale: amiamo Dio e amiamo il prossimo.
     Se abbiamo capito questa chiave, questa sintesi del Cristianesimo, allora possiamo andare vicino al presepio, chiudere gli occhi e pensare a questo bambino che è venuto per essere il nostro Salvatore.

L'Osservatore Romano, 24 dicembre 2014.

 http://ilsismografo.blogspot.com/2014/12/vaticano-i-natali-di-montini.html

    

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