sabato 13 luglio 2019

La raffigurazione dell'angelo Raffaele come angelo nuziale , di Antonio Adinolfi



LA RAFFIGURAZIONE DELL'ANGELO RAFFAELE COME ANGELO NUZIALE
di Antonio Adinolfi

         
 
Sara e Tobia con l'angelo Raffaele ,
olio su tela di Paolo Saetti.
 


Il libro biblico di Tobia è stato fonte di ispirazione per la realizzazione di loro opere per molti artisti europei soprattutto nel Cinquecento, nel Seicento e nel Settecento. Esclusivamente in esso ci viene presentata la figura dell’angelo Raffaele sia come angelo guaritore, sia come angelo protettore dei viaggiatori, sia, infine, come angelo protettore dei matrimoni.

Questo per essere stato il fautore ed il protettore del matrimonio di due bravi giovani, Tobia e Sara, dalle insidie del diavolo Asmodeo, geloso della loro unione.

E’ sulle opere d’arte che ci presentano l’angelo sotto quest’ultima sua prerogativa che abbiamo recentemente voluto effettuare una veloce ricerca stimolata dalla notizia del matrimonio della dott.ssa Raffaella, figlia del vicepresidente della Pro Loco di Minori, in Costa d’Amalfi, dott. Mario de Iuliis. Il 23 di questo mese (n.r. giugno 2011) nella basilica di S. Trofimena del ridente centro della Costa d’Amalfi sposerà infatti il sig. Luigi Bava, militare in carriera presso il 2° reggimento trasmissioni di Bolzano.

Chi sa che per secoli l’angelo Raffaele è stato considerato e raffigurato come Angelo delle nozze in molte opere di importanti firme? Crediamo pochi. Manca una monografia particolare su queste opere che spesso fanno parte di un ciclo che vuol illustrare tutto il libro di Tobia.

Per il Cinquecento è sufficiente citare il fiammingo Marten de Vos che sia in disegni sia in tele ad olio si è ispirato al tema.
 
Nel Seicento lo hanno trattato il francese Eustache de La Seuer, allievo di Simon Vouet, il fiammingo Frans Francken il giovane e gli olandesi Pieter Lastman, il maestro di Rembrandt, Nicolaes Knüpfer e il suo grande discepolo Jan Havicksz. Steen.
 
A metà Settecento i fratelli Guardi eseguono cinque stupende tele per l’antichissima chiesa dell’angelo Raffaele a Venezia in una delle quali l’angelo è la forza degli sposi.

Poco prima il francese Pierre Parrocel per la galleria dell’ Hôtel de Noailles a St. Germain-en-Laye aveva dipinto la storia di Tobia in ben tredici quadri oggi al castello Borelly di Marsiglia in tre dei quali Raffaele è con Tobia e Sara.

Nell’Ottocento ci sembra calare un po’ l’interesse degli artisti per il libro di Tobia come fonte ispiratrice di loro opere ma non si possono tacere due dipinti del tedesco Felix Schadow, figlio del più famoso scultore Johann Gottfried, il primo dei quali, acquistato recentemente dal principe del Liecthestein Hans Adam II, fa parte della sua grande collezione d’arte e due incisioni del “nazareno” Iulius Schnorr von Carolsfeld, tedesco anche lui, che mostrano Raffaele come speciale Angelo Nuziale.

Ai giorni nostri c’è la grande stupenda tela per la Chiesa di S. Maria dell’Orazione di Civitavecchia di Walter Massi, un quadro dell’artista trentino Paolo Saetti (vedasi immagine) e una vetrata della cattedrale del Sacro Cuore a Winona [ Minnesota, U.S.A. ].

Antonio Adinolfi






Fonte :  la Redazione di Artcurel ringrazia l'Autore Prof. Antonio Adinolfi, storico dell'arte ( antonio.adinolfi@istruzione.it ), che ha gentilmente inviato la documentazione per questo articolo.



























La S. Anna di Francesco Longhi , di Antonio Adinolfi



LA S. ANNA  DI FRANCESCO LONGHI
di Antonio Adinolfi
         
 

S. Anna , di Francesco Longhi.
 

La figura della nonna soprattutto materna, nelle società antiche in cui la madre era per lo più casalinga, era quella di una seconda madre. Nonna si dice grand-mother in inglese e grand-mère in francese, termini che valgono entrambi gran madre, madre più grande d’età, madre aggiunta. E tuttavia l’esperienza, i consigli, le direttive di questa madre aggiunta erano cosa molto preziosa, poco considerata dagli storici delle civiltà umane.
 
All’antropologa Kristen Hawkes dell’ Università dell’Utah va il merito di aver valorizzato la figura della nonna come guida delle famiglie e delle comunità dei villaggi e delle piccole città dei tempi remoti. In un saggio pubblicato nel 1998 insieme JF O' Connell, NG Blurton Jones, H. Alvarez, ed EL Charnov intitolato “Grandmothering, menopause, and the evolution of human life histories” tra l’altro scrisse << queste donne, le nonne, erano come delle biblioteche viventi, sagge anziane che potevano ricordare singolari condizioni atmosferiche nonchè ogni genere di piante rare con proprietà tossiche, curative e nutritive. Oltre a saper aiutare le figlie gravide e allattanti ad alimentarsi, proseguendo poi l’opera con i nipotini una volta svezzati, sapevano assistere le partorienti in genere e raccontare storie per istruire i giovani. […]. Sedavano litigi fra i bambini, calmavano l’impazienza degli adolescenti, ascoltavano lamentele coniugali, componevano dispute, diffondevano notizie >>. La Hawkes, vivente ed ancora in attività, giunse a dire che la figura della nonna è uno dei parametri del progresso e dell’evoluzione umana.
 
Nella società ebraica del I sec. prima e dopo Cristo le nonne non dovevano essere diverse da quelle descritte dalla Hawkes.
 
Una tela del pittore secentesco Francesco Longhi (vedi foto) al Museo della Città di Rimini, Museo inaugurato nel 1990, ci sembra aver anticipato le affermazioni della studiosa. In essa si vede una giovane Madonna, scalza, seduta a gambe unite e distese (insolita raffigurazione della Vergine) che si accinge a far la toletta a suo figlio. L’ha coricato proprio sulle sue gambe (insolito lettino iconografico di Gesù Bambino) non senza avergli posto un cuscino sotto il capo. Con la mano sinistra questa Madonna prende graziosamente per il lungo collo un vaso metallico contenente l’acqua con cui deve lavarlo.
 
E’ chiaro che sta eseguendo un consiglio di sua madre Anna che è lì a compiacersi compostamente con se stessa (lo manifestano le sue braccia delicatamente allungate sul suo corpo ed i suoi occhi semichiusi) che le sue indicazioni sono ascoltate.
 
Francesco Longhi è un pittore manierista ravennate morto nel 1618. Figlio del più famoso Luca si formò nella bottega di suo padre con il quale collaborò fino alla di lui morte. Sua sorella Barbara fu anche lei valente pittrice.


Antonio Adinolfi






Fonte :  la Redazione di Artcurel ringrazia l'Autore Prof. Antonio Adinolfi, storico dell'arte ( antonio.adinolfi@istruzione.it ), che ha gentilmente inviato la documentazione per questo articolo.































Cristo nell'arte, di Alessandro Scafi



CRISTO NELL'ARTE
di Alessandro Scafi

 
        

In moltissime opere d'arte Gesù Cristo, colui per il quale, secondo San Paolo, tutto è stato creato e nel quale ogni cosa sussiste, ci appare come un bambino. Il paradosso di un Dio incarnato, e quindi anche di un Dio neonato o ragazzino, è rappresentato in tutte quelle tele, affreschi, mosaici, o sculture, che durante tanti secoli di arte cristiana hanno tentato di descrivere l'infanzia del Figlio di Dio. Se infatti nei Vangeli si dice poco dei primi anni di vita del Redentore, gli artisti hanno sempre cercato di rimediare con la loro immaginazione a questa povertà di dettagli, e il patrimonio di immagini dove Gesù viene ritratto da bambino è vastissimo. Tanti episodi dell'infanzia di Cristo sono stati tradotti in linguaggio visivo: la Natività, l'Adorazione dei pastori, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio e la Circoncisione di Gesù, la Fuga in Egitto, Gesù e i Dottori. Senza parlare delle rappresentazioni con la Sacra Famiglia e la Madonna col Bambino.

Secondo gli scrittori sacri, un gruppo di pecorai e tre sapienti orientali videro Cristo neonato. Generazioni di artisti hanno tentato di concederci con i loro colori lo stesso privilegio, e farci rivedere la scena. Per esempio, la Natività di Piero della Francesca, nella National Gallery di Londra, è l'ultima opera del maestro, per descrivere la prima giornata del Figlio di Dio sulla terra. Il Bambino è in primo piano, nudo su di un drappo di velluto turchino. La Vergine di Nazareth, ora Madre di Dio, ha un gesto di adorazione verso il Figlio. Ci appare come una delicatissima adolescente in preghiera. Dietro a lei, Giuseppe, seduto e pensieroso, e poi due semplici e umili pastori, coscienti però dell'avvento del Cristo, perchè uno di loro sembra indicare la luce divina della cometa. Un coro di Angeli celebra col canto il miracolo dell'Incarnazione, mentre accanto al bue immobile, c'è l'asinello che raglia. Il mistero della Natività è immaginato da Piero in una vecchia capanna, ridotta ad un rudere grigio, fatto di piccole pietre e coronato di erbacce. Il paesaggio sullo sfondo ricorda l'alta valle del Tevere. Figure ed immagini sono distribuite liberamente nello spazio, e quasi bloccate in una eterna immobilità, in questa interpretazione della sacra notte di Betlemme, quando il Divino ha voluto svuotarsi della sua potenza e perfezione infinita, e venirci incontro nella storia, neonato.
Nella Gemäldegalerie di Dresda un altro quadro, dipinto intorno al 1530 dal Correggio, descrive con straordinari effetti di luce l'Adorazione dei pastori. Il buio della notte è rotto dalla luce intensa che emana proprio dal bambino. Sono le prime ore del Figlio di Dio sulla terra. Quella notte il totalmente Altro, l'essere misterioso trascendente e lontano, si è manifestato in forma umana. Ai pastori l'avvenimento fu annunciato da un Angelo. Ai Magi invece lo dissero le stelle. E sono proprio loro - forse sacerdoti caldei, o astrologi della corte persiana o principi arabi, ma nei quadri sicuramente re - a riconoscere il grande mistero: quel bambino era un re che nasceva, Uomo e Dio allo stesso tempo. Un re a cui offrire oro; un Dio, da onorare con incenso, un Uomo, pronto ad affrontare la morte, e quindi da seppellire con la mirra.
I Magi avevano lasciato terre e palazzi solo per l'istante che poi è stato tanto dipinto per secoli: avevano seguito una sottile striscia di luce, riflessa sulla sabbia di deserti lontani, per capire che quel bambino era il re atteso e promesso nei secoli. Anche nel tondo dipinto nel primo Quattrocento da Domenico Veneziano, si stanno avvicinando al piccolo con i loro doni, in silenzio. Il più vecchio è prostrato a terra e sta baciando i suoi piedini, mentre la stella cometa sparisce nell'aurora. Felici della loro scoperta, questi tre signori orientali ancora oggi cavalcano nei colori, nella cappella di Palazzo Medici, a Firenze, tra i turbanti, i cammelli e i leopardi, immaginati da Benozzo Gòzzoli.
Negli Staatliche Museen di Berlino, invece, una tempera su tela di Andrea Mantegna descrive il momento in cui Maria di Nazareth presenta il divino neonato al Tempio di Gerusalemme. La legge di Mosè infatti prescriveva che ogni primogenito fosse consacrato al Signore, e il Vangelo di Luca narra come l'usanza fosse rispettata da Maria e Giuseppe. Mantegna ha dipinto il bambino in fasce e in lacrime. Un vecchio sacerdote lo sta riconsegnando alle dolci premure della Madre. Il pennello dell'artista padovano ha ricostruito anche un altro momento importante nell'infanzia del Figlio di Dio. Agli Uffizi di Firenze si trova una tavola dove Mantegna ha immaginato la circoncisione del Bambino. L'operazione, che per gli Ebrei è segno dell'Alleanza con Dio, sta per essere eseguita da un sacerdote con un coltello. Come in tanti altri quadri con lo stesso soggetto, c'è un assistente con un vassoio in mano. Il piccolo Gesù è in braccio a Maria. Al rito assistono Giuseppe, e altre figure, incorniciate da una solenne ambientazione architettonica. Di fronte al mistero del Dio Onnipotente, Causa prima dell'essere, che viene partorito da una donna e raccolto in fasce, anche Origene, pensatore cristiano dei primi secoli, non nascondeva il suo stupore.
Fra tutti i miracoli e le opere straordinarie compiute dal Figlio di Dio, ve n'è una che trascende l'intelletto umano e che la fragilità dell'intelligenza mortale non riesce a concepire né a comprendere: il modo come, cioè, l'infinita potenza della maestà divina, vale a dire il Verbo del Padre, e la sapienza stessa di Dio, nella quale sono state create tutte le cose visibili ed invisibili, si debba credere racchiusa nei limiti di quell'uomo che apparve in Giudea. La sapienza di Dio, pertanto, entrò nel ventre di una donna, nacque come un fanciullino ed emise i suoi vagiti, al pari degli altri bimbi quando piangono.
Era impossibile, secondo Origene, comprendere un mistero che trascende la nostra intelligenza. Nel IV secolo anche Zenone, vescovo di Verona contemplava l'enigma di un Dio bambino:
Adattandosi in pieno agli uomini, Dio si chiude nel vestito della carne: assume dal tempo una vita umana, colui che dà ai tempi l'eternità. O meraviglia! (...) O immensa novità! Ridottosi fanciullo per amore della sua immagine, Dio vagisce; tollera di essere avvolto in fasce colui che è venuto a sciogliere i debiti di tutto il mondo. Vien deposto nella mangiatoia di una stalla, proclamando così di essere pastore e cibo di tutti i popoli. Si assoggetta alla gamma delle età colui che per la sua eternità non ammette età in sé.
Tanti scrittori sacri in realtà hanno meditato sul fatto straordinario che il Verbo, uscito dal Padre, come Dio perfetto e non suscettibile di alcuno sviluppo e crescita, si sia fatto simile a noi, e quindi bambino, disposto a crescere nel corpo e nell'intelligenza, dai primi passi dell'infanzia, a poco a poco fino alla maturità. Gli artisti contemplavano questo enigma anche più dei teologi. Il Bambino per esempio appare in tantissimi quadri che ricordano la Fuga della Sacra Famiglia in Egitto, dove si vede il piccolo in braccio a Maria, sulla groppa di un asino. Nel Riposo durante la fuga in Egitto, un tema caro all'arte barocca, la Vergine e il Bambino appaiono seduti sotto una palma, con accanto Giuseppe, il fagotto poggiato per terra, e l'asino sullo sfondo, mentre qualche angelo volteggia sulle loro teste oppure offre del cibo. A volte l'albero piega i suoi rami per offrire datteri al Bambino, oppure Maria lava i panni in riva a un fiume, mentre Giuseppe si occupa del piccolo.
Gli artisti cercavano di immaginarsi l'infanzia e l'adolescenza di questo Dio incarnato, che nelle tele con il Ritorno dall'Egitto appare già grandicello. Nei quadri con la Sacra Famiglia, ambientati a Nazaret, Maria cuce, o legge, con il bambino in braccio, mentre il marito da buon carpentiere, fatica al tavolo da lavoro. Oppure la famiglia siede a tavola. I capolavori di Leonardo o Raffaello ci ricordano che un soggetto molto comune era quello della Vergine con Gesù Bambino e San Giovannino. Si narrava infatti che tornando dall'Egitto la Sacra Famiglia soggiornò a casa della cugina di Maria, Elisabetta, il cui bambino, futuro San Giovanni, già mostrava rispetto verso il Cristo.
Ovviamente il classico quadro dove è possibile contemplare il mistero di un Dio che è stato piccolo è quello del tipo "Madonna col Bambino", un'immagine che ancora oggi domina le pareti dei musei europei. C'è una cosa che ricorre nelle raffigurazioni di Gesù Bambino: riferimenti e presagi al suo destino di Redentore. Così in qualche Natività si può notare - tra i doni offerti dai pastori - una pecora con le zampe legate, simbolo dell'Agnello sacrificale. La fronda di palma, albero spesso rappresentato nella Fuga in Egitto, è l'emblema del martirio cristiano. Se Gesù Bambino è dipinto mentre è a tavola con Maria e Giuseppe, pane e calice alludono al sacrificio dell'eucarestia, oppure ci sono indicazioni che la trave che è sul tavolo da lavoro di Giuseppe sarà usata per la Croce. Il tema della circoncisione è di per sé un presagio, visto che allora fu versato per la prima volta il sangue del Redentore. Senza parlare della Presentazione al Tempio, quando toccò al vecchio Simeone di profetizzare il futuro sacrificio.
Anche gli oggetti che il Bambino tiene in mano nei quadri che lo ritraggono con la madre hanno un significato simbolico che rimandano alla sua missione. Se ha in mano una mela, tradizionalmente considerato il frutto della conoscenza, essa allude al suo ruolo di Redentore. L'uva rappresenterebbe il vino eucaristico. Per esempio nella Madonna col Bambino di Masaccio, alla National Gallery di Londra, Gesù Bambino sgrana un grappolo d'uva con una mano, mentre, con l'altra, porta alcuni acini alla bocca. Uva bianca e uva nera insieme alluderebbero al sangue e all'acqua fuoriusciti dal costato del Figlio dell'Uomo crocefisso. Chicchi di grano ci ricordano il pane eucaristico, la ciliegia, il frutto del paradiso, mentre il melograno allude alla Resurrezione. Un agnello evoca il sacrificio di Cristo, come in un'opera di Leonardo. Nella Madonna del Cardellino di Raffaello, agli Uffizi, si vede il piccolo Gesù giocare con un cardellino: secondo la leggenda, un cardellino volò sulla testa di Cristo che saliva sul Calvario, e tolse una spina dalla sua fronte. Fu così che l'uccellino si macchiò di rosso, proprio schizzandosi con una goccia di sangue del Salvatore.
C'è poi un interessante episodio evangelico che molti artisti hanno voluto descrivere. Gesù aveva dodici anni, e con i genitori si recò a Gerusalemme per celebrare la Pasqua. Dopo la festa, Maria e Giuseppe si misero in cammino verso Nazareth, pensando che il ragazzo stesse da qualche parte con la comitiva. Verso sera lo cercarono tra parenti e conoscenti, e, non avendolo trovato, ritornarono a Gerusalemme, dove evidentemente Gesù era rimasto all'insaputa dei suoi. Dopo averlo cercato per tre giorni, lo ritrovarono che ascoltava e interrogava i dottori nel Tempio, stupendo tutti per la sua intelligenza e le sue risposte. Vedendolo, la madre ne restò meravigliata: «"Figlio, perchè ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di te". Egli rispose loro: "Perchè mi cercavate? Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre?"» (Luca, 2,41-51).
Molti artisti hanno descritto questo episodio della vita del Messia. Generalmente la scena si svolge all'interno del Tempio di Salomone. Il dodicenne Gesù si trova al centro di un gruppo di vecchi dalla barba grigia che lo ascoltano estasiati. In qualche quadro il Bambino conta sulle dita i suoi argomenti. Maria e Giuseppe entrano da un lato, oppure Maria tiene una mano sulle spalle di Cristo, nell'attitudine di portarlo via, rimproverandolo. Tra gli altri, il Beato Angelico ha dipinto Gesù ragazzino tra i Dottori, in uno dei riquadri per l'Armadio degli argenti, ora nel museo fiorentino di San Marco. E' un tema importante, perché si tratta della prima circostanza documentata di Gesù come insegnante. Ma è anche il racconto della spensieratezza di un bambino dodicenne che fa stare in pena i suoi genitori. Umano e divino sono qui l'enigma dove si confondono l'autorità del Figlio di Dio e lo sviluppo di un adolescente.


L'arte e il Verbo fatto carne
La rappresentazione di Gesù Bambino, il paradosso di rappresentare Dio come un ragazzino, è segno di come tutta l'arte di rappresentare Gesù germogli sull'antinomia fondamentale del Verbo che si fa carne, di un Dio che è Assolutamente Altro e Presente, che esiste prima del tempo, e che nasce nel tempo, che i cieli non possono contenere, ma poi viene contenuto nel grembo di Maria. Il Signore, il cui volto non si poteva vedere senza morire, e il cui nome gli Ebrei non volevano nemmeno pronunciare, si è fatto di carne nel seno di una donna, e si è mostrato agli uomini. Come sottolineava Teodoro Studita, «l'Inconcepibile viene concepito nel grembo di una Vergine; l'Incommensurabile si fa alto tre cubiti; l'Inqualificabile acquista una qualità; l'Indefinibile si alza, si siede e si corica; e l'Incorporeo entra in un corpo... è dunque Lui stesso descrivibile e indescrittibile insieme».
La Chiesa dei primi secoli giunse alla contemplazione del Mistero dell'Incarnazione soffrendo eresie e organizzando concili, attraverso un lungo travaglio teologico. Le eresie cristologiche dei primi secoli costituiscono in realtà una tentazione perenne per tutti i cristiani: sottolineare l'umanità di Cristo per mettere in ombra la sua divinità oppure sottolinearne la divinità per trascurare la sua umanità. Anche gli artisti, che erano chiamati ad esaltare il divino nell'uomo e l'uomo in Dio, oscillavano nella loro immaginazione tra un Cristo divinizzato, trascendente e pantocratore, ed un uomo storico, Gesù di Nazaret, il profeta crocifisso della Galilea. Così scriveva Germano, patriarca di Costantinopoli:
In memoria perenne della vita nella carne del nostro Signore Gesù Cristo... noi abbiamo ricevuto la tradizione di rappresentarLo nella sua forma umana, cioè nella sua Teofania visibile, ben sapendo che in questo modo esaltiamo l'umiliazione del Verbo di Dio.
Giovanni Damasceno, domandandosi perché nell'Antico Testamento vi fosse la proibizione di dipingere immagini sacre, rispondeva che allora non si conosceva l'Incarnazione: una volta però che l'incorporeo si è fatto uomo, cioè Cristo si è incarnato, Dio può essere dipinto. Dipingere il volto e il corpo di Cristo era allora rappresentare l'oggetto della fede. Ma il paradosso rimaneva, perché il divino conserva sempre la sua trascendenza e il suo mistero. Così si esprimeva il VII Concilio di Nicea, del 787:
Sebbene la Chiesa cattolica rappresenti con la pittura Cristo nella sua forma umana, essa non separa la sua carne dalla divinità che vi si è unita: al contrario, crede che la sua carne è deificata e la confessa una con la divinità.
Questa carne deificata del Verbo investe di energia sacra tutta la materia, saldando divino ed umano, effimero ed eterno. L'arte cristiana celebra proprio la bellezza del cosmo riflessa nella santità di quel corpo che trabocca di energia divina. Un grande interesse assume in questo contesto l'arte delle icone, il cui splendore si è sviluppato in intimo legame con l'arte bizantina, dal IV al XV secolo. Per chi dipinge o per chi contempla un'icona, si rivela il mistero dell'Incarnazione e della trasfigurazione della materia. Il Figlio di Dio è rappresentato nelle icone in un'umanità concreta ma universale, capace di raccogliere in sé tutti gli uomini, proprio perché indissolubilmente legata alla divinità che trascende tutto. Per questo il suo volto non è fissato in un atteggiamento naturalistico, ma è ampliato all'infinito, per rivelare la più intima struttura dell'essere.



Il ritratto di Gesù
Ma com'era fatto veramente Gesù? Il Verbo non si è incarnato nell'epoca tecnologica delle telecamere e dei registratori. Non ha lasciato dietro di sé fotografie o nastri registrati. La Provvidenza ha voluto che il ricordo della sua persona passasse solo attraverso la mediazione degli apostoli e sempre grazie ad un contatto diretto e vivente. Ogni generazione è stata chiamata allora a rinnovare lo stupore di un nuovo incontro. E' questo è avvenuto anche attraverso l'arte. La sfida a cui erano chiamati gli artisti cristiani era effettivamente sublime: disegnare, dipingere, scolpire il volto umano di Dio. Efrem Siro, dottore della Chiesa del IV secolo, sottolineava con entusiasmo l'evento salvifico della visione di Dio in Gesù. Ascoltiamo cosa scrisse nell'Inno per la nascita di Cristo:
Mosè desiderò contemplare la gloria di Dio, ma non gli fu possibile vederla come aveva desiderato. (...) Allora nessun uomo sperava di vedere Dio e restare in vita; oggi tutti coloro che l'hanno visto sono sorti dalla seconda morte alla vita.
L'immagine di Cristo è stata tra quelle che hanno dominato di più la storia dell'arte degli ultimi duemila anni. I cristiani di tantissime generazioni si sono fatti un'idea dell'aspetto fisico di Gesù di Nazareth proprio a partire dalle tante opere artistiche che lo hanno raffigurato. Ma chi volesse ricostruire fedelmente i tratti del suo volto, il colore dei suoi capelli, la statura del suo corpo, per immaginarsi come realmente appariva il Figlio di Dio, si accorge che in realtà non si conoscono ritratti o descrizioni di Cristo che risalgano all'epoca in cui ha vissuto. Nei primi secoli si raccontava di ritratti del Salvatore dipinti mentre lui era in vita. Giovanni Damasceno e Andrea da Creta riferivano di ritratti presenti a Gerusalemme e a Roma, che la leggenda attribuiva a San Luca. Seguendo questa tradizione, molti pittori posteriori, per esempio Roger van der Weyden, hanno immaginato, e dipinto, Luca nel suo studio che ritrae Gesù o la Madonna. Ma ovviamente nessun ritratto di Cristo firmato da Luca ci è mai pervenuto. Dobbiamo forse frenare la nostra curiosità e rinunciare alla possibilità di vedere il Dio-Uomo faccia a faccia, scoprire come era fatto?
Dietro alla curiosità di chi cerca di capire se Dio abbia scelto di essere biondo o bruno, alto o basso, bello o brutto, si può nascondere un certo imbarazzo di fronte al suo essere uomo. Gesù è nello stesso tempo Dio e uomo, figlio dell'Altissimo e di Maria, ma se esploriamo le implicazioni di ciò che affermiamo nel Credo, può insinuarsi un certo disagio: il paradosso dell'Incarnazione riaffiora per mettere alla prova fede e ragione. Gesù era veramente Dio? Aveva dei nei, un naso lungo, corto, aquilino, all'insù? Era grasso o era magro?
Nei Vangeli, considerati una fonte storicamente attendibile della vita di Gesù, non troviamo descrizioni del suo aspetto fisico. Probabilmente gli scrittori sacri volevano soprattutto affermare le verità spirituali su di lui, raccontare le meraviglie dei suoi insegnamenti, invece di compiacere il gusto pagano per le immagini e soffermarsi su particolari di poca importanza, come per esempio il colore dei suoi occhi o la prestanza della sua muscolatura. C'è anche da dire che Gesù e i suoi discepoli - il figlio di un umile carpentiere e dei semplici pescatori - venivano da un ambiente sociale poco abituato a commissionare ritratti o busti commemorativi. Nella cultura ebraica, poi, fare ritratti di profeti o perfino di Dio, era considerato una forma di idolatria. Ma una volta che il Cristianesimo si diffuse tra i Gentili, molto più abituati a rappresentarsi visivamente eroi e divinità, si acuì il bisogno di avere simboli visivi ed immagini del Salvatore. Anche se non erano disponibili informazioni dirette o documenti figurativi sull'aspetto di Cristo, restava il fatto che si trattava di una figura umana, quindi rappresentabile.
I primi artisti cristiani rappresentarono Gesù con simboli o riciclando immagini allegoriche tratte dal patrimonio dell'arte classica. Un'iconografia di Cristo, sviluppatasi tra la Terra Santa, Costantinopoli, Ravenna e Roma, lentamente costituì le basi della futura arte dell'Europa occidentale. Questa tradizione era destinata a consolidarsi e modificarsi di secolo in secolo sotto lo stimolo di tendenze artistiche locali ed epocali, in un'Europa dove continuavano a sorgere basiliche e cattedrali e a splendere miniature. La storia delle rappresentazioni di Cristo si svolge così parallela alla storia dell'arte tout court. Il volto di Gesù cambiava fisionomia od espressione, dai tempi dello stile bizantino, a quelli dell'arte romanica e gotica, mentre con il Rinascimento l'emergere della personalità individuale degli artisti iniziò ad arricchire e complicare la semplicità della dottrina e la sicurezza della tradizione. Comunque, attraverso un lento processo pluri-secolare di elaborazione, si definì un modo di ritrarre il Redentore, e una determinata iconografia degli avvenimenti principali della sua vita. Per esempio, soltanto a partire dal VI secolo Gesù è stato raffigurato con la barba, il segno distintivo dei grandi maestri e leader spirituali.
Nonostante l'infinita varietà di interpretazioni, e la possibilità che variassero mille dettagli, il volto di Gesù fu presto definito: è un volto dai tratti chiari e regolari, generalmente incorniciato da lunghi capelli, che gli scendono sul collo, e dalla barba. I capelli sono generalmente color rame, o castani. Da questi pochi elementi comuni, d'altro canto, veniva partorito ogni volta un Cristo diverso. I bizantini lo rappresentavano nell'oro di una solenne maestà, mentre fissava gli uomini con occhi grandi e severi. Agli autori delle icone non interessava un ritratto realista del Verbo di Dio incarnato, ma semplicemente la contemplazione del Mistero dell'Incarnazione nel suo aspetto essenziale. Il Cristo degli artisti del Rinascimento italiano, che studiavano anatomia e guardavano alle opere degli antichi, ha invece una fisionomia ben precisa, un corpo elegante e plasticamente definito.
Una diversa idea di Bellezza si aveva però in Francia, in Germania, in Spagna, nelle Fiandre, nel resto d'Europa. Il Cristo di Memling o Hugo van der Goes è diverso da quello di Brunelleschi, Botticelli, o Perugino. Gesù è atletico in Rubens, intensamente drammatico in Tintoretto, aggraziato in Zurbaran, agile in Murillo. Rembrandt invece trasformava l'umanità di Gesù in presenza pittorica semplicemente con la magia del suo chiaroscuro. Ogni secolo, ogni generazione, ogni artista ha avuto qualcosa da aggiungere all'aspetto di Gesù. È comunque significativo che tra i ritratti di Gesù, la tradizione bizantina annoveri il cosiddetto Salvatore non dipinto da mano umana, cioè l'immagine impressa da Cristo stesso su un lino, quella che dovrebbe essere la rappresentazione più fedele del suo volto. Come la Sacra Sindone custodita a Torino, essa era soggetta a particolare venerazione, proprio per via dell'idea di un'immagine terrena del Salvatore non disegnata dall'uomo. Del resto la Bibbia descrive un Dio che non si lascia definire o manipolare: è il Dio di Abramo e di Gesù Cristo, una presenza distinta e concreta con cui instaurare un rapporto di dipendenza, e non un idolo da gestire.
Nella Alte Pinakothek di Monaco si trova un ritratto di Cristo molto particolare: è un'opera del 1500 del grande pittore e grafico tedesco Albrecht Dürer. In realtà non è un ritratto di Cristo, ma un autoritratto dell'artista. Dürer sovrapponeva il suo volto a quello del Figlio di Dio: ha i capelli lunghi, la barba ben curata, lo sguardo intenso. L'aspetto ieratico e il gesto solenne, evidenti nella figura rappresentata, sono da sempre attributi di Gesù. Chi abbiamo di fronte allora? Cristo o Dürer? San Paolo esortava il cristiano a rivestirsi dell'immagine del Figlio dell'Uomo, e per il grande incisore di Norimberga imitare Cristo significava imitare il processo creativo di Dio. Ma forse neanche l'esprimersi in un autoritratto è veramente ovvio. L'artista che inseguiva la sua icona nascosta interiore, si identificava con l'immagine del Redentore, un qualcuno che lui sicuramente non era, ma forse un qualcosa che gli era stranamente intimo.



Tornare bambini
Come penetrare dunque il grande mistero dell'Incarnazione? Probabilmente Gesù sorriderebbe, dicendo che non è necessario essere super-intelligenti o pluri-laureati. Come raccontano gli evangelisti, il figlio del falegname di Nazareth indicava i bambini come modello di chi veramente riesce a entrare nei segreti del regno di Dio. I bambini certo sono incompleti e vulnerabili, ma hanno voglia di imparare e di crescere, e sono pronti ad esplorare. Infatti solo un innocente stupore può renderci disponibili ad accettare l'incomprensibile, a vedere la coincidenza degli opposti. E così, anche nell'arte, dopo Gesù Bambino troviamo Gesù e i bambini. Infatti Gesù, vero Uomo e vero Dio, una volta adulto dimostrava grande attenzione verso i bambini, li benediceva e giocava con loro.
Gli conducevano dei bambini perchè li toccasse, ma i discepoli sgridavano quelli che glieli presentavano. Gesù, veduto questo, s'indignò e disse loro: "Lasciate venire a me i bambini e non impediteli, perchè il regno di Dio è di quelli che sono simili a loro. In verità vi dico: chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo, non c'entrerà". Poi li abbracciò e li benedisse imponendo loro le mani. (Marco, 10.13-16)
L'episodio è stato molto rappresentato, soprattutto nell'arte nordeuropea. Il Salvatore è raffigurato mentre poggia la sua mano sul capo di un piccolo bambino, in piedi o inginocchiato accanto a lui. Altri bambini sono raggruppati intorno. Le madri, tenendo i loro pargoli in braccio, guardano la scena. Possono esserci anche i padri. Due o tre apostoli, generalmente Pietro, a volte anche Giacomo e Giovanni, guardano invece con disapprovazione. Ma proprio a loro - e a noi - Gesù, lo stesso che appare Bambino in tante opere d'arte, voleva insegnare qualcosa, come ripeteva papa Leone Magno nei suoi sermoni:
Tutta la saggezza della vita cristiana, carissimi, non consiste nelle molte chiacchiere, non nelle dispute sottili e neppure nella brama di lode e gloria, ma nell'umiltà vera, voluta, che il Signore Gesù Cristo scelse, dal grembo della madre fino al supplizio della croce, preferendola ad ogni prestigio, e che a noi insegnò. Quando infatti i suoi discepoli discutevano fra di loro, come ci dice l'evangelista, chi fosse maggiore nel regno dei cieli, egli chiamò un fanciullo, e lo pose in mezzo ad essi e disse: In verità vi dico, se non vi convertirete e non diverrete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli. Colui dunque che si renderà piccolo come questo fanciullo, sarà il più grande nel regno dei cieli (Mt. 18.1; Mc 9.3ss; Lc. 9.44ss). Cristo ama la fanciullezza, che all'inizio accettò nell'anima e nel corpo. Cristo ama la fanciullezza, maestra d'umiltà, norma d'innocenza, modello di mansuetudine. Cristo ama la fanciullezza, verso la quale orienta il comportamento degli adulti e che fa abbracciare agli uomini nella loro tarda età.
Il Regno dei Cieli, cioè il grande mistero, che comprende il paradosso dell'Incarnazione, è una cosa seria, invano intravista da molti. Ma appartiene solo a chi assomiglia ai bambini.





Fonte :  www.vatican.va
CENNI BIOGRAFICI AUTORE - Alessandro Scafi , storico dell'arte, attualmente ricercatore presso l'Istituto Warburg di Londra e borsista della British Academy, è autore e conduttore di un programma radiofonico sulle rappresentazioni della Trinità nell'arte in onda sulla Radio Vaticana. Le trasmissioni, che, organizzate secondo un ciclo triennale per il programma di approfondimento culturale Orizzonti Cristiani, si propongono di accogliere l'invito del Papa a prepararsi al Giubileo del Duemila con una riflessione sul Mistero Trinitario, raccontano la storia dei motivi e delle tipologie principali nella rappresentazione del Figlio, dello Spirito Santo e del Padre, spaziando dall'arte paleocristiana all'arte contemporanea, ed interrogando gli scritti di teologi, poeti e scrittori).

Fonte foto : www.aciprensa.com/fiestas/Adviento/galeria.htm ; www.maranatha.it ; www.frattamaggiore.org/fratta/massimo_stanzione.htm 




























Omelia di Paolo VI per il V° Centenario della nascita di Michelangelo




OMELIA DI PAOLO VI
per il V° Centenario della nascita di Michelangelo
               

Figli carissimi,
amici Artisti e Cultori dell’arte!

Per la terza volta, durante il nostro Pontificato, Voi siete stati convocati, e quest’oggi per un avvenimento che riteniamo quanto mai ricco di significato. Il primo incontro nella Cappella Sistina volle esprimere la volontà di un dialogo, o meglio la ripresa di una conversazione per il cammino dell’amicizia e di una rinnovata comunione di sentimenti e di pensieri. Nel secondo incontro i protagonisti principali siete stati Voi, Artisti e Cultori dell’arte, con opere di pittura e di scultura destinate alla Collezione d’Arte religiosa contemporanea dei Musei Vaticani, testimonianza di sincera adesione alle nostre attese e alle nostre speranze. Oggi ci ritroviamo insieme nella atmosfera grave e solenne di una celebrazione liturgica che ha lo scopo di dare degna commemorazione al quinto Centenario della nascita di Michelangelo.
Il sacro rito si svolge sotto le volte gigantesche e maestose della Cupola michelangiolesca. Nessun luogo era più adatto, a noi pare, per cogliere il valore e il significato di questa celebrazione. Tutto parla di Michelangelo qui, dove la mole stessa dell’edificio poderoso ed elegante, maestoso e religioso, già mette i nostri spiriti in esaltante contatto, in umile confronto, in riconoscente venerazione con l’incomparabile artista. Qui l’anima percepisce più che mai lo stimolo a salire verso l’alto, per qualcosa che trascende l’uomo stesso e la sua storia, in intimo e beatificante colloquio con Dio, sospinta dal medesimo desiderio di Michelangelo, che anelava ad uscire dall’orribil procella in dolce calma.
È pertanto con grande rispetto che in questa solenne circostanza noi ci avviciniamo a questa gigantesca figura del genio umano; col rispetto cioè che è dovuto a così eccelso rappresentante del mondo dell’arte, in ciò che questa ha di più elevato nella sua potenza espressiva, nella sua capacità di essere tramite di realtà invisibili, nella superiore grandezza della sua missione, come già in tanti altri messaggi della sua vocazione, divinatrice dell’arcana bellezza, ch’è nelle scoperte proporzioni delle cose e delle loro innate misure, e specialmente nelle forme dell’uomo, creato ad immagine stessa di Dio (Cfr. Gen. 1, 27). La funzione di ogni arte - diceva il nostro Predecessore Pio XII di v. m. - sta nell’infrangere il recinto angusto e angoscioso del finito, in cui l’uomo è immerso, finché vive quaggiù, e nell’aprire come una finestra al suo spirito anelante verso l’infinito (PIO XII, Discorso dell’8 aprile 1952).
In questo sta la nota inconfondibile del genio artistico di Michelangelo e l’attualità del suo messaggio. Maestro per ogni generazione di un’arte che, conquisa dei valori umanistici, fino a compiacersi delle forme di pagane espressioni, trae tuttavia la sua più alta e genuina ispirazione dai valori religiosi, Michelangelo non solo con essa intese liberare l’immagine dalla materia, la figura dalla pietra, l’idea dal disegno, ma si sforzò altresì, attraverso ammirabili forme sensibili, di rivelarci gli aspetti più veri della dignità dell’uomo, della sacralità della vita, della bellezza misteriosa e perfino terribile della concezione cristiana.
Volentieri ognuno si sofferma a considerare l’artista tutto assorto nelle sue creazioni, vivo dentro la cerchia delle fattezze umane dei suoi personaggi, emulo degli antichi nello sforzo titanico di ingigantire idealmente l’umana statura, e nel rapimento estatico di eguagliare la perfezione ellenica. Ma ciò che a noi piace maggiormente notare in questo momento è la coerenza e la forza grandiosa di realizzazione di tante opere, nelle quali il tema fondamentale, Dio e l’uomo, stanno continuamente di fronte. Meditando e contemplando il mistero del Dio vivente, creatore, redentore, giudice, Michelangelo definì il destino di ogni umana esistenza attorno all’adorabile figura di Cristo.
A questo punto il nostro pensiero vede sorgere dinanzi a sé le figure incantevoli delle più celebri sculture di Michelangelo, a cominciare da quella incredibile per un giovane non ancora venticinquenne, della Madonna che ora veglia, dolorosa e piissima, alle soglie di questa Basilica. Con questa Pietà, commenta il Papini (G. PAPINI , Vita di Michelangelo, p. 435), non è soltanto il genio giovane di Michelangelo che si afferma con vittorioso splendore agli occhi di tutti, ma nasce la grande scultura cristiana moderna, sintesi miracolosa della perfezione ellenica e della spiritualità medioevale. E poi gli altri colossali simulacri famosi, che definiscono questo massimo scultore, dal giovane atleta ch’è il Davide fiorentino, al Mosè gigante corrucciato di S. Pietro in Vincoli, alla singhiozzante Pietà del Rondanini, e via, via . . . E si arresta lo sguardo alla rivelazione, non nuova, ma qui insuperabile di Michelangelo pittore, alla Sistina, a quel sacrario dell’arte che col suo possente compendio della storia umana ricapitolata in Cristo, esprime nella maniera più sublime la grandezza religiosa dell’arte michelangiolesca. Ci piace immaginare l’artista aggirarsi negli spazi architettonici solenni, che lo videro per lunghi anni, in periodi diversi della sua vita e in momenti successivi dell’attività artistica, sui ponti di lavoro, in compagnia del suo vasto poema pittorico, a cui collaborarono, come per il poema di Dante, cielo e terra. Chi guarda quelle sequenze pittoriche, si chiede che rapporto possa avere con noi quella popolazione di figure vigorose: noi veniamo alcuni secoli dopo, e tanto la società come il mondo cristiano hanno problemi ben diversi da allora. Eppure la Sistina ci dà come il resoconto di una lotta e di una conquista, quasi un mondo in fieri, dove i figli della luce, per il carattere sacramentale che è il loro, coraggiosamente combattono, senza stancarsi, per il trionfo della verità.
Le forme, qui più che mai, sono in funzione diretta delle idee religiose. Possiamo sostare ammirati davanti alla folla della Sistina, evocata dal genio di Michelangelo; ma non si può tralasciare l’ascolto della parola, così bene individuabile nell’atteggiamento dei corpi e nell’espressione del volto: ci sono gli angeli, i profeti, gli Apostoli, i Pontefici, i martiri, i confessori della fede, il mondo delle Sibille. Domina sovrana la presenza di Dio, di un Dio giusto e misericordioso, che all’umanità decaduta offre il soccorso della redenzione per una vita nuova. Il collegamento dell’immenso scenario è la Bibbia, emergente nei suoi valori sacri attraverso le immagini che col loro linguaggio figurativo aggiungono un contributo di poesia e di profezia all’esegesi del testo sacro.
Michelangelo è l’artefice, è il demiurgo, di questa grande predicazione religiosa che a noi, non meno che agli uomini del suo tempo, appare prodigiosa per l’arditezza della sua impostazione iconografica e per la sua potenza espressiva. Non c’è parola umana che possa suscitare tanta emozione, che faccia tanto riflettere e meditare, quanto la rappresentazione che di quelle verità ha dato il Buonarroti. La Cappella Sistina con il suo Giudizio Universale diventa così quasi un libro aperto ai dotti e agli incolti, ai fedeli e ai non credenti, come pure un efficace richiamo al popolo di Dio per continuare a vivere le certezze del Vangelo, per non cadere come fanciulli sbattuti da ogni vento di dottrine per gli inganni degli uomini (Eph. 4, 14-15). La nostra celebrazione liturgica vuol essere una doverosa testimonianza di gratitudine la quale, dopo che a Dio, si rivolge a Michelangelo per l’aiuto che egli stesso ha donato alla nostra preghiera, incoraggiandoci con la sua visione di arte ad elevarci verso il divino, come si eleva al cielo la maestosa Cupola ideata dal suo genio, sotto la quale insieme a tante anime cantiamo il Credo e gli inni della nostra fede.
Ed ora, amici Artisti e Cultori dell’arte qui presenti, in un momento così solenne e suggestivo il nostro pensiero si rivolge particolarmente a voi. L’esempio che ci viene da Michelangelo è una lezione che deve avere anche ai nostri giorni una sua continuità, per la dignità della vostra missione, come pure per la gioia di una nuova primavera dell’arte cristiana, che, sotto l’impulso del Concilio Vaticano II, si annunzia ricca di promesse in seno alla Chiesa. E tanto più urgente ed opportuno ci appare questo richiamo, in quanto falsi principii ispirati ad una concezione della vita senza speranza superiore minacciano di far decadere l’arte dai suoi sublimi compiti. Se l’arte, secondo la scultorea definizione dantesca, è a Dio quasi nipote, essa ha bisogno di avvicinarsi a Dio, di conoscerlo e di amarlo in uno sforzo costante di purificazione e di donazione.
Chi conosce la biografia di Michelangelo ben sa che al vespro della sua lunga vita (egli morì a 89 anni nel 1564), lo spirito inquieto e veggente dell’Artista ebbe un tormentato pensiero, il quale non paralizzò la sua mano sempre armata di scalpello, ma sconvolse il suo giudizio di valore niente meno che su l’arte, la sua arte, quasi fosse vana fatica, ostacolo alla sua salvezza. Ultimo pensiero triste e agitato del Grande, ma pensiero sapiente: egli vide che l’arte, per quanto regale e sublime, non è, nel quadro dell’umana esistenza, fine a se stessa; è e dev’essere una scala che sale; essa conta per quanto è rivolta al supremo vertice della nostra vita, a Dio. Ricordate le sue gravi parole, rese più espressive dalla poesia (forse del 1555)? Né pinger, né scolpir fia più che quieti / l’anima volta all’amor divino / c’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia (G. PAPINI, Vita di Michelangelo, p. 999).
Cioè l’arte, specialmente l’arte, come ogni attività umana, deve essere tesa in uno sforzo di sublimazione, come la musica, come la poesia, come il lavoro, come il pensiero, come la preghiera, deve rivolgersi in alto. Michelangelo perciò vi ricorda di quanto aiuto sia la fede per l’artista, trovando questi in essa il continuo stimolo a superarsi, a meglio esprimersi, a fondere le sue esperienze in quelle magnifiche sintesi, di cui la storia dell’arte, nei suoi momenti più alti, ci ha dato incomparabili modelli. Solo così, come esige l’altissima vostra missione, saprete mettervi a servizio nobile e cosciente dell’uomo, che ha continuamente bisogno di essere aiutato ed istruito a ben pensare, a ben sentire e a ben vivere. Porgendogli la mano fraterna che lo elevi ad amare tutto ciò che vi è di vero, di puro, di giusto, di santo, di amabile (Phil. 4, 8), voi avrete contribuito all’opera della pace, e il Dio della pace sarà con voi (Ibid.).
Con questo nostro paterno augurio ricevete la nostra Apostolica Benedizione.

Domenica , 29 febbraio 1976.






Fonte :  www.vatican.va 




























Tiziano : "amor sacro ed amor profano"




TIZIANO : " amor sacro ed amor profano "
               

   



Amor Sacro ed Amor Profano

Famoso quadro del Tiziano (Vecellio) custodito presso la Galleria Borghese di Roma. É un olio su tela di 118 x 279 cm., dipinto nel 1515-16 per il gran cancelliere di Venezia Niccolò Aurelio. Ai lati di un antico sarcofago ornato di sculture (adibito a fontana), verso il quale si china un amorino, stanno le due figure femminili che forniscono il titolo al dipinto: una è sontuosamente abbigliata, e l’altra nuda, e di classica e rigogliosa bellezza. Sullo sfondo un vasto paesaggio al tramonto. A sinistra si vedono i tetti di un villaggio, raccolto attorno ad un torrione, a destra cacciatori e cani, pastori e greggi, ed un lontano villaggio sulle rive di un lago. Un campanile aguzzo si staglia contro il cielo solcato da nubi, illuminate dai riflessi del sole morente. Il motivo è giorgionesco, ma le figure hanno una loro vita autonoma, mentre il paese svolge un armonioso contrappunto alla scena del primo piano. La sontuosità cromatica del dipinto è ottenuta con il sapiente accostamento e la contrapposizione di pochi colori fondamentali, nella ricchissima gamma dei loro valori tonali.
Simbologia
Conoscendo il titolo del quadro, verrebbe subito da pensare che la figura vestita a sinistra rappresenti l’Amore Sacro, per la sua aria mite e composta, vestita di tutto punto, mentre l’altra figura nuda a destra dovrebbe rappresentare l’Amore Profano. Un giudizio logico e naturale in base alla morale cristiana. Ma non era affatto a tale morale che Tiziano si ispirava ed intendeva illustrare. Una interpretazione corretta può sgorgare solo dall’attento esame delle differenze fra le due figure femminili: nell’abbigliamento, nei colori, nello sfondo, nella posizione, nel gesto ed nel contrasto tra scrigno e bacile. Occorre innanzitutto tenere presente che nell’antichità la nudità era considerata simbolo di purezza, di genuinità, di virtù, di candore, e soprattutto di assenza di finzioni (pura verità e nuda verità sono tuttora sinonimi). Quindi l’Amor sacro è raffigurato nudo, mentre l’altro, quello profano, e vestito sontuosamente in quanto sono appunto gli abiti e l’acconciatura i più importanti artifici a cui ricorre l’Amor profano , meno bello del sacro, per aumentare artificiosamente l’attrazione tra i due sessi. Tra l’altro non è vero l’Amore sacro sia nudo, poiché è abbigliato con un mantello rosso che peraltro copre appena il braccio sinistro, a significare che la sua presenza non intende menomare la bellezza del nudo integrale, ma che è solo simbolo : infatti con il suo fluttuare liberamente al vento indica la spiritualità della figura che adorna, e con il suo color rosso evidenzia la natura ardente e superiore della figura stessa. Inoltre un velo copre il pube della figura nuda, ma essendo leggerissimo, quasi inconsistente, anche la sua presenza (come quella del mantello) non contamina l’integrità del nudo, servendo solo ad evidenziare che il sesso è estraneo alla scena, quindi è velato. L’Amore Sacro sfoggia soltanto un mantello rosso, classico segno dell’amore profano; ma non bisogna dimenticare che i neoplatonici (Marsilio Ficino e Pico della Mirandola in testa) ritenevano l’estasi sacra pari alla voluttà più intensa, ossia la paragonavano all’esasperata voluttà terrestre, e che ermeticamente il rosso è l’ultimo ed il più perfetto dei tre colori ermetici (gli altri due sono il nero ed il bianco), e che esso simboleggia il compimento della Grande Opera alchemica. Essendo il rosso, colore puro come il giallo ed il blu) il solo colore prossimo all’Amore Sacro, esso indica semplicità e purezza, doti evidenziate già dalla nudità. Infine il rosso è anche simbolo di superiorità e di regalità, nonché dell’Arte reale. Perciò il color rosso indica il più elevato grado ermetico, la purezza, la regalità ed anche l’amore ardente di natura superiore, spirituale, la pura e divina voluttà dell’estasi che spazia verso l’alto, nel puro cielo dipinto anch’esso del puro color blu. In contrasto con l’unicità cromatica dell’Amor sacro, spicca la molteplicità dei colori di quello profano, tutti attenuati e mancanti comunque del rosso: un pallido rosa fa capolino tra le maniche del vestito. I colori sono tanti perché pure tanti sono gli amori profani: carnale, materno, fraterno di patria, ecc., e sono attenuati perché nessuno di essi è puro. Ad accentuare ancor più la differenza tra le figure femminili, l’autore ha posto loro sfondi differenti. L’Amor profano ha sfondo oscuro, con una collinetta ed un castello, simboleggianti la non elevatezza e la precarietà (castello) proprie della mondanità. Invece l’Amore Sacro si staglia su un ampio e luminoso orizzonte, ove il cielo predomina (bellezza celestiale), ed una chiesa con campanile svettante verso l’alto, ad indicare che si tratta di nudità Sacra. La posizione delle due donne: quella nuda è alta, slanciata, ed occupa una posizione più eminente, che evidenzia come sia lei il primo piano dell’opera. Inoltre è seduta sull’orlo del sarcofago, ma vi si appoggia lievemente, come se dovesse presto alzarsi, mentre l’altra appare stabilmente seduta, più in basso e più formosa, pesante, evidenziando la sua stabile materialità nei confronti dell’aerea spiritualità della sua compagna nuda. Nella gestualità poi, mentre l’Amore Sacro ha un braccio alzato verso il cielo, l’altro indicante la terra in basso, formando un gesto ieratico richiamante l’Aleph ebraico, e ricordando il detto della Tavola di smeraldo : "ciò che è in basso è simile a ciò che è in alto". Una mano contiene un vaso di fuoco ed un’altra indica una rosa: la prima simboleggia gestualmente l’Amore elevato, celeste, spirituale, inestinguibile Amore divino, mentre la seconda ricorda invece l’effimero (la rosa dura un solo giorno)ed è piena di spine. Le mani del profano sono l’una in grembo e l’altra appoggiata su uno scrigno; la mano destra si trova nella stessa posizione del velo dell’altra figura, indicando ciò che il velo adombra, ovvero il sesso. Visto che l’altra mano dell’Amore profano è posata su uno scrigno, il confronto va fatto con il bacile prossimo alla mano di quello sacro. Lo scrigno è chiuso, il bacile è sprovvisto di coperchio, aperto a tutti. La prima scena (profano) simboleggia l’egoismo, la mano posata sullo scrigno è atto di possesso e di impedimento ad altri di aprirlo per vederne il contenuto, mentre il bacile indica l’altruismo infinito, aperto ed illimitato, come la trascendenza dell’Amore Sacro. Lo scrigno chiuso è simbolo di strettezza, di limitazione, il bacile aperto di immensità. Infine si può osservare il mirto che corona l’Amor profano, che indossa una cintura. Nessun confronto è possibile con la figura nuda dell’Amore Sacro, ma i due ornamenti citati contengono significanze antitetiche tra loro: la cintura è chiusa, a simbolo dell’attaccamento e della fedeltà, fissando le vesti aderenti al corpo; essendo possibile scioglierla, indica la possibilità che la profanità possa subire un cambiamento, una trasformazione, e diventare sacra. Il mirto, nobile arbusto dedicato a Venere ed a Cupido, simboleggia l’Amore lecito ed onesto, ma sempre profano: il suo stesso nome officiale è Myrtus coniugalis. Però con il mirto, come con l’alloro, era usato per commemorare un sacrificio, una vittoria, il trionfo delle legioni romane, ed a coronare poeti ed eroi. Quindi il mirto è simbolo dell’Amore profano, ma anche di riconosciuta elevazione spirituale, simboleggiando la possibile sublimazione dell’Amore profano fino al punto da diventare sacro. La terza figura è un amorino che gioca scherzosamente con l’acqua della fontana. Esso porta a tre i simboli dell’Amore; la cosa non deve stupire, se si considerano le correnti neoplatoniche  dell’epoca (inizio del XVI secolo), e l’insieme del trio di figure e la loro collocazione, porta alla considerazione delle tre Grazie (le ancelle di Venere), nella loro simbolica progressione amorosa, per cui dalla Bellezza (Pulchritudo), per intercessione dell’Amore (Amor), si arriva alla Voluttà (Voluptas), che rappresenta "il fine al quale Amor aspira", ovvero si perviene all’Estasi Sacra.









Fonte :  http://www.esonet.org/dizionario/a10.htm 



























Arte Africana, un'invenzione occidentale ?, di Vittorio Carini




Vittorio Carini

ARTE AFRICANA , UN'INVENZIONE OCCIDENTALE ?


 

 
Il termine usato ed abusato di "Arte Africana" appare veramente inadeguato quando ci riferiamo alle culture dell'Africa Nera. A quale tipo di "Arte" alludiamo? E a quali Paesi e a quali delle antiche Aree culturali?  Penso che nessuno, per descrivere nello stesso momento l'Arte Fiamminga, il Surrealismo e l'Arte della Grecia classica userebbe il termine di "Arte Europea", ma bensì farebbe una precisa distinzione sia di spazio (luogo) che di tempo (epoca).  Così, quando qualcuno volesse parlare di "Arte Americana" non potrebbe certo alludere contemporaneamente all'Arte degli indiani Hopi o Kwakiutl, alla Pop Art e all'Arte dei popoli sudamericani prima di Colombo.  Usare quindi il termine esemplificativo di "Arte Africana" quando ci si riferisca ad una testa figurativa in bronzo del Benin del XVI secolo e contemporaneamente ad una maschera "kanaga" dei Dogon dei primi del '900 o ad un reliquiario Kota-Obamba dell'800 è un errore nel quale oggi non si dovrebbe più incorrere per non cadere nella trappola insidiosa di un superficiale ed occidentalizzante etnocentrismo.  Alcuni potrebbero ribattere che la scultura africana nasceva da una tradizione religiosa e socio-politica omogenea, avente in comune molti aspetti in quasi tutte le aree in cui si era  sviluppata, ripetendosi poi in maniera iterativa nell'arco dei secoli.


Il ridurre perciò la scultura plastica africana a solo strumento e testimonianza della propria tradizione, è stato anche il limite invalicato del giudizio europeo su questi "oggetti" dal '500 ai primi del '900.
Chiamati per circa 4 secoli: "feticci abbietti dei negri", "idoli dei selvaggi", o più blandamente "oggetti esotici", sono assurti oggi, entrando nel "sacro tempio" della cultura,Il Louvre, al ruolo di "veri capolavori appartenenti al patrimonio di tutta l'umanità". Come appare evidente, è occorso molto tempo per sradicare definitivamente questo giudizio di non appartenenza al campo della "Vera Arte", nel pieno senso europeo del termine.
 Per molto tempo fu anche usato, come alibi, il fatto che il sostantivo "Arte", per noi così importante e basilare, fosse del tutto sconosciuto agli scultori tradizionali africani. Però, non era certo a loro sconosciuto il gusto estetico e la concettualità nella sua forma più pura fatta di analisi, sintesi e sublime ardire esecutivo, qualità queste, che nella loro unicità fanno di alcuni scultori, nella quasi totalità dei casi ormai irreversibilmente anonimi, dei geniali, grandissimi, veri Maestri.

 

 







Fonte : www.missioni-africane.org   





























ARCHEOARTEOLOGIA RISULTATI DELL' INDAGINE PER LA FONDAZIONE DELLA "SCIENZA DELL'ARTE PREISTORICA", Licia Filingeri e Pietro Gaietto




ARCHEOARTEOLOGIA
RISULTATI DELL' INDAGINE PER LA FONDAZIONE DELLA "SCIENZA DELL'ARTE PREISTORICA"
Licia Filingeri e Pietro Gaietto


Genova, Italia, 19 Novembre 2002

In data 8 luglio 2002 abbiamo inviato a studiosi di tutto il mondo un appello per la fondazione della "scienza dell'arte preistorica". (Il testo dell'appello è stato pubblicato su questo stesso Magazine, in questa stessa sezione).
Le risposte pervenute sono state 52, non sono poche, e forse questo numero è maggiore di quello di coloro che, nella seconda metà dell' 800, fondarono la paletnologia.
All' appello hanno risposto dall' Europa, dall' Australia e dal Nord America, mentre dalle altre zone del mondo non abbiamo avuto risposta.

 

ESITO

NUMEROSITA' DEI PARTECIPANTI ALL'INDAGINE


Noi avevamo proposto il nome Paleoarteologia, invece è prevalso il nome ARCHEOARTEOLOGIA, il che si deduce da circa il 10% dei suggerimenti.
Gli studiosi che hanno presentato personali proposte, che abbiamo aggiunto a quelle precedentemente formulate, sono stati circa 25% del totale di coloro che hanno risposto all'indagine.
Gli studiosi che hanno accettato il testo proposto, sono stati circa il 30%.
Gli studiosi che ci hanno scritto di tenerli informati sull'esito, ma senza fare proposte, circa il 35%.


 

CAMPI DI RICERCA E DI STUDIO DELL' ARTE PREISTORICA


Sono escluse le civiltà con scrittura, quindi i campi di ricerca risultano i seguenti :
Paleolitico inferiore e medio da 2.500.000 a 40.000 anni
durata 2.460.000 anni.................................................................................... 98,32%
Paleolitico superiore da 40.000 a 10.000 anni
durata 30.000 anni............................................................................................1,20%
Mesolitico,Neolitico,Età Metalli da 10.000 a 1.000 anni................................ 0,36%
Etnografia da 1000 anni a.C. a 2.000 anni d.C...............................................0,12%

1) La scultura del Paleolitico inferiore e medio può essere cercata in Europa, in Africa e in Asia.
La scultura del Paleolitico medio, forse, anche in America e in Oceania. La ricerca può avvenire in giacimenti di superficie, anche se è auspicabile si trovino sculture in siti, che ne permettano la datazione assoluta. Questo è il periodo più lungo, in cui l'arte preistorica è meno conosciuta.
2) Nel Paleolitico superiore e nelle epoche post-paleolitiche, secondo un censimento dell'UNESCO di 15 anni fa, sono state valutate in oltre 20 milioni le figure rupestri (dipinti in grotta e in ripari sottoroccia, incisioni e graffiti su roccia). Con queste tipologie, così abbondanti, lo studio è più importante della ricerca di nuovi siti. Al contrario, la ricerca di scultura va intensificata, i quanto è molto meno frequente della Rock Art, essendo molte sculture andate distrutte. Una ricerca dovrebbe essere fatta anche nei depositi dei musei.


 

METODO DELL'ARCHEOARTEOLOGIA


1) Il sistema usato prevalentemente fino ad oggi, è praticamente uguale a quello adottato nello studio dell'arte delle civiltà storiche, e quindi insufficiente per la preistoria, ma, comunque, valido per chi studia una civiltà circoscritta; di conseguenza, continuerà a sussistere.

2) La preistoria è stata studiata quasi totalmente nella cultura materiale. L'arte dovrà essere studiata nei suoi contenuti di cultura spirituale, per riequilibrare le nostre conoscenze sull'Uomo.
Attualmente (media dei libri recenti di paletnologia) la cultura materiale (utensili,ecc.) occupa circa il 97%, mentre la cultura spirituale (arte,ecc.) occupa circa il 3%.
E' auspicabile che l'archeoarteologia porti la cultura spirituale al 60%, e conseguentemente la cultura materiale al 40%; comunque, gli studi sulla cultura materiale non ne hanno alcun danno, e proseguono il loro corso; è invece lo studio dell'arte a dover aumentare e fornire nuovo materiale per la conoscenza della cultura spirituale dell'uomo preistorico.

3) L'arte preistorica deve essere suddivisa e studiata nelle sue componenti, che sono sei :
-- soggetto,
-- linguaggio stilistico,
-- tecnica di lavorazione,
-- materiale usato,
-- misure,
-- uso ipotizzato nei riti.
Il SOGGETTO può essere antropomorfo, zoomorfo o zooantropomorfo, e nella preistoria si identifica con la religione, i cui culti ipotizzati sono di molti tipi, e si interpretano con confronti storici ed etnografici. Il soggetto, se è ripetitivo, è più sicuro da interpretare rispetto ai soggetti rari. In una civiltà, se cambia la religione, può cambiare il soggetto raffigurato.
Il LINGUAGGIO STILISTICO è estremamente importante, in quanto è la moda nel fare arte di una civiltà in un certo luogo e in un certo tempo. Un uomo o un animale possono essere scolpiti o dipinti in cento modi diversi, in cento civiltà diverse.
Lo stile si trasforma, ma non si evolve, e non ha qualità.
La TECNICA DI LAVORAZIONE è importante da conoscere, in particolare per la scultura litica del Paleolitico inferiore e medio, cioè per discriminare il vero dal falso. Chi conosce la tecnica di lavorazione degli utensili litici, non ha difficoltà a riconoscere la scultura del Paleolitico inferiore e medio, ovviamente se inizia a cercarla, specializzandosi.
La tecnica di lavorazione è l'unica componente dell'arte che ha progresso, cioè che si evolve e si perfeziona.
Il MATERIALE USATO, per esempio in scultura, può essere pietra dura o pietra morbida, quindi con tecniche di lavorazione diverse. La terracotta ha tecnica di lavorazione diversa dalla pietra, ma il soggetto raffigurato può essere uguale. Inoltre, un tipo di pietra non presente in zona, e circoscritto alla sola scultura, può indicare che la scultura proviene da lontano.
Le MISURE non sono soltanto utili da indicare in fotografia, ma sono profondamente indicative dell'uso che veniva fatto di una scultura. Infatti, una piccola scultura che sta nel palmo della mano è personale e trasportabile, mentre una grande scultura, si presume sia un monumento pubblico, come alcuni menhir antropomorfi.
L'USO IPOTIZZATO NEI RITI : le opere d'arte nella preistoria erano prodotte per riti di culto, così come gli utensili erano prodotti per la preparazione del cibo o per la caccia. Facciamo due esempi, per gli utensili e per le opere d'arte :
-- A Produzione dell'utensile.
-- B Utensile (come lo troviamo).
-- C USO dell'utensile nella preparazione del cibo.
-- D Consumazione del CIBO.
__________

-- A Produzione dell'opera d'arte.
-- B Opera d'arte (come la troviamo).
-- C USO dell'opera d'arte nel rito di culto.
-- D Contatto con la DIVINITA'.

4) E' importante studiare l'evoluzione dell'arte preistorica, dalle fasi più antiche alle più recenti (come è stato fatto per gli utensili preistorici), e lo studio deve essere fatto per ogni componente dell'arte.

5) E' importante iniziare lo studio sulle affinità e sulle differenze, tra differenti forme d'arte preistorica di differenti civiltà contemporanee in territori diversi. Per esempio: nella protostoria ci sono stati popoli che hanno inciso sulle rocce di montagna soggetti molto vari, mentre in altre zone, nello stesso tempo, popoli che hanno prodotto in scultura solo alcuni soggetti antropomorfi, sempre uguali, che si interpretano come divinità. Quindi, due religioni diverse, due applicazioni artistiche diverse, due tradizioni diverse, di cui si deve cercare l'origine comune.

6) Nello studio dell'arte preistorica è importante abolire i valori estetici, che devono restare un apprezzamento soggettivo; quindi, non pubblicare le opere considerate più belle, ma quelle più significative nello studio dell'uso dell'arte nei riti di culto.


 

NUOVO INQUADRAMENTO DELLE SCIENZE PREISTORICHE


Quando, nella seconda metà dell'800, è stata fondata la paletnologia, non era ancora stata scoperta l'arte preistorica; l'uomo preistorico veniva immaginato come un essere scimmiesco, e come tale era raffigurato nelle illustrazioni di libri e riviste.
Questo essere era considerato "uomo", in quanto costruiva utensili di pietra, ma un uomo "senza spiritualità". Quindi, si è studiata soltanto la cultura materiale, che del resto ha dato ottimi risultati, in quanto la cronologia della preistoria, fatta dai paletnologi, è la sola che allo stato attuale delle conoscenze pare possibile.
L'originale impostazione della paletnologia è continuata fino ad oggi, escludendo la cultura spirituale, perciò non può più rappresentare in "esclusiva" gli studi sulle civiltà preistoriche.
Da alcuni partecipanti all'appello è stata proposta la seguente composizione della "nuova paletnologia" :

 

LE SCIENZE DELLA PALETNOLOGIA


ARCHEOMATERIOLOGIA :
utensili, resti di cibo,abitazioni,
ceramica,cioè arte applicata......................Cultura materiale
ARCHEOASTRONOMIA :
orientamento, calendario, ecc....................Cultura materiale
riti di culto con astri,ecc..............................Cultura spirituale
ARCHEOARTEOLOGIA :
scultura, pittura, menhir,
templi, riti di culto, ecc.................................Cultura spirituale
ARCHEOFUNERARIOLOGIA :
corredi funerari,tombe,
dolmen, ecc.................................................Cultura spirituale
ARCHEOPSICOLOGIA
ricerca sui comportamenti.........................Cultura spirituale

E' probabile, che agli "attuali" paletnologi non piacerà il termine archeomateriologia; il termine può essere anche un altro, ma la scienza si deve rinnovare periodicamente, anche nei nomi.


 

COME FONDARE L'ARCHEOARTEOLOGIA


Il metodo e l'indirizzo, che sono stati covenuti, permettono un maggiore scambio di opinioni tra studiosi di arte preistorica, in quanto ampliano di molto il campo di ricerca.

Gli studiosi che nel mondo sono isolati, oggi hanno la possibilità, attraverso Internet, di allacciare relazioni con altri studiosi di arte preistorica, e quindi di uscire dall'isolamento.

E' necessario essere consapevoli dell'importanza dello studio dell'arte preistorica, dove c'è ancora moltissimo da scoprire, in quanto della vita spirituale non sappiamo quasi nulla.

L'archeoarteologia nasce per unire gli studiosi.

E' auspicabile che anche studiosi di altre discipline della "nuova" paletnologia, intraprendano studi sull'arte preistorica.

L'archeoarteologia potrà diventare una scienza ufficiale quando, attraverso convegni e congressi, saranno possibili scambi di opinioni su problemi comuni, tra un maggior numero di studiosi.





   Fonte :  http://www.paleolithicartmagazine.org


----- Original Message -----
From: "Licia Filingeri" <filingeri@fastwebnet.it>
To: "Carlo Sarno" <info@carlosarno.it>
Sent: Thursday, November 28, 2002 9:59 PM
Subject: importante scoperta

 
Caro Carlo,
ti segnalo  un'importante scoperta pubblicata su Paleolithic Art
Magazine, dal titolo UN RITRATTO UMANO SCOLPITO 200.000 ANNI FA DESCRITTO
CON LA DIDATTICA DELL'ARCHEOARTEOLOGIA
http://www.paleolithicartmagazine.org/pagina98.html
Cordialmente
Licia

--
Prof.Licia Filingeri
e-m filingeri@fastwebnet.it
Co-ordination Archeoartology
Editor of Paleolithic Art Magazine
http://www.paleolithicartmagazine.org































Arte Concettuale, di Sandro Sproccati



Sandro Sproccati

ARTE   CONCETTUALE

                     
Joseph Kosuth , One and Three Chairs , 1965-66, 
Museum of Modern Art, New York.


  A partire dal 1965, sia in America che in Europa, va imponendosi una concezione del lavoro artistico che non ha precedenti nella storia dell'estetica - se non, parzialmente, in alcuni 'spunti' occasionali dell'avanguardia storica. A prima vista sembra trattarsi di un atteggiamento di marca radicalmente idealistica, per il quale ciò che davvero importa nell'opera non è tanto la sua fisicità oggettuale, la sua fattura concreta o il dato materiale della sua presenza, quanto piuttosto l'idea (il concetto, l'asserzione, la proposizione) che risiede dietro l'opera , che la precede e che la informa.
Si ha quasi la rinuncia, entro tale tendenza che diventa ben presto dominante, ad 'avvilire' il progetto artistico calandolo nell'unicità di un oggetto reale, e la decisione, per contro, di conservarne tutta la vitalità (l'apertura 'possibilistica') enunciandolo nella sua astrattezza, come pura riflessione filosofica priva di applicazioni pratiche. L'individuo, l'essere o l'oggetto concreto, tutto ciò che è singolo, rappresenta - in base a questa posizione - un impoverimento del concetto che lo produce, una esemplificazione parziale e provvisoria. Se l'arte è azione linguistica, se è atto di comunicazione e di formazione del pensiero, essa dovrà essere chiamata a recuperare la capacità che è propria del linguaggio: di generalizzare, di tralasciare l'esempio (il fenomeno) per circoscrivere la nozione che ci permette di 'possederlo' culturalmente.
Quando l'americano Joseph Kosuth, nel 1966, espone One and Three Chairs, ovvero quando mette di fronte all'osservatore tre manifestazioni dell'entità 'sedia' (una sedia reale priva di connotazioni stilistiche, una fotografia della medesima, la definizione della parola /sedia/ tratta da un dizionario e riprodotta su tavola), egli intende porre a confronto tre diversi modi di acquisizione della realtà: quello verbale (qui in forma di scrittura) che è il più acculturato, quello iconico (come immagine neutrale, fotografica) che è il più vicino al metodo delle arti plastiche, e infine quello meno acculturato della presenza fisica, che può illustrare la nozione semplificandola. Nessuno dei tre metodi raggiunge realmente l'oggetto, costituiscono tutti, ugualmente, proposizioni di linguaggio: poiché anche la sedia 'reale' non serve che a indicare, attraverso uno degli infiniti casi concreti possibili, il concetto di sedia; e quanto alla fotografia, essa risponde - non diversamente dalla descrizione verbale - a un codice linguistico che, per sua natura, nel parlare dell'oggetto lo esclude facendo astrazione da esso.
L'opera di Kosuth si pone così sulla scia delle ricerche semiologiche di Magritte, incentrate sul problema del confronto tra diversi sistemi di rappresentazione e, quindi, di 'nominazione' della realtà: a partire, nel caso del pittore francese, dalla celebre opera Ceci n'est pas une pipe del 1929. Kosuth radicalizza il metodo di Magritte, lo raffredda fino a farlo divenire pura analisi di laboratorio del linguaggio e del suo funzionamento. E allo stesso titolo, in Inghilterra, il gruppo di Art & Language limiterà la propria azione all'intervento teorico, evitando di 'sporcarsi le mani' (o il cervello) con pennelli e colore, per dichiarare che l'artista della società multimediale e dell'era informatica si occupa esclusivamente di problemi filosofici.
Come dimostrano le operazioni di Robert Barry, Jan Dibbets, Lawrence Weiner, On Kawara, Vincenzo Agnetti, Bernard Venet e dello stesso Kosuth, nell'arte concettuale la teoria prende il posto della prassi concreta, e il lavoro viene a coincidere con la 'riflessione sul lavoro'. La poetica sostituisce definitivamente la poesia; l'artista è colui che cessa di produrre oggetti - anche perché si sente spiazzato dal trionfo dei mass media - e si limita invece ad analizzare il linguaggio nei suoi aspetti funzionali e scientifici.
Tutto ciò rinnova il rifiuto dell'opera che era già stato di Marcel Duchamp (alla fine degli anni Dieci) e ripropone all'attenzione problemi generali intorno al ruolo, alla ragion d'essere, alla sopravvivenza stessa dell'arte nel ventesimo secolo: il problema del riconoscimento pubblico dell'artista, per esempio, e quello dell'incidenza che tale riconoscimento ha sull'attribuzione di valore; quello della collocazione dell'opera (galleria, museo, mercato) come momento indispensabile alla sua 'legittimazione'; infine il problema, globale e centralissimo, della funzione dell'arte all'interno di una società che tende a percepirla come inutile, poiché dispone di mezzi ben più efficaci per costruire il consenso politico e le proprie mitologie.











Brano e foto tratti dal libro ARTE, a cura di Sandro Sproccati, Mondadori, MI, 2000.


























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