lunedì 12 aprile 2021

L’Altare della Trinità di Masaccio e la storia della salvezza, di fra Eugenio Marino O.P.

 

L’Altare della Trinità di Masaccio
e la storia della salvezza

di fra Eugenio Marino O.P.


 



1. La creazione  pittorica  dell’Altare della Trinità ed il Concilio di Nicea II (a. 787)

Per rendere più agevole la ‘visione’ e la ‘interpretazione’ dell’affresco “Altare della Trinità” di Masaccio, premetto brevemente su quali basi metodologiche il sommo Artista del primo Quattrocento ha creato la stupenda icona, che abbellisce la chiesa domenicana di S. Maria Novella in Firenze, e che può essere designata come ‘la icona delle icone’ della Chiesa occidentale, come ‘icona delle icone’ è concordemente proclamata la “Trinità” dipinta dal monaco russo Andrej Rublëv. 

Non sono le mie indicazioni ‘preconcette’, ma conclusioni che ho tratte dalla intuizione del dipinto e dallo studio degli elementi grafici, tematici ed iconoteologici, che hanno ‘impressionato’ la sensibilità, l’animo e lo spirito di Fede del pittore Masaccio, così da qualificare il suo ‘metodo’ e la sua "volontà d’arte" nella ‘espressione visiva’, che ci fa contemplare l’azione salvifica delle tre Persone divine nella storia della redenzione dell’uomo (cf. E. Marino, La Trinità di Masaccio. Saggio storico ed interpretativo degli schemi stilistici, iconografici ed iconoteologici, Nerbini Ed., Firenze 2008).

L‘idea forza, immanente nella visione dell’affresco e che lo rende opera teologico-bella e gloria della Trinità, gloria del Crocifisso e gloria dei redenti,  proviene dall’elaborazione del concilio di Nicea II del 787, che delineò con Fede e dottrina la funzione  delle immagini nel proporre e trasmettere in forma visiva le ‘opere mirabili’ della salvezza.

Riassumo in tre conclusioni le affermazioni del Concilio di Nicea II, che fissano i princìpi ed il metodo per scrutare il  rapporto che intercorre tra estetica e Fede.

Primo. L’arte figurativa dei mistero della Fede è Tradizione non-scritta della s. Scrittura.

I Padri del Concilio, rilevato che ben “sei concili” hanno affermato che “le pitture dei Santi sono state tramandate nella Ecclesia non altrimenti che la sacra lettura dei vangeli”, chiarificano che le immagini costituiscono quella ‘Tradizione’ peculiare, che non appartiene al linguaggio verbale, perché è ‘non-scritta’, ma è formata dalla galassia delle forme-iconi visive (cf. Conc. oecum. decreta, Ed. Istituto per le scienze religiose, Bologna 1973, p. 135, 24-34 ).

Secondo. Due sono le vie dell’estetica iconica della Fede: l’immagine acustica espressa nelle e dalle  ‘parole’ e l’immagine ottica del Mistero cristiano.

Le ‘due vie’, quella dell’udito e quella dell’occhio, percorrono lo stesso territorio della rivelazione divina: “Noi attestiamo quello che abbiamo udito e quello che abbiamo veduto con i nostri occhi (1a lettera di Giovanni I, 1); l’una e l’altra ‘cantano all’unisono’ la storia dell’Evangelo (cf. Conc. oecum. decreta, cit., p. 135, 24-34).

Terzo. Come l’espressione verbale della Fede così l’espressione figurativa dell’arte.

L’ottavo concilio ecumenico di Costantinopoli IV (a 869-870) conferma il rapporto posto dal Concilio di Nicea II tra il ‘codice verbale’ ed il ‘codice visivo’, cioè tra la lettura del testo del Vangelo e la visione delle sante immagini, e lo applica fino alle ‘unità minime’ (i linguisti direbbero ‘monemi’) del discorso e della visione pittorica (o ‘eiconemi’: lessema è stato coniato da chi scrive). I Padri costantinopolitani, infatti, ritengono che come le ‘sillabe’ (‘fonèmi-monèmi’) danno luogo ai “sacra eloquia” (‘enunciati’) così i ‘colori’ (‘oftalnèmi’: altro lessema coniato da chi scrive) formano la ‘immaginaria operazione: tês tôn chromátôn eikonourgías’; e come il ‘lógos’ scritturistico propone l’economia della salvezza, così la ‘grafia cromatica’ reca e con più evidenza la “buona novella” (cf. Conciliorum Oecumenicorum, cit.,  Conc. Constant. IV, canon III, p. 168).

Siffate considerazioni permettono di descrivere i rapporti tra le ‘espressioni-artistiche’ ed il ‘Vangelo’, la ‘Tradizione-Magistero’ e la ‘teologia’ con i segueti enunciati:

- Come la parola dell’Evangelo, così la pittura (e viceversa);

- Come la predicazione del Vangelo, così la pittura;

- Come la Tradizione della Chiesa, così la pittura;

- Come il magistero dei santi Padri, così la pittura;

- Come la teologia, così la pittura - che con lemma pertinente ed adeguato è da denominare “iconoteologia" (Marino E., Arte e Fede. Come si ‘forma’ e ‘interpreta’ l’opera d’arte ispirata dal Vangelo e dalla Tradizione Ecclesiale, in “Rivista di acetica e mistica”, Firenze, Convento S. Marco, a. 2007, n. 2, pp. 406 e ss).

2. Masaccio dà forma all’icona Altare della Trinità strutturandola con la prospettiva    geometrica, coniugata sulla centralità dell’uomo-‘misura di tutte le cose, e l’adorna con la ‘bellezza’ della luce e lume, e dei quattro colori fondamentali

Masaccio ha realizzato l’icona Altare della Trinità seguendo  la ‘prospettiva geometrica’ inaugurata da F. Brunelleschi, e che noi apprendiamo dal De pictura di L. B. Alberti. Il Maestro dei pittori offre le spiegazioni teoriche e pratiche, che permettono all’artista di controllare “la forza del vedere” e di dispiegarla con segni grafici: la circoscrizione dell’icona, la composizione delle superfici, e l’alterazione del dipinto mediante i quattro colori fondamentali: rosso, azzurro, bigio e verde, modificati dal lume e dall’ombra (cf. L.-B. Alberti, De pictura, a c. di C. Grayson  Laterza, Bari 1973).

Con fine senso didattico Alberti espone la dinamica dei ‘raggi visivi’, che portano “la forma delle cose vedute“ all’occhio “ove siede il senso che vede”, il quale li riceve e dal quale  rifluiscono “alla opposta superficie”.

Tali ‘raggi visivi’, spiega l’Autore del De pictura, differiscono secondo il loro punto di origine e di riferimento, così che possiamo distinguere: 1. i raggi estremi, che “cozzano l’ultime e l’estreme parti della superficie”; 2. i raggi mediani, che “da tutto il dorso della superficie escono sino all’occhio”; 3. ed il raggio centrico, che “qando giugne alla superficie, fa di qua e di qua torno a sé angoli retti”, e quindi “merito si può dire principe de’ razzi”.

Ciascuno di questi raggi, annota ancora Alberti con conciso enunciato, “al veder fa triangolo”, così che “la base del quale sia la veduta quantità, e i lati sono questi razzi, i quali dai punti della quantità si estendono sino all’occhio”. E precisa:: “É certissimo niuna quantità potersi senza triangolo vedere”; e che dall’ampiezza di questi angoli deriva la seguente regola: “Quanto [più] all’occhio l’angolo sarà acuto, tanto [più] la veduta quantità parrà minore”.

Per denotare poi la facilità con cui si può costruire la piramide, Alberti descrive com’egli si comporta quando disegna l’orlo della base della piramide. “Dove io debbo dipingere scrivo un quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio”: come ha fatto Masaccio quando ha circoscritto l’icona dell’Altare della Trinità.

Preoccupato però che le cose poste in vista nel quadrangolo-piramidale appaiano “pari alle vere”, che sono quelle che ‘vediamo’ in ambiente a noi familiare,  Alberti indica l’uomo quale ‘misura’’ e  fondamento della ‘certezza’.

“Quivi [nel quadrangolo piramidale] determino quanto mi piaccino nella mia pittura uomini grandi, e divido la lunghezza di questo uomo in tre parti, quali a me ciascuna sia proporzionale a quella misura si chiama braccio, però che commisurando uno comune uomo si vede essere quasi braccia tre”.

 Infine, occorre che il pittore determini nel ‘Quadrangolo’ il punto, che viene detto ‘centrico’, perché su di esso deve cadere il ‘raggio centrico’, e perché dev’essere proporzionato all’altezza dell’uomo. “Sarà bene posto questo punto alto dalla linea che sotto giace nel quadrangolo non più che sia l’altezza dell’uomo quale ivi io abbia a dipingere”: questo fa sì che “e chi vede e le dipinte cose vedute paiono medesimo in suo uno piano”  (Alberti L. B., De pictura, cit., lib.I, n. 19, p. 36).

In questo processo teorico-pratico, è bene sottolinearlo, Alberti introduce una nozione della “comparazione”, che va al di là dei princìpi matematico-geometrici:

“In sé tiene questa forza la comparazione, che subito dimostra in le cose qual sia più, qual meno o equale. […] E fassi comparazione in prima alle cose molto notissime” (Alberti L. B., De pictura, cit., lib.I, n. 18, p. 34).

Ora, niente v’è di più familiare all’uomo dello stesso uomo: “l’uomo [è] fra tutte le cose notissimo”, e quindi il più facile a riconoscere. La figura dell’uomo è pertanto il termine di paragone più spontaneo e appropriato.

Dunque l’uomo-misura è per Alberti un ‘principium per se notum’ (direbbero i filosofi), che non ha bisogno di dimostrazione, perché ‘principio di dimostrazione’.

In base a questo principio ho fatto la prova, quasi per gioco, di stabilire il punto centrico dell’affresco dell’Altare della Trinità. Tale punto dev’essere proporzionato all’altezza del “comune uomo”, che è di “quasi braccia tre”. Ora il ‘braccio-unità di misura’ è stimato 0,58 cm.; pertanto l’altezza dell’uomo comune corrisponde (secondo Alberti) a (quasi) braccia tre (cm. 0,58 x 3), vale a dire a cm. 174. Occorre però aggiungere ‘circa’ a cm 174 – si ricordi il “quasi braccia tre” -, perché è necessario aver presente non solo la somma dei tre bracci, ma anche, e soprattutto, che è il raggio visivo: “quello opposto alla base [che] sta dentro all’occhio”, e non la sommità del capo, a ‘ferire’ perpendicolarmente il quadrangolo dell’Altare della Trinità (Alberti L. B., De pictura, cit., lib.I, n. 6, p. 18).

Tale ‘luogo centrico’ del parallelogramma, secondo misure geometriche accurate (riferite da E. Battisti), è da porre all’altezza della mensa dell’altare dipinto della Trinità, ‘mensa’ che dev’essere considerata l’orizzontale che passa per il punto di vista-punto di convergenza delle ortogonali, mentre la ‘distanza’, vale a dire “il punto di giusta osservazione da cui il riguardante avrebbe dovuto vedere l’affresco, è fissata a (circa) m. 8.940” (Eugenio Battisti, Filippo Brunelleschi, Electa ed., Milano 1989, pp. 106-107.

È  necessario ora aggiungere che la regola aurea della prospettiva radiosa e della triangolazione delle superfici dell’affresco non comporta affatto nella ‘intentio’ di Alberti la svalorizzazione del vedere ‘ottico’ dell’insieme, ma vuole soltanto precisare che è mediante la ‘oggettività’ della misura geometrica che si ottiene il dominio della ‘soggettività’. In altre parole, la luce, il lume ed il colore non ‘formano’ con il disegno un ‘aggregato’, ma un unico ed indivisibile ‘visum’, che è un ‘quale’  che è ricevuto nella forma pittorica mediante la ‘quantità’, che è superficie,  luogo e sito.

Faccio soltanto alcuni richiami.

Anzitutto si è profondamente impressionati dalla luce-splendore, calma ed estatica, che batte sul Crocifisso e si distende e dilata nello spazio, puntualizzandolo come immagine-figure (o piramide-piramidi), che accolgono in sé ed unificano il chiarore-claritas, diffuso sulla composizione.

Noi ‘vediamo’ che Intorno alla luce-splendore del Cristo crocifisso si dispiega la luce-alterata-oscurata nei colori.

Il colore rosso (o cinabro)  qualifica il duplice architrave ed i capitelli, l’abito e il sovraccapo del Donatore; la base e i capitelli delle otto colonne, sulle quali si alzano quattro archi a tutto tondo parimenti di colore rosso, le ‘rosette’ che decorano i lacunari della volta, il suppedaneo e la tunica del Padre, la manica dell’avanbraccio destro della Vergine odeghetria, i capitelli delle quattro colonnine che sorreggono la mensa dell’altare, ecc.

Il colore azzurro ‘áltera’ il mantello del Padre, che dalla spalla sinistra scende sulla tunica rossa, il velo-copricapo e il manto della Madre di Cristo e della Donatrice, la manica dell’avanbraccio destro di Giovanni.

Il colore bigio (o cenerino) specificano l’arco e la porta che chiudono il fondo del luogo della Crocifissione, e il sotto-altare che accoglie il sarcofago sul quale giace lo scheletro.

Il colore verde attualmente è documentato dalle analisi chimiche dei restauratori del 2000, che hanno rilevato da un pigmento preso dal fondo “tra le due colonne di sinistra […] la presenza di un sottile strato a base di terra verde”.

Questi colori, che il Maestro dei pittori ritiene i più appropriati “per la purezza e la semplicità del colore” ad adornare le pareti del tempio del Signore (Alberti L. B., L’architettura [De re aedificatoria], cit., lib. VII, cap. X), sono quelli che Masaccio ha scelti nel dipingere l’Altare della Trinità.

Oltre ai quattro colori-elementi Masaccio usa i “fabrorum ornamenta” in oro: si guardi alle ‘aureole’ del Padre, di Cristo, di Maria e di Giovanni, e ai raggi aurei che la candida Colomba (Spirito Santo) effonde sul capo del Crocifisso.

Infine, mi sembra opportuno annotare l’uso del bianco e del nero, che pur non essendo ‘veri colori’ hanno la forza di alterarli.

Il ‘bianco’ mette in luce le tovaglie candide, che Masaccio ha pitturate (o almeno accennate, ora non più visibili) nel dare forma alla mensa dell’altare e alla sua funzione, in ossequio alle prescrizioni delle rubriche liturgiche e alla ‘visione’, che i fruitori erano soliti gustare.

Con la ‘collocazione’ dei colori Masaccio ha reso allo stesso tempo ‘variegata’ ed ‘armonica’ la superficie dell’affresco alla maniera dei poeti, che strutturano il testo con artifici ‘fonici’, quali la rima, l’assonanza ed il ritmo.

Con siffatta alterazione qualitativa dei segni preiconografici Masaccio offre al fruitore una pista di conoscenza e d’interpretazione, poiché – l’osservazione è di un filosofo-teologo di prim’ordine – “colori simili mettono in luce realtà simili, e colori differenti richiamano realtà differenti” (Thomas Aq., De natura luminis,  Opisc. 51).

L’unione di tutti questi elementi delle tre parti della pittura fa apparire nell’affresco di Masaccio una “nuova qualità”, vale a dire “la forma della bellezza”, che è “concinntas […] nutrita di ogni grazia e splendore”, ed è simmetria, cioè “superiore accordo delle parti” (Alberti L. B., L’architettura [De re aedificatoria], lib. VI, cap. 2, pp. 446-447.

3. La iconografia-iconoteologia dell’Altare della Trinità è visione della ‘storia della salvezza’ del primo-Adamo, operata dalle tre Persone della SS. Trinità sul Golgota nell’ora del Cristo nuovo-Adamo, e riattualizzata ’in sacramento’ sull’Altare eucaristico nel tempo della Ecclesia

Il processo di creazione dell’Altare della Trinità di Masaccio  non si esaurisce negli schemi grafici in sé’, perché essi sono voluti dall’Artista in funzione degli schemi semantici, cioè del ‘che cosa’ (o ‘soggetto’ o tema o ‘storia’), e dai segni simbolici (o ‘contenuto’ o 'significato intrinseco'), che evidenziano (nel nostro caso) l'atteggiamento  fondamentale  del fiorentini in rapporto alla dignità dell’uomo e del cristiano.

In realtà, nell’affresco dell’Altare della Trinità ‘vediamo’ la storia per eccellenza, quella del ‘primo Adamo’, che passa dalla vita paradisiaca alla morte (v. registro inferiore dell’affresco), e quella del ‘secondo Adamo’, che passa dalla morte in croce alla risurrezione e alla vita  eterna (v. reg. superiore). Di questa ‘storia’ Masaccio ha ricevuto le ‘immagini acustiche’ dal racconto del Vangelo, come  insegnava il Concilio di Nicea II (cf. sopra n. 1), e  le ha elaborate ed adornate con fantasia e sensibilità per metamorfosare ed imprimerle in ‘immagini ottiche’, esegesi (e quindi ‘teologia’) della Parola e della Tradizione.

3.a       Il registro superiore

Il registro configura  una superficie poligonale a forma di grandioso portale che dal piano-gradino, sul quale sono inginocchiati i due Donatori (a destra e a sinistra), s’innalza verticalmente al lato superiore (orizzontale), che sovrasta con un imponente doppio architrave le simmetriche lesene corinzie, così da proporsi come ampia corniciatura decorativa del vasto vano ‘Tempio del Calvario’, ove si attua  l’azione salvifica della SS. Trinità.

Di questio spazio la ‘icona-Trinità’: Padre. Figlio e Spirito Santo, è il cuore.

Il Padre è figurato nella forma di “Uomo vecchio” (desunta dal profeta Daniele 7,9), nel seno del quale è  Cristo crocifisso, suo Figlio Unigenito, sul quale aleggia lo Spirito Santo in forma di ‘Colomba”.

Siffatto ‘tipo iconografico’, che comunemente è detto “Trono della misericordia’, è ‘superato’ dall’icona masacciana dell’Altare della Trinità, nella quale è indicato il Cristo crocifisso e allo stesso tempo l’ora estrema del suo sacrificio sul Golgota e nel rapporto all’altare eucaristico del registro inferiore. Soprattutto viene richiamata la manifestazione delle tre Persone della SS. Trinità nell’evento del Battesimo di Gesù: “Mentre Gesù, ricevuto il battesimo, stava pregando, si aprì il cielo, e lo Spirito Santo in forma di colomba discese sopra di lui, e una voce dal cielo si fece sentire: ‘Tu sei il mio diletto Figlio, in te io mi compiaccio’” (Luca 3, 21-22).

Il Cristo, che sulla croce soffre fino alla morte, e si connota quale il ‘Christus patiens’, è presentato di fatto quale ‘Christus triumphans’, e non perché sia pitturato ‘vivo’ e ‘vedente’, come nelle icone dei crocifissi bizantini e romanici, ma perché la ‘luce’, che supera la tinta di pallore di un corpo morto, gli dà un’aura di fulgore, premonitrice della gloria imminente della risurrezione.

L’icona dello Spirito Santo-Colomba,  ‘che dà la vita’, riporta alla memoria il primo versetto del primo capitolo della Genesi, cioè quell’in principio, quando  sul caos primordiale delle acque “lo Spirito di Dio si librava ” (Genesi 1, 1), e trasformava la creazione, ancora “inanis et vacua”, in cosmo; e connota  il ‘nuovo principio’ della storia della salvezza, quello della ‘pienezza del tempo’ nell’evento ‘’termine fisso d’eterno consiglio’  (si osservino gli ‘occhi’ del Padre) del mistero pasquale (la passione, morte e risurrezione) del Figlio di Maria e dell’eterno Padre.

Infine, occorre osservare la ‘novità’ della ‘inventio’ di Masaccio nel  presentare il Golgota all’interno di un Tempio, che abbraccia cielo e terra, ed è configurato come ‘Tempio della Trinità’, in quanto è in questo vasto spazio, ‘locus aptus-locus sacrificii’ del Cristo, che ‘vediamo’ l’evento (ancora ‘in fieri’) del mistero della redenzione per mezzo di Cristo, secondo la volontà del Padre nello Spirito Santo, e alla presenza di Maria, madre di Gesù, alla quale Cristo affida il discepolo  Giovanni  quale suo figlio, e chiede a Giovanni  di prendere Maria quale ‘madre’ (Giovanni 19, 26-27).

3b   I registri mediàno ed inferiore

Lo spazio-pittorico ‘rettangolare’, che media e congiunge il piano su cui sono inginocchiati i due Donatori con la mensa dell’altare liturgico, distingue il registro superiore da quello inferiore. Tale rettangolo noi ora lo intravediamo soltanto, in quanto fu quasi del tutto distrutto da Vasari quando addossò all’altare-dipinto l’altare-di-pietra negli anni 1568-1570. 

Masaccio ha creato il ‘quadrangolo’ del registro inferiore prospettandolo però non più secondo la linea longitudinale che circoscrive l’insieme dell’affresco, ma secondo la linea orizzontale: quella della mensa dell’altare e quella della linea-base su cui si alza la costruzione dell’arca tombale.

Lo spazio interno all’altare è composto da un sarcofago, sul quale giace uno ‘Scheletro’, che entra in dialogo col riguardante con le parole ammonitrici, scritte sulla parete (o lastra) del fondo; “Io fui già quel che voi siete e quel che io sono voi anche sarete”.

La mensa e il sarcofago sporgono in avanti rispetto al piano di circoscrizione della piramide, e si dilatano nello spazio della Ecclesia dei fedeli di S. M. Novella: si consideri la ‘pedana’ dell’altare, tirata in prospettiva.

Si verifica, pertanto, che colui il quale entra nell’edificio di culto dal grande Portale degli Avelli, contempla l’evento umano-divino che ha luogo nel ‘Tempio del Golgota’, e vede Maria Odeghétria che l’invita a volgere lo sguardo al Cristo crocifisso, dal quale profuisce l’azione salvifica sui fedeli della ‘Ecclesia pellegrinante’, che prendono parte al sacrificio eucaristico e al convito sacramentale del pane e del vino, ‘farmaco’ di risurrezione.

L’Altare-mensa, inoltre, rimanda alla visione dei Donatori, inginocchiati davanti all’ingresso del ‘Tempio della Trinità’, in quanto tali oranti  impersonano la ‘Ecclesia purgante’, cioè quanti attendono il conforto del sacrificio, celebrato in loro suffragio sull’Altare liturgico.

Queste considerazioni analitiche trovano ‘unità’  quando  ci rendiamo conto della volontà d’arte di Masaccio di mettere dinanzi ai nostri occhi la storia della salvezza, ‘compromessa’ dal primo-Adamo – che è l’homo pictus nella ‘forma’ di ‘scheletro’ del registro inferiore -, ‘ristabilita’  dal nuovo-Adamo, il Cristo, Figlio di Dio e Figlio di Maria: l’homo pictus (anch’egli) nella ‘forma’ di un corpo pervaso di luce, che il Padre eleva con mano energica verso l’alta vôlta (quasi vôlta celeste) per connotare che il Cristo sta per entrare nella gloria della risurrezione.

Il primo-Adamo, dunque,  ricorda la condizione di ‘uomo mortale’, iniziata con la disobbedienza presuntuosa al comando di Dio. “Per un solo uomo il peccato entrò nel mondo, e per il peccato la morte” (Romani 5, 12). Egli però è in attesa della salvezza, perché

“se per il peccato di uno solo la morte ha regnato per ragione di un solo uomo, a piů forte ragione quelli, che hanno ricevuto l’abbondanza della grazia e del dono della giustificazione, regneranno nella vita per mezzo del solo Gesů Cristo” (Romani 5, 17).

Il ‘teologo Dante’ incontra nel Paradiso il primo-Adamo, e riconosce in lui “il padre per lo cui ardito gusto / l’umana specie tanto amaro gusta” (Paradiso XXXII, 121-123).

Il secondo(-nuovo) Adamo, il Cristo che ‘vediamo’ sulla croce, ha portato a termine l’atto salvifico: “Tutto è compiuto” (Giovanni 19, 30), perché il suo sacrificio ha liberato la ‘’famiglia adamitica’’ dalla ‘aversione da Dio’, e l’ha resa accetta al Padre misericordioso e datore dello Spirito Santo: si rievochino le interpretazioni della Trinità di Masaccio come ‘Trono di misericordia e di grazia’, e si rimemori la preghiera che il Sacerdote rivolgeva alla SS. Trinità, quando dal centro dell’altare ed in continuazione della linea perpendicolare del Cristo-sacerdote pendente dalla croce, offriva il pane ed il vino. “Accetta santa Trinità questa offerta, che ti faccio in memoria della passione del Signore nostro Gesú Cristo,  e concedi che a te gradita salga al tuo cospetto, e che essa operi la salvezza eterna di me e di tutti i fedeli”.

Si consideri il testo di Paolo, che spiega il messaggio che Adamo invia allo spettatore, e compendia l’interpretazione dell’Altare della Trinità messa in luce da Masaccio.“Il primo uomo dalla terra è terreno (v. reg. inferiore), il secondo viene dal cielo (v. reg. superiore). Quale è il terreno, tale pure i terreni” (Prima Corinti 15, 47-48): che è quanto l’Adamo masacciano dice denotando se stesso ed i propri discendenti: “Io fui già quel che voi siete, e quel ch’io son, voi anco sarete”. Paolo, però, prosegue: “Quale il celeste [e Paolo dice che il Cristo ‘‘è venuto dal Cielo”), tale anche i celesti” (Prima Corinti 15, 48): che è l’insegnamento di Maria Odeghetria - la nuova-Eva ‘madre di tutti i viventi’ per Cristo ed in Cristo -, che con la mano fa segno al riguardante di rivolgersi a suo Figlio crocifisso, risplendente di ‘luce’ e ‘via’ al Padre.

Il tutto è ricapitolato dall’Apostolo, quasi avesse dinanzi agli occhi la stessa visione che ha lo spettatore dell’affresco di S. Maria Novella: “A quel modo che portammo l’immagine dell’uomo terreno [l’Adamo ‘mortale’], porteremo pure l’immagine dell’uomo celeste” (Prima Corinti 15, 47-54).

L’immagine acustica di questi testi è in armonia con l’immagine ottica dell’icona Altare della Trinità di Masaccio, e spinge il riguardante a superare l’Uomo-primo Adamo, ‘misura  dei ‘mortali’, e a seguire l’Uomo-secondo Adamo, ‘misura dei salvati’, ai quali è concessa la risurrezione e l’ingresso nel Regno dei cieli.



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Fonte : Eugenio Marino, L’Altare della Trinità di Masaccio e la storia della salvezza (2009) (smn.it)

«Rivista di ascetica e mistica» n. 2, apr.-giugno 2009, pp. 371-383.


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