venerdì 22 aprile 2022

Abitare poeticamente la terra, di Marco Campedelli


Abitare poeticamente la terra
di Marco Campedelli


Questo potrebbe essere un modo di raccontare il giardino. L'espressione del poeta Hölderlin è così commentata dal filosofo Heidegger: abitare ha qualcosa a che vedere con costruire. Più precisamente, con misurare, prendere le misure. La misura dell'abitare si chiama poesia perché è questo il modo autentico di abitare la terra. Non un modo calcolante ma uno stare nella misura tra l'alto e il basso, tra la terra e il cielo. Proprio nel frammezzo. Dove vive l'incanto ma anche il rischio. Perché il giardino è un luogo da coltivare e da proteggere. È uno spazio dove convivono l'estetica e l'etica. L'estetica perché il giardino è bellezza e crea bellezza. Ma il giardino come spazio desiderato e condiviso diventa spazio etico perché è anche ospitalità, intimità, relazione, giustizia.

La Bibbia si incontra con orizzonti di grandi culture come quelli delle civiltà egizia e della Mesopotamia. Proprio queste due culture sono terre di giardini. Nell'Egitto i giardini recintati da alte mura. Dentro un incanto di fiori e di alberi ma anche uno spazio coltivato ad orto: per produrre vino, frutta e verdura. Il giardino come il tripudio dei sensi...
La terra d'Egitto, d'altra parte, è una creatura del Nilo. È sinonimo di fertilità e di bellezza.
Vi sono poi i giardini babilonesi: i cosiddetti giardini pensili dell'antica città di Babilonia.
Nella Bibbia le cose sono diverse. Il termine “giardino”, sottolineano gli esperti, compare poche volte.
La terra del popolo ebraico è piccola, più o meno come la regione Calabria. Per 2/3 è deserta e solo un quarto è fertile.
Qual è lo specifico del giardino per la Bibbia? Il popolo di Israele è uscito da una terra giardino come l'Egitto deve affrontare un cammino di quarant'anni nel deserto verso la terra promessa. Lascia un giardino "perfetto" per un giardino "imperfetto".
E questa è una sfida: quale giardino scegliere? Quello della terra dei padroni o quello modesto e fragile ricevuto però in dono nel segno della libertà? Scegliere i giardini d'Egitto significa scegliere anche i suoi dei. Scegliere di camminare verso la terra promessa è scegliere di camminare verso il Dio della promessa, portare la sua parola come pendaglio tra gli occhi, legarla ai propri polsi, inciderla nel proprio cuore.
Il giardino nella Bibbia è lo spazio di una libertà ricevuta e una possibilità di abitare lo spazio del desiderio e della responsabilità.
La parola giardino risuona nella poesia del Cantico dei cantici. Il Cantico dei cantici è la terra della relazione, l'incanto dell'amore. Lo spazio dell'intimità. Il giardino è luogo di iniziazione alla relazione autentica. Questa parola, iniziazione, ci richiama al senso del rito, ma anche all'itinerario educativo. E' bello scoprire che, infine, il giardino è una persona. Il giardino è la donna. La relazione amorosa. L'intimità che non si ottiene con la violenza ma che si realizza nella libertà. Il cancello del giardino nel testo del Cantico si apre solo dall'interno. Non si può forzare, violentare, profanare l'amore.
Il giardino è un luogo dove abitare poeticamente, cioè in modo autentico, la terra. Giardino tra terra perduta e terra ritrovata.
Quasi nel centro del Cantico il diletto, l'amato descrive il corpo dell'amata: “Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fonte sigillata”. Il giardino non è solo uno spazio, ma una persona. Non solo un luogo, ma una relazione. In questa relazione il giardino è raccontato con un’esplosione di sensi: “I tuoi germogli sono un paradiso di melograno, con i frutti più squisiti, alberi di Cipro e Nardo, Nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, con ogni specie di alberi d'incenso, mirra e alle, con tutti gli aromi migliori”.
Il giardino, però, è anche lo spazio che racconta l'esperienza centrale e fondante della Bibbia: l'esodo. Un cammino che va dall'esilio al ritorno nella terra. Il giardino della terra promessa in cui “scorre latte e miele, la più bella di tutte le terre”.

Ma gli uomini, spesso contaminati dal virus padronale, si sono fatti signori di una terra, di un giardino di cui erano solo custodi, anzi a ben vedere "custoditi" da quella terra. Peraltro, dopo il tempo del lutto e del lamento, arriverà quello della gioia e della riconoscenza. Dio costruirà fontane d'acqua per tutti gli assetati di giustizia. La vedova, l'orfano e lo straniero finalmente potranno inebriarsi della bellezza della terra e la parola esclusione non sarà più scritta come vergogna sulla loro fronte.
È una nuova creazione. Un giardino donato. Ma non è una terra solo bella bensì anche una terra buona. Non ha solo una connotazione estetica ma anche una connotazione etica. Una terra dove bellezza fa rima con giustizia. Una terra che produce bellezza per tutti. Che non genera violenza ma fa germogliare la pace. Ecco l’ecologia integrale della Bibbia. Quell'ecologia richiamata da Francesco, il vescovo di Roma, nella Laudato si’. In questa prospettiva di una terra che germoglia e fruttifica per tutti c'è un coraggioso documento dal titolo “La terra è di Dio”: una lettera scritta dall'allora abate di San Paolo Fuori le mura e padre conciliare dom Giovanni Franzoni, poi protagonista delle grandi battaglie civili nel nostro Paese. Era il 1973. Uscì in preparazione del Giubileo del 1975 indetto da Paolo VI. Per Franzoni dire la terra di Dio significava dire che la terra è di tutti.
Che i poveri non possono essere espropriati del loro giardino.
Risuonano quelle parole profetiche vedendo come è ridotta “la terra di Dio”; oggi questo racconto biblico trova corpo nelle storie di donne e uomini in cerca di un giardino perduto, violato, un giardino distrutto dalla guerra, inquinato dai rifiuti tossici. Un giardino rubato ai piccoli e divorato dalle multinazionali e dalle mafie. Ci sono perfino popoli che non hanno più nemmeno un giardino per seppellire i morti.
Ma, tornando alla Bibbia, soffermiamoci sul giardino dell'Eden del libro della Genesi. I capitoli 2-3 tra quelli più recenti del Primo Testamento, in cui è proiettata all'indietro nel tempo delle origini la storia di esilio e di ritorno verso la terra promessa che il popolo ha vissuto. Per questo è lo spazio della vita e della libertà, della relazione e dell'alterità, della creatività e dell'incontro. Del dono e della responsabilità. Per questo ha un senso pregnante nella tradizione sacerdotale del testo ci si riferisce al culto ma anche al servizio etico: il compito affidato agli umani è di servire la terra, costruire una società giusta, salvaguardare i diritti umani, salvaguardare il creato, promuovere la giustizia, coltivare la pace (Per la parte riguardante il Primo Testamento mi sono riferito alla riflessione della biblista Grazia Papola.)

Anche nel vangelo c'è un giardino ferito e germogliato. Gesù risorto si presenta come giardiniere, come colui che dice la cura di Dio.
Nella Via crucis del 1999 il poeta Mario Luzi mette queste parole in bocca al Cristo:
“Padre mi sono affezionato alla terra come non avrei creduto
È bella e terribile la terra
Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne e perfino i deserti...".
Un Cristo affezionato alla terra, una terra per cui sente profonda nostalgia, e che non vorrebbe più lasciare. Un Cristo, per dirlo con le parole di Bonhoeffer, “fedele alla terra".
Cristo appare come nuovo Adamo. Questo anche nella narrazione della passione morte e risurrezione.
Il simbolo del giardino torna insistente. È infatti un bosco-giardino l'oliveto del Getsemani, è un giardino quello che Gius d'Arimatea offre per seppellire il corpo di Gesù. Proprio in questo giardino Gesù appare alla Maddalena sotto l'aspetto del giardiniere “hortolanus” è signore del giardino.
La scena dell'incontro tra Gesù e la Maddalena evoca il Cantico dei cantici. Maria di Magdala riconosce il maestro dalla voce. Come l'amata del cantico riconosce il suo diletto che viene balzando sui monti, saltando sulle colline come un cerbiatto. Dopo il caos disgregatore della morte il giardino della risurrezione è l'immagine del cosmo finalmente ritrovato. Riconciliato.
Commuove che sui barconi di Lampedusa, tra i beni di prima necessità e i ricordi più struggenti, siano stati trovati molte Bibbie e molti Corani. Molti di questi migranti non ce l'hanno fatta e i loro libri hanno il valore di una consegna, di un testamento. Con qualche fiore tra le pagine, parole sottolineate, qualche nome scritto al margine della pagina. Storie sacre che continuano in nuovi esodi, nuovi diluvi, nei sogni spesso infranti di giardini attesi e desiderati.
Il giardino diventa lo spazio del desiderio. C'è, dentro questo desiderio, il gusto amaro dell'esilio.
L'esiliato sradicato dalla propria terra pensa la terra-giardino come uno spazio in cui il lutto viene rielaborato, dove dare ordine al proprio universo infranto. L'incanto del giardino non è più innocente, preservato dalla ferita. È un incanto abitato dalla consapevolezza che anche l'albero ferito germoglia, che la primavera viene dopo un rigido inverno e un letargo in cui anche la speranza sembrava tentata a non risvegliarsi.
La poetica del giardino è lo spazio per immaginare luoghi possibili, per progettarli. Nel giardino la differenza è una virtù, non una vergogna. Ma il giardino è uno spazio non solo mitico, immaginario.
È uno spazio reale, storico. Per cui la poetica del giardino non può sussistere senza la politica del giardino che è il passaggio dal mito alla storia. E dentro questo spazio della storia il mito rivela la sua forza generatrice.
Il giardino dell'Eden sta cronologicamente dietro l'esilio ma simbolicamente davanti. Cioè diventa la meta verso cui tendere. È l'utopia sempre da realizzare. In questo senso, prendendo a prestito una riflessione di Agamben, se l'Eden parla delle cose ultime noi facciamo l'esperienza delle cose penultime. Per cui è il cambiamento del penultimo che porta al ripensamento dell'ultimo. La storia è il teatro del penultimo.
In questo senso il giardino perfetto dialoga con il giardino possibile.

Mi piacerebbe ripensare la metafora del giardino come metafora dell'esperienza educativa.
La scuola deve custodire e coltivare. Deve essere uno spazio recintato, cioè salvaguardato, protetto ma non ostile. Non deve essere lo spazio della difesa ma della cura. Il giardino-scuola è dialogo costante tra natura e cultura, con la nostra natura di esseri umani e la possibilità di diventarlo. In questo mi sembra significativo evocare le parole del nostro concittadino veronese, il teologo Romano Guardini sul compito che abbiamo di diventare pienamente umani.
La scuola dovrebbe essere il luogo dell'incanto. Il luogo cioè dove coltivare un'utopia. Però la scuola è una esperienza davvero educativa se accetta di essere “violata” dalla trasgressione di coloro che educa.
L'albero della conoscenza che sta nel mezzo del giardino-scuola non può essere preservato. Deve prevedere la trasgressione. Deve prevedere la cacciata dall'Eden. Deve accompagnare nell'esilio.
Perché la scuola è un originario exit. Un'uscita.
Lo studente deve ritrovare il suo giardino dove la terra dell'incontro sia anche la terra della responsabilità. La poesia della Bibbia. I salmi che il popolo compone nascono quando le cetre sono attaccate agli alberi. La riappropriazione della terra non è la proprietà del latifondo avuta per antichi privilegi o in un sistema autoritario e violento, è la terra appesa a una promessa. Un giardino ri-trovato prevede questo viaggio di perdita di innocenza. I più bei canti i ragazzi li scrivono quando, dopo aver perduto la terra dell'incanto, la ritrovano attraverso la loro ricerca, e perfino attraverso il loro errore.
La dove errore sta anche per errare, viaggiare, cercare, ricominciare.
Il fare poetico che la scuola genera porta frutto, germoglia solo in un fare politico di chi da fruitore del giardino diventa finalmente costruttore o co-costruttore del giardino.
La Bibbia, come sappiamo, sappiamo è matrice di cultura: poesia, letteratura, arte, musica, architettura si sono abbeverate alla fonte ispiratrice della Bibbia. Bastano queste parole di Marc Chagall ne “Il messaggio biblico: "Fin da piccolo sono stato attratto dalla Bibbia. Mi è sembrata e mi sembra ancora, che sia stata la più grande fonte di poesia di tutti i tempi. Fin da allora ne ho cercato il riflesso nella vita e nell'arte.”
C'è un testo che mi è particolarmente caso e che vorrei evocare.
È il testo del gigante egoista di Oscar Wilde. La storia mette al centro della scena il giardino. Un giardino che per natura si offre come incanto e nutrimento. Ma nel momento in cui viene snaturato conosce una morte senza metamorfosi un rigidissimo e permanente inverno. I bambini riabitano il giardino attraverso una trasgressione. Un pertugio ricavato nel muro. Ancora una volta la trasgressione fa ripartire la storia. In fondo è un dialogo che mantiene in vita il giardino e i bambini.
I bambini nutrono il giardino e il giardino nutre i bambini.
È un altro modo di raccontare il dialogo tra natura e cultura.

Una scuola che chiude il suo sapere in un recinto diventa una scuola egoista. E siccome la scuola ha un sapere grande può avere anche un potere grande. Ma la scuola che non permette ai bambini di stare sui suoi alberi diventa un gigante egoista. Gli studenti devono poter salire sugli alberi della scuola e la scuola deve loro permetterglielo perché solo così la scuola fiorisce… come in un giardino. Concludo con una poesia che mette in scena alberi e bambini, ricerca e stupore, una poesia di Dylan Thomas:

"Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi
spauriti, pronunciando sillabe sommesse
per timore di svegliare le cornacchie,
per timore di entrare
senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Se fossimo bambini potremmo arrampicarci,
catturare nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto,
e, dopo l’agile ascesa,
cacciare la testa al disopra dei rami
per ammirare stupiti le immancabili stelle.
Dalla confusione, come al solito,
e dallo stupore che l’uomo conosce,
dal caos verrebbe la beatitudine.
Questa, dunque, è leggiadria, dicevamo,
bambini che osservano con stupore le stelle,
è lo scopo e la conclusione.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi".


(FONTE: “La terra produca germogli, erbe e alberi da frutto” (Gen 1, 11a)
La Bibbia e il mondo vegetale - 4 dicembre 2018
c/o Liceo classico linguistico “Scipione Maffei” - Verona)

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domenica 17 aprile 2022

Il simbolismo biblico della luce e la sua valenza vocazionale, di Giuseppe De Virgilio


Il simbolismo biblico della luce e la sua valenza vocazionale

di Giuseppe De Virgilio


Il tema della "luce" rappresenta una categoria centrale della rivelazione biblica. La scelta di collocare in questa prospettiva la realtà della vocazione e la sua dinamica esistenziale consente di poter leggere l'intera esperienza dell'uomo "chiamato da Dio" nel ricco quadro del simbolismo della luce assunto in prima persona da Gesù. Indicheremo quattro aspetti relativi al rapporto tra vocazione e luce, due per l'Antico Testamento e due per il Nuovo Testamento [1]: 1. La "luce" come manifestazione dell'appello di Dio; 2. La "luce" come dono di Dio; 3. Cristo compie la sua missione "luce del mondo"; 4. I credenti, figli della "luce" e discepoli di Cristo [2].

La "luce" come manifestazione dell'appello dí Dio

La prima esperienza che l'uomo fa è quella del passaggio cosmico della notte e del giorno, atto costitutivo della creazione (Gen 1,3). La creazione si spalanca davanti ai nostri occhi richiamando il passaggio dalla notte al giorno come un avvicendarsi e quasi un rincorrersi tra vita e morte, luce e tenebra. Così nella riflessione salmica è presentata l'esperienza della vita e della storia cosmica: "Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia" (Sal 19,3; 148,3: sole e luna). La luce esiste come creatura di Dio ed obbedisce al suo coniando (Bar 3,33). Nell'Oriente antico la luce era considerata un elemento di Dio stesso. Similmente nell'Antico Testamento la manifestazione di Dio nel cosmo e nella storia è accompagnata da teofanie nelle quali prevale l'elemento luminoso, simbolo della presenza misteriosa e della potenza salvifica di Jahwe. Tuttavia la stessa narrazione della creazione mostra come Dio si pone al di sopra del dualismo tra luce e tenebre (Is 45,79: io formo la luce e le tenebre...). Si può quindi affermare che la luce è il riflesso della gloria di Dio, è come la veste di cui egli si copre (Sal 104,2), [3] "... il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: raggi escono dalle sue mani" (Ab 3,4). Lo splendore della gloria divina si rivela come "manifestazione di un progetto". Luce e vocazione sono quindi intimamente uniti dal simbolismo teofanico.
Dio sì rivela ad Abramo, nel contesto della celebrazione dell'alleanza, come "forno ardente e fiaccola fumante", che passa tra gli animali divisi e li consuma, realizzando così il patto con il patriarca (Gen 15,17-21). Nella vita di Mosè le teofanie diventano un vero e proprio incontro "vocazionale" a più tappe: all'esordio della sua missione l'angelo di Dio si presenta a Mosè nell'esperienza del roveto ardente (Es 3,1-6), durante il cammino del deserto la presenza di Jahwe sì manifesta attraverso la colonna dì nube e di fuoco (Es 13,21;14,24; Nm 14,14) [4], al Sinai l'incontro con Dio si svolge nel contesto misterioso di una nube luminosa che spinge Mosè a domandare la "visione della gloria" (Es 33,18). Lo splendore della gloria divina brillerà sul volto del Legislatore a tal punto che Mosè dovrà velarsi per comunicare con il popolo (Es 34,29-30) [5]. Anche nell'esperienza dei profeti la rivelazione divina si compie nel simbolismo della luce e del fuoco (cf la simbologia dei racconti di vocazione in Is 6: la gloria luminosa di Jahwe nel tempio; Ez 2-3: la visione del carro di fuoco). All' interno dell'esperienza profetica spicca la presentazione della figura del messia descritta mediante un simbolismo luminoso e la sua venuta è vista come "giorno di grande luce" per il popolo che camminava nelle tenebre (Is 8,22-9,1). In modo più esplicito nel libro della Sapienza si afferma come la sapienza (hoqmâh) è Dio stesso nella sua gloria, che riflette la luce eterna, superiore ogni altra luce cosmica: "Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la sapienza la malvagità non può prevalere" (Sap 7,29-30). Dio nel suo manifestarsi illumina e coinvolge il cosmo e i singoli personaggi nell'avventura della chiamata. La luce va intesa quindi come aspetto essenziale del simbolismo vocazionale: luce e vocazione appartengono al mistero di Dio che si rivela e si compie nella storia [6].

La "luce" come dono di Dio

Un secondo aspetto presente nell'Antico Testamento riguarda il "dono" della luce per l'umanità. A partire dall'atto creativo e dalla descrizione della settimana cosmica che culmina con il giorno sabbatico (Gn 1,1-2,4) la luce non è solo espressione comunicativa dell'opera della creazione di cui segna la temporalità, ma costituisce uno dei doni vitali degli uomini. Infatti essa caratterizza la vita naturale (Sal 38,11; 56,14) e spirituale del mondo (Sal 37,6; 97,11; 112,4) voluto dall'Onnipotente e l'uomo accogliendo questo dono diviene partecipe della luce divina (Sal 36, 10: "È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce"). Tale dono implica la possibilità per ciascun uomo di riflettere e godere della luce della divinità divenuta familiare, significata soprattutto dalla metafora del volto [7]. Benché Dio non sia un uomo (Nm 23, 19) e nessuna creatura possa dare un'idea della sua gloria (Is 40,18; 46,5), nella sua volontà di comunicarsi si immagina che Egli possa esprimere un suo volto, nelle diverse circostanze benevolo (Sal 4,7; 80,4.8.20) o talvolta adirato (Is 54,8; Sal 30,8; 104,29). Nella rilettura antropologica il volto è lo specchio del cuore e di conseguenza la luce del volto di Jahwe riflette la stessa natura misteriosa e trascendente di Dio. In questo senso la metafora del "desiderio del volto di Dio" rivela la perenne tensione che giace nel cuore umano di relazionarsi con il mistero del Trascendente: "Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto: il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo" (Sal 27,4-5) [8]. Tuttavia vedere il volto luminoso di Dio è un'esperienza mortalmente temibile per l'uomo (Gdc 13,22) a motivo del suo peccato (Is 6,5; Sal 51, 13s.); così quando Mosè chiede sul monte di poter contemplarne la gloria (kabôd), gli viene concesso di vedere la luce gloriosa di Jahwe solo di spalle (Es 33, 18-23). Tale simbologia è applicata all'esperienza vocazionale della sequela: desiderare di vedere il volto di Jahwe significa imparare a seguirlo dovunque egli ci vorrà condurre [9].
Un'ulteriore applicazione della luce intesa come dono di Jahwe è costituito dalla Legge (torâh) considerata "lampada" [10] per i credenti: con il dono della sua legge l'Altissimo rischiara i passi dell'uomo (Prv 6,23; Sal 119,105), lo guida sicuro in mezzo alle tenebre (Gb 29,3), illumina i suoi occhi e lo salva dai pericoli (Sal 13.4: 27,1)[11]. La Legge di Dio, garanzia di alleanza e di libertà, illuminerà tutti i popoli che camminano nelle tenebre (Is 2,5: 6t),3), secondo l'oracolo profetico: "Ascoltatemi attenti, o popoli; nazioni, porgetemi l'orecchio. Poiché da me uscirà la legge. il aio diritto sarà luce dei popoli" (Is 51.4). Il dinamismo simbolico della luce è applicato in modo particolare alla dimensione escatologica e al giudizio finale, che annuncia l'arrivo dell'alba sulla nuova Gerusalemme (Is 60.1 ss.), quando nel giorno meraviglioso splenderà il sole di giustizia (Is 30,26; Mal 3,20) e Dio stesso illuminerà i credenti (Is 60,19s.; Bar 5,9).
Senza dubbio la figura veterotestamentaria più significativa per la sua prospettiva vocazionale collegata al simbolismo della luce è quella del "servo sofferente di Jahwe", il quale riceve il mandato di annunciare il dono della salvezza, della giustizia e della pace messianica a tutti i popoli (Is 42,6; 49,6). La vocazione come "luce della vita" trova una delle più profonde applicazioni nella vicenda dell'anonimo personaggio biblico che dona se stesso per la salvezza del suo popolo, diventando "luce delle nazioni". I quattro carmi del servo sofferente indicano la parabola esistenziale e teologica della vocazione: nel primo carme si presenta il momento della chiamata e del l'elezione-unzione del servo da parte di Dio (Is 42,1-4): nel secondo viene descritta la missione universale del chiamato (Is 49,1-6); nel terzo carine il servo sarà sottoposto al giudizio e alla prova degli uomini, di fronte ai quali dovrà testimoniare la sua fedeltà a Dio (Is 50,4-9); nel quarto carme viene delineato l'esito della sua missione che consiste nel dono totale della vita in riscatto per il suo popolo (Is 52,13-53,12), ma "dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della stia conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità" (Is 53,11). Il simbolismo della luce è qui strettamente congiunto con l'esistenza messianica del servo e con il compimento fedele del progetto di Dio [12]. L'immagine escatologica della luce è infine collegata al giudizio finale secondo il quale gli empi entreranno nelle tenebre eterne, mentre i giusti godranno della piena luce (Sap 3,7, 18,1-4; Dn 12,3). In questa prospettiva il dono escatologico della luce diventa premio eterno per coloro che sono fedeli alla volontà di Dio e partecipano alla realizzazione della salvezza.

Cristo compie la sua missione come "luce del mondo"

Le premesse teologiche e i simbolismi indicati nel percorso dell'Antico Testamento permettono di comprendere il valore simbolico della luce che Gesù applica a se stesso in modo particolare nel quarto vangelo [13]: "lo sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12) [14]. L'affermazione è composta di due frasi: la prima "lo sono la luce del mondo" costituisce l'autopresentazione del Signore che richiama la formula del nome di Dio (Es 3,14) e il suo contesto teofanico, evocando la ricchezza simbolica della relazione tra Dio-luce e il mondo (phôs-kosmos) [15]. La seconda parte della rivelazione: "chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" indica. nella doppia forma negativa e positiva, la condizione del credente che si pone alla sequela del Cristo: l'accoglienza della "luce della vita". In questo secondo passaggio si coglie un'ulteriore relazione che definisce lo stato esistenziale della vocazione del cristiano: seguire Gesù significa entrare in relazione con il mistero di luce e di vita. L'evangelista ha già anticipato questi temi nel prologo, dove presenta l'incarnazione del Figlio e la sua venuta nel "mondo" come dono di vita e di luce che splende nelle "tenebre" (Gv 1,4-5) [16].
La combinazione luce-vita applicata alla missione di Cristo e ai discepoli si ritrova ancora nel decorso narrativo giovanneo con un'espressione quasi simile, rivolta ai giudei increduli di Gerusalemme: "Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre" (Gv 12,46). In questo importante testo il rapporto tra Gesù-luce con il mondo viene a coincidere con quello tra la sua missione e l'umanità, dove il discepolo che
decide si seguirlo rappresenta la figura di ogni credente. Nello stesso contesto, in alcuni versetti prima si ritrova l'accenno alla luce con i medesimi termini (camminare /credere /tenebre): "Gesù allora disse loro: ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce" (Gv 12,35-36). Ugualmente le espressioni sulla luce ritornano in Gv 9,5: "Finché sono nel inondo, sono la luce del mondo"; nel dialogo con Nicodemo, per presentare la missione salvi fica del Figlio: giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio" (Gv 3,19-20); nella decisione di recarsi in Giudea nonostante la minaccia di morte che incombeva su Gesù: "Gesù rispose: "Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce" (Gv 11,9-10) [17]. Dall'analisi dei testi giovannei evocati risulta chiaro il messaggio inteso nell'affermazione del Cristo, collocato nell'apertura del dibattito con i farisei a Gerusalemme. Egli si rivela con le stesse prerogative di Dio come Figlio unigenito e pone come unica condizione agli uomini che desiderano partecipare alla sua vita, la necessità di "diventare discepoli", figli della luce. È evidente come la categoria della luce, assunta in tutta la sua ricchezza veterotestamentaria dall'evangelista Giovanni, viene impiegata dal Signore per esprimere il valore fondamentale della vocazione dei credenti [18]. Un ulteriore sviluppo dell'applicazione della categoria della luce è dato dalla manifestazione dello Spirito Santo per indicare l'intervento di Dio nella storia della salvezza [19].
Anche nei vangeli sinottici le immagini associate con la luce vengono riprese dal Signore per significare il valore della sua missione di rivelare i misteri di Dio all'umanità. Così nei racconti delle guarigioni di ciechi (Me 8,22-26: cieco di Betsaida; Mc 10,46-52: cieco di Gerico (e paralleli); Gv 9,1-41: cieco di Gerusalemme) [20] si coglie la ricchezza del simbolismo messianico nella relazione liberazione-schiavitù con il binomio luce-tenebre, applicato alla missione stessa del Cristo [21]: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore" (Le 4,18-19, cf. Is 61,1-2; Lc 7,22, cf. Is 35,5-6) [22]. Inoltre la metafora della lampada che porta la luce a tutta la casa in Le 11,33 è applicata a Gesù, rivelatore del Padre, mentre in Mc 4,21 (Le 8,16) è usata per spiegare le ragioni del metodo parabolico della predicazione del Cristo: dare luce a quanti nella fede si pongono in ascolto della Parola di salvezza. In modo tutto particolare il simbolismo della luce nell'episodio della trasfigurazione trova un'eccezionale applicazione cristologica, che collega attraverso gli aspetti della scena e l'apparizione dei personaggi il mondo simbolico dell'AT con l'evento pasquale della risurrezione, dove la luce e la vita sono elementi costitutivi dell'evento cristiano e del suo messaggio universale di salvezza [23]. Così nella scena pasquale il compimento della missione di Cristo viene descritto in tutta la sua luminosità (Mt 28,3), che riflette la gloria del Dio e la vittoria della vita sulla morte tenebrosa. In questa prospettiva la riflessione ecclesiale designerà il senso dell'evento pasquale: nel volto del Cristo risorto si riflette la gloria del Padre (2 Cor 4,6; Eb 1,3), la cui luce radiosa è apparsa a Paolo sulla strada di Damasco per chiamarlo alla sequela (At 9,2; 22,6; 26,13). In definitiva Gesù risorto apre all'umanità la "dimora di Dio in una luce inaccessibile" (1 Tm 6,16) e conferma con la sua missione nel inondo la rilevazione del mistero di Dio: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato" (1 Gv 1,5-7).

I credenti, figli della "luce" e discepoli di Cristo

Un quarto passaggio è rappresentato dalle conseguenze che il messaggio cristiano provoca nella vita e nelle scelte dei credenti. Appare chiaro che nel simbolismo della luce si colloca la proposta rivolta all'uomo e alla sua coscienza: l'appello a mettere in gioco la propria vita sulla decisione di fronte all'alternativa tra la luce e le tenebre. La luce qualifica il "regno di Dio" rivelato e compiuto in Cristo come regno di giustizia e di bene, mentre le tenebre simboleggiano il male e l'empietà derivanti dal potere satanico (cf. 2 Cor 11,14), così come l'Apostolo si esprime rivolgendosi ai corinzi: "Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l'iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele?" (2Cor 6,14-15). L'espressione paolina pone la scelta cristiana di fronte ad un'antitesi: giustizia/iniquità, luce/ tenebre, Cristo/Beliar, fedele/infedele, indicando quale identità dovrà caratterizzare la prassi del credente in Cristo. È Gesù stesso nel vangelo a definire i credenti come "figli della luce" (Le 16,18) che si distinguono per la loro fedeltà dai "figli delle tenebre" e dalla loro scaltrezza [24]. La comunità cristiana è chiamata a realizzare la "santità" di Dio stesso, il quale ha voluto "strappare" gli uomini dal dominio delle tenebre per renderli partecipi della sua luce meravigliosa (1 Pt 2,9). Paolo esprime mirabilmente il progetto del Padre sui credenti: "ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio amato, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati" (Col 1,12-13). In definitiva la vocazione dei credenti "alla luce" è un atto gratuito di Dio che si riceve fin dal momento del battesimo, in cui gli uomini illuminati da Cristo risorto (Eh 6,4) sperimentano di non essere più nelle tenebre, ma sentono di essere chiamati a vivere come "figli della luce" (Ef 5,8; cf. 1 Ts 5,5). I discepoli di Cristo sono uomini dalla esistenza interiore luminosa, capaci di rigettare le opere delle tenebre e di rivestire le armi della luce (Rm 13,12), consapevoli della preziosità della comunione con Dio in Cristo Gesù, mediante il vincolo della carità. L'appello di Paolo agli efesini rimane un modello di vita per i discepoli del Signore: "Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce" (Ef 5,8-13). Il discernimento tra i figli della luce e quelli delle tenebre non può che passare attraverso il criterio della comunione con Dio e con i fratelli (1 Gv 2,8I 1), da cui si riconosce se si è nelle tenebre o nella luce. I credenti divenuti discepoli del Risorto riflettono la luce divina di cui sono resi depositari e in quanto tali sono chiamato a vivere la stessa missione del Cristo come "luce del mondo" (Mt 5,14).
Per ultimo l'esito della vocazione cristiana segnata dalla virtù della speranza, si compirà nello splendore del regno dei giusti (Mt 13,43), dove nella Gerusalemme celeste, splendente della gloria divina (Ap 21,23). Gli eletti contempleranno il volto di Dio, totalmente illuminati dalla sua intramontabile luce, secondo la profezia dell'Apocalisse: "vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli" (Ap 22,4-5) [25].

Conclusione

L'analisi condotta ha offerto una lettura progressiva del messaggio vocazionale contenuto nel simbolismo della luce. Si ricava una doppia considerazione che si può applicare alla rivelazione biblica della luce: da una parte essa si caratterizza per la sua circolarità, che inizia con l'atto della creazione ed ha il suo epilogo nel compimento escatologico; dall'altra essa trova la sua massima concentrazione nell'applicazione cristologica, con l'autorivelazione di Gesù "luce del mondo". In entrambe le applicazioni il simbolismo della luce appare fortemente connesso con la riflessione vocazionale.
Ciascun credente è chiamato, fin dalla sua nascita, a "venire alla luce" come un progetto da realizzare; nel corso della sua esistenza l'uomo si schiude ad un discernimento che si concretizza in un "vedere la luce"; il fine ultimo della sua esistenza sarà quello di "vivere nella luce". In definitiva a partire dall'atto creativo di Dio, attraverso i personaggi dell'AT, scopriamo in Cristo la rivelazione piena e definitiva della luce, che siamo chiamati ad accogliere nella nostra vita secondo il progetto del padre in vista della speranza che si compirà nella Gerusalemme del cielo.



NOTE

1) Seguiamo l'itinerario proposto da FEUILLET A. - GRELOT P., Luce e tenebre, in LEON-DUFOUR X (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Torino 1976, 617-624. Per l'approfondimento della categoria della "luce" e del suo impiego letterario, cf CONZELMANN H., "phôs", in GLNT, XV, 361492; Saeb, "or", in JENNI E. - WESTERMANN C. (edd.), Dizionario teologico dell'Antico Testamento, I, Torino 1978, 74-79; GIRONI P. , Luce-tenebre, in ROSSANO P.-RAVASI G. - GIRLANDA A. (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 857-863.
2) Cf l'uso del simbolismo della luce associato alla definizione di Dio nel Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1993, 214; 234; 242; 257; 299; 1704; 2684.
3) Per la simbologia evocata dal testo salmico, cf RAVASI G., Il libro dei salmi, III, Bologna 1986,79-129.
4) Cf Gdc 20,38; Ne 9,12.19; CI 3,6; Sap 18,3; Ap 10,1.
5) Cf la rilettura paolina del "volto luminoso di Mosè" in 2 Cor 3,7s.
6) Riportiamo una parte della Benedizione talMudica rivolta a Jahwe, "colui che crea la luce": "Benedetto Tu, Signore Dio nostro, Re del mondo, che formi la luce e crei le tenebre; fai la pace e crei ogni cosa. Tu illumini la terra e coloro che vi abitano. Tu rinnovi ogni giorno, sempre, l'opera della creazione..." (CAVALLETTI S. (ed.), Talmud. ll trattato delle benedizioni (Religioni e miti I l), Torino 1992, 438).
7) Cf GILS F. - GUILLET J., Faccia, in LEON-DUFOUR X., Dizionario di Teologia Biblica,367 -369; LORKER M., Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Cinisello Balsamo (MI) 1994,325-326.
8) Cf anche Am 5,4; Sal 42,3; 105,4.
9) Così commenta il testo di Es 33 Gregorio Nisseno: "Seguire uno significa vederlo di dietro. Così Mosè che ardeva dal desiderio di vedere la faccia di Dio, impara come si vede Dio: seguire Dio dovunque egli conduca, questo stesso è vedere Dio" (cf GILS F. - GUILLET J., Faccia, 369).
10) Al tema della luce si associa il simbolo biblico della lampada, che indica da una parte la presenza e l'assistenza di Jahwe nei riguardi del suo popolo (2 Sam 2,29)e in altri testi la vita umana come atto di fedeltà e dono di Dio (1 Re 11,36; 15,4; 2 Re 8,19: lampada, simbolo della discendenza), cf. BRUNON J.B., Lampada, in LEON-DUFOUR X. (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, 579-580.
11) L'importanza della relazione tra Luce e Torah è richiamata nella letteratura giudaica, in Filone Alessandrino e nella comunità di Qumran, cf. CONZELMANN H., "phôs", in GLNT, XV, 398- 41 5.
12) Per una rilettura della tematica del "giusto sofferente" attraverso alcuni personaggi biblici, cf. PSV 34 (1996), 3-255.
13) Cf LURKER M., Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, 114-115; STEMBERGER G., La simbolica del bene e del male, Roma 1982; DODD C. H., L'interpretazione del quarto vangelo, Brescia 1974, 425-451.
14) Circa l'impiego dell'espressione "Io sono" (egô einii) nel quarto vangelo occorre evidenziare un doppio uso della formula: in modo assoluto Gv 8,2428.58; 13,19) e accompagnata da un predicato in forma nominale. Nell'uso nominale dell'espressione si individuano sette designazioni che definiscono simbolicamente l'identità del Cristo giovanneo: 1 Io sono il pane della vita (Gv 6,35.41.48.51); 2. Io sono la luce del mondo Gv 8.12; 9,5); 3. Io sono la porta delle pecore (Gv 10,7.9); 4. Io sono il buon Pastore (Gv 10,11.14): 5, Io sono la risurrezione e la vita (Gv 11,25); 6. Io sono la via, la verità e la vita (Gv 16.4); 7. Io sono la risurrezione e la vita (Gv 15,1.5), cf. BROWN R.E., Giovanni, 1482-1489.
15) Cf BROWN R.E., Giovanni, Assisi 1986, 4-40-449, ZEVINI G., Vangelo secondo Giovanni, I, Roma '989, 265-270; FABRIS R., Giovanni, Roma 1992, 507-510.
16) Cf DE LA POTTERIE I. Studi di cristologia giovannea, Genova 21986, 31-57.
17) In corrispondenza del tema della luce occorre accennare al ruolo simbolico della "notte" (cf Gv 3.2: 9,4; 11,10, 13,30: 19.39), che trova nella letteratura biblica un'ampia attestazione di significati, cf. FEUILLET R. — LEON-DUFOUR X.. Notte, in LEON-DUFOUR X. (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, 769-773,
18) Cf PANIMOLLE S.A., Lettura pastorale del vangelo, Bologna 1980, 350-370.
19) "La nube e la luce. Questi due simboli sono inseparabili nelle manifestazioni dello Spirito Santo. Fin dalle teofanie dell'Antico Testamento, la Nube, ora oscura, ora luminosa, rivela il Dio vivente e salvatore, velando la trascendenza della sua Gloria: con Mosè sul monte Sinai, [cf Es 24,15-18) presso la Tenda del Convegno [cf Es 33.9-10] e durante il cammino nel deserto; [cf Es 40,36-38; 69-71, 1 Cor 10,1-2] con Salomone al momento della dedicazione del Tempio [cf 1 Re 8,10-12]. Ora, queste figure sono portate a compimento da Cristo nello Spirito Santo. È questi che scende sulla Vergine Maria e su di lei stende la "sua ombra". affinché ella concepisca e dia alla luce Gesù [cf Lc 1,35]. Sulla montagna della Trasfigurazione è lui che viene nella nube che avvolge Gesù, Mosè e Elia, Pietro, Giacomo e Giovanni, e "dalla nube" esce una voce che dice: "Questi è il mio Figlio. l'eletto; ascoltatelo" (Lc 9,34-35). Infine, è la stessa Nube che sottrae Gesù allo sguardo dei discepoli il giorno dell'Ascensione (Cf At 1,93) e che lo rivelerà Figlio dell'uomo nella sua gloriai) giorno della sua venuta" (Catechismo della Chiesa Cattolica, 697).
20) Raccomandiamo la rilettura "vocazionale" di Mc 10,46-52 proposta da DUPONT, Il cieco di Gerico riacquista la vista e segue Gesù. in PSV 2 (1980). 105-123.
21) L'argomento della potenza messianica applicata alle guarigioni dei ciechi è usato in Gv 10.21; 11.37.
22) Cf gli altri passi dell'AT collegati al tema della cecità, Sal 146,8; Is 29,18; 32,3; 35.5; 42.7; Bar 6,36.
22) Nella trasfigurazione sono presenti i segni tipici delle teofanie dell'AT (monte, nube. luce, voce dal cielo, vesti, tenda, ecc.) unitamente all'associazione delle due figure prestigiose di Mosè ed Elia. Rinviamo l'analisi dei particolari a FABRIS R., Matteo, Roma 1982, 366-370; GRASSO S., Il vangelo di Matteo, Roma 1995, 420-425.
23) Cf Catechismo della Chiesa Cattolica. 736; 1216; 1695.
24) Cf GANGEMI A., La Gerusalemme celeste nell'Apocalisse di S. Giovanni, in PSV 28 (1993), 231-266.

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