venerdì 12 novembre 2021

L'aspetto formativo della carità: sapienza ed esperienza nell'esercizio della carità evangelica, Franco Giulio Brambilla


L'aspetto formativo della carità: sapienza ed esperienza nell'esercizio della carità evangelica

Franco Giulio Brambilla




La riflessione che intendo svolgere si inserisce nel quadro degli in­terventi di questo convegno sulla spiritualità di don Luigi Monza dal titolo: “La carità missione per la società”. Dopo la riflessione biblica sulle figure della missione nel Nuovo Testamento, e dopo la riflessione teologica che ha disegnato il discorso della carità non tanto come un momento applica­tivo, che può lasciarsi alle spalle il riferimento alla fede cristiana, il mio in­tervento si riferisce all’aspetto formativo della carità. Il titolo suggerisce la prospettiva: Sapienza ed esperienza nell’esercizio della carità evan­gelica.

Per questa riflessione mi é parso suggestivo farmi guidare dal ca­novaccio della parabola, che nell’immaginario cristiano é il racconto per eccellenza della missione della carità per ogni uomo la parabola del Buon Samaritano. Ho trovato in essa come una mappa per un percorso for­mativo della carità e per i temi e le attenzioni essenziali che bisogna avere. Svolgerò tre premesse e tre conclusioni attorno a sette punti, che rappre­sentano in qualche modo il tracciato della carità, missione per la società. Li indico con un’espressione della para­bola, che ci aiuta a sognare e presentare con linguaggio narrativo il filo delle nostre riflessioni

TRE PREMESSE (NON PROPRIO SCONTATE) PER UNA PARABOLA

Anzitutto tre premesse, o se volete una sola premessa con tre sottolineature, per disegnare le coordinate del nostro cammino: a chi é rivolta la parabola, come e perché é raccontata. Queste tre sottolineature ci consen­tono di osservare subito ciò che é in gioco nel discorso e nella pratica della carità, qual é il suo orizzonte e il suo respiro.

1. A chi è rivolta

La parabola é suscitata dalla domanda fatta a Gesù da uno scriba: Maestro, “che cosa devo fare per ave­re la vita eterna?” E’ la domanda che sorge dentro ogni uomo, quando si pone dinanzi al senso del proprio esiste­re nel mondo: che cosa devo fare per avere la vita, la vita in pienezza? La carità di cui si parla non é un atteggia­mento periferico, un optional, non é qualcosa che facciamo dopo le normali attività e le scelte che servono a vi­vere, come un di più per chi ha tempo e voglia, ma porta ad esprimere il bisogno fondamentale che sta racchiuso nel cuore dell’uomo: quello di raggiungere la vita eterna, la vita in pienezza, quella che non può essere solo un possesso di pochi, ma che ha l’orizzonte della vita come tale. Per questo la parabola é rivolta ad ogni uomo!

2. Come è narrata

Gesù non risponde alla domanda del maestro della Legge, ma lo rinvia alla sua conoscenza della volontà di Dio, manifestata nel suo comandamento. Lo scriba risponde citando i comandamenti nella formula molto bella del Deuteronomio, dove il comandamento é messo in luce nella sua intensità personalistica: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e ama il tuo pros­simo come te stesso”. Il comandamento di Dio non è un ostacolo alla libertà e alla vita, ma suscita la risposta di fede e la coscienza morale. Raggiungere la vita in pienezza è fare il bene, lasciando che sia Dio a determinare in modo ultimo il senso delle nostre relazioni, personali e sociali. Senza la coscienza che la carità c’entra con il no­stro rapporto con Dio e con gli altri essa è destinata ad essere un surplus per il tempo libero e per gli specialisti della carità, ma non diventa una determinazione del comandamento di Dio e della verità profonda del nostro es­sere. Bisogna dirlo francamente: la carità è una forma del comandamento di Dio e della vita autentica dell’uomo. Riportata a questa sua dimensione fondamentale essa non si aggiunge né alla coscienza morale, né all’impegno di ogni giorno. Essa ne è semplicemente il senso e la meta: “Fa’ questo e vivrai!”.

3. Perché è raccontata

Allora perché è raccontata la parabola, se la carità alla fine non dice altro che il senso del comandamento di Dio e la verità dell’uomo? Luca dice che il maestro della legge per giustificare la sua domanda nè pone un’altra: “Ma chi è il mio prossimo?”. Probabilmente la domanda dello scriba, di questo uomo saggio, ha un doppio signi­ficato: essa avanza una scusa e manifesta una buona intenzione. La scusa riguarda la possibilità di identificare il prossimo: chi è il mio prossimo, come devo aiutarlo, qual è lo stile di una carità illuminata, posso io aiutare questo e non quello? – sono le mille domande con le quali a volte camuffiamo una decisione radicale. La buona intenzio­ne è quella di chi manifesta la sua disponibilità, di chi dice: “Se c’è qualcosa da “fare io ci sono”, della generosità proclamata, ma che fa fatica a diventare atteggiamento stabile e illuminato. Per questo Gesù narra la parabola, per strutturare il nostro desiderio, per rendere stabili e illuminate le nostre intenzioni, per dare competenza alle no­stre iniziative, per aiutarci a non essere dei pressappochisti della carità. La carità riguarda la vita di ogni uomo, la pienezza di vita nostra e altrui: la carità non è un pronto soccorso, ma è segno e stimolo di un percorso, che poi ognuno dovrà fare personalmente. Ma più radicalmente Gesù narra la parabola per dare al comandamento di Dio la sua dimensione storica e pratica. Gesù narra se stesso come parabola, perché nessuno possa dire: io non sa­pevo, io non ho visto. Il comandamento di Dio può apparirci ancora una legge esterna, la storia di Gesù lo preci­sa in una figura personale, perché non ci resti alcuna scappatoia. Per questo la grande tradizione vede nella para­bola del Buon Samaritano la figura di Gesù, che scende da Gerusalemme a Gerico per fasciare le ferite di ogni uomo che viene nel mondo. La Pasqua di Gesù – questo sarà il nostro punto di arrivo – è la figura concreta del comandamento di Dio. Prendiamo dunque il largo con la nostra riflessione, che vuole essere insieme esperienziale e sapienziale.

UN UOMO SCENDEVA...

IL DESTINATARIO: DAL BISOGNO AL BISOGNOSO

La parabola mette subito in chiaro che il destinatario della carità è ogni uomo che viene nel mondo: Un uomo scendeva...: si racconta qui l’eterna vicenda dell’uomo e della donna che camminano in questo mondo: l’uomo, ogni uomo è potenzialmente il destinatario della nostra azione e del nostro intervento. Anche nell’altra famosa parabola sulla carità – quella del giudizio finale di Mt 25 – alla domanda degli eletti (e rispettivamente dei reprobi): “Quando mai ti abbiamo visto affamato, assetato, ammalato, ecc.”, il Re risponde: “Ogni volta che...”.Ogni uomo è portatore di un bisogno, ogni uomo è il destinatario della nostra missione, perché più radi­calmente ogni uomo è un bisognoso. La questione del destinatario della parabola, l’identità del prossimo pone subito una prima questione pratico –formativa che potremmo formulare così: si tratta di rispondere ai bisogni anti­chi e nuovi in modo tale che ognuno si riconosca bisognoso. Ma qui si nasconde anche un’insidia: quella di stru­mentalizzare il bisogno per altri scopi (e di lasciarci strumentalizzare come stazione di servizio per i bisogni).

In una società come la nostra che è una società di bisogni, tutte le agenzie della carità o del volontariato (da quelle più strutturate e complesse a quelle più elastiche e tempestive) rispondono ad una precisa attesa sociale. Che vi siano associazioni, organizzazioni, strutture che rispondono ai bisogni che via via si presentano nella nostra società può essere molto funzionale alle aspettative sociali odierne. Lo Stato si cura del potere e quando va bene fa da arbitro tra gli interessi dei singoli e dei gruppi e demanda alle associazioni di volontariato di rispondere ai bi­sogni di coloro che sono penalizzati dal conflitto sociale, e favorisce persino forme di solidarietà, che però diffi­cilmente incidono sul progetto etico della società civile e politica. Questa valorizzazione di tutte le forme della ca­rità/solidarietà fa corpo anche con la coscienza diffusa dei cittadini, che affiancano a comportamenti a volte assai competitivi e concorrenziali nella vita di ogni giorno l’esigenza di un impegno immediato per venire in soccorso al bisogno che si affaccia sempre di bel nuovo. Per questo oggi il tema del volontariato e della carità ha un forte ap­prezzamento nella coscienza media della gente.

Occorre però stare attenti almeno su due fronti: il primo fronte è quello propriamente sociale, perché la ge­nerosità dei cittadini nel campo del volontariato non conviva con la mancanza di coscienza etica nell’ambito dei rapporti civili: una forte presenza di generosità deve prima o poi incidere sui meccanismi sociali per una società più giusta. Il secondo fronte riguarda propriamente i cristiani: essi devono rispondere in modo competente ai bi­sogni, ma non devono né strumentalizzare i bisogni, nè lasciarsi strumentalizzare perché siano semplicemente for­nitori di servizi a buon prezzo e di buon cuore. Occorre che su questo punto i cristiani mostrino una vigilanza par­ticolare. Il servizio della carità – qualunque esso sia, dal più semplice e immediato al più strutturato e complesso – deve in prima battuta essere un servizio disinteressato e senza discriminazioni: per noi il bisognoso è ogni uomo e ogni donna, il servizio non è prima di tutto per i ‘nostri’, e per farli diventare dei ‘nostri’. Chi ci accosta deve sen­tire tutta la libertà di chi soccorre senza chiedere tessere, fedi, appartenenze: la risposta al bisogno non dev’essere strumento di affermazione e di potere, non dev’essere luogo per legare le persone o per farle diventa­re cristiane. In secondo luogo occorre che i cristiani vigilino perché essi sanno che il loro compito non si esaurisce rispondendo al bisogno, ma incontrando il bisognoso, o meglio facendolo scoprire come bisognoso. Una cura del bisogno inteso in modo solo materiale, senza mettere in luce che esso è un segno di una domanda più radicale, del bisogno di un bene più grande, di cui il credente è a sua volta solo testimone e non proprietario, non apre né il singolo né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Gesù guarisce molti malati e quasi sempre, una volta guariti, li spedisce a casa, perché nessuno sospetti che li ha guariti per farli diventare dei suoi; ma quando li guarisce, sembra suggerire alla loro coscienza che la loro guarigione è il segno di una salvezza più piena, che essi troveranno nel rispondere liberamente e consapevolmente a quel bene più grande che è la vita in pienezza e non è solo la salute riacquistata (e nel condividerlo con gli altri).

Per questo il destinatario della carità del cristiano è ogni uomo, senza differenza alcuna; ma il cristiano non deve trattarlo solo come un essere bisognoso, bensì mentre lo aiuta deve suggerirgli la sua identità più vera: quella di essere liberato per il bene. Non lo aiuta per strumentalizzarlo, ma lo aiuta in modo che sia reso libero per rispondere personalmente a quel bene che chiama entrambi. Rispondendo al suo bisogno lo aiuta ad essere sempre più persona! Cioè ad essere uno che decide del suo destino e impara a condividere i beni dell’esistenza con gli altri, che è disponibile a viverli in una relazione fraterna.

...DA GERUSALEMME A GERICO.

L’ORIZZONTE: LE COMPETENZE DELLA CARITA’

La seconda annotazione della parabola mette in luce l’ampio orizzonte nel quale si svolge la vicenda dell’uomo. Da Gerusalemme a Gerico... sta a dire lo spazio geografico che va dalla città di Dio fin giù nell’abisso della lontananza da Dio (Gerico è trecento e oltre metri sotto il livello del mare). Questa geografia teo­logica ci dice che l’orizzonte della missione della carità devi essere il più ampio possibile. Esso copre tutta la vi­cenda umana dal primo fino all’ultimo uomo, da quello più vicino a Dio a quello più distante da lui. Ciò comporta di saper leggere con intelligenza e di interpretare con competenza le situazioni in cui si inserisce la carità dei cri­stiani. L’orizzonte che va da Gerusalemme a Gerico è quello che disegna tutte le condizioni dell’uomo e tutte le situazione del suo bisogno.

Allora si tratta di capire che è mutato il modo con cui i cristiani leggono il loro tempo. Se prima si poteva pensare di poter dedurre direttamente e in modo univoco dai principi teologici ed etici della visione cristiana sull’uomo le soluzioni storico- concrete per l’impegno nel mondo, oggi sovente si assiste all’atteggiamento contra­rio. Le soluzioni praticabili sono ricavate da una specie di compromesso pratico, che se a parole si rifà a valori consensuali, poi risulta incapace di ricavarne comportamenti comuni. Così le scelte concrete sono lasciate all’esperimento e alla mancanza di progettualità. Forse è necessario comprendere che per la missione della carità nella società è necessario battere una strada nuova. Occorre rifarsi alla categoria del discernimento, che tenta di rispondere alla seguente domanda: come il cristiano giudica e si impegna nella storia? Come anche lui si mette in cammino da Gerusalemme a Gerico? Il discernimento è un metodo di lettura della storia, che esigerebbe una più ampia riflessione e che ha il suo banco di prova soprattutto nel rapporto tra coscienza cristiana e società civile.

Limitandoci alla missione della carità nella società civile, possiamo indicare soprattutto due piste di rifles­sione e di intervento:

- la prima – a cui accenno solo ora e che riprenderò poi – è che le varie forme della coscienza cristiana debbono plasmarsi secondo la “forma” della carità. Questa modalità non è un compito periferico o facoltativo della comunità, delle associazioni e dei gruppi. Il confinamento della carità o nella coscienza individuale o come la competenza di alcuni gruppi specializzati affiancati ad altri ambiti ecclesiali (liturgia/catechesi/missioni, ecc.) finisce per marginalizzare gli stessi “specialisti della carità” perché non trovano un humus nella comunità cristiana. Si trat­ta di ricentrare la comunità cristiana sull’eucaristia, vertice della carità, e ripensare in quest’ottica tutte le strutture e le forme dell’attività pastorale;

- la seconda riguarda il compito che la coscienza cristiana deve svolgere come coscienza critica e costrut­tiva della società, ribadendo l’attenzione all’uomo come criterio dell’eticità sociale. Ma questo richiamo non può avvenire come un appello generico a valori ideali. Perciò é necessario un discernimento storico-pratico della real­tà sociale, per una nuova qualità della partecipazione dei cristiani. Su questa pista è necessario tener presente:

a) il mutamento culturale e civile in continua evoluzione per superare le fratture tra testimonianza cristiana e coscienza civile;

b) la complessità sociale che tende a smantellare la coscienza cristiana per sospingerla in una soggettiva­zione e/o intimizzazione. Si arriverà alla denuncia di leggi e sistemi che violano la libertà della persona, una denun­cia che va fino alla ricerca delle cause; si proporranno modelli positivi ed esperienze profetiche ispirate cristiana­mente.

Senza questo momento anche culturalmente consapevole la carità resterà sempre un po’ improvvisata, re­sterà un intervento tampone, che non incide radicalmente né sull’immagine di Chiesa, né sui processi sociali.

INCAPPO’ NEI BRIGANTI E GLI PORTARONO VIA TUTTO L’ENIGMA: L’INSOSTENIBILE PESO DEL MALE

La parabola ci presenta poi quest’uomo, destinatario della missione di carità, piegato dal peso della soffe­renza e del male. Il mistero del dolore si presenta dinanzi a noi e richiede di essere assunto ed elaborato. Le do­mande circa il perché della sofferenza attraversano la storia del pensiero e dell’agire dell’uomo e dall’atteggiamento con cui noi ci disponiamo dinanzi al dolore dipende anche la qualità della nostra missione nel mondo. L’insostenibile peso del male può suscitare due atteggiamenti contrari e opposti, che alla fine denunciano un unico modo di rapportarsi di fronte alla sofferenza: si tratta della rassegnazione passiva e della resistenza attiva.

Il primo atteggiamento propone una conciliazione troppo facile tra uomo e sofferenza e predica troppo frettolosamente l’esortazione ad un soffrire paziente e rassegnato. Anche la parola della predicazione cristiana pronuncia con troppa precipitazione, senza cautela, la parola della croce su ogni sofferenza umana. Ne viene quella “mistica della croce” che ha fatto del cristianesimo la religione dei disprezzati, degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, con l’effetto però di sublimare la loro situazione più che di mutare la loro condizione. Il cristianesimo sarebbe così la religione che consacra la sofferenza, che infiora il dolore, che è all’origine di una vita remissiva, rassegnata, passiva. O forse anche sarebbe una fede che insegna una ricerca attiva della sofferenza, della peniten­za, dell’umiliazione, dell’abnegazione, in vista di un premio eterno. Viene introdotta una concezione del patire come un valore per se stesso, come un valore comunque a prescindere anche dai motivi del patire. Ora questa esortazione manca l’obiettivo di chiarire alla libertà un significato possibile per il soffrire umano, sia pure attraver­so la fede; essa non è capace di istruire la libertà umana, di suscitare una volontà determinata dinanzi al soffrire, di sostenere un atteggiamento che non potrà che essere insieme di “resistenza e resa”.

Di qui il secondo atteggiamento: la reazione, la proposizione di una vita forte, vigorosa, l’esaltazione delle infinite possibilità della libertà; di qui la tendenza ad eliminare le situazioni di disagio, di sofferenza, di insoddisfa­zione. Infatti, l’uomo moderno è contrassegnato dalla fuga da ogni “mortificazione”, dal rifiuto della croce come consacrazione del dolore, dalla rimozione delle cause del male. Da ciò deriva una specie di mistica contraria, quella dell’evoluzione, del progresso indefinito, della valorizzazione delle risorse dell’uomo, di una speranza che trascende sempre più se stessa. L’uomo moderno vede nel soffrire un indice del bisogno dell’uomo, ma lo inter­preta come un compito che impegna ad una reazione attiva. Ma le sofferenze interpretabili come un compito sono soltanto alcune e neppure le più serie, sono cioè quelle che frustrano un desiderio del quale l’uomo può in qualche modo decidere la meta. Ma la sofferenza più grave e più diffusa è quella indeterminata, è quella che frustra il de­siderio stesso di essere felice, che disorienta il desiderio come tale. Dinanzi a queste situazioni il comandamento dell’amore è concepito come impegno etico contro la sofferenza. Ma in questi casi si tratta di una risposta data più agli uomini attivi che ai sofferenti: la sofferenza viene respinta nel tentativo di superarla, ma non riesce a di­schiudere una interpretazione umana del soffrire e lo stesso comandamento cristiano della carità viene riletto in questa ottica.

Alla radice delle due prospettive sta un errore comune: la fuga tendenziale dell’uomo moderno dinanzi al si­gnificato del soffrire. La sofferenza è vista come una cosa brutta, opaca, insignificante, di fronte alla quale ci si può solo o arrendere o ribellare. Essa è censurata come una ‘seccatura’, un intralcio, un evento fastidioso, una ‘cosa fisica’ di fronte alla quale vi è solo l’alternativa tra soccombere o combattere, ma senza l’intervento della li­bertà e dello spirito. All’origine sta una interpretazione fisicista della sofferenza, che non suscita in alcun modo il problema del significato. Di qui il compito teorico di chiarificazione del dolore, del male nelle sue varie forme, personali e sociali, nel senso di fornirgli un significato, una prospettiva per il volere. La risoluzione del dolore, del male, e delle sue cause a problema tecnico è una sorta di sollievo e di immunizzazione per tutti, per l’operatore, per gli amici, per i parenti, per i sacerdoti, ecc. Sul piano pratico il compito sarà quello di realizzare i modi di so­cializzazione del sofferente, di presenza umana a lui, per correggerne la marginalizzazione, l’isolamento, l’incapacità a rendersi cosciente. Non bisogna cosificare la sua malattia o il suo bisogno, perché altrimenti non sa­rà cosificata solo la malattia ma lo stesso malato, l’anziano, il portatore di handicap, perché ci si occupa di lui in prospettiva solamente clinica, specialistica, tecnica. In termini chiari si esige di introdurre una prospettiva etica: l’attesa dell’altro non richiede solo questa o quella cosa, ma chiede una presenza, una prossimità, una mano da stringere che costituisca una risorsa nei confronti della sofferenza fisica. La presenza dell’altro consente di ritrova­re un’immagine di sé, al sicuro rispetto al nemico invadente che è il male. La mancanza di questa solidarietà fa precipitare sulle spalle di chi è protagonista del soffrire tutto il peso del dolore; egli si sente l’unico protagonista del suo destino, senza che l’altro gli possa essere accanto in qualche modo. Altrimenti anche la nostra parola ri­spettivamente di rassegnazione o di resistenza resterà senza mediazione. Si tratta di istruire il desiderio, la libertà di chi soffre, di aprire a lui e agli altri una speranza, una profondità simbolica al suo soffrire, che costituisca un aiuto alla sua libertà a crescere ad affinarsi, ad aprirsi. E’ necessario dunque che il compito dell’operatore sanita­rio, del volontario, di chi sta intorno al malato o al bisognoso accompagni questa profondità del desiderio, aiuti a differenziarlo e a farlo crescere, senza riduzioni cliniche della malattia all’aspetto tecnico.

L’immagine dell’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, che giace pieno di ferite, a cui viene portato via tutto è l’emblema di questa privatizzazione, di questo isolamento del dolore. Egli rimane solo con l’insostenibile peso del male.

PASSO’ UN SACERDOTE (E UN LEVITA) E ANDO’ OLTRE. L’ALIBI: LE FALSE ALTERNATIVE DELLA MISSIONE

La parabola ci fa soffermare ancora su alcuni falsi alibi dinanzi alla missione della carità. Sono gli alibi più alti, più accattivanti, rivestiti persino di una giustificazione religiosa, che in qualche modo includono anche quelli di più basso cabotaggio. Si tratta di un sacerdote e di un levita, che probabilmente contrappongono il loro servizio religioso e il culto all’esercizio concreto della carità evangelica. Essi non si avvedono che lo stesso culto a Dio è riferito alla vita nell’alleanza, cioè alla comunione con Dio e con gli uomini, di cui sia il culto, sia la pratica della carità sono un segno, una manifestazione, un momento che costruisce in modo diverso quell’unica comunione. Il culto è segno della comunione con Dio e con gli altri, nel senso che riconosce e celebra il primato dell’agire di Dio rispetto ad ogni realizzazione; la pratica della carità è il luogo dell’espressione storica di questo primato, per­ché l’appello che sgorga dall’altro, dal fratello nel bisogno, è segno ed esercizio del nostro riconoscere e ricevere ogni bene da Dio.

La parabola, dunque, contesta tutte le nostre assolutizzazioni e false alternative, tra Dio e il prossimo, tra il verticale e l’orizzontale, tra la contemplazione e l’azione, tra la preghiera e l’impegno pratico, tra l’interiorità e l’aiuto concreto, tra un gruppo di spiritualità e riflessione e un gruppo solo attivo e senza preclusioni ideologiche, tra una chiesa della parola e una chiesa della carità, tra una missione spirituale e una presenza temporale, tra una missione che annuncia l’evangelo e privilegia l’aspetto educativo e un impegno sociale di promozione umana che si concentra sull’agire attivo e socialmente rilevante. Certo vi possono essere sensibilità e vocazioni più concen­trate talora sull’uno e talaltra sull’altro aspetto. Ma in ogni vocazione cristiana, come in ogni missione dei gruppi, delle associazioni, della Chiesa stessa è necessario mantenere questa armonia tra la parola e il gesto, tra l’indicazione profetica e la realizzazione storica, tra il momento in cui si riconosce la priorità e l’assolutezza di Dio nel culto e nella contemplazione orante e il momento in cui questa assolutezza si fa carne e storia nel riconosci­mento dell’altro.

Noi possiamo essere come il sacerdote e il levita che, a motivo della loro formazione e della loro visione, contrappongono le cose: un tempo il culto e la preghiera potevano essere contrapposti alla pratica della giustizia e della carità; oggi può essere l’impegno pratico del volontariato o del servizio sociale che viene contrapposto al bi­sogno di formazione e di crescita nella fede. Nessuna di queste due forme è assoluta, nè la preghiera nè il servi­zio, ma assoluto è l’uomo nella comunione a Dio, l’uomo che vive e l’uno e l’altro nello Spirito di Gesù, che li vive dentro il progetto e l’iniziativa divina o, detto in termini accessibili a tutti, dentro la ricerca autentica di una vita buona che risponde al segreto dell’esistenza.

Anche noi come il sacerdote e il levita possiamo vedere e passare oltre: quando l’identità della fede e la necessità della vita cristiana diventano solo un sicuro ripiegamento nel proprio orticello delle cose usate, di una religiosità che si è trasformata in strumento di affermazione o, ancor peggio, di discriminazione; o, rispettivamente, quando il bisogno di giustizia e di servizio sociale diventano in realtà una forma di gratificazione immediata che non ha stabilità, continuità, che non coinvolge gli altri, che non ha la pazienza del progetto, che si stravolge in un efficientissimo soffocante e in un pragmatismo defatigante.

Anche noi come il sacerdote e il levita possiamo proseguire sulla nostra strada, scansando la sfida della ca­rità: che è quella di istruirci sul mistero di Dio e sul nostro rapporto con gli altri, che non solo è quella di fare la carità, ma di essere uomini e donne nella carità di Dio, di essere una libertà di comunione, che si ferma e si piega con attenzione sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico, perché ha percepito, costruito, rinnovato la sua e­sistenza come una vocazione.

UN SAMARITANO LO VIDE E NE EBBE COMPASSIONE. L’ORIGINE: CON GLI OCCHI E IL CUORE DI DIO

Siamo al centro della parabola: un Samaritano, uno che nella considerazione di allora non apparteneva neppure pienamente al popolo di Dio, riconosce l’uomo nel bisogno, si piega su di lui. La parabola contiene cer­tamente una sottolineatura volutamente unilaterale, che però non va maggiorata, come è stato fatto sovente nella retorica del passato recente. Il Samaritano non lo riconosce perché è un samaritano, cioè perché è un marginale o forse uno scismatico, perché - noi diremmo - è un escluso che riconosce l’abbandonato e il sofferente. La para­bola dice che lo riconosce con gli occhi e il cuore di Dio. Tre verbi classici dell’agire divino vengono qui evocati: gli si accostò, lo vide, ne ebbe compassione, sono i gesti del Dio biblico, che però ricevono il loro volto concreto in Gesù - Buon Samaritano che scende da Gerusalemme, dalla città di Dio, ed è inviato a Gerico, nella città degli uomini. Molto spesso nei Vangeli i gesti del Dio dell’Alleanza si fondono e si rendono trasparenti nei gesti di Ge­sù.

Occorre a un certo punto dire che è necessario riconoscere con gli occhi e il cuore di Dio, anzi con le sue viscere di misericordia, il bisogno e il bisognoso per servirlo come un fratello. Occorre a un certo punto ricono­scere l’origine del nostro esistere e del nostro operare, del nostro comprendere e del nostro agire. Senza il rico­noscimento dell’origine della nostra carità e missione nella carità di Dio, tutto il nostro servizio sarebbe ben pove­ra cosa. Senza questa sorgente religiosa e teologica il nostro impegno etico rimarrebbe come sospeso, indetermi­nato, aperto; certo resterebbe autentico, sincero, ma esso ha bisogno di essere anche vero. Esso esige di essere fondato sulla carità di Dio, cioè su quel vedere e su quell’agire che è quello stesso di Dio che si piega sulla crea­tura ferita, per essere il Redentore della creatura guarita. Esige di essere fondato sulla carità di Dio che si accosta ad ogni uomo, che viene in questo mondo, perché egli è l’autore della creatura libera. Inviandogli Gesù traccia sul volto del Buon Samaritano i contorni del Figlio suo, nel quale brilla la luce che illumina ogni uomo. Così Gesù - Buon Samaritano mentre fascia le ferite di ognuno di noi, ci fa ritrovare nel suo volto, commosso fino ad un’impossibile misericordia, il volto del Dio vivo e vero e la figura dell’uomo credente.

La compassione di Dio è che l’uomo viva (Gloria Dei est homo vivens), ma la vita dell’uomo e per l’uomo non è solo che sia guarito, ma che abbia ritrovato un pane e un senso per vivere (vita autem hominis est visio Dei). Ma per ritrovare un senso buono e promettente per vivere occorre che l’uomo sia strappato al suo bisogno, e che l’abbia letto come un luogo dove si manifesta un senso per vivere, da comprendere e da scegliere. Solo l'uomo fatto e ricreato libero, può essere il termine della carità di Dio, solo l’uomo riscattato e posto nella li­bertà dell’amore può essere la meta del nostro impegno e del nostro servizio. Questa – cari amici – è la differen­za della carità cristiana: la solidarietà si ferma ad esaudire il bisogno; la carità cristiana (a prescindere che si chiami implicitamente o esplicitamente così) sì inoltra a fare del bisognoso un uomo che risponde consapevolmente e li­beramente a quel mistero di cui non siamo padroni, ma solo testimoni. La carità cristiana dal di dentro genera il credente, cioè l’uomo libero che ha un bisogno più grande: quello di decidersi perché la vita sia un bene condivi­sibile con gli altri, sia un bene di cui sono responsabile di fronte all’altro, sia un bene che non posso raggiungere da solo. La carità cristiana fa dunque il fratello, che mi carico sulle spalle, di cui non porto solo il bisogno, ma an­che il destino, di cui non fascio solo le ferite, ma che ricolmo di quel pane che solo può sfamare l’esistenza: quello della comunione con Dio.

Per questo il buon samaritano vede l’altro con gli occhi e il cuore di Dio, anzi – si deve dire una volta per tutte – il Buon Samaritano è Gesù che manifesta, rivela ed è in persona gli occhi e il cuore di Dio, il Figlio suo che imprime nel volto del povero sulla strada di Gerico i tratti del figlio di Dio. La carità cristiana – può piacere o non piacere – fa il figlio di Dio e non può che farlo liberamente!

GLI FASCIÒ LE FERITE, VERSANDOVI OLIO E VINO. I GESTI: LE FORME PRATICHE DELLA CARITÀ

Il buon Samaritano si fa vicino (prossimo) all’uomo piagato, si curva su di lui, gli fascia le ferite, versandovi olio e vino, lo carica sul suo asino, lo porta alla locanda, e fa tutto il possibile. Si tratta dei gesti e dei mezzi del buon Samaritano, che alludono in modo trasparente alle forme della carità. In particolare l’olio e il vino sono se­gni che hanno un poter curativo, che leniscono il dolore, che purificano e predispongono al riposo ristoratore. Es­se sono il segno delle forme pratiche della carità. Le forme della carità non sono la carità, ma la rivelano pur sen­za esaurirla. Esse sono necessarie, eppure disperatamente insufficienti a realizzare il movimento della carità di Dio. Senza questa coscienza della necessità come pure della insufficienza delle forme della carità, non è possibile in alcun modo intendere il senso del nostro intervento.

Ora la carità, affermata e vissuta, che supera in linea di principio ogni giustizia sociale, non ci allontana dal complesso dei meccanismi e progetti umani, ma ci è affidata come responsabilità, da realizzare in forme storiche. Per questo possiamo riprendere la formula suggestiva di Loreto di “ripartire dagli ultimi” (non certo con l’intenzione di arrivare tra i primi!). A questo proposito è necessario fare alcune precisazioni per non cadere nella retorica della solita formula nuova, che apparirebbe più suggestiva che creativa. E le precisazioni vanno fatte in questa linea:

- anzitutto oggi il problema non dev’essere quello di una sollecitazione all’impegno in generale o un richiamo enfa­tico alla disponibilità;

- è necessario sviluppare la competenza, cioè la capacità di chiarire le ragioni e le condizioni storiche da cui nascono le nuove e vecchie povertà, perché non emerga una concezione velleitaria della carità;

- partire dagli ultimi e rimanere con loro significa dunque non ritenere improduttive le forme di solidarietà che eccedono le forme sociali, istituite dalla convivenza umana.

Ma questa attenzione particolare alle forme di solidarietà potrebbe benissimo creare nelle comunità, nei movimenti e nelle associazioni un terreno comune di attenzione alle zone - limite della giustizia e della solidarietà sociale come l’impegno preferenziale dei cristiani, superando ogni impostazione dilettantesca della formazione alla carità. È evidente che si dovrebbero descrivere più analiticamente queste forme di intervento e che certamente la fantasia delle comunità cristiane e dei credenti continuamente rinnova. È solo possibile richiamare lo stile evange­lico della dedizione che non è quello dell’affermazione sociale di sé (o del gruppo), bensì testimonianza disinteres­sata della dedizione di Dio

Il Card. Martini nella sua lettera Farsi Prossimo (Parte IV nn.16 - 20) delinea cinque ambiti che grosso­modo possono essere polarizzati su due versanti: le forme della carità della Chiesa; le forme di intervento nella società:

- la testimonianza dell’amore fraterno nella comunità cristiana

- la testimonianza della prossimità verso gli ultimi - l’animazione sociale

- il discernimento spirituale – pastorale

- l’impegno politico

A mo’ d’esempio dico qualcosa, in breve, sul secondo e su terzo ambito.

* Il secondo percorso è quello che riparte dagli ultimi, che si impegna a non dimenticare di aiutare il vicino, aspettando che il suo disagio sia superato solo riformando la società. Così in attesa

della giustizia non può mancare l’intervento diretto della carità, senza che ciò diventi in alcun modo un alibi per la giustizia sociale. Possiamo fare alcuni esempi:

- una severa e coraggiosa riforma dell’uso/destinazione dei beni della comunità e della persona: l’Arcivescovo parla dell’elemosina, come gesto di aderenza alla realtà, come gesto profetico ed educativo (la rinuncia al super­fluo, per capire ciò che è necessario);

- il tema del volontariato che può oscillare dalle forme più spicciole e immediate del dono del proprio tem­po e delle proprie capacità (per un compito determinato) alle forme più complesse

dove è richiesta anche professionalità e specializzazione. E’ necessario evitare due pericoli: quello dell’assaggio e improvvisazione e quello della concorrenza che riproduce le strutture parallelamente

ad altre. I cristiani invece dovrebbero essere sempre attestati sugli avamposti della carità, disposti a lasciarli quando altri entrassero con forme più strutturate (quindi si tratta di creare forme agili di intervento, attenzione ai nuovi bisogni, ecc.);

- inoltre bisogna riprendere forme più complesse della carità, che non tamponano il male solo a valle, ma che cercano di rimuoverlo alla radice. Penso al grande campo dell’educazione dei minori in generale (il grande compito educativo della Chiesa nella scuola) e di quelli in stato di difficoltà. A volte questo ambito appare oggi dimenticato perché il volontariato si é indirizzato a forme più vistose e immediate.

* Il terzo percorso é quello dell’animazione sociale, cioè quell’insieme di interventi che mirano a creare una nuova sensibilità sociale con un’attenzione più vera ai bisogni delle persone, con un insieme di programmi econo­mici, di iniziative assistenziali, di attività culturali che favoriscano l’inserimento sociale delle persone più bisognose. Vengono offerti alcuni esempi quali l’attenzione ai meccanismi della vita economica, all’handicap, alla terza età. A questo proposito, il criterio più interessante mi sembra quello che non contrappone l’inserimento nelle strutture pubbliche alla prefigurazione di esperienze significative, soprattutto quando si tratta di rispondere a un nuovo bi­sogno, a una nuova urgenza. D’altra parte storicamente si deve dire che cristiani particolarmente lungimiranti hanno anticipato e interpretato i nuovi bisogni, ma hanno anche realizzato in progetti concreti le loro intuizioni, o­perando un concreto discernimento del loro tempo.

In conclusione possiamo dire che i percorsi qui indicati sono solo un anticipo della carità di Cristo (che ri­mane differente da ogni nostra realizzazione), ma che noi oggi possiamo rendere presenti solo come in un “fram­mento”. Sono come il vino e l’olio che sono sufficienti a lenire il dolore più forte, per permettere a chi é incappato nei ladroni di giungere ad un riparo più sicuro e attrezzato.

DUE MONETE D’ARGENTO:

“ABBI CURA DI LUI... IL RESTO TE LO RIFONDERÒ”

IL SOVRAPPIU’: LA DIFFERENZA DELLA CARITA’ DI GESU’

La parabola si conclude con una scena sorprendente: il Buon Samaritano lascia al padrone dell’albergo due monete d’argento, dicendo “Abbi cura di lui, e anche se spenderai di più, ti pagherò al mio ritorno!”. Viene qui indicata l’eccedenza e il sovrappiù della carità di Gesù, che pensa anche al dopo, che ci lascia il dono prezioso di due monete d’argento e ci promette di rifonderci quanto spenderemo di più. Questo apre uno spazio e so­prattutto il tempo per la nostra libertà, in attesa del suo ritorno. La differenza della carità di Gesù non é alternativa e concorrente con la nostra carità, anzi questa si deve situare consapevolmente entro questo tempo: il tempo della sua assenza e del suo ritorno. In tal modo il tempo di Gesù rende possibile il nostro tempo in cui ritrascrivere la figura del buon samaritano. La storia della missione dei credenti e della Chiesa- purtroppo quella non scritta nei nostri libri di storia – é la storia luminosa e splendida di coloro che si sono lasciati condurre dalla carità evangelica e che hanno saputo vivere entro il movimento della carità pasquale di Gesù e delle figure di dedizione dei creden­ti. Ne derivano alcune sottolineature.

E’ necessario anzitutto che il credente vegli sulla qualità specifica della carità cristiana: non tanto quella che egli produce, ma quella che egli riconosce nel suo Signore e dunque contempla con lo sguardo fisso su di lui: é necessario accoglierla nella preghiera e nella meditazione della parola. Solo così ci é dato di confrontarci con la figura ineffabile della carità di Cristo e con la sua indeducibile differenza. La dedizione del Signore si qualifica se­condo un “suo” modo singolare: con lo sguardo rivolto ad essa è possibile cogliere la ricchezza della “sua” pro­vocazione o della “sua” tolleranza, della “sua” decisione, come della “sua” discrezione, ecc. fino al gesto supremo della consegna di sè. L’amore di Cristo non si impone come figura della dedizione, ma é lasciato in balia del rifiu­to degli uomini. Per porre l’attenzione sulla differenza della carità cristiana é necessaria la preghiera personale e pubblica ed é singolare che queste possano cadere sotto il giudizio di “intimismo”, “soggettivismo” o “alienazio­ne”; al contrario il credente é chiamato nel gesto sacramentale (in particolare l’eucarestia) a istituire la “pubblica evidenza” del punto di riferimento della carità cristiana.

Occorre dunque una cura gelosa della differenza della carità cristiana, soprattutto come “bussola” per evi­tare di usare la carità come mezzo di affermazione sociale o riconoscimento civile e contro ogni messianismo che tende a trasferire nel contesto culturale civile la verità di Dio senza affermarne la differenza.

Questa differenza delle carità cristiana produce, a mio modo di vedere, anche delle forme particolari di de­dizione che in genere si fondano sul bisogno di prossimità di cui anche la società più tutelata e più giusta avrà sempre bisogno. Non é possibile pensare ad una società giusta nella quale venga meno il bisogno della carità in­tendendo per carità tutte le forme della prossimità con cui si media la relazione fraterna. Ma ugualmente queste forme di carità non dovranno concepirsi come alternative o concorrenziali con le più faticose forme mediate dell’intervento nell’ambito socio-civile e politico. In ogni caso però, sia le forme della carità, sia quelle dell’impegno socio-civile hanno da essere intese come parziali, anche se necessarie attuazioni della carità cristiana custodita nella parola e nel sacramento della fede, in particolare nell’Eucarestia.

Mi sia permesso a conclusione richiamare un brano del mio volumetto: Cristo, Pasqua del cristiano, Mi­lano, ed. Paoline 1991, 118-119.

“I poveri li avremo sempre con noi, di piccoli saremo sempre circondati, gli ultimi saranno sempre ai margi­ni di questa società, ma se non verremo evangelizzati dal gesto di Gesù, questi potranno gridare alla nostra porta ma noi non avremo orecchi per intendere. Per questo bisogna tenere in gran conto la figura esemplare del servizio di Gesù, che “da ricco che era si è fatto povero per noi, per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9). Per questo non bisogna temere – come la donna del vangelo – di sprecare l’olio preziosissimo per riconoscere il ge­sto di Gesù (“Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva vendere benissimo quest’olio a più di tre­cento denari e darli ai poveri”. Ed erano infuriati contro di lei: cf Mc 14,4-5).Senza questo spreco, senza questo gesto disinteressato che custodisce la differenza della carità di Gesù, che contempla la misura incalcolabile della sua dedizione, i poveri potrebbero diventare il piedestallo della nostra... carità. Per questo “dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (v. 9).

La comunità credente deve continuamente lasciarsi evangelizzare dalla Pasqua di Gesù, deve custodire, considerare, quasi assaporare l’amore che vi si rivela, deve coltivare fedelmente il suo senso, spendendo le sue migliori energie per mettere al centro Gesù e la sua inaudita dedizione. Per questo il discepolo non può essere più del maestro, per questo la comunità della sequela rimane per sempre concentrata sulla memoria di Gesù, per questo l’eucaristia – il gesto dove si custodisce gelosamente e insuperabilmente l’amore di Gesù – è il gesto cen­trale della comunità, la sua fonte, la sua misura e la sua meta. La Chiesa-comunità non può andare al di là dell’Eucarestia di Gesù: ad essa deve ritornare, da essa deve partire, con essa non può barattare nulla, perché si disperderebbe l’insuperabile differenza di “Colui che mi/ci ha amato e ha dato se stesso per me/noi” (Gal 2,20).

Allora la differenza della carità di Gesù, lungi dall’essere un freno, è la sorgente della nostra missione. Essa non pretende di battezzare tutte le forme, piccole o grandi, con cui molti esprimono la loro dedizione, sia nel ge­sto volontario, sia nella dedizione con cui svolgono il lavoro quotidiano. La carità cristiana vede in questi gesti frammenti preziosi che alludono all’insuperabile ricchezza del gesto pasquale.

TRE CONCLUSIONI (NON PROPRIO ATTUALI) DALLA PARABOLA

La parabola si chiude con alcune battute scambiate tra Gesù e il maestro della legge, che ci consentono di derivare tre conclusioni inattuali.

1. L’intelligenza della carità

Gesù alla fine si rivolge allo scriba domandando: “Chi dei tre è stato prossimo dell’uomo incappato nei bri­ganti?”. La domanda iniziale su “Chi è il mio prossimo?” si è ora capovolta. La questione vera non è chi è il mio prossimo, ma chi dei tre si è fatto prossimo. La prossimità non è una situazione, una persona, un fatto da identifi­care, ma è una relazione da istituire. Trovare il prossimo significa “farsi prossimo”, significa leggere e scegliere i tempi, i momenti, le persone della carità. Gesù ci fa notare che la carità non è solo un fare, ma è un capire e un scegliere, esige una intelligenza della carità. Bisogna dirlo con franchezza: Dio ci scampi dalle persone troppo ge­nerose! La carità è una questione della testa e del cuore, esige di capire e decidere, richiede di comprendere le cause e di non fermarsi a tamponare gli effetti. Occorre una carità che comprende, che non si butta a corpo mor­to, che non dà tutto oggi, perché anche il domani ha bisogno di te.

2. I tempi della carità

Gesù conferma la risposta dello scriba con l’imperativo finale: “Và, fà anche tu lo stesso”. La carità è missio­ne, è invio, è diretta presa in carico, è ritrascrizione nel vissuto della storia della intuizione di Gesù. Essa esige tempo, vuole una disponibilità totale, richiede di uscire dalla logica dell’esperimento, del bricolage, del fai da te, dove ognuno sceglie un pezzetto del proprio impegno per comporre un mosaico secondo il suo gusto. La carità spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una storia, in una stabilità di vita. Essa non può essere part-time, per questo invoca continuità. Vorrei qui richiamare la necessità di una stabilità del proprio impegno di volontariato, l’urgenza di evitare un atteggiamento consumatore anche nel servizio, da “mordi e fuggi”, senza che si diventi un po’ esperti anche nella nostra dedizione. Altrimenti non si può allontanare il sospetto che anche l’impegno più forte sia fatto per se stessi, per gratificarsi. Non che la gratificazione sia una brutta cosa, ma essa esige di crescere, di fondersi con il progetto di altri, di costruire una storia comune. I tempi della carità conoscono anche la noia, il fallimento, il conflitto, la perdita di tempo, e persino l’insuccesso. I tempi della carità hanno la stessa qualità dei tempi della vita, anzi dei tempi di una vocazione e di una vocazione comune. Se uno non ha mai almeno sognato il proprio impegno dentro una vocazione difficilmente può essere garantito circa l’autenticità della sua carità.

3. Le figure della carità

Per questo la carità si dà in figure, suscita storie commoventi ed entusiasmanti. Il nostro cammino non può concludersi che con la esplicita citazione di don Luigi Monza: La carità dei primi cristiani. Sì, egli ha intuito che la carità in tutte le sue molteplici forme ha bisogno di figure, di modelli, di rapporti stabili, al limite di comunità fra­terne. La carità dei primi cristiani che comprendono e cambiano il loro mondo è il paradigma della carità che può e deve cambiare anche il mondo moderno, distratto e rampante, che parla a gran voce di diritti umani e poi lascia molti ai margini del banchetto della vita. Si tratta di una carità intelligente e generosa, occorre una carità fatta di volti, di persone, di storie, di tempi ed energie investite, di fantasia e pazienza, di modelli forti ed affascinanti, in una parola invoca ancora santi: don Luigi Monza, un parroco che segue il tenue ago della bussola dei suoi tempi incerti e grami, e fa alcune scelte che restano profetiche e anticipatrici. Ma egli ci dice che noi dobbiamo essere attestati sugli avamposti della carità e ci sprona: non cullatevi sui risultati raggiunti; ascoltate la voce dei tempi, cercate di capire e di scegliere ancora e sempre la carità dei primi cristiani, MISSIONE DELLA CHIESA PER IL MONDO.


----------------------------------------- 

Fonte: L’ASPETTO FORMATIVO DELLA CARITÀ: SAPIENZA ED ESPERIENZA NELL’ESERCIZIO DELLA CARITÀ EVANGELICA (consolata.org) 


Post più popolari negli ultimi 30 giorni