domenica 26 dicembre 2021

Lettera di Papa Francesco agli sposi (26-12-2021)


Lettera del Santo Padre Francesco agli sposi 
in occasione dell'anno "Famiglia Amoris Laetitia"




Cari sposi e spose di tutto il mondo!

In occasione dell’Anno “Famiglia Amoris laetitia”, mi rivolgo a voi per esprimervi tutto il mio affetto e la mia vicinanza in questo tempo così speciale che stiamo vivendo. Sempre ho tenuto presenti le famiglie nelle mie preghiere, ma ancora di più durante la pandemia, che ha messo tutti a dura prova, specialmente i più vulnerabili. Il momento che stiamo attraversando mi porta ad accostarmi con umiltà, affetto e accoglienza ad ogni persona, ad ogni coppia di sposi e ad ogni famiglia nelle situazioni che ciascuno sta sperimentando.
Il contesto particolare ci invita a vivere le parole con cui il Signore chiama Abramo a uscire dalla sua terra e dalla casa di suo padre verso una terra sconosciuta che Lui stesso gli mostrerà (cfr Gen 12,1). Anche noi abbiamo vissuto più che mai l’incertezza, la solitudine, la perdita di persone care e siamo stati spinti a uscire dalle nostre sicurezze, dai nostri spazi di “controllo”, dai nostri modi di fare le cose, dalle nostre ambizioni, per interessarci non solo al bene della nostra famiglia, ma anche a quello della società, che pure dipende dai nostri comportamenti personali.
La relazione con Dio ci plasma, ci accompagna e ci mette in movimento come persone e, in ultima istanza, ci aiuta a “uscire dalla nostra terra”, in molti casi con un certo timore e persino con la paura dell’ignoto, ma grazie alla nostra fede cristiana sappiamo che non siamo soli perché Dio è in noi, con noi e in mezzo a noi: nella famiglia, nel quartiere, nel luogo di lavoro o di studio, nella città dove abitiamo.
Come Abramo, ciascuno degli sposi esce dalla propria terra fin dal momento in cui, sentendo la chiamata all’amore coniugale, decide di donarsi all’altro senza riserve. Così, già il fidanzamento implica l’uscire dalla propria terra, poiché richiede di percorrere insieme la strada che conduce al matrimonio. Le diverse situazioni della vita – il passare dei giorni, l’arrivo dei figli, il lavoro, le malattie – sono circostanze nelle quali l’impegno assunto vicendevolmente suppone che ciascuno abbandoni le proprie inerzie, le proprie certezze, gli spazi di tranquillità e vada verso la terra che Dio promette: essere due in Cristo, due in uno. Un’unica vita, un “noi” nella comunione d’amore con Gesù, vivo e presente in ogni momento della vostra esistenza. Dio vi accompagna, vi ama incondizionatamente. Non siete soli!
Cari sposi, sappiate che i vostri figli – e specialmente i più giovani – vi osservano con attenzione e cercano in voi la testimonianza di un amore forte e affidabile. «Quanto è importante, per i giovani, vedere con i propri occhi l’amore di Cristo vivo e presente nell’amore degli sposi, che testimoniano con la loro vita concreta che l’amore per sempre è possibile!».[1] I figli sono un dono, sempre, cambiano la storia di ogni famiglia. Sono assetati di amore, di riconoscenza, di stima e di fiducia. La paternità e la maternità vi chiamano a essere generativi per dare ai vostri figli la gioia di scoprirsi figli di Dio, figli di un Padre che fin dal primo istante li ha amati teneramente e li prende per mano ogni giorno. Questa scoperta può dare ai vostri figli la fede e la capacità di confidare in Dio.
Certo, educare i figli non è per niente facile. Ma non dimentichiamo che anche loro ci educano. Il primo ambiente educativo rimane sempre la famiglia, nei piccoli gesti che sono più eloquenti delle parole. Educare è anzitutto accompagnare i processi di crescita, essere presenti in tanti modi, così che i figli possano contare sui genitori in ogni momento. L’educatore è una persona che “genera” in senso spirituale e, soprattutto, che “si mette in gioco” ponendosi in relazione. Come padri e madri è importante relazionarsi con i figli a partire da un’autorità ottenuta giorno per giorno. Essi hanno bisogno di una sicurezza che li aiuti a sperimentare la fiducia in voi, nella bellezza della loro vita, nella certezza di non essere mai soli, accada quel che accada.
D’altra parte, come ho già avuto modo di osservare, la coscienza dell’identità e della missione dei laici nella Chiesa e nella società è cresciuta. Avete la missione di trasformare la società con la vostra presenza nel mondo del lavoro e di fare in modo che si tenga conto dei bisogni delle famiglie.
Anche i coniugi devono prendere l’iniziativa (primerear)[2] all’interno della comunità parrocchiale e diocesana con le loro proposte e la loro creatività, perseguendo la complementarità dei carismi e delle vocazioni come espressione della comunione ecclesiale; in particolare, quella degli «sposi accanto ai pastori, per camminare con altre famiglie, per aiutare chi è più debole, per annunciare che, anche nelle difficoltà, Cristo si rende presente».[3]
Pertanto, vi esorto, cari sposi, a partecipare nella Chiesa, in particolare nella pastorale familiare. Perché «la corresponsabilità nei confronti della missione chiama […] gli sposi e i ministri ordinati, specialmente i vescovi, a cooperare in maniera feconda nella cura e nella custodia delle Chiese domestiche».[4] Ricordatevi che la famiglia è la «cellula fondamentale della società» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 66). Il matrimonio è realmente un progetto di costruzione della «cultura dell’incontro» (Enc. Fratelli tutti, 216). È per questo che alle famiglie spetta la sfida di gettare ponti tra le generazioni per trasmettere i valori che costruiscono l’umanità. C’è bisogno di una nuova creatività per esprimere nelle sfide attuali i valori che ci costituiscono come popolo nelle nostre società e nella Chiesa, Popolo di Dio.
La vocazione al matrimonio è una chiamata a condurre una barca instabile – ma sicura per la realtà del sacramento – in un mare talvolta agitato. Quante volte, come gli apostoli, avreste voglia di dire, o meglio, di gridare: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38). Non dimentichiamo che, mediante il Sacramento del matrimonio, Gesù è presente su questa barca. Egli si preoccupa per voi, rimane con voi in ogni momento, nel dondolio della barca agitata dalle acque. In un altro passo del Vangelo, in mezzo alle difficoltà, i discepoli vedono che Gesù si avvicina nel mezzo della tempesta e lo accolgono sulla barca; così anche voi, quando la tempesta infuria, lasciate salire Gesù sulla barca, perché quando «salì sulla barca con loro […] il vento cessò» (Mc 6,51). È importante che insieme teniate lo sguardo fisso su Gesù. Solo così avrete la pace, supererete i conflitti e troverete soluzioni a molti dei vostri problemi. Non perché questi scompariranno, ma perché potrete vederli in un’altra prospettiva.
Solo abbandonandovi nelle mani del Signore potrete affrontare ciò che sembra impossibile. La via è quella di riconoscere la fragilità e l’impotenza che sperimentate davanti a tante situazioni che vi circondano, ma nello stesso tempo di avere la certezza che in questo modo la forza di Cristo si manifesta nella vostra debolezza (cfr 2 Cor 12,9). È stato proprio in mezzo a una tempesta che gli apostoli sono giunti a riconoscere la regalità e la divinità di Gesù e hanno imparato a confidare in Lui.
Alla luce di questi riferimenti biblici, vorrei cogliere l’occasione per riflettere su alcune difficoltà e opportunità che le famiglie hanno vissuto in questo tempo di pandemia. Per esempio, è aumentato il tempo per stare insieme, e questa è stata un’opportunità unica per coltivare il dialogo in famiglia. Certamente ciò richiede uno speciale esercizio di pazienza; non è facile stare insieme tutta la giornata quando nella stessa casa bisogna lavorare, studiare, svagarsi e riposare. Non lasciatevi vincere dalla stanchezza; la forza dell’amore vi renda capaci di guardare più agli altri – al coniuge, ai figli – che alla propria fatica. Vi ricordo quello che ho scritto in Amoris laetitia (cfr nn. 90-119) riprendendo l’inno paolino alla carità (cfr 1 Cor 13,1-13). Chiedete questo dono con insistenza alla Santa Famiglia; rileggete l’elogio della carità perché sia essa a ispirare le vostre decisioni e le vostre azioni (cfr Rm 8,15; Gal 4,6).
In questo modo, stare insieme non sarà una penitenza bensì un rifugio in mezzo alle tempeste. Che la famiglia sia un luogo di accoglienza e di comprensione. Custodite nel cuore il consiglio che ho dato agli sposi con le tre parole: «permesso, grazie, scusa».[5] E quando sorge un conflitto, «mai finire la giornata senza fare la pace».[6] Non vergognatevi di inginocchiarvi insieme davanti a Gesù nell’Eucaristia per trovare momenti di pace e uno sguardo reciproco fatto di tenerezza e di bontà. O di prendere la mano dell’altro, quando è un po’ arrabbiato, per strappargli un sorriso complice. Magari recitare insieme una breve preghiera, ad alta voce, la sera prima di addormentarsi, con Gesù presente tra voi.
È pur vero che, per alcune coppie, la convivenza a cui si sono visti costretti durante la quarantena è stata particolarmente difficile. I problemi che già esistevano si sono aggravati, generando conflitti che in molti casi sono diventati quasi insopportabili. Tanti hanno persino vissuto la rottura di una relazione in cui si trascinava una crisi che non si è saputo o non si è potuto superare. Anche a queste persone desidero esprimere la mia vicinanza e il mio affetto.
La rottura di una relazione coniugale genera molta sofferenza per il venir meno di tante aspettative; la mancanza di comprensione provoca discussioni e ferite non facili da superare. Nemmeno ai figli è risparmiato il dolore di vedere che i loro genitori non stanno più insieme. Anche in questi casi, non smettete di cercare aiuto affinché i conflitti possano essere in qualche modo superati e non provochino ulteriori sofferenze tra voi e ai vostri figli. Il Signore Gesù, nella sua misericordia infinita, vi ispirerà il modo di andare avanti in mezzo a tante difficoltà e dispiaceri. Non tralasciate di invocarlo e di cercare in Lui un rifugio, una luce per il cammino, e nella comunità una «casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 47).
Non dimenticate che il perdono risana ogni ferita. Perdonarsi a vicenda è il risultato di una decisione interiore che matura nella preghiera, nella relazione con Dio, è un dono che sgorga dalla grazia con cui Cristo riempie la coppia quando lo si lascia agire, quando ci si rivolge a Lui. Cristo “abita” nel vostro matrimonio e aspetta che gli apriate i vostri cuori per potervi sostenere con la potenza del suo amore, come i discepoli nella barca. Il nostro amore umano è debole, ha bisogno della forza dell’amore fedele di Gesù. Con Lui potete davvero costruire la «casa sulla roccia» (Mt 7,24).
A tale proposito, permettetemi di rivolgere una parola ai giovani che si preparano al matrimonio. Se prima della pandemia per i fidanzati era difficile progettare un futuro essendo arduo trovare un lavoro stabile, adesso l’incertezza lavorativa è ancora più grande. Perciò invito i fidanzati a non scoraggiarsi, ad avere il “coraggio creativo” che ebbe san Giuseppe, la cui memoria ho voluto onorare in questo Anno a lui dedicato. Così anche voi, quando si tratta di affrontare il cammino del matrimonio, pur avendo pochi mezzi, confidate sempre nella Provvidenza, perché «sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere» (Lett. ap. Patris corde, 5). Non esitate ad appoggiarvi alle vostre famiglie e alle vostre amicizie, alla comunità ecclesiale, alla parrocchia, per vivere la futura vita coniugale e familiare imparando da coloro che sono già passati per la strada che voi state iniziando a percorrere.
Prima di concludere, desidero inviare un saluto speciale ai nonni e alle nonne che nel periodo di isolamento si sono trovati nell’impossibilità di vedere i nipoti e di stare con loro; alle persone anziane che hanno sofferto in maniera ancora più forte la solitudine. La famiglia non può fare a meno dei nonni, essi sono la memoria vivente dell’umanità, «questa memoria può aiutare a costruire un mondo più umano, più accogliente».[7]
San Giuseppe ispiri in tutte le famiglie il coraggio creativo, tanto necessario in questo cambiamento di epoca che stiamo vivendo, e la Madonna accompagni nella vostra vita coniugale la gestazione della cultura dell’incontro, così urgente per superare le avversità e i contrasti che oscurano il nostro tempo. Le tante sfide non possono rubare la gioia di quanti sanno che stanno camminando con il Signore. Vivete intensamente la vostra vocazione. Non lasciate che la tristezza trasformi i vostri volti. Il vostro coniuge ha bisogno del vostro sorriso. I vostri figli hanno bisogno dei vostri sguardi che li incoraggino. I pastori e le altre famiglie hanno bisogno della vostra presenza e della vostra gioia: la gioia che viene dal Signore!
Vi saluto con affetto esortandovi ad andare avanti nel vivere la missione che Gesù ci ha affidato, perseverando nella preghiera e «nello spezzare il pane» (At 2,42).
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me; io lo faccio tutti i giorni per voi.
Fraternamente,

FRANCESCO

Roma, San Giovanni in Laterano, 26 dicembre 2021, Festa della Santa Famiglia.


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[1] Videomessaggio ai partecipanti al Forum “A che punto siamo con Amoris laetitia?” (9 giugno 2021).
[2] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24.
[3] Videomessaggio ai partecipanti al Forum “A che punto siamo con Amoris laetitia?” (9 giugno 2021).
[4] Ibid.
[5] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013); cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 133.
[6] Catechesi del 13 maggio 2015; cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 104.
[7] Messaggio per la I Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani “Io sono con te tutti i giorni” (31 maggio 2021).


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Fonte: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/12/26/0881/01859.html#ITA

sabato 25 dicembre 2021

Il significato cristiano dell'albero di Natale

 

Il significato cristiano dell'albero di Natale



  L’albero di Natale evoca sia l’albero della vita piantato al centro dell’Eden, sia l’albero della croce perché Cristo è il vero albero della vita che ha liberato l’uomo dal peccato. Secondo gli evangelizzatori dei Paesi nordici, l’albero è cristianamente ornato con mele e ostie sospese ai rami. Il Direttorio avverte che «tra i doni posti sotto l’albero non dovrà mancare il dono per i poveri».
  Scriveva l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel 1978: «Quasi tutte le usanze prenatalizie hanno la loro radice in parole della Sacra Scrittura. Il popolo dei credenti ha, per così dire, tradotto la Scrittura in qualcosa di visibile... Gli alberi adorni del tempo di Natale non sono altro che il tentativo di tradurre in atto queste parole: il Signore è presente, così sapevano e credevano i nostri antenati; perciò gli alberi gli devono andare incontro, inchinarsi davanti a lui, diventare una lode per il loro Signore».
  Il significato cristiano dell’albero di Natale non va fatto derivare dal solstizio d’inverno, ma ha un’origine propria che risale ad una tradizione medievale e al suo significato religioso: le rappresentazioni dei misteri, che, quale preludio alla festività natalizia, nella Santa Notte mettevano in scena, davanti ai portali delle chiese, la storia del peccato originale nel Paradiso. Nella Bibbia non viene indicata la specie dell’albero, e a secondo delle zone esso si identificava con le piante locali. In Germania si trattava del melo e il suo frutto si è imposto come «frutto proibito».
Poiché il 24 dicembre era difficile trovare un melo in fiore, si ricercò un albero diverso, e naturalmente si impose la scelta del sempreverde abete, tanto più che già in precedenza i suoi rami erano serviti da ornamento dei portali durante il periodo natalizio. All’abete si appese la mela (o parecchie mele). Così questo tipo di rappresentazione conferì all’albero di Natale il suo significato cristiano: nella notte del Natale il peccato dell’uomo è stato espiato per mezzo dell’incarnazione di Cristo.


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Fonte: Perché l'albero di Natale ha un significato cristiano (avvenire.it)

La scena della Natività, di Gianfranco Ravasi

 

La scena della Natività

di Gianfranco Ravasi



  Il "Simbolo apostolico" professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il "Credo Niceno Costantinopolitano" che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del "Vangelo di Luca" (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
  Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della "Madonna del Natale" per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della "XIX Ode di Salomone", appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti "antitetici": alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del "Vangelo di Giovanni": «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, "skenoun", contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica "Shekinah" ("s-k-n"), il termine con cui il giudaismo definiva la "Presenza" divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla "Lettera agli Ebrei", una potente e monumentale omelia "neotestamentaria", che applica al Cristo il "Salmo 8", un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
  Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al "Protovangelo di Giacomo" del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto "gnostico" egizio, l’"Interpretazione della gnosi": «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti... Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo "Pseudo-Matteo", redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del "Museo Pio" e in quello di "Stilicone" della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
  Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle "Meditazioni sulla vita di Cristo" ("Città Nuova", Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il "Physiologus", poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai "Sermoni del Natale" di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari ("Stille Nacht"; "Tu scendi dalle stelle"; "Adeste, fideles"...), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
   Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
   La prima coordinata è quella "spaziale", legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della "promessa davidica". È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti "topografici". Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il "katalyma" (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
   Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
   Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne "Basilica Giustinianea", iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
   L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da "seminomadi" pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine "evangelo" per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della "buona novella" ("evangelo") per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
   C’è una seconda coordinata da considerare, quella "temporale". Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso "primo censimento", ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una "prima" operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato... Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» ("Sermone su Nostro Signore", 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un "prima" e in un "dopo" di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…
   "L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato...
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo!".
   Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
  I primi sono "i pastori" ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo... vediamo... conosciamo... andarono senza indugio... trovarono... videro... riferirono... tornarono...». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi "evangelizzatori".
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè "la folla". Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
  Ci sono poi "gli angeli" col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni "spazio-temporali" dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il "Kyrios", il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della "Natività", appartenente alla "Scuola di Novgorod" (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
  Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un "carme" che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua "eudokía", la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il "shalôm" biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
  L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la "Theotókos", la Madre di Dio, come proclamerà il "Concilio di Efeso". Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
    Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto "kontakion", sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo "monologo-dialogo" col Figlio…

"Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio... Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia!".



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Fonte:

giovedì 23 dicembre 2021

La coscienza che Gesù aveva di se stesso e della sua missione, a cura della Commissione Teologica Internazionale



LA COSCIENZA CHE GESÙ AVEVA DI SE STESSO E DELLA SUA MISSIONE

a cura della Commissione Teologica Internazionale





NOTA PRELIMINARE
La sessione plenaria della Commissione Teologica Internazionale (CTI) nel 1985 (2-7 ottobre) ha permesso di redigere la stesura definitiva del documento di ecclesiologia e di procedere al terzo voto statutario. Essa si è dedicata soprattutto allo studio di alcuni aspetti della teologia della "scienza" o delle "scienze" di Gesù Cristo. Questi difficili argomenti teologici erano stati affrontati sin dall’inizio del terzo quinquennio (1980-1985). Lo studio dei problemi ecclesiologici aveva posto in evidenza un aspetto nuovo dell’attuale ricerca teologica e pastorale: come bisogna presentare ai cristiani di oggi la coscienza che Gesù ha avuto di essere il Figlio di Dio e di fondare la Chiesa, la "comunione" che egli riscattava con il suo sangue? [1]. Non si tratta solo di un problema scolastico, poiché a interpellare i teologi e i pastori è ormai il grande pubblico cristiano.
Perciò sin dal 1983 fu posto allo studio un nuovo progetto di ricerca per chiarire due problemi: qual è il contenuto "delle scienze-conoscenze" di Cristo, Dio e Uomo? qual è il loro statuto psicologico e ontologico? O, per dirla con l’antica terminologia tecnica: Quid scitur a Jesu Christo? Quomodo haec cognoscuntur a Verbo Incarnato? Tale compito venne affidato a una sottocommissione, la quale tenne numerose riunioni. La presiedeva il Rev. P. Christophe von Schönborn, OP, Professore a Friburgo (Svizzera), mentre ne erano membri i Rev.mi Proff. Ferenc Gál, Walter Kasper, Carl Peter, Cándido Pozo, S.I., Bernard Sesboüé, S.I., e Jan Walgrave, OP. Alla prima redazione del documento, sottoposto alla discussione nella riunione plenaria dell’ottobre 1985, prestarono pure il loro contributo le Ecc.ze Mons. Jorge Médina-Estévez e José Boaventura Kloppenburg, e il Rev. P. John Thornhill, SM, membri della Commissione Teologica Internazionale [2].
Perché si potesse raggiungere, entro un quinquennio piuttosto movimentato, questo risultato, fu necessario ridurre il progetto iniziale. Così il testo redatto e votato dai membri della Commissione Teologica Internazionale si limita alla prima delle due domande poste, il quid solamente, e rimanda a studi ulteriori il quomodo. Non sono state dunque trattate qui le scienze divina, infusa, umana, mistica e profetica del Verbo Incarnato; la Commissione Teologica Internazionale ha studiato queste tematiche, ma il tempo insufficiente non ha permesso di poter offrire risposte che fossero insieme conformi sia alla dottrina della Chiesa sia alle ricerche che tanti teologi e filosofi hanno condotte al riguardo sin dall’inizio dell’ultimo secolo. D’altro canto, si è ritenuto opportuno, per non dire necessario, riconfermare i dati della Fede, della Rivelazione e della Tradizione su alcuni punti fondamentali: quale coscienza aveva Gesù della propria persona, della propria missione, del regno che concretizzava in una Chiesa che è insieme una comunione di uomini terreni e il "regno dei cieli", il "regno di Dio", il corpo mistico, a cui, in maniera diversa ma reale, tutti i fedeli partecipano, siano essi nella condizione corporea e temporale o nella vita con Dio e nell’eone divino ed eterno.
A questa espressione della loro fede, che è quella della Chiesa, i membri della Commissione Teologica Internazionale hanno inteso dare un carattere sistematico: ciò spiega la suddivisione della dottrina in quattro proposizioni fondamentali; mentre il commento, che necessariamente ne deriva, si pone innanzitutto sul piano della grande tradizione della Chiesa, la quale si esprime nella Sacra Scrittura e nell’insegnamento del Magistero. In un epoca in cui, come dicevamo, alcuni cristiani si domandavano che cosa si deve ancora credere, i membri della Commissione Teologica Internazionale danno la risposta della tradizione cristiana; e ciò senza scapito alcuno per quegli studi più approfonditi già avviati. Ai docenti di teologia, infatti, spetta non solo di spiegare la fede ma anche di esplicitarla. È quanto abbiamo tentato di fare in questa sede.
Roma, 31 maggio 1986
Philippe Delhaye, Prot. Ap.
Segretario Generale della CTI


Introduzione

La Commissione Teologica Internazionale si è già occupata due volte di cristologia [3]. Nella relazione pubblicata nel 1980, alcuni membri parlavano di una sintesi bisognosa di elaborazione da parte dei teologi, perché alla dottrina del Concilio di Calcedonia sulla persona e sulle due nature di Gesù Cristo si aggiungesse una prospettiva soteriologica. Nel medesimo contesto si accennò alla difficilissima questione della coscienza e della scienza di Cristo [4]. In seguito si trattò della preesistenza di Gesù Cristo e dell’aspetto trinitario della sua passione. Senza voler pregiudicare l’avvenire, la Commissione osservò che lo studio sulla coscienza e la scienza umana di Gesù rimane ancora da completare [5].

Come per il passato, la Commissione desidera ancora al presente "mettere meglio in luce il posto che nella salvezza degli uomini hanno occupato l’umanità di Cristo e i diversi 'misteri' della sua vita terrena, come il battesimo, le tentazioni, l’'agonia' del Getsemani" [6]. Di qui la decisione d’intraprendere una nuova ricerca sulla vita conoscitiva e affettiva di colui che conosce il Padre e ha voluto rivelarlo agli altri. La Commissione non intende trattare tutti gli aspetti relativi a tale tema, per quanto molto importanti; lo spirito del tempo, però, esige che si dia una risposta almeno ad alcune delle domande che, su Gesù Cristo, agitano oggi i pensieri e i cuori degli uomini.

Quale persona sensata accetterebbe di riporre la propria speranza in un individuo che fosse privo di animo o d’intelligenza umana? Non si tratta di un problema da lasciare unicamente agli uomini del IV secolo [7], poiché esso conserva ancora tutta la sua attualità, benché in un contesto diverso.

L’applicazione del metodo storico-critico ai Vangeli fa sorgere domande su Gesù Cristo, sulla coscienza che egli aveva della propria divinità, della propria vita e della propria morte salvifica, della propria missione, della propria dottrina e soprattutto del proprio progetto di fondare la Chiesa. Gli esperti che applicano tale metodo hanno dato risposte diverse e talvolta tra loro contrapposte. E non è che col passare del tempo le controversie siano diminuite, se questi argomenti continuano a essere discussi non solo sulle riviste scientifiche, ma anche, almeno di tanto in tanto, sui quotidiani o sui settimanali, in tutta una letteratura popolare, nei moderni mezzi di comunicazione.

Ciò è segno di quanto tali domande siano importanti non solo per pubblici molto vari, ma anche per i cristiani. A questi ultimi, quindi, riesce spesso difficile dare una risposta soddisfacente a chi chiede loro ragione della loro speranza (cf. 1Pt 3, 15). Infatti, chi vorrebbe, o meglio chi potrebbe, avere fiducia in un Salvatore che avrebbe ignorato di essere tale o non avesse voluto esserlo?

Si capisce allora come la Chiesa annetta un’estrema importanza al problema della coscienza e della scienza umane di Gesù, trattandosi, sia per la prima come la seconda, non di argomenti teologici puramente speculativi, bensì del fondamento stesso del messaggio e della missione propri della Chiesa. Essa, infatti, annunciando il regno di Dio, invita gli uomini alla penitenza; evangelizza; propone e fornisce i mezzi necessari alla liberazione, alla riconciliazione e alla salvezza; vuole comunicare a tutti gli uomini la rivelazione di Dio Padre, nel Figlio, mediante lo Spirito. Non teme di presentarsi al mondo intero come investita di questi compiti. Dichiara apertamente di aver ricevuto questa missione e questa dottrina dal suo Signore Gesù. E, a chi si domanda se le cose si presentano proprio così, si premura di rispondere esprimendo la propria fede e la propria certezza. Di qui l’importanza teologica e pastorale oggi delle domande sulla coscienza e sulla scienza umane di Gesù.

Quando si affrontano queste domande teologiche e pastorali così importanti, dalle discussioni attuali emergono due gruppi di argomenti. Occorre innanzitutto accennare al rapporto tra l’esegesi ecclesiastico-dogmatica e l’esegesi storico-critica della Scrittura, perché queste difficili questioni di ermeneutica sono particolarmente acute nel campo della nostra ricerca. Secondo la dottrina del Vaticano II, l’esegesi della Sacra Scrittura "deve ricercare che cosa gli agiografi in realtà hanno inteso significare". Ora, nel ricercare le intenzioni prime delle affermazioni, bisogna tener conto anche "del contenuto e dell’unità di tutta la Scrittura", che dev’essere interpretata "tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede" [8]. Proprio in questo senso globale la Commissione, per trattare l’argomento, intende cominciare, seguendo l’indicazione del Concilio, dai temi biblici. Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere, infatti, "come l’anima di tutta la teologia" [9].

Un altro problema non meno difficile si presenta allorché si studia la viva tradizione della Chiesa; vivendo infatti nella storia, la Chiesa e la sua teologia, per proporre una spiegazione della fede trasmessa una volta per tutte, devono servirsi necessariamente della lingua filosofica del proprio tempo, e in una maniera appropriata e critica. Le controversie sul problema che ci interessa provengono precisamente dalla diversità delle concezioni filosofiche. Nella sua esposizione, la Commissione non intende procedere a priori partendo da una determinata terminologia filosofica, ma da una comune precomprensione secondo la quale, in quanto uomini, noi siamo presenti a noi stessi nel nostro "cuore", in ogni nostro atto. Tuttavia, sappiamo che la coscienza di Gesù partecipa alla singolarità e al carattere misterioso della sua Persona e che, perciò, essa sfugge a una considerazione puramente razionale. Il problema che ci viene proposto, non possiamo trattarlo se non alla luce della fede, secondo la quale Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente (cf. Mt 16, 16).

Quattro proposizioni

Il nostro studio si limiterà quindi ad alcune affermazioni su ciò di cui Gesù aveva coscienza relativamente alla propria persona e alla propria missione. Le quattro proposizioni che seguono si collocano sul piano di ciò che la fede ha sempre creduto riguardo a Cristo. Volutamente non entrano nelle elaborazioni teologiche che cercano di rendere conto di questo dato di fede. Non c’è nessuno accenno, quindi, ai tentativi di formulare teologicamente come tale coscienza abbia potuto articolarsi nell’umanità di Cristo.

I commenti alle quattro proposizioni seguono, a grandi linee, un disegno in tre tappe: si esporrà innanzitutto ciò che la predicazione apostolica dice riguardo a Cristo; si cercherà d’indagare quindi su ciò che i Vangeli sinottici, mediante la convergenza delle diverse loro linee, ci consentono di dire sulla coscienza di Gesù; si esaminerà, infine, la testimonianza del Vangelo di San Giovanni, che dice spesso in una forma più esplicita ciò che i Vangeli sinottici contengono in una maniera più implicita, senza che vi sia tra di loro opposizione.

Prima proposizione

La vita di Gesù testimonia la coscienza della propria relazione filiale al Padre. Il suo comportamento e le sue parole, che sono quelli del "servo" perfetto, implicano un’autorità che supera quella degli antichi profeti e che appartiene a Dio solo. Gesù attingeva tale incomparabile autorità dal suo singolare rapporto con Dio che egli chiama "Padre mio". Egli aveva coscienza di essere il Figlio unico di Dio e, in questo senso, di essere egli stesso Dio.

1.1. La predicazione apostolica postpasquale, che proclama Gesù come Figlio e come Figlio di Dio, non è il risultato di un tardivo sviluppo nella Chiesa primitiva; si trova già nel cuore delle più antiche formulazioni del kérigma, delle confessioni di fede o degli inni (cf. Rm 1, 3 s.; Fil 2, 6 ss.). San Paolo giunge sino a riassumere l’insieme della sua predicazione nell’espressione: "II Vangelo di Dio circa suo Figlio" (Rm 1, 1 .3; cf. Rm 1, 9; 2 Cor 1, 19; Gal 1, 16). Particolarmente significative al riguardo sono pure le "formule della missione": "Dio ha inviato il proprio Figlio" (Gal 4,4; Rm 8, 3). La filiazione divina di Gesù è quindi al centro della predicazione apostolica. Essa può essere compresa come una esplicitazione, alla luce della croce e della risurrezione, della relazione di Gesù col suo "Abba".

1.2. Infatti, la designazione di Dio come "Padre", divenuta puramente e semplicemente la maniera cristiana di designare Dio, risale a Gesù stesso: si tratta di uno dei dati più sicuri della ricerca storica su Gesù. Egli, però non ha solamente chiamato Dio "Padre" o "Padre mio" in genere; rivolgendosi a lui nella preghiera, lo invoca chiamandolo "Abba" (Mc 14, 36; cf. Rm 8, 15; Gal 4, 6), il che è indice di un qualcosa di nuovo. Infatti, la maniera di pregare di Gesù (cf. Mt 11, 25) e quella che egli insegna ai discepoli (cf. Lc 11, 2) suggeriscono la distinzione (che sarà esplicita dopo la Pasqua, cf. Gv 20, 17) tra "Padre mio" e "Padre vostro", e il carattere unico e intrasmissibile della relazione che unisce Gesù a Dio. Prima della manifestazione del suo mistero agli uomini, vi era nella percezione umana della coscienza di Gesù una singolare certezza profondissima, quella del suo rapporto al Padre. L’invocazione di Dio come "Padre" implica di conseguenza la coscienza che Gesù aveva della sua divina autorità e della sua missione. Non è senza ragione che ritroviamo in questo contesto il termine "rivelare" (Mt 11, 27 par.; cf. Mt 16, 17). Consapevole di essere colui che conosce perfettamente Dio, Gesù sa dunque di essere insieme il messaggero della rivelazione definitiva di Dio agli uomini. Egli sa e ha coscienza di essere "il" Figlio (cf. Mc 12, 6; 13, 32).

In forza di tale coscienza, Gesù parla e agisce con un’autorità che appartiene propriamente solo a Dio. E l’atteggiamento degli uomini verso di lui, Gesù, decide della loro salvezza eterna (Lc 12, 8; cf. Mc 8, 38; Mt 10, 32). Sin d’ora, Gesù può chiamare alla sua sequela (Mc 1, 17); per seguirlo, bisogna amarlo più dei propri genitori (Mt 10, 37), anteporlo a qualsiasi bene terreno (Mc 10, 29), essere pronto a perdere la propria vita "per causa mia" (Mc 8, 35). Parla da legislatore sovrano (Mt 5, 22. 28) che si pone al di sopra dei profeti e dei re (Mt 12, 41 s.). Non esiste quindi altro maestro all’infuori di lui (Mt 23, 8); tutto passerà, tranne la sua parola (Mc 13, 31).

1.3. Il Vangelo di San Giovanni afferma in maniera più esplicita da dove Gesù riceva questa inaudita autorità: perché "il Padre è in me e io nel Padre" (10, 38); "Io e il Padre siamo una cosa sola" (10, 30). L’"Io" che qui parla e legifera sovranamente ha la stessa dignità dell’"Io" di Jahvè (cf. Es 3, 14).

Anche da un punto di vista storico, possiamo con fondata ragione affermare che la primitiva proclamazione apostolica di Gesù come Figlio di Dio è basata sulla stessa coscienza che Gesù aveva di essere il Figlio e l’Inviato del Padre.

Seconda proposizione

Gesù conosceva lo scopo della sua missione: annunciare il Regno di Dio e renderlo presente nella sua persona, nei suoi atti e nelle sue parole, affinché il mondo sia riconciliato con Dio e rinnovato. Egli ha liberamente accettato la volontà del Padre: dare la propria vita per la salvezza di tutti gli uomini; si sapeva inviato dal Padre per servire e dare la propria vita "per molti" (Mc 14, 24).

2.1. La predicazione apostolica della filiazione divina di Cristo implica egualmente e inseparabilmente un significato soteriologico. Infatti, l’invio e la venuta di Gesù nella carne (Rm 8, 3), sotto la legge (Gal 4, 4), il suo abbassamento (Fil 2, 7), mirano al nostro innalzamento: renderci giusti (2 Cor 5, 21), ricchi (2 Cor 8, 9) e figli mediante lo Spirito (Rm 8, 15; Gal 4, 5 s.; Eb 2, 10). Una tale partecipazione alla filiazione divina di Gesù, la quale si realizza nella fede e si esprime in particolare nella preghiera dei cristiani al Padre suppone la coscienza che Gesù stesso ha di essere Figlio. Tutta la predicazione apostolica si basa sulla convinzione che Gesù sapeva di essere il Figlio, l’Inviato del Padre; e senza tale coscienza di Gesù, non solo la cristologia, ma anche tutta la soteriologia sarebbe priva di fondamento.

2.2. La coscienza che Gesù possiede della sua singolare relazione filiale col "Padre suo" è il fondamento e il presupposto della sua missione. All’opposto, dalla sua missione possiamo dedurre la sua coscienza. Secondo i Vangeli sinottici Gesù sa di essere inviato per annunciare la Buona Notizia del Regno di Dio (Lc 4, 43; cf. Mt 15, 24); a tale fine egli è "uscito" (Mc 1, 38 greco) e venuto (cf. Mc 2, 17, ecc.).

Attraverso la sua missione per gli uomini, possiamo nello stesso tempo scoprire Colui di cui è l’Inviato (cf. Lc 10, 16). Con gesti e con parole Gesù ha manifestato lo scopo della sua "venuta": chiamare i peccatori (Mc 2, 17), "cercare e salvare ciò che era perduto" (Lc 19, 10), non abolire ma dare compimento alla legge (Mt 5, 17), portare la spada della separazione (Mt 10, 34), portare il fuoco sulla terra (Lc 12, 49). Gesù sa di essere "venuto" non per essere servito, ma per servire "e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10, 45) [10].

2.3. Questa "venuta" non può avere altra origine se non in Dio. Il Vangelo di San Giovanni lo dice chiaramente rendendo esplicito, nella sua cristologia della missione (Sendungschristologie), le testimonianze più implicite dei Sinottici sulla coscienza che Gesù aveva della propria incomparabile missione: sa di essere "venuto" dal Padre (Gv 5, 43), "uscito" da lui (8, 42; 16, 26). La sua missione, ricevuta dal Padre, non gli è imposta dall’esterno; gli è propria al punto di coincidere con tutto il suo essere: essa è tutta la sua vita (6, 57), il suo cibo (4, 34), solo essa ricerca (5, 30), poiché la volontà di colui che lo ha inviato è tutta la sua volontà (6, 38), le sue parole sono le parole del Padre suo (3, 34; 12, 49), le sue opere, le opere del Padre (9, 4), in modo che egli può dire di se stesso: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (14, 9). La coscienza che Gesù ha di se stesso coincide con la coscienza della sua missione. E ciò va molto al di là della coscienza di una missione profetica ricevuta in un momento determinato, fosse anche "sin dal seno materno" (come Geremia, cf. Ger 1, 5; il Battista, cf. Lc 1, 15; Paolo, cf. Gal 1, 15). Questa missione si radica molto più in una "uscita" originaria da Dio ("Perché da Dio io sono uscito"; 8, 42), il che presuppone, come condizione di possibilità che egli sia stato "sin dall’origine" con Dio (1, 1. 18).

2.4. La coscienza che Gesù ha della sua missione implica dunque la coscienza della sua "preesistenza". La missione (temporale), infatti, non è essenzialmente separabile dalla processione (eterna), ne è il "prolungamento" [11]. La coscienza umana della propria missione "traduce" per così dire, nel linguaggio di una vita umana, l’eterna relazione col Padre.

Questa relazione del Figlio incarnato col Padre suppone in primo luogo la mediazione dello Spirito Santo, che quindi dev’essere sempre incluso nella coscienza di Gesù in quanto Figlio. Già la sua pura esistenza umana è il risultato di un’azione dello Spirito; a partire dal battesimo di Gesù, tutta la sua opera — si tratti di azione o di passione tra gli uomini, o di comunione di preghiera col Padre — non si realizza se non nello Spirito e mediante lo Spirito (Lc 4, 18; At 10, 38; cf. Mc 1, 12; Mt 12, 28). Il Figlio sa che nel compimento della volontà del Padre, lo Spirito lo guida e lo sorregge sino alla croce. Qui, conclusasi la sua missione terrena, egli "affida" (paredôken) "il suo spirito" (pneuma) (Gv 19, 30), nel quale alcuni scorgono un’introduzione del dono dello Spirito. Fin dalla sua resurrezione e ascensione, egli diventa come uomo glorificato ciò che egli è stato come Dio da tutta l’eternità: "spirito datore di vita" (1 Cor 15, 45; 2 Cor 3, 17), Signore capace di diffondere sovranamente lo Spirito Santo per innalzarci in lui alla dignità dei figli.

Ma questa relazione del Figlio incarnato col Padre si esprime allo stesso tempo in maniera "kenotica" [12]. Per poter realizzare l’obbedienza perfetta, Gesù rinuncia liberamente (Fil 2, 6-9) a tutto ciò che potrebbe ostacolare tale atteggiamento. Così non vuole, ad esempio, ricorrere alle legioni angeliche che potrebbe ottenere (Mt 26, 53), vuole crescere come un uomo "in sapienza, età e grazia" (Lc 2, 52), imparare a obbedire (Eb 5,8), affrontare le tentazioni (Mt 4, 1-11 par.), soffrire. Tutto ciò non è incompatibile con le affermazioni che Gesù "sa tutto" (Gv 16, 30), che "il Padre gli ha mostrato tutto ciò che fa" (Gv 5, 20; cf. 13, 3; Mt 11, 27), se tali affermazioni si intendono nel senso che Gesù riceve dal Padre tutto ciò che gli permette di compiere la sua opera di rivelazione e di redenzione universale (cf. Gv 3, 11. 32; 8, 38. 40; 15, 15; 17,8).

Terza proposizione

Per realizzare la sua missione salvifica, Gesù ha voluto riunire gli uomini in vista del Regno e convocarli a sé. A tale fine Gesù ha compiuto atti concreti la cui sola interpretazione possibile, se presi nel loro insieme, è la preparazione della Chiesa che verrà costituita definitivamente all’epoca degli avvenimenti della Pasqua e della Pentecoste. È dunque necessario affermare che Gesù ha voluto fondare la Chiesa.

3.1. In base alla testimonianza apostolica, la Chiesa è inseparabile da Cristo. Secondo una formula ricorrente in San Paolo, le Chiese sono "in Cristo" (1 Ts 1, 1; 2, 14; 2 Ts 1, 1; Gal 1, 22), sono le "Chiese di Cristo" (Rm 16, 16). Essere cristiano significa che "Cristo è in voi" (Rm 8, 10; 2 Cor 13, 5), è "vivere in Cristo Gesù" (Rm 8, 2): "Tutti voi siete uno in Gesù Cristo" (Gal 3, 28). Quest’unità si esprime soprattutto mediante l’analogia dell’unità del corpo umano. Lo Spirito Santo costituisce l’unità di questo corpo: corpo di Cristo (1 Cor 12, 27), o "in Cristo" (Rm 12, 5) e anche "Cristo" (1 Cor 12, 12). Il Cristo celeste è il principio di vita e di crescita della Chiesa (Col 2, 19; Ef 4, 11-16), egli è "il capo del corpo" (Col 1, 18; 3, 15, ecc.), la "pienezza" (Ef 1, 22 s.) della Chiesa.

Ora quest’unità infrangibile di Cristo con la sua Chiesa si radica nell’atto supremo della sua vita terrena: il dono della sua vita sulla croce. Poiché l’ha amata, "ha dato se stesso per lei" (Ef 5, 25), poiché voleva "farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa" (Ef 5, 27; cf. Col 1, 22). La Chiesa, corpo di Cristo, trae la sua origine dal corpo consegnato sulla Croce, dal "sangue prezioso" (1 Pt 1, 19) di Cristo che è "il prezzo del nostro riscatto" (cf. 1 Cor 6, 20). Per la predicazione apostolica la Chiesa è proprio lo scopo dell’opera salvifica compiuta da Cristo nella sua vita terrena.

3.2. Quando predica il Regno di Dio, Gesù annuncia semplicemente l’imminente grande cambiamento escatologico, ma convoca innanzitutto gli uomini a entrare nel Regno. Il germe e l’inizio del Regno è "il piccolo gregge" (Lc 12, 32) di coloro che Gesù è venuto a convocare attorno a sé e di cui egli stesso è il pastore (Mt 14, 27 par.; Gv 10, 1-29; cf. Mt 10, 16 par.), egli, che è venuto a radunare e liberare le sue pecore (Mt 15, 24; Lc 15, 4-7). Gesù parla di tale convocazione sotto l’immagine degli invitati al banchetto di nozze (Mc 2, 19 par.), della semina di Dio (Mt 13, 24; 15, 13), della rete del pescatore (Mt 13, 47; Mc 1, 17). I discepoli di Gesù formano la città in cima al monte visibile da lontano (Mt 5, 14), costituiscono la nuova famiglia di cui Dio stesso è il Padre e nella quale tutti sono fratelli (Mt 23, 9); costituiscono la vera famiglia di Gesù (Mc 3, 34 par.). Le parabole di Gesù e le immagini di cui si serve per parlare di quelli che è venuto a convocare comportano una "ecclesiologia implicita".

Non si tratta di affermare che quest’intenzione di Gesù implichi una volontà espressa di fondare e di stabilire tutti gli aspetti istituzionali della Chiesa, quali sono andati sviluppandosi nel corso dei secoli [13]. Invece è necessario affermare che Gesù ha voluto dotare la comunità, che egli è andato raccogliendo attorno a sé, di una struttura che rimarrà sino al pieno compimento del Regno. Occorre qui ricordare la scelta, in primo luogo, dei Dodici e di Pietro come loro capo (Mc 3, 14 ss.). Tale scelta, per di più intenzionale, mira alla definitiva fondazione escatologica del popolo di Dio che sarà aperto a tutti gli uomini (cf. Mt 8, 11 s.). I Dodici (Mc 6, 7) e gli altri discepoli (Lc 10, 1 ss.) partecipano alla missione di Cristo, alla sua potestà, ma anche alla sua sorte (Mt 10, 25; Gv 15, 20). In loro Gesù stesso viene e in Lui è presente Colui che lo ha inviato (Mc 10, 40).

La Chiesa avrà anche la propria preghiera, quella che Gesù le ha dato (Lc 11, 2-4); essa riceve soprattutto il memoriale della Cena, centro della "Nuova Alleanza" (Lc 22, 20) e della nuova comunità riunita nella frazione del pane (Lc 22, 19). A coloro che ha convocato attorno a sé Gesù ha insegnato un "modo di agire" nuovo, diverso da quello degli antichi (cf. Mt 5, 21, ecc.), dei pagani (cf. Mt 5, 47), dei grandi di questo mondo (Lc 22, 25 s.).

Gesù ha voluto fondare la Chiesa? Certo; ma questo Chiesa è il popolo di Dio che egli raduna innanzitutto a partire da Israele, attraverso il quale egli mira alla salvezza di tutti i popoli. Infatti, proprio "verso le pecore perdute della casa di Israele" (Mt 10, 6; 15, 24) Gesù sa di essere inviato innanzitutto e invia i suoi discepoli. Una dell’espressioni più commoventi della coscienza che Gesù aveva della propria dignità e della propria missione è questo lamento (il lamento del Dio d’Israele!): "Gerusalemme, Gerusalemme, ... quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto!" (Lc 13, 34; cf. 19, 41-44). Dio (Jahvè), infatti, nell’AT cerca senza tregua di riunire i figli d’Israele in un popolo, il suo popolo. Proprio quel "Voi non avete voluto" cambiò non già l’intenzione, ma il cammino che seguirà la convocazione di tutti gli uomini attorno a Gesù. Sarà d’ora in poi principalmente "il tempo dei pagani" (Lc 21, 24; cf. Rm 11, 1-6) a segnare l’ecclesia di Cristo.

Cristo aveva coscienza della sua missione salvifica. Essa comportava la fondazione della sua ecclesia, vale a dire la convocazione di tutti gli uomini nella "famiglia di Dio". La storia del cristianesimo si fonda in ultima istanza sull’intenzione e sulla volontà di Gesù di fondare la sua Chiesa.

3.3. Alla luce dello Spirito, il Vangelo di San Giovanni vede tutta la vita di Cristo come illuminata dalla gloria del Risorto. Così la visione della cerchia dei discepoli di Gesù si apre già a tutti quelli che "per la loro parola crederanno in me" (Io 17, 20). Quelli che, durante la sua vita terrena, sono stati con lui, quelli che il Padre gli aveva dato (17, 6), che egli aveva custodito e per i quali "aveva consacrato se stesso" (17, 19) dando la propria vita, costoro rappresentano già tutti i fedeli, tutti quelli che lo avranno amato (1, 12) e che avranno creduto in lui (3, 36). Mediante la fede sono uniti a lui come tralci alla vite senza la quale si seccano (15, 6). Quest’ultima unione tra Gesù e i credenti "Voi in me e io in voi" (14, 20) ha da un lato la propria origine nel disegno del Padre che "dà" i discepoli a Gesù (6, 39. 44. 65), ma si realizza in definitiva mediante il libero dono della sua vita (10, 18) "per i suoi amici" (15, 13). Il mistero pasquale rimane la sorgente della Chiesa (cf. Io 19, 34): "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" 12, 32).

Quarta proposizione

La coscienza, che Cristo ha di essere inviato dal Padre per la salvezza del mondo e per la convocazione di tutti gli uomini nel popolo di Dio, implica, in modo misterioso, l’amore di tutti gli uomini, cosicché possiamo tutti quanti dire: "Il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2, 20).

4.1. Sin dalle sue prime formulazioni, la predicazione apostolica implica la convinzione che "Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture" (1 Cor 15, 3), che "ha dato se stesso per i nostri peccati" (Gal 1, 4), e ciò secondo la volontà di Dio Padre che lo ha "messo a morte per i nostri peccati" (Rm 4, 25; cf. Is 53, 6), "per noi tutti" (Rm 8, 32), "per riscattarci" (Gal 4, 5). Dio, il quale "vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1 Tm 2, 4) non esclude nessuno dal suo disegno di salvezza che Cristo abbraccia con tutto il suo essere. Tutta la vita di Cristo, dal suo "ingresso nel mondo" (Eb 10, 5) sino al dono della sua vita, è un solo e unico dono "per noi". Questo precisamente ha predicato la Chiesa sin dagli inizi (cf. Rm 5, 8; 1 Ts 5, 10; 2 Cor 5, 15; 1 Pt 2, 21; 3, 18, ecc.).

È morto per noi, poiché ci ha amato: "Cristo ci ha amato e ha dato se stesso offrendosi in sacrificio per noi" (Ef 5, 2). Quel "noi" indica tutti gli uomini che egli vuole riunire nella sua Chiesa: "Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5, 25). Ora, quest’amore, la Chiesa non lo ha inteso solo come un atteggiamento generale, ma come un amore talmente concreto che ognuno ne diventa oggetto di personale considerazione. Così la Chiesa vede le cose quando ascolta San Paolo ricordare il rispetto dei "deboli": " Guardati dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto" (Rm 14, 15; cf. 1 Cor 8, 11; 2 Cor 5, 14 s.). Ai cristiani di Corinto lacerati dalle fazioni Paolo stesso pone la domanda: "Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi?" (1 Cor 1, 13). E proprio a questo proposito Paolo (che, d’altro canto, non ha conosciuto Gesù " durante la sua vita terrena ": Eb 5, 7) potrà affermare: "Io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2, 20).

4.2. Le testimonianze apostoliche sopra ricordate in favore della morte subita per amore da Gesù in una maniera personalis-sima "per noi", "per me" e "per i miei fratelli", abbracciano in un unico sguardo l’amore senza limiti del "Figlio di Dio" (Gal 2, 20) preesistente, colui che viene riconosciuto nello stesso tempo come il "Signore" glorificato. Quel "per noi " pieno di amore di Gesù trova dunque il suo fondamento nella preesistenza e permane sin nell’amore del Glorificato che — dopo averci amato (cf. Rm 8, 37) nella sua incarnazione e nella sua morte — ora " intercede per noi" (Rm 8, 34). L’amore "pro-esistente" di Gesù costituisce l’elemento continuo che caratterizza il Figlio in tutte queste tre "tappe" (preesistenza, vita terrena, esistenza glorificata).

Questa continuità del suo amore la troviamo espressa nelle parole di Gesù. Secondo Lc 22, 27, Gesù esprime l’insieme della sua vita terrena e del suo comportamento nell’immagine di "colui che serve a mensa". "Essere il servo di tutti" (Mc 9, 35 par.), questa è la regola fondamentale nella cerchia dei discepoli. L’amore di servizio tocca il suo culmine nella cena d’addio durante la quale Gesù sacrifica se stesso e si dona come colui che deve morire (Lc 22, 19 s. par.). Sulla croce, la sua vita di servizio si tramuta totalmente in una morte di servizio "per molti" (Mc 10, 45; cf. 14, 22-24). Il servizio di Gesù in vita e in morte era pure in fin dei conti un servizio del "Regno di Dio" in parole e in atti, al punto che egli può persino presentare la sua vita e la sua opera nella sua gloria futura come un "servizio a mensa" (Lc 12, 37) e come un’intercessione (Rm 8, 34). Il servizio era il servizio dell’amore, che associa l’amore radicale di Dio e l’amore pieno di abnegazione verso il prossimo (cf. Mc 12, 28-34).

L’amore di cui tutta la vita di Gesù è una testimonianza si rivela innanzitutto come universale, nel senso che non esclude nessuno di coloro che vengono a lui. Quest’amore ricerca "quello che era perduto" (Lc 15, 3-10 e 11-32), i pubblicani e i peccatori (cf. Mc 2, 15; Lc 7, 34. 36-50; Mt 9, 1-8; Lc 15, 1 s.), i ricchi (Lc 19, 1-10) e i poveri (Lc 16, 19-31), gli uomini e le donne (Lc 8, 2-3; 7, 11-17; 13, 10-17), i malati (Mc 1, 29-34, ecc.), gli indemoniati (Mc 1, 21-28, ecc.), gli afflitti (Lc 6, 21) e gli oppressi (Mt 11, 28).

Quest’apertura del cuore di Gesù a tutti vuole intenzionalmente superare i confini della sua generazione, come risulta evidente nell’"universalizzazione" della sua missione e delle sue promesse. Le beatitudini superano i confini dei suoi ascoltatori immediati, contemplano tutti i poveri, tutti gli affamati (cf. Lc 6, 20s.). Gesù si identifica con i piccoli e con i poveri (Mc 10, 13-16): colui che accoglie uno di questi piccoli accoglie Gesù stesso, e in lui accoglie Colui che lo ha inviato (Mc 9, 37). Solo nell’ultimo giudizio si vedrà apertamente fino a che punto quest’identificazione, per ora nascosta, si è potuta spingere (Mt 25, 31-46).

4.3. Questo mistero si trova nel cuore della nostra fede: l’inclusione di tutti gli uomini in quest’amore eterno con cui Dio ha amato il mondo, al punto da dare il proprio Figlio (Gv 3, 16). "Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli [cioè Cristo] ha dato la sua vita per noi" (1 Gv 3, 16). Infatti "il buon pastore offre la vita per le pecore" (Gv 10, 11); le conosce (Gv 10, 14) e le chiama ognuna con il proprio nome (Gv 10, 3).

4.4. Proprio per aver conosciuto quest’amore personale verso ciascuno [14], tanti cristiani si sono impegnati nell’amore verso i più poveri, senza discriminazione, e continuano a testimoniare quest’amore che sa di vedere Gesù in ognuno "di questi miei fratelli più piccoli" (Mt 25, 40). "Si tratta di "ciascun" uomo, perché ognuno è stato incluso nel mistero della Redenzione e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero " [15].




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Note:

[1] La CTI vuole qui esprimere la propria gratitudine alla Pontificia Commissione Biblica per la collaborazione che i due organismi hanno potuto fraternamente realizzare. A tutti è nota la preziosa pubblicazione della Commission Biblique Pontificale, Bible et Christologie, Cerf, Paris 1984, pp. 294; traduzione italiana: Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e Cristologia, Edizioni Paoline, 1987, pp. 298.
[2] In questa nostra epoca di dubbio, non ci si spiega mai abbastanza. Per cui intendiamo precisare come il testo, che ora qui pubblichiamo, abbia subito tre redazioni e altrettante votazioni. La prima fu studiata e votata nella riunione plenaria dell’ottobre 1985; la seconda, emendata, fu preparata dalla sottocommissione e sottoposta a una seconda votazione scritta (novembre 1985). L’ultima, ritoccata in base ai modi e ai suggerimenti presentati venne subito dopo la conclusione del Sinodo (8 dicembre 1985), approvata con votazione scritta, quasi all’unanimità dei membri della Commissione Teologica Internazionale e ricevette il placet del Card. Ratzinger, presidente della Commissione Teologica Internazionale.
[3] Commissione Teologica Internazionale, Alcune questioni riguardanti la cristologia (1979); Id., Teologia, cristologia, antropologia (1981).
[7] In quell’epoca si affrontava la domanda sul sapere se Gesù Cristo avesse avuto un’umanità integrale. Una risposta valida la troviamo in San Gregorio Nazianzeno, secondo il quale era pura follia riporre la propria speranza in qualcuno che fosse privo d’intelligenza umana (cf. Ep. ad Cledonium, in PG 37, 181, C; SC 208, 51).
[8] Dei Verbum, n. 12; cf. anche nn. 9 e 10.
[9] Optatam Totius, n. 16; cf. Dei Verbum, n. 24.
[10] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Questioni scelte riguardanti la cristologia, cit., IV, B-C.
[11] Cf. S. Tommaso, In sententias, I d. 15, q. 4, a. 1 sol. I; q. 43, a. 2, ad. 2.
[12] Cf. Bible et Christologie, cit., 93-95 (n. 2.2.1.3.); cf. anche 45.
[13] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Temi scelti d’ecclesiologia, 1, 4.
[14] Cf. Gaudium et Spes, n. 22, § 3.
[15] Cf. Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor Hominis, n. 13 (in AAS 71 [1979] 283); cf. Gaudium et Spes, n. 22.



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Fonte: https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1985_coscienza-gesu_it.html

martedì 21 dicembre 2021

Le origini del presepe, Vangelo vivo

 

Le origini del presepe, Vangelo vivo


di Maria Milvia Morciano

L’incanto della Madre con il Figlio appena nato colpì immediatamente l’immaginazione degli artisti tanto quanto la necessità spirituale di raffigurare il Mistero dell’incarnazione di Cristo. San Francesco, con la sua invenzione della tradizione del presepe, nel Natale del 1223, ha inaugurato una rappresentazione destinata a moltiplicarsi nell’arte, ma non solo, perché a partire dal XIII secolo prese sempre più piede l’usanza di allestire scenografie popolate da figuranti o da statue e statuine con i personaggi della scena natalizia: Gesù tra Maria e Giuseppe, il bue e l’asinello, i Magi, gli angeli, i pastori e personaggi della vita quotidiana di ciascun tempo.

Le radici francescane del presepio

Nel 1263, Jacopo Torriti eseguiva i mosaici con le storie di Maria e tra queste una Natività, con uno schema iconografico ben noto in ambito bizantino. Maria emerge dall’oscurità della grotta distesa su un fianco, come dopo il parto, mentre posa nella mangiatoia il Bambino avvolto in fasce. Giuseppe sta in disparte e si volge a guardare la scena, contemplandone il mistero. Il bue e l’asinello spuntano dalla capanna. Fanno da contorno angeli e pastori. Nel 1291 Arnolfo di Cambio porta a compimento il primo presepio scultoreo.  La statua di Maria, molto rimaneggiata nel XVI secolo, è seduta al centro in maestà e tiene tra le braccia il piccolo Gesù. Accanto, alla sua destra, vi è san Giuseppe, in piedi e appoggiato a un bastone, assorto e in silenzio, proprio come nei Vangeli che non parla mai. A lato il bue e l’asinello si sporgono sulla mangiatoia. A sinistra i tre Magi. Le due opere furono commissionate dal Papa francescano Niccolò IV, che sulla scia del fraticello di Assisi, contribuì a codificare e ad affermare l’uso del presepio. Si trovano nella Basilica di Santa Maria Maggiore che in antico era denominata Santa Maria ad praesepem e dove nel 435 papa Sisto III aveva fatto costruire una cappella per custodire i frammenti di legno che secondo la tradizione sarebbero appartenuti alla culla di Gesù.


Origini dell’iconografia della Natività


Se il presepe nasce con san Francesco, l’iconografia della Natività affonda le radici in epoche più antiche. Spingendoci ancora più indietro nel tempo, troviamo infatti la Natività del Signore già nel III secolo, nelle catacombe romane di Priscilla, lungo la via Salaria. Si tratta di una pittura che nonostante si sia poco conservata, fa riconoscere la figura di Maria e del Bambino, simile come impianto alla scultura molto più tarda di Arnolfo di Cambio. È difficile non commuoversi di fronte a un’immagine che pur così evanescente, mantiene intatto il gesto tenero e protettivo di Maria verso il Figlio che si stringe al suo seno. Di fronte a lei, una figura maschile indica una stella: si tratta di un profeta, largamente attestato nell’iconografia di età paleocristiana (Nm 24, 17-18; Is 9,5-6).
Sarcofago "dogmatico", Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano
Sarcofago "dogmatico", Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano
Sarcofago "dogmatico" (particolare) Musei Vaticani
Sarcofago "dogmatico" (particolare) Musei Vaticani

Il presepe prende forma

Durante il IV secolo si diffondono le raffigurazioni della Natività sui sarcofagi, alternate a scene del Nuovo e Antico testamento. Continua a essere molto diffusa la processione dei Magi in adorazione del Bambino tenuto in braccio dalla Madre e la figura del profeta che indica la stella. Tra questi uno dei più celebri è il Sarcofago “dogmatico” dei Musei Vaticani e proveniente dalla basilica di San Paolo del 330-340. La figura maschile in piedi dietro la Vergine è stato interpretata come san Giuseppe, ma è più plausibile che si tratti del profeta. Lo schema del presepe che vede al centro la mangiatoia con il Bambino, il bue e l’asinello, comincia ad apparire verso la fine del IV secolo.  In questo periodo gli elementi sono ridotti all’essenziale, mentre con il tempo la scena si farà via via più complessa e affollata di personaggi, ognuno con propri ruolo e simbologia. All’inizio, centro focale della composizione è la mangiatoia. È chiara la derivazione dal Vangelo di Luca che pone su di essa un accento particolare, citata per ben tre volte (Lc  2, 7.12.16), nel testo  latino con il termine praesepium e φάτνƞ (phatne) in quello greco. Ed è proprio la presenza della mangiatoia che ci autorizza a chiamare presepe questo tipo di rappresentazione della nascita di Gesù.

Sarcofago dell'Adorazione dei Magi e Daniele con i leoni, Museo Pio Cristiano
Sarcofago dell'Adorazione dei Magi e Daniele con i leoni, Museo Pio Cristiano

La mangiatoia al centro del mistero dell’Incarnazione

La mangiatoia è il discrimine tra mondo pagano e mondo cristiano. “L'argento e l'oro si addicono al mondo pagano: alla fede cristiana si addice la mangiatoia fatta di fango”, scrive san Girolamo nell’Omelia sulla Natività del Signore, 31-40. “Il Signore, fattosi uomo, cambiò il nostro fieno in grano, poiché egli dice di se stesso: ‘Se il chicco di frumento non cade in terra e muore, rimane solo. Perciò anche, appena nato, è messo nella mangiatoia, perché nutrisse tutti i fedeli, rappresentati dagli animali, col frumento della sua carne’” (San Gregorio Magno, Omelia 1,8) La mangiatoia è il luogo dove l’umanità peccatrice incontra il Redentore. Cristo “pur essendo Dio non ne ha accolto il privilegio, ma ha svuotato se stesso “assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2-8). Così la mangiatoia prefigura il sacrificio eucaristico: “Mentre eravamo abbrutiti nell’anima, ora, avvicinandoci alla mangiatoia, cioè alla sua mensa, non troviamo più il cibo, ma il pane del cielo, che è il corpo di vita (Cirillo di Alessandria, Commento al Vangelo di LucaOmelia I).

Il bue e l’asinello

Accanto alla mangiatoia appaiono sempre il bue e l’asinello, eppure i Vangeli non ne parlano mai. Questi animali sono citati invece nella Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, nei capitoli sulle Storie di Maria e Gesù e nel Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo, fonti dalle quali discende gran parte dell’iconografia neotestamentaria. Lo Pseudo Matteo, in particolare, interpreta i due animali come il compimento di una profezia dell’Antico Testamento: “Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia, con le parole: ‘Il bue riconobbe il suo padrone, e l'asino la mangiatoia del suo signore’. Gli stessi animali, il bue e l'asino, lo avevano in mezzo a loro e lo adoravano di continuo. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Abacuc, con le parole: ‘Ti farai conoscere in mezzo a due animali’ (14,1). Agostino e Ambrogio, come altri Padri, ravvisarono nella presenza dei due animali il significato allegorico della loro presenza nella Natività. Infatti, essi furono considerati come i rappresentanti del popolo ebraico (il bue), oppresso dalla Legge, e dei popoli pagani (l’asino), macchiati dal peccato di idolatria. Popoli che la venuta di Cristo avrebbe liberato.

Sarcofago di Adelfia, Collezione Parco Archeologico di Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro., Museo Archeologico regionale Paolo Orsi
Sarcofago di Adelfia, Collezione Parco Archeologico di Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro., Museo Archeologico regionale Paolo Orsi

Il sarcofago di Adelfia a Siracusa

L’immagine del presepe appare su alcuni sarcofagi a partire dalla metà del IV secolo. Sul timpano laterale del sarcofago cosiddetto di Stilicone, conservato sotto il pulpito della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, di fine IV secolo, appare Gesù avvolto strettamente nelle fasce e disteso su una mangiatoia tra il bue e l’asino. La scena è schematica, ridotta all’essenziale, ma fortissima è la simbologia dell’antitesi tra vita e morte e dell’identità della nascita con il sacrificio di Cristo. Le fasce sembrano quelle di un sudario, la mangiatoia è simile a una tomba. Più articolate sono le figurazioni su alcuni sarcofagi, come quelli di Boville Ernica, del Museo Pio cristiano e del Museo Nazionale Romano (sarcofago di Marco Claudiano del 330-335) ma certamente il più complesso ed eccezionale appare il sarcofago di Adelfia, conservato nel Museo di Siracusa. La cassa, datata tra 340 e 350, è decorata a fregio continuo con le storie di Cristo. Proprio sotto la conchiglia con l’immagine dei defunti, appare la consueta immagine di Maria in Maestà, con il bimbo sul grembo e i tre Magi. Di grande interesse è però il fregio sul coperchio, molto probabilmente più tardo, di epoca teodosiana. Sotto una fragile capanna con il tetto di tegole e coppi, avvolto nelle fasce, dorme il Bambino sdraiato in una greppia fatta di vimini. Il bue e l’asino stanno di lato. Dopo un pastore (Luca, 2, 4-19), riconoscibile dal caratteristico bastone, Maria è seduta ai margini della scena avvolta nel pallio, il mantello; sull’altro lato i Magi con i loro doni seguono la stella che sembra quasi muoversi per posarsi sul tetto. Il fregio del coperchio mostra le storie di Maria, che appare in ogni episodio. Il concilio di Efeso del 431 sembra presagire in questo sarcofago l’importanza assunta dalla Vergine quale protagonista del mistero dell’Incarnazione. Qui Maria appare ancora appartata, ma non sfuggirà che la sua posizione corrisponde a quella occupata dai personaggi seduti ai margini delle scene dei sarcofagi romani di età imperiale. Sono filosofi o divinità che iniziano o chiudono la storia che si dipana sul fregio e che, in qualche modo, la raccontano.

Sarcofago di Adelfia (particolare)
Sarcofago di Adelfia (particolare)



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Fonte: https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-12/papa-francesco-tweet-storia-origini-presepe.html

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