Paolo VI e l'arte contemporanea
Perseguì con tenacia il dialogo con quelli che definiva «i guardiani della bellezza nel mondo»
Quella sera, il 28 giugno del 1964, lo scultore bergamasco
Giacomo Manzù stava salendo le scale della basilica di San Pietro,
sopraffatto dalla bellezza del tramonto sulla piazza e affascinato
dall'andirivieni delle rondini, «indaffarate a cucire il crepuscolo alla
notte».
Come racconta Curtis Bill Pepper nel suo Un artista e il Papa
(Mondadori, 1968), era in compagnia del figlio Pio, del cognato e del
banchiere Raffaele Mattioli. In cima al cancello centrale sostava un
gruppo di curiosi intenti a sbirciare oltre la tenda. La basilica era
stata già chiusa, quindi appena oltrepassato il cancello, furono accolti
da un monsignore che annunciò loro: «Il Santo Padre sarà qui tra poco
(...) È appena sceso dall'ascensore e adesso sta pregando sulla tomba di
San Pietro».
Nell'attesa lo scultore si guardava intorno. Rimuginava tra sé le ragioni per cui l'inaugurazione della sua Porta della Morte
stesse avvenendo in sordina senza nessuna celebrazione-benedizione
pubblica. Tutto stava accadendo dietro una sorta di sipario e senza
invitati, al solo cospetto del Papa, di qualche dignitario e di due
diplomatici tedeschi. Non erano state invitate neanche le mogli. Infine
Paolo VI, seguito da alcuni dignitari, arrivò. Manzù notò che «appariva
sorpreso, come se avesse appena saputo che sotto il porticato della sua
chiesa stava succedendo qualcosa di insolito».
Dopo aver
salutato l'artista, il Papa rivolse uno sguardo malinconico verso la
porta. Manzù pensò ancora: «Ecco un uomo molto chiuso e molto sensibile,
e inguaribilmente triste». Il silenzio durò a lungo. Poi il Pontefice,
indicando con un gesto vago i pannelli bronzei, chiese allo scultore:
«Se vuol spiegarci il significato di tutte queste». «Sì Santità»,
rispose Manzù. Ma da quella spiegazione appassionata il Papa non parve
particolarmente colpito, tanto che si mise a parlare con l'ambasciatore
tedesco, allontanandosi un po' dall'artista.
Prima di
andarsene, però, si girò verso lo scultore e gli disse: «Dio la
benedica». Quindi, silenziosamente, sparì nel buio della Basilica con
tutto il suo seguito.
Quell'apparente indifferenza,
quell'indecifrabile silenzio, mortificarono lo scultore che, forse con
troppa enfasi, aveva cercato di spiegare la propria opera. Invece, al di
là della prima impressione e della suscettibilità di Manzù,
probabilmente Paolo VI rielaborò tutto quello che l'artista gli aveva
detto e lo fece suo. Del resto Montini da decenni studiava e amava
l'arte contemporanea.
La sua raccolta d'arte, che ha preso il
nome di Collezione Paolo VI — Arte Contemporanea, conta infatti ben
settemila opere, molte delle quali provenienti da lasciti e donazioni
successivi al 1987, anno della sua costituzione. Oggi viene celebrata
con una nuova e più degna sede espositiva a Concesio, nei pressi di
Brescia, a poca distanza dalla casa natale di Giovanni Battista Montini,
e ci rivela più che mai quella «volontà di capire» con cui il Papa
bresciano si avvicinò all'arte contemporanea con totale apertura e
libertà da ogni pregiudizio. Le sue scelte parlano chiaro: egli era
convinto che se l'arte è autentica, pur nelle sue manifestazioni più
audaci ed estreme, è di per sé religiosa e vicina al sacro.
Né va poi mai dimenticato che nel maggio del 1964 Paolo VI fece un
memorabile discorso agli artisti — lo scorso 21 novembre celebrato da
Benedetto XVI nella Cappella Sistina — in cui faceva il punto su una
situazione di silenzioso imbarazzo che nel tempo si era stratificata tra
Arte e Chiesa. Sommessamente quanto umilmente agli artisti è stato
ripetuto — ieri come oggi — «Noi abbiamo bisogno di voi».
In
effetti gli artisti, perdendo la committenza della Chiesa, che non aveva
solo un peso economico, ma rappresentava un faro che illuminava una via
da percorrere, si sono trovati a combattere una battaglia del tutto
individuale e spesso fitta di incertezze e ostacoli, soprattutto
interiori.
L'appello di Paolo VI, quindi, arrivò al momento
giusto, mentre infuriavano insensate battaglie tra i vari «ismi».
Soprattutto restano attuali alcuni concetti che egli espresse all'epoca:
«Il nostro ministero è quello di rendere accessibile e comprensibile,
anzi commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile,
dell'ineffabile, di Dio (...) E in questa operazione voi siete maestri
(...) La vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi
tesori e rivestirli di parola, di colori, di forma, di accessibilità
(...) Bisogna ristabilire l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti».
Paolo VI aveva capito che la questione non era quella di aderire a una
tendenza piuttosto che a un'altra, indicando una via precisa allo
sviluppo di un genere di pittura o di scultura cosiddette «sacre», ma
aveva avuto un'intuizione ben più profonda: attraverso l'arte la Chiesa
avrebbe avuto la possibilità di capire meglio l'uomo contemporaneo.
L'originalità della Collezione Paolo VI si basa quindi su una
dimensione non territoriale ma universale. Ed è inoltre l'unico museo al
mondo che come filo conduttore non ha scelte dettate dal gusto o dalla
moda, ma dalla volontà di un Pontefice. Il quale non ha assemblato solo
opere di arte religiosa, ma si è avvalso anche di donazioni di opere di
grandi artisti svincolati dal tema del sacro.
La Collezione
Paolo VI è un'occasione per addentrarsi nell'arte contemporanea seguendo
il gusto e il pensiero del Papa bresciano. Egli aveva capito che
bisognava smontare l'incomprensione che la Chiesa aveva dimostrato per
l'arte del ventesimo secolo, arrivando al punto di teorizzare «la morte
dell'arte». E quindi perseguì con tenacia il dialogo con gli artisti del
proprio tempo, che definì «guardiani della bellezza del mondo».
Ma ciò che nel discorso della Cappella Sistina del 1964 è valido
ancora oggi, riguarda una frase in cui si ammonisce un'eventuale
committenza della Chiesa a non ricorrere più «ai surrogati,
all'oleografia, all'opera d'arte di pochi pregi e di poca spesa». Un
invito ancora valido se pensiamo alle opere vincitrici del recente
concorso indetto dalla Conferenza episcopale italiana per le nuove
chiese.
Ricordiamo, tra l'altro, che tra gli anni Venti e
Trenta monsignor Montini coltivò l'amicizia con il filosofo cattolico
francese Jacques Maritain, da cui attinse l'ispirazione per scrivere nel
1931 il libro Sull'arte sacra futura , ispirato alla
tradizione dello spirituale nella ricerca dell'arte moderna. Inoltre già
negli anni Cinquanta, quand'era arcivescovo di Milano, fece di tutto
perché la Chiesa riportasse nei luoghi sacri opere di artisti capaci di
testimoniare la condizione umana, di suscitare stupore e di indicare ai
fedeli «l'accesso al mistero».
Tornando alla mostra della
Collezione Paolo VI, il percorso della visita propone una sala di natura
iconografica dedicata a san Paolo e spazi monografici su autori come
Gino Severini, Salvador Dalì e Mario Sironi, celebri esponenti delle
avanguardie storiche, i quali si misurano nelle opere esposte con un
modo nuovo di interpretare il linguaggio dell'arte religiosa. Né manca
una campionatura molto significativa delle varie tendenze della pittura
italiana dagli inizi del Novecento agli anni Settanta.
Comunque troviamo apprezzabile che non si sia trascurata la presenza
dell'arte astratta, rappresentata dai suoi maggiori esponenti (Mario
Radice, Emilio Vedova, Hans Hartung, Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla,
Lucio Fontana) e dalle diverse declinazioni di tale corrente, la quale
pur oscillando tra una geometria rigorosa e il lirismo della materia,
dimostra come anche un linguaggio aniconico si possa associare al tema
religioso.
Per quanto riguarda invece il percorso legato ai
«realismi», notevole è la presenza di artisti come Pablo Picasso, Marc
Chagall, Georges Rouault, Henri Matisse, Ferruccio Ferrazzi, Felice
Casorati, Giorgio Morandi.
Peccato che sfogliando il catalogo
si debba notare che a illustrare nomi altisonanti ci siano spesso
immagini di opere minori.
Al termine dell'itinerario
espositivo si trovano due sale monografiche. La prima dedicata a Jean
Guitton, filosofo e letterato, ma anche artista di grande originalità
che fu molto amico e consigliere spirituale di Paolo VI. La seconda è
invece destinata completamente a Giovanni Battista Montini, che ci
appare attraverso i ritratti che gli hanno dedicato artisti come Mario
Sironi o Ugo Attardi, Ernst G. Hansing o Dina Bellotti.
La
Collezione di Concesio dialoga a distanza con la Collezione d'Arte
Religiosa Moderna dei Musei Vaticani, che sempre Paolo VI istituì nel
1973. Nella raccolta vaticana, però, le opere non sono necessariamente
di connotazione religiosa o liturgica, ma sono state richieste ad
artisti come «dono della loro creatività» a dimostrazione che sono
nuovamente protagonisti della vita della Chiesa. In quel museo infatti
Papa Montini ci tenne a onorare le storiche raccolte vaticane con il
«genio espressivo del nostro tempo».
La raccolta che oggi è a
Concesio è invece legata sia a personali rapporti di amicizia che al
dialogo con gli artisti, a cui il Pontefice chiese di interpretare i
temi dell'evangelizzazione, poiché era suo desiderio riuscire a
promuovere un'arte capace di misurarsi con il messaggio della Chiesa.
http://www.osservatoreromano.va/it/news/paolo-vi-e-larte-contemporanea
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