sabato 19 febbraio 2022

Lo specifico della carità cristiana, di Carmelo Dotolo


Lo specifico della carità cristiana
Elementi di riflessione sull’essenza del cristianesimo 

di Carmelo Dotolo 




1. Il significato di un avvenimento 
«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, n. 1). Non c’è dubbio che questo sia l’orizzonte di riferimento essenziale per cogliere la novità del cristianesimo1 . Esso costituisce lo snodo determinante per leggere la specificità di un evento che inaugura una differente storia della relazione tra Dio e l’uomo, per il fatto che la relazione di Dio con l’uomo non è una ovvietà ma, al contrario, l’affermazione di un effettivo irrompere di Dio nella storia2 . La stessa accoglienza da parte dell’uomo costituisce una condizione importante per la sua comprensione, soprattutto perché è proprio della epifania del mistero il non rientrare nella serie delle cose possibili, ma il mostrarsi nella sua differenza e alterità. L’autocomunicazione interpersonale di Dio produce, dunque, una svolta nella ricerca del perché dell’esistenza, poiché non solo apre l’uomo alla possibilità di entrare nell’orizzonte di una relazione unica, ma lascia intravedere come tale prospettiva rappresenti il possibile esito della ricerca umana, il suo giungere a destinazione. Si potrebbe quasi affermare che la rivelazione solleciti l’uomo al coraggio della ricerca, mostrandogli che in essa è racchiuso il segreto di una differenza che rende la vita un’avventura inedita. E’ su questa linea che la riflessione teologica del Novecento ha saputo individuare nel proprium della rivelazione l’esplicitazione di un presupposto: che l’uomo è interrogativo aperto, ma non la risposta, soprattutto nel momento in cui sono in gioco le questioni decisive per l’esistere stesso. La rivelazione non altera i percorsi investigativi della ragione umana, ma li integra nel vasto campo della verità dell’uomo e del mondo. «Le risposte implicite nell’evento della rivelazione sono significative soltanto nella misura in cui sono in correlazione con domande che riguardano l’intera nostra esistenza, cioè con domande esistenziali. Solo coloro che hanno sperimentato lo shock della transitorietà, l’ansietà con la quale prendono coscienza della loro finitudine e la minaccia del non-essere, possono capire che cosa significhi la nozione di Dio»3 . Anzi, il vero problema che attraversa le diverse situazioni dell’esistenza è quello del senso4 . E’ a questo livello che realtà quali felicità, amore, fallimento, dolore, morte diventano cifre dell’interrogarsi sul senso e sul non-senso della vita e configurano l’inquietudine radicale dell’uomo. E che l’interrogativo nasca in tali situazioni è perché in esse l’uomo può giungere alla salvezza della propria esistenza, proprio nel fare esperienza che senso e non-senso convivono nella fatica del quotidiano, in una storia che è essenzialmente determinata dalla libertà umana e dalla sua scelta di amare. La questione fondamentale sta, dunque, nella possibilità che l’uomo ha di dare un fondamento e una giustificazione alla sua libertà che, sovente, oscilla tra il desiderio di un progresso inesauribile e benefico e l’imprevedibilità della storia che sfugge ai programmi umani, lasciando tracce di regresso e di violenza. Difficile dire se questa esperienza globale di ricerca di senso apra o chiuda l’uomo all’incontro con Dio. E’ certo che nella dinamica di ricerca si pone il problema di Dio che, se può essere compreso come il «”perché” ultimo imposto dal problema stesso dell’uomo»5 , lo è in virtù del fatto che Dio nel provocare la domanda si mostra come colui che ricerca e viene incontro all’uomo. Dio si rivela come Libertà trascendente e Futuro ultimo che dà origine alla speranza dell’uomo, suscitando quella libertà decisionale che rompe la piattezza dei giorni. La rivelazione non aliena l’uomo dalle sue responsabilità, né riduce la libertà, ma colloca l’uomo nella possibilità di rispondere e di essere aperto alla imprevedibile iniziativa di Dio, perché svela che libertà e speranza possono dare senso alla vita solo se non si ripiegano su se stesse, contraddicendo alla propria identità. Se il farsi incontro di Dio rende possibile la risposta alla sua autorivelazione, se la soggettività dell’uomo e il suo essere storico costituiscono dimensioni decisive per l’evento assolutamente gratuito dell’amore, ciò sta a significare che l’uomo è contrassegnato da un’apertura che configura l’eventualità dell’incontro con Dio come una possibilità reale e significativa per la sua identità. E’ più di un’ipotesi, perché si affaccia come itinerario nell’avvenimento storico di Gesù Cristo che costituisce l’essenziale della verità di Dio e dell’uomo; «anzi, la verità nell’accoglimento della quale risiede l’unica possibilità di salvezza per il singolo. La rivelazione di Gesù è intesa realmente come “questione di vita o di morte”: la decisione a suo favore è discriminante in termini assoluti»6 .

2 L’amore come mistero personale 
 L’evento dell’incarnazione rappresenta una parola differente, inaudita nella grammatica dell’amore, per il fatto che si offre come problema e compito dell’uomo, sorprendendolo nella sua abituale logica interpretativa della vita, del mondo, degli altri e di se stesso Non meraviglia, dunque, lo scandalo provocato dal sopraggiungere in modo pieno e definito della parola di Dio in Gesù di Nazaret7 . In Lui, Dio entra nella storia e agisce nel qui ed ora, in ciò che egli compie e nelle stesse parole che pronuncia. Gesù è la Parola fatta carne (cf Gv 1, 1-14), a tal punto che la meravigliosa notizia che annuncia non si compone di riti o pratiche particolari, ma è lui stesso, la sua persona che nella dinamica dell’amore inaugura un nuovo ordine di salvezza. Se è vero che solo Dio può parlare di sé e che l’uomo è segnato dalla sua capacità di ascolto, allora l’autocomunicazione di Dio mostra che solo in ragione del suo amore inafferrabile può avvenire nella storia l’evento della rivelazione, parola che richiede la meraviglia dell’attesa e la fatica dell’ascolto. In virtù di quanto detto, si comprende perché la rivelazione è mistero, cioè realtà che appartiene al divino e, in quanto «di Dio» (Col 2,2; 1Cor 2,1) esige l’avvicinarsi a Colui che solo può svelare il senso del suo progetto. Nel definire la rivelazione mistero non si intende assimilarla ad un enigma della conoscenza non ancora risolto dalla ragione umana. Se così fosse, la ragione risulterebbe essere la chiave di lettura e la misura del mistero, la cui unica finalità è quella di rimanere all’oscuro prima di tradursi in categorie razionali. Al contrario, la rivelazione non rappresenta la conclusione di un procedimento conoscitivo dell’uomo, ma il punto di partenza offerto all’uomo per avviare la sua ricerca8 . Da questa angolatura, la rivelazione non elimina il mistero, ma lo propone nella sua ulteriorità di significato, in quanto mostra Dio come mistero dell’uomo e del mondo, progetto di libertà e di liberazione di cui l’uomo non può impadronirsi, se non correndo il rischio di trasformare Dio in un idolo, provocando, di fatto, quella distanza che l’autocomunicazione di Dio intende colmare. In definitiva, la particolarità presente nella realtà del cristianesimo è che la rivelazione non è manifestazione di un qualcosa di inspiegabile che attiene alla sfera del sacro, ma è lo svelarsi di Dio all’amato, fino a non sopportare l’idea che si possa perdere. Ma in tal modo diventa inconcepibile anche il pensare ad un volgersi di Dio all’uomo. Ha senso una rivelazione di Dio solo là dove Dio venga pensato e sperimentato come origine libera del mondo, come processo nel quale avviene qualcosa di sempre nuovo, e dove pertanto l’uomo è chiamato a porsi in continua attesa dell’improbabile e dell’incredibile. In altre parole, dell’incarnazione come forma dell’autocomunicazione di Dio-Trinità. 

3 Il novum trinitario dell’amore 
Se l’amore mette in evidenza la particolarità del cristianesimo, è perché esso narra e tematizza la memoria della passione, morte e resurrezione di Gesù, che esplicita la rivelazione quale avvento della Trinità. Certamente, la morte di Gesù scardina l’idea di un Dio apatico e indifferente al destino dell’uomo e rende visibile un inedito volto di Dio che non vive per se stesso, ma si consegna alla libertà dell’uomo. In ciò, l’apparente contraddizione del Dio crocifisso12 comunica un principio importante: la rivelazione avviene nel diverso e nell’alterità, vale a dire in una prospettiva che spiazza l’uomo per orientarlo al segreto della realtà di Dio. La morte in croce pone l’uomo alla presenza di un Dio che nella condizione di impotenza e di assenza dalla scena del mondo, si rivela come essere-per-l’altro. Per questo, la storia della salvezza trova in essa il suo punto cruciale, in quanto il dono radicale di Gesù è possibile solo in virtù della condivisione tra il Figlio e il Padre, il Figlio e lo Spirito, mistero insondabile dell’amore. La morte di Gesù realizza l’avvento della Trinità, la pasqua del Dio Padre-Figlio-Spirito che lungi dall’essere storia dell’incomprensibile eclissi dell’Assoluto, è l’evento che ristabilisce la vicinanza dell’uomo a Dio: «La croce è storia nostra perché è storia trinitaria di Dio: essa non proclama la bestemmia di una morte di Dio, che faccia spazio alla vita dell’uomo prigioniero della sua autosufficienza, ma la buona novella della morte in Dio, perché l’uomo viva della vita di Dio immortale, nella partecipazione alla comunione trinitaria resa possibile grazie a quella morte»13. Nell’affermare, pertanto, l’identificazione di Dio nel mistero della morte di Gesù, si vuole indicare che in Gesù la rivelazione tocca il nucleo profondo e autentico della storia umana, perché in essa si comunica e si mostra la diversità e originalità del Dio di Gesù che offre la vita per trasformarla, inaugurando così un mondo nuovo quale condizione di possibilità per la resurrezione di ogni giusto. Non è superfluo ricordare che la resurrezione è stata intesa come l’anticipazione reale del futuro di Dio, divenendo fondamento della certezza della speranza della resurrezione. La risurrezione rivela che il principio della speranza abita la concretezza della vita umana e dinanzi ad essa neanche la morte ha più potere. Nel CrocifissoRisorto il futuro della vita e dell’amore, della libertà e della giustizia non rimane più un semplice desiderio per i senza-speranza, ma una possibilità reale, un già che significa per ogni uomo, soprattutto per quanti vivono in condizioni subumane, la capacità di riscoprire la vocazione originaria della vita e di lottare perché si realizzi. Alla luce di ciò, la speranza che proviene dalla croce differenzia la fede cristiana sia dalla superstizione sia dalla incredulità, così come la libertà nata dal dono della vita distingue il cristianesimo dall’ottimismo ingenuo delle ideologie. Il mistero pasquale di Gesù di Nazareth, dunque, non ha eguali nella storia e per questo va considerato come un evento che produce storia, che mette in questione, illumina e muta lo scorrere dei giorni. Sullo sfondo di tali considerazioni, la risurrezione rende l’evento cristologico universale. E’ vero che la storia presente resta imbavagliata nelle bende del non-senso, della violenza gratuita, del male sovente strutturale, quasi ad allontanare le energie del Regno di liberazione. Eppur vero, però, che, lo Spirito inviato dal Padre per il Cristo risorto, alimenta nella vita dei credenti quel principiosperanza (cf Rm 8, 18-30) che non si disarma neanche dinanzi agli insuccessi e ai fallimenti, ma innesta una tensione agapica che ribalta qualsiasi pregiudizio sulla reale possibilità di trasformazione della storia. Da quanto emerso, si comprende che l’annuncio cristiano punti la sua attenzione sull’evento trinitario di Dio14, la cui configurazione storica emerge nella particolarità messianica di Gesù. Ciò significa che non vi è altro luogo per poter conoscere Dio e fare esperienza del suo mistero, e che l’amore costituisce la condizione di possibilità per pensare Dio a partire dalla sua prospettiva. Per questo, la riflessione teologica rintraccia nella rivelazione trinitaria modalità analoghe dell’amore che è Dio. Innanzitutto, nel sottolineare la gratuità dell’amore di un Dio padre (e madre)15 che solo può provocare e mettere in movimento la logica dell’amore, perché Egli solo può iniziare ad amare senza motivo. E’ questa la motivazione che, sulla scorta della novità cristologica, presiede alla tradizione che chiama Dio come Padre: Dio è l’origine di se stesso, la cui distinzione con ciò che esiste non è indifferente lontananza o impassibilità, ma condizione perché l’uomo possa entrare in una relazione unica e affascinante. L’evidenza della impensabilità di un tale evento è racchiuso in ciò che scrive 1 Gv 4, 7-10.16: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio […], perché Dio è amore. […] Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». Dio è amore: è questa la definizione neotestamentaria di Dio, una definizione, però, che va compresa non nell’ottica di un amore che si autoespande e del quale l’uomo partecipa, ma quale amore capace di suscitare, dimenticandosi, un’identità nuova. L’amore di Dio è un amore che dischiude il primato dell’alterità, in cui l’io non si costituisce come principio assoluto di fronte all’altro, ma quale spazio per l’altro perché possa vivere. «Il Padre non è una persona chiusa, ma è da sempre colui che, consegnandosi, dà l’essere al Figlio e allo Spirito Santo. L’amore, che nel Padre ha la sua fonte, è il principio interno della vita della Trinità, che fa si che il Padre mandi il Figlio che già prima ha amato (Gv 17,24). Nella vita trinitaria tutto avviene nella radicale gratuità dell’amore che le persone si scambiano»16. Nell’amore del Padre, va letto l’evento del Figlio, la cui esistenza non è stata altro che l’espressione della com-passione di Dio per l’uomo. In tal senso, la rivelazione di Gesù è unica e singolare e nella sua storia prende concretezza la risposta alla domanda di salvezza che costituisce l’uomo nella ricerca della verità e della felicità. Ciò sta a significare che in Gesù l’apertura dell’uomo e il suo essere non è uno spazio vuoto o un itinerario verso il nulla e l’assurdo, ma è una cammino che conduce alla pienezza della vita in Dio. In questo scenario, la singolarità e particolarità rivelativa di Gesù non si inquadra in ciò che l’umanità già conosce, così come non è del tutto estranea a quanto l’uomo ricerca e che, spesso, non riesce a trovare. Piuttosto, risponde agli interrogativi che l’uomo si pone, mostrando come il suo messaggio e la sua prassi sono qualcosa di profondamente umano e umanizzante, proprio perché legati alla relazione con Dio. Questo, però, implica la condivisione del progetto di Gesù, la cui sequela espone alla forza critica nei riguardi di qualsiasi chiusura dell’uomo in sé e nel mondo. Scrive D. Bonhoeffer che si tratta di «partecipare oggi alla realtà di Dio e del mondo in Gesù Cristo e di farlo in modo tale da non sperimentare mai la realtà di Dio senza la realtà del mondo e la realtà del mondo mai senza la realtà di Dio»17. Gesù Cristo è, allora, il reale e il parametro della realtà e la sua rivelazione sigilla la vittoria sulla neutralità, perché in lui l’incondizionato amore che sa fare spazio diventa fonte ineusaribile di realizzazione del mondo. Ecco perché il suo esserci-per-gli-altri (proesistenza) rivela la concretezza della libertà e della salvezza. «Solo dalla libertà da se stessi, solo nell’”esserci-per-gli-altri” fino alla morte nasce l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù […] Il trascendente non è l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta, che è raggiungibile»18. Ne consegue che è proprio dello Spirito Santo, portare a pienezza il movimento dell’amore secondo il paradigma cristologico. Infatti, secondo il Nuovo Testamento, lo Spirito ha il compito di fare memoria della realtà storica e oggettiva di Gesù: «Ma il Consolatore, lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» (Gv 14, 26). Nel fare memoria, lo Spirito rende capace il credente di vivere la propria esistenza nella condivisione e in conformità con l’atteggiamento di Gesù che ha accettato la fragilità della vita e della morte nell’accettarsi dal Padre, senza imporre la logica della propria visione delle cose. Su tale sfondo, si comprende perché lo Spirito è fonte dell’esercizio della libertà (cf 2Cor 3, 17), in quanto manifesta Dio padre e il Figlio come comunione, condivisione, capacità di fare spazio all’altro. Egli è Persona-dono, nel senso che realizza il donarsi stesso nella libertà e reciprocità delle tre persone divine, mostrando come il Dio della rivelazione cristiana altro non è che mistero dell’amore che suscita le differenze come ricchezza e che indica all’uomo la frustrazione del desiderio del possesso di un’identità chiusa. Il Padre, il Figlio e lo Spirito si comunicano tutto tra loro, in un modo tale che il loro essere persone sussiste nella relazione, nell’essere l’uno rivolto verso l’altro. Vivere l’uno per l’altro, realizzare la convivialità delle differenze è il compito che lo Spirito rivela, ma anche l’espressione che lascia trasparire come Padre, Figlio e Spirito siano principio architettonico della costruzione della storia. Per questo la riflessione teologica e la tradizione cristiana hanno riconosciuto nello Spirito un ruolo dinamico e creativo, perché «egli è Colui che suscita altre differenze. Egli è l’apertura della comunione divina a ciò che non è divino. E’ l’abitazione di Dio là ove Dio è, in un certo senso, “fuori di se stesso”. Per questo fu chiamato ‘amore’. E’ l’’estasi’ di Dio verso il suo ‘altro’: la creatura […] Quindi, il movimento dell’Incarnazione e il dono dello Spirito, la compromissione cioè di Dio con la nostra storia, non gli sono estranei, quasi che Egli non fosse minimamente toccato da coloro verso i quali viene»19. Proprio per il fatto che l’amore esprime e configura l’irruzione del Dio Trino nelle vicende umane, essa è un evento che crea storia; vale a dire che vive nei ritmi del tempo e dello spazio aperta alla possibilità o meno della sua realizzazione. La religione ebraico-cristiana20, dunque, inaugura il tempo della vita nel quale gli interventi di Dio non sono più legati al determinismo della natura o alle necessità della storia, ma alla libertà umana suscitata dalla libertà di Dio. Nel gioco delle due libertà, si profila il significato della storia, vale a dire della quotidiana fatica nel tradurre il progetto del Regno per dare senso al cammino dell’uomo. Non è esagerato affermare che per il cristianesimo l’attenzione alla storia e la passione per il possibile sono un elemento determinante. L’accettazione del mondo e della sua organizzazione della vita non significa istituire un rapporto ingenuo e aproblematico. Piuttosto, implica un’accoglienza in grado di lottare contro la violenza delle ideologie e il rassegnato scetticismo di chi pensa che nulla potrà cambiare. Ne consegue che la responsabilità delle comunità cristiane non può essere realizzata al di fuori del mondo e del suo futuro, ma deve concretizzarsi nella trasformazione operativa, alimentata dalla serietà della fraternità quale chance per sperimentare la vicinanza di Dio. La Chiesa «non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia» (Deus caritas est, n. 28). Affermare che nella rivelazione cristologica l’amore è evento storico significa, allora, istituire una relazione particolarmente significativa tra messaggio cristiano e realtà sociale, non solo perché entrando nella storia la sottrae ai suoi schemi e determinismi, siano essi economici, politici, ideologici, psicologici; ma anche perché svela all’interno degli avvenimenti quell’orientamento che appartiene a Dio e che, se accolto, diventa creatore di senso e di salvezza. Tale orientamento fa riferimento ad un’esperienza ben precisa di amore: l’alleanza quale dono di Dio che inaugura la relazione e che trova nel principio dialogico la sua realizzazione. E’ una costante quella che legge la storia dell’alleanza come un’inesausta dichiarazione di amore che non può essere pensato nella logica di una parità simmetrica tra Dio e l’uomo, né secondo una qualsiasi forma di donazione di sé. Tutt’altro. L’alleanza, quale spazio storico della rivelazione, mentre esplicita la serietà e la gravità della donazione che chiede all’uomo di essere accolta e compresa, mettendosi dalla parte del donatore, contemporaneamente indica come l’esistenza è continuamente nelle mani dell’uomo che è invitato alla scelta decisiva e responsabile di fronte all’alternativa tra la vita e la morte, tra il senso e il non senso, tra la speranza costruttiva e la disperazione rassegnata. E’ in questa libertà decisionale che l’uomo emerge dall’ordine della necessità naturale e sociale per affidarsi all’ordine dell’amore quale scelta provocata dal Dio che interpella. Certo, nella libertà dell’uomo è presente un elemento radicale di incertezza, un imprevedibile autonomia che Dio non forza, ma che sollecita con la sua iniziativa gratuita. Sta forse, qui, la radice della novità ultima e definitiva, cioè escatologica, dell’amore. L’ingresso di Dio nella storia opera effettivamente una rivoluzione, perché apre il tempo dell’uomo al futuro di Dio che non è ricavabile da alcuna premessa legata al calcolo dei giorni. La storia si riscopre aperta e capace di volgersi verso il Dio che viene, perché nel dono di Sé risplende l’irruzione del nuovo della promessa salvifica che rappresenta l’orizzonte ultimo della libertà umana, ciò che dà valore al tempo penultimo della vita. Nello straordinario avvenimento della venuta del Regno di Dio, l’uomo percepisce come l’improgrammabile proposta di Gesù Cristo è in grado di determinare il suo presente nella misura in cui spinge l’uomo ad una decisione per il Vangelo che nessun altro può prendere al suo posto. E’ in gioco la verità di se stesso, il senso della propria esistenza, l’autenticità delle relazioni che danno sapore alle scelte e agli impegni di ogni giorno. Ma l’amore imprime nella storia un di più che spinge l’uomo alla speranza trasformatrice che inaugura un nuovo modo di pensare e agire nei rapporti con la realtà. Essere caratterizzati dalla speranza significa adeguare i ritmi della vita al futuro promesso e realizzato da Gesù Cristo, aperti alle sorprese che l’incontro con Dio riserva lungo il divenire della storia. Per questo, la rivelazione non ferma la storia, né la chiude in ciò che è già conosciuto. Al contrario, la storia che si affida al futuro di Dio è in grado di vivere non sulla nostalgia del ricordo o nella evasione idealistica, ma sulla u-topia che si fa impegno di costruzione di un mondo differente e liberazione da quanto incatena l’oggi nel tempo del disincanto e della sfiducia nella verità21. Chi spera e si affida in Gesù Cristo non può adattarsi alla realtà così com’è, bensì afferma come la comprensione del mistero dell’amore apre l’uomo alla sua radice più autentica22, in cui ne va del valore stesso della vita. Come evidenzia Benedetto XVI, l’icona del Giudizio finale (cf, Mt 25, 31-46) sintetizza l’impensabile dell’amore che «diventa criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana» (Deus caritas est, n. 15).

4 L’originalità dell’agape 
Quanto detto lascia emergere come l’amore costituisca un orizzonte privilegiato per cogliere concretamente l’incidenza tra rivelazione e storia: se la rivelazione non può prescindere dall’esperienza umana, perché costituisce l’inizio di una esistenza che si dimostra capace di attraversare le domande dell’uomo e di offrire un senso alla sua ricerca di felicità, così l’amore cristiano ritrascrive il linguaggio complesso e polimorfo dell’amore. L’essenza del cristianesimo si situa nella capacità di interrelazione tra eros e agape 23, innestandosi con originalità nell’«originario fenomeno umano che è l’amore» (Deus caritas est, n. 8; anche nn. 3; 4; 9). L’uomo, nella sua storicità, è un essere in continuo divenire, progetto che abita sin dall’inizio in una incompiutezza che appare, al tempo stesso, come limite e possibilità di trascendenza del limite stesso. E’ in questa contraddizione che l’uomo sperimenta come la sua realizzazione può compiersi solo nell’itinerario di una nuova modalità di comprensione che l’amore lascia trasparire. L’incontro con la novità messianica della pro-esistenza di Gesù, mette l’uomo in una condizione di movimento, attratto dal richiamo di non poter fare a meno di una verità che rompa i limiti dell’ovvio e del banale. La verità che l’amore proclama non si riferisce, infatti, solo all’emergenza di un diverso statuto esistenziale, ma riguarda la vocazione originaria dell’uomo nella sua relazione con l’alterità. In ciò il paradigma agapico di Gesù di Nazareth può aprire il mondo della vita ad una comprensione differente. Una simile esperienza, insolita e imprevedibile, scuote dal profondo l’esistenza facendola uscire dalla chiusura del proprio orizzonte di riferimento. Qui si coglie un dato importante: rivelazione ed esperienza non si oppongono; anzi, l’esperienza è un momento interno al movimento della rivelazione. Certo, «la rivelazione, come libera iniziativa dell’amore divino, trascende ogni esperienza umana, ma essa non può essere percepita se non nelle esperienze storiche fatte dall’uomo»24. In tal senso, l’amore non si accontenta del sentito dire, ma coinvolge tutta la persona modificandola nella propria visione della vita e nella comprensione della storia. In particolare, se tale esperienza chiama ad un movimento esodale, di superamento di quelle ideologie e pregiudizi che bloccano l’esperienza o la relegano al rango di arbitraria valutazione di un evento, di una valore, di una verità. Ciò non diminuisce la significatività della esperienza, ma al contrario la esige come un contesto rilevante per un discorso sensato su Dio e sull’uomo. Il motivo sta nel fatto che la rivelazione del mistero dell’amore costituisce la condizione per recuperare la natura particolare dell’esperienza, in quanto l’esperienza della rivelazione modifica la struttura dell’orizzonte del nostro incontro con la realtà, aprendo la soggettività ad una inedita interazione sociale e storica. Può risultare emblematica la vicenda originaria dell’incontro tra Gesù e i discepoli, un incontro affascinante che provocò il decisivo mutamento nella loro impostazione di vita e rappresentò una svolta per la comprensione della salvezza: «La struttura d’esperienza della rivelazione si esprime, nel modo più pregnante, nella rivelazione cristiana, che ha preso inizio in un incontro storico dell’uomo con un prossimo: Gesù di Nazareth. In modo quanto mai sorprendente lui manifesta nella storia ciò che noi uomini non avevano potuto nemmeno immaginare. E questo che gli uomini non avevano pensato compare nell’immanenza delle nostre esperienza storiche. Nell’incontro con Gesù l’autorità dell’esperienza (cristiana) da lui suscitata coincide con l’autorità della rivelazione divina»25. Quello che è accaduto è stata una ridefinizione della propria identità, sospinta ad incontrare l’altro e relazionare la libertà dinanzi al mondo con la responsabilità per il mondo di fronte a Dio. Proprio per il fatto che Gesù convoca l’uomo e lo interpella, ciò sta a significare che l’uomo è costitutivamente responsabilità, posto, cioè, nella condizione di non poter non rispondere, ma di giocare la propria identità nella forma della libera risposta della fede e dell’amore. Dalla dinamica di tale incontro, la rivelazione emerge come l’orizzonte interpretativo della storia umana e come il nome nuovo dell’uomo, perché l’autocomunicazione di Dio nella persona di Gesù Cristo permette all’uomo di riscoprire e di riappropriarsi della sua identità di immagine di Dio. Anche se questo può apparire contrastante, affermare che l’uomo è creatura significa comprendrlo nella sua costituiva relazione con Dio: l’identità dell’uomo è direttamente proporzionale alla sua dipendenza-relazione con Dio e alla relazione con l’altro, evento che traduce la scoperta del tu come condizione di possibilità per esistere. Ecco perché l’amore è forma della rivelazione che dà forma alla esistenza, è il comandamento che inaugura una qualità del tutto particolare del credere e del comprendere26. L’intera narrazione biblica e lo stesso discorso teologico evidenziano con forza l’impossibilità di scindere l’amore di Dio con l’amore per l’altro, il prossimo che incrocia le vie della vita. In primo luogo, va messo in risalto il fatto che l’amore è l’evento che connota l’essere di Dio. E’ questa la semplice verità che la bibbia proclama, una verità che diventa paradossale perché si inscrive nella logica dell’imperativo, del comandamento. Strano, si può pensare, che ciò che rappresenta l’espressione più alta della libertà umana e della naturalezza del suo destino sia espressione di un comando. Ebbene, il motivo per cui la bibbia usa il linguaggio del comandamento è perché l’amore non è una forza naturale che si espande nella volontà di unificare le differenze, né un impulso divino che spinge spontaneamente al Bene come valore in sé. Amare come Dio ama significa modellare la propria vita sulla potenza sovversiva della bontà che si autolimita per l’altro, che fa spazio alla differenza consegnandosi e affidandosi alla libertà dell’uomo nell’attesa della risposta. «Questo non significa che la rivelazione del Dio-agape ci faccia conoscere di Dio soltanto una decisione che, tutta rivolta verso l’esterno, non lo coinvolga realmente, diremmo in prima persona. Al contrario, abbiamo visto come questo coinvolgimento sia uno dei tratti incancellabili della rivelazione biblica di Dio. Dire di lui che è amore (l’amore di agape) significa davvero manifestare qualcosa che egli è, non soltanto qualcosa che fa: quello che egli è in se stesso per noi»27. In seconda istanza, comprendere il paradosso del comandamento è possibile solo nella radicalizzazione dell’amore (agape) operata da Gesù Cristo. Non è superfluo indicare nel termine agape un ampliamento del campo semantico della parola amore (cf. Deus caritas est, n. 2), da leggersi come indicazione di un tracciato antropologicamente significativo. «In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante» ( Deus caritas est, n. 4). E’ in questo interstizio che si intravede la complementarietà e differenza tra eros e agape, che indicano due modalità d’amare interpretative di una stessa intenzionalità. Affermare che l’eros è centripeto e l’agape centrifuga, implica riconoscere una diversità di direzione dell’amore, non di intensità e, forse, nemmeno di qualità. Il motivo sta nel fatto che sia l’eros sia l’agape cercheranno sempre la felicità dell’altro nell’avvicinarsi all’altro (cf. Deus caritas est, n. 8). Eppure, la dimensione agapica dell’amore sembra evidenziare un di più di significato. Essa disegna un nuovo asse ontologico, perché inserisce l’alterità e la prossimità come strutturale per la capacità autentica dell’amare28. Il che significa dare all’amore la possibilità di realizzarsi oltre gli slanci provvisori dell’eros e della simpatia relazionale. L’agape è condizione di possibilità dell’eros, perché lo libera dalla prospettiva della competizione e dell’ideologia classista. Non è un caso che il paradigma del buon samaritano (cf Lc 10, 25-37) ridisegna il senso dell’amore come farsi prossimo e, dunque, allarga la comprensione dell’identità che non sussiste se non fa spazio all’altro, nell’accoglienza e nella disponibilità all’ospitalità29 L’amore, secondo l’intenzione del Nuovo Testamento30, implica l’inversione del movimento connaturale dell’io verso l’io e l’instaurazione della esistenza come scelta dell’amore che può modificare le relazioni umane basate sulla logica della proprietà e della autosufficienza. Si può dire che la novità che Gesù Cristo imprime all’amore sta nell’esperienza del decentramento di sé e nel dono di sé agli altri, fino al limite inimmaginabile del dare la vita e del sacrificio. Tale autoannullamento a vantaggio dell’altro che non esclude l’estrema conseguenza della morte, tale amore che mira alla promozione dell’alterità dell’uomo, è l’evento della kenosis (cf. Fil 2, 6-8) che costituisce la condizione per comprendere quel significato autentico dell’amore che lo stesso Paolo esprime nel famoso testo di 1Cor 13, 4-8: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine». Ora, ciò che dà un tenore inedito a tali caratteri è che essi hanno in Dio il soggetto dell’amore: Dio stesso è amore e relazionandosi ad altro si rivela come dono incondizionato e gratuito che si incarna nella figura di Gesù Cristo. Si comprende, allora, come la risposta possibile alla domanda circa l’amore-comandamento e al perché l’uomo ama, è questa: Dio ama così e l’amore si esprime come responsabilità di fronte all’amore di Dio e non come iniziativa spontanea dell’uomo. «Vi è certamente, nell’uomo, una disposizione di fondo ad amare, una possibilità di farlo, la quale è legata al fatto che Dio ama l’uomo e che questo, all’uomo, è stato rivelato. Ma l’uomo, in ogni caso, deve voler amare, deve cioè assumere e sperimentare quei caratteri dell’ agape che proprio 1Cor 13 elenca e descrive. Insomma: io, certamente, posso amare, perché Dio per primo mi ha amato. Ma di nuovo, per amare davvero, io debbo voler amare»31. L’esistenza nuova che inaugura la rivelazione nella forma dell’amore, diventa il segno di una speranza profetica: il cristianesimo è lo spazio nel quale poter lottare per la capacità di futuro dell’uomo, riserva critica contro la morte dell’uomo e denuncia della menzogna che assolutezza la storia di emancipazione dell’uomo come storia di autosufficienza. «L’amore promette infinità, eternità, una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros. Non è il suo avvelenamento, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza»» (Deus caritas est, n. 5). Sebbene il mondo mostri segni di una maturità crescente, nondimeno essa porta le ferite di una diffusa disumanizzazione, in cui l’uomo è degradato ad oggetto di pianificazione dominatrice del mondo stesso. In questo contesto, acquista un ruolo decisivo la Chiesa che, nel servizio alla realizzazione del Regno, è testimone della potenza critica dell’amore e della solidarietà nel compito di forza critica e liberante della società (cf. Deus caritas est, n. 30). In una permanente tensione tra esperienza del Dio di Gesù Cristo e le realtà storico-culturali delle quali si fa carico, la comunità dei credenti si fa interprete della ricerca di condizioni sociali più rispettose della dignità umana, segno di pace, libertà e riconciliazione che costituiscono le condizioni per la costruzione di una cultura della vita e non della morte32. L’umanizzazione del mondo passa, dunque, per itinerari di rispetto e promozione dei diritti e bisogni di ogni uomo, in particolare degli oppressi e indifesi, che richiede un amore capace di reciprocità e alterità. Il contributo del cristianesimo sta nel consentire processi di attenzione alla dignità umana, in ragione della logica dell’amore che rappresenta una particolare Weltanschauung: quella che in Gesù Cristo desta la meraviglia per la libertà, la giustizia, la compassione, luoghi nei quali il riconoscimento dell’alterità di Dio si affianca all’affermazione del prossimo come compagno di viaggio. L’essenza dell’agape è, in definitiva, creativa, perché apre all’uomo lo spazio di un’esistenza significativa. «Abbiamo l’incarico di continuare la creazione, di essere con-creatori, con il dono, in modo nuovo, dell’essere all’altro nel sì dell’amore di far diventare il dono dell’essere veramente un dono»33


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1 Cf. le annotazioni di K. LEHMANN, Dogmatica ecclesiale ed immagine di Dio, in J. RATZINGER (ed.), Saggi sul problema di Dio, Morcelliana, Brescia 1975, pp. 135-163. 
2 Cf. A. DARTIGUES, La rivelazione dal senso alla salvezza, Queriniana, Brescia 1988, pp. 186-212; C. ZUCCARO, La vita umana nella riflessione etica, Queriniana, Brescia 2000, pp. 74-82; G. PASQUALE, La storia della salvezza. Dio Signore del tempo e della storia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2002, pp. 93-104. 
3 P. TILLICH, Teologia sistematica I. Religione e rivelazione. L’essere e Dio, Claudiana, Torino 1996, p. 77. 
4 Sono significative alcune riflessioni di K. RAHNER, Dio e rivelazione. Nuovi saggi VII, Paoline, Roma 1981, pp. 133- 154. 
5 J. ALFARO, Dal problema dell’uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991, p. 22. 
6 P. SEQUERI, La cattiva infinità della dialettica e la salutare finitezza della rivelazione, in E. GUERRIERO – A. TARZIA (edd.), L’ombra di Dio. L’Ineffabile e i suoi nomi, Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 33. 
7 Scrive R. FISICHELLA, La fede come risposta di senso. Abbandonarsi al mistero, Paoline Editoriale Libri, Milano 2005, p. 49: «”Dio è amore”, comunque, permette di accedere a un’ulteriore novità che costituisce il paradosso della fede cristiana. L’amore di Dio, infatti, non è un’idea astratta né un sentimento più o meno generico; esso si incarna in una persona che lo rende evidente nella sua vita e nella sua morte. L’amore ha un volto: Gesù di Nazaret». 
8 Cf. le riflessioni di R. GUARDINI, Fede – Religione –Esperienza. Saggi teologici, Morcelliana, Brescia 19952 , pp. 169- 178. 
9 Si veda K. RAHNER, Sul concetto di mistero nella teologia cattolica, in ID., Saggi teologici, Paoline, Roma 1965, pp.391-465; W. KASPER, Rivelazione e mistero. Sulla concezione cristiana di Dio, in ID., Teologia e Chiesa, Queriniana, Brescia 1989, pp. 143-154. 
10 Va notato che la categoria di persona ha il suo analogato principale nella determinazione ontologica di Dio e, come scrive W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1984, pp. 213-214, dice un triplice significato: indica l’indisponibilità e misteriosità di Dio; attesta l’infinita differenza qualitativa col mondo; esprime l’unicità dell’essersoggetto di Dio, il cui «senso dell’essere non è quindi la sostanza in se stessa bensì l’amore che si comunica» (p. 215). Si vedano anche le riflessioni di E. JÜNGEL, Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Queriniana, Brescia 1982, pp. 410-430; G. GRESHAKE, Il Duo Unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000, pp. 190-244; A. GESCHÉ, Dio per pensare. Il Senso, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 63-85. 
11 Cf. L. BOFF, Passione di Cristo Passione del mondo il fatto, le interpretazioni e il significato ieri e oggi, Cittadella Editrice, Assisi 1978, pp. 129-159; J. SOBRINO, La fede in Gesù Cristo saggio a partire dalle vittime, Cittadella Editrice, Assisi 2001, pp. 348-363.; S. KIZHAKKEYIL, Compassion and Christian Spirituality, in “Jnanatirtha” 5 (2005) 31-48. E’ indicativo quanto scrive C. DI SANTE, Lo straniero nella bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta Edizioni, Troina 2002, p. 32: «Narrando di un divino come compassione, non solo il testo biblico sovverte la concezione di Dio che da eromenos, cioè amato, si fa amante, ma capovolge la stessa concezione umana (cosmologica, antropologica e metafisica) dove il principio di costituzione e di lettura del reale non è più la ricerca del valore che at-tira e at-trae l’io, bensì l’io che con la sua sollecitudine coglie e registra il soffrire dell’altro». 
12 In tal senso importante è la riflessione di H. U. von BALTHASAR. Si veda, ad esempio, Teodrammatica IV: L’azione, Jaca Book, Milano 1986, p. 297. Scrive in Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1991, p. 137: «L’amore cristiano non è la parola – e neppur l’ultima – del mondo su se stesso, ma la Parola conclusiva di Dio su di sé e proprio perciò anche sul mondo. Nella croce, alla parola del mondo si giustappone una Parola completamente diversa, che il mondo non vuole ascoltare a nessun costo». Cf. P. MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore tratrinitario in Hars Urs von Balthsar, Jaca Book, Milano 1996, pp. 279-366. 
13 B. FORTE, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 40
14 Scrive G. COLOMBO, La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, p. 151: «Effettivamente riconoscendo la rivelazione della verità nella persona e nella storia di Gesù di Nazareth, nel quale la Trinità si è autocomunicata agli uomini, la costituzione conciliare Dei Verbum libera la nozione di verità dalla precomprensione astorica tendenzialmente oggettivante, restituendola alla sua identità propria di evento storico. La verità infatti, non si dà “fuori” dall’evento storico. […] L’evento storico, d’altro lato, è da comprendere solo nel riferimento al “compimento”, cioè al tutto, e precisamente alla realtà/verità di Dio/la Trinità, rivelata nella persona e nella storia di Gesù». 
15 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, in Enchiridion Vaticanum 7, EDB, Bologna 1982, nn.857-956. Per un inquadramento generale cf. A. AMATO, Paternità-maternità di Dio. Problemi e prospettive, in ID. (ed.), Trinità in contesto, LAS, Roma 1994, 273-296. Da una prospettiva teologica al femminile S. MCFAGUE, Modelli di Dio. Teologia per un’era nucleare ecologica, Claudiana, Torino 1998, 133-168; E. A. JOHNSON, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999, 373-433. 
16 L. F. LADARIA, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità, Piemme, Casale Monferrato 1999, pp. 353-354. Cf. anche G. GIORGIO (ed.), Dio Padre Creatore. L’inizio della fede, EDB, Bologna 2002. 
17 D. BONHOEFFER, Etica, Queriniana, Brescia 1995, p. 35. 
18 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 462. 
19 C. DUQUOC, Un Dio diverso. Saggio sulla simbolica trinitaria, Queriniana, Brescia 19852 , p. 117.
20 Cf. D. C. MAGUIRE, Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana. Una lettura laica della Bibbia, Cittadella Editrice, Assisi 1998, pp.283-312. 
21 Si veda J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, Queriniana, Brescia 1999, pp. 115-161. 
22 Scrive J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 19712 , p. 74: «Dio ci si fa incontro come il mistero trascendente dell’unità e della pienezza dell’esistenza umana messa continuamente in pericolo nel pluralismo della propria coscienza; come il futuro assoluto della libertà umana che opera nel mondo stesso; infine come il Dio la cui vicinanza si schiude nell’incontro con il fratello. La fede ha quindi un autentico futuro in un mondo ominizzato, forse meno vistoso e visibile, ma tuttavia più necessario che mai».
23 Cf. il testo ormai classico di A. NYGREN, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, EDB, Bologna 1971, pp. 184-204. 
24 C. GEFFRÉ, La rivelazione e l’esperienza storica degli uomini, in R. FISICHELLA (ed), Gesù Rivelatore. Teologia Fondamentale, Piemme, Casale Monferrato 1988, p. 165. Si veda anche G. O’COLLINS, Teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 19842 , pp. 44-68. 
25 E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo. La storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980, p. 60
26 Cf. C. DOTOLO, The Christian Revelation. Word. Event, and Mystery, The Davies Group, Aurora, Colorado 2006, pp. 101-106. 
27 A. RIZZI, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 46. 
28 Scrive A. RIZZI, Ibid., p. 73: «L’”altro nella sua alterità”: questa espressione, che per l’eros sarebbe soltanto formulazione dialettica dell’irraggiungibile, nell’agape diventa la più elementare positività, diventa il prossimo». 
29 Cf. G. BENTOGLIO, “Mio padre era un arameo errante…”. Temi di teologia biblica sulla mobilità umana, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006, pp. 198-219. 
30 Cf. R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale del Nuovo Testamento I. Da Gesù alla chiesa primitiva, Paideia, Brescia 1989, pp. 107-119. 
31 A. FABRIS, I paradossi dell’amore fra grecità, ebraismo e cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2000, p.117. 
32 Cf. K. POMBO, Eros e Agape in un’antropologia personalistica, “Redemptoris Missino” XXII (2006) 1, 6-20.
33 J. RATZINGER, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 20054 , p. 73.


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giovedì 17 febbraio 2022

Allocuzione per l'incontro con l'università di Roma "La Sapienza", di Papa Benedetto XVI

 

ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
PER L’INCONTRO
CON L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA "LA SAPIENZA"

 

 

Testo dell'allocuzione che il Santo Padre Benedetto XVI avrebbe pronunciato nel corso della Visita all’Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, prevista per il 17 gennaio, poi annullata in data 15 gennaio 2008:

Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!

È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.

Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.

Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.

Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.

Dal Vaticano, 17 gennaio 2008

BENEDICTUS PP. XVI


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Fonte: Allocuzione per l'incontro con l’Università degli Studi "La Sapienza" di Roma (17 gennaio 2008) | Benedetto XVI (vatican.va)


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