LA NUOVA ERESIA ICONOGRAFICA
del Card. Celso
Costantini
PREMESSA
La Chiesa protegge la vera arte.
Il Cardinale Celso Costantini ha pubblicato nel
febbraio 1954 sull’arte moderna un articolo intitolato “Signore, ho amato il
decoro della tua Casa”, che ha avuto una
ripercussione mondiale negli ambienti artistici e religiosi. Questa
ripercussione è dovuta prima di tutto alla grande
autorità e competenza che gli è stata universalmente riconosciuta negli
argomenti artistici, specialmente riguardanti l’arte sacra. Inoltre, l’articolo
era dei più importanti a motivo del suo grande
equilibrio, dalla sua alta lucidità e del grande tempismo dell’argomento
trattato. In fine, era diffuso da una rivista di grande
prestigio, “Fede ed Arte”, edita dalla Pontificia Commissione
Centrale per l’Arte Sacra in Italia, e diretta da Monsignore Giovanni
Constantini, Arcivescovo titolare di
Colosse e Presidente della stessa Commissione. La
rivista è stampata dalla Tipografia Poliglotta Vaticana.
Sembra che la ripercussione che c’è stata all’articolo trascritto sotto -
anch’esso pubblicato su “Fede ed Arte” - sia stata
molto più grande dell’altro. Si tratta pure di un grande e ricchissimo lavoro,
illustrato da un’ampia documentazione, e riempie le 31 pagine di questo
fascicolo.
L’importanza dell’argomento, l’arricchimento dottrinale e storico del quale
potranno trarne frutto i nostri lettori ci ha spinto
a mettere “on line” questo monumentale lavoro.
Un aspetto di importanza capitale.
Prima di riprodurre l’articolo, dobbiamo sottolineare
che il suo insigne Autore ha avuto una particolare attenzione nell’escludere
qualsiasi nota di sistematica ed indiscriminata ostilità contro tutta l’arte
contemporanea.
Invece d’essere contrario a tutto ciò che è odierno soltanto per il fatto
d’essere odierno, il Card. Costantini insiste
nell’affermazione che anche oggi ci sono degli autentici artisti, e lamenta
soltanto che siano nell’ombra, mentre la falsa arte sia messa in evidenza.
Lui ci fa vedere che la Chiesa non ha pregiudizi o prevenzioni contro qualsiasi
epoca. Anzi, apre largamente le braccia ed il cuore per ricevere il frutto del
talento degli artisti cattolici di tutti i tempi,
tutti i popoli, e tutti i luoghi. Perciò, Essa chiede
soltanto una condizione: che siano veramente cattolici e veramente artisti.
Quello che la Chiesa non può accettare e approvare sono le
opere che non sono cattoliche e neppure artistiche, come se fossero opere d’arte
cattolica, espressioni genuine dello spirito cristiano.
* * *
LA NUOVA ERESIA ICONOGRAFICA
Cardinale Celso Costantini
I - Horresco referens
Mi
duole di deturpare le nitide e serene pagine di questa Rivista con la
riproduzione, almeno parziale e sommaria, degli orrori iconografici di certa
presunta arte modernista. Ma è pur necessario di documentare gli aspetti di
questa nuovissima eresia iconografica, perché non si dica
che io parlo quasi aerem
verberans - come chi batte l’aria (I Cor., 9, 26). Ne ho
trattato nel fascicolo II dì “Fede e Arte” del febbraio 1954, sotto il titolo “Signore,
ho amato il decoro della tua Casa”. Ma la
deformazione delle sacre immagini continua ad imperversare al modo stesso con
cui ricalcitrarono ostinatamente le antiche eresie.
È per questo che
pare necessario e anche urgente di riprendere la frusta con cui N. S. Gesù
Cristo ha cacciato i profanatori del tempio.
L'eresia iconografica
L'eresia così viene definita, limitando la
considerazione soltanto all'aspetto oggettivo (l'aspetto soggettivo appartiene
alla morale): “Una dottrina che contraddice direttamente a una verità rivelata
da Dio e come tale proposta dalla Chiesa ai fedeli. In questa definizione si
rivelano due note essenziali dell'eresia : a)
l'opposizione a una verità rivelata; b) l'opposizione alla definizione del
Magistero ecclesiastico”. (Parente,
Piolanti, Garofalo:
Dizionario di Teologia dommatica.
Studium, pag. 86).
L'attentato di Leone Isaurico e
di altri imperatori bizantini contro il culto delle sacre immagini fu
detto l'eresia iconoclasta, che rimase famosa nella storia
ecclesiastica.
Oggidì non si nega, teoricamente, il culto delle sacre immagini, ma, sotto un
certo aspetto, si fa praticamente qualcosa di peggio:
cioè si degrada il culto; si nega con la eresia figurativa la divinità di Cristo
e della sua Chiesa.
Alcuni Religiosi e molti artisti sono certo in buona fede, e conviene
illuminarli, dissipando il feticismo della modernità. Ma
alcuni artisti, iscritti ai partiti avversari alla religione o atei, hanno
spiegato una sottile e perfida offensiva contro la religione, parallelamente
all'offensiva che si conduce con certa stampa, rendendo spregevole e ripugnante
l'iconografia sacra e quindi il culto cristiano. Sono note le caricature
blasfeme diffuse nella Russia e nella Cina.
Sappiamo bene che, secondo le teorie di Marx, Engels, Lenin ecc.,
la religione è una superstizione antiscientifica, è l'oppio dei popoli, perciò
si deve combattere con ogni mezzo a fine di instaurare la dittatura del popolo.
Per questi corifei del materialismo anche l'arte è legata alla lotta di classe e
deve prendere parte contro la cosiddetta arte borghese e specialmente contro l'arte
religiosa. L'arte comunista pare che si affermi dove comincia lo sfacelo
dell'arte borghese e specialmente lo sfacelo dell'arte cristiana.
Lo
scultore P. Canonica mi dice: “Dio ha dato agli artisti il dono di capire e
riprodurre la bellezza. Ora invece si deturpa la bellezza creata da Dio. Siamo
in presenza dell'anticristo, che trascina tanti
artisti, consapevoli o no, a disonorare l'arte della Chiesa.
(…) Bisogna reagire senza stanchezza contro l'opera dell'anticristo, che
entra nelle Chiese, camuffandosi coi paramenti sacri per ingannare i fedeli. Non
si tratta solo d'arte, ma si tratta della difesa
della religione, e ciò riguarda voi sacerdoti”.
Sì,
abbiamo il diritto e il dovere di reagire, appoggiandoci al Magistero della
Chiesa. E mi si voglia perdonare se insisto su
alcuni principi e documenti citati nell'articolo di “Fede e Arte” del febbraio
1954.
Si
ritorna, in arte, anche all'eresia del manicheismo risalente
al II secolo dopo Cristo e rifiorente nella setta dei Catari del secolo
XII. Si sa che il manicheismo predicava il dualismo tra la materia e lo spirito,
tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male, tra Dio e satana.
Ora
alcuni artisti, invece che risalire a Dio, fonte del bene e della bellezza per
rifletterne un raggio sulle creature, depravano la natura e specialmente la
figura umana rendendola abietta e odiosa, peggio ancora, questi nuovi manichei
gettano il fango della loro eresia satanica sulle adorabili immagini di Cristo,
della Vergine e dei Santi.
Molti artisti operano probabilmente senza una consapevole conoscenza
dell'eresia manichea. Ma,
praticamente, sono attanagliati nelle spire di quella eresia. Ciò che i
manichei predicavano con le parole e gli scritti, questi tardi epigoni lo fanno
con un orrido catechismo figurativo. Quae
autem conventio
Christi ad
Belial? - Quale intesa fra Cristo e
Belial? (II Cor.,
6-14). Certe maschere diaboliche richiamano al pensiero ciò che scriveva
Minucio Felice circa un secolo dopo Cristo: “Gli
spiriti impuri, i demoni si nascondono sotto le statue e le immagini consacrate
e per la loro emanazione producono l'impressione che una divinità malefica è
presente” (Octavius XXVII).
Cari artisti, è tempo di riscuotersi. I Religiosi, che conoscono bene la
teologia e il manicheismo, stiano in guardia contro il
ripullulare di una eresia condannata dalla
Chiesa e specialmente da Innocenzo III. Se
l'ignoranza può scusare molti artisti, difficilmente può scusare quei
Religiosi, che sono patrocinatori della rinascita, in arte, del manicheismo.
Nella Professione di Fede è detto: “Firmiter
assero imagines
Christi ac
Deiparae semper
Virginis aliorumque
Sanctorum habendas
et retinendas esse
atque eis
debitum honorem
ac venerationem
impertiendam”.
Il Magistero della Chiesa
Senza risalire agli antichi Concili e a quello di Trento e all'Istruzione
di Urbano VIII, basta menzionare i canoni C. I. C.
485-1161-1162-1164-1178-1261-1268-1269-1279-1280-1281-1385-1399.
Merita di essere ricordato qui in modo particolare il tenore di alcuni di questi
canoni. Nel can. 1261 viene richiamata l'attenzione
degli Eccmi Ordinari sul grave obbligo di vigilare,
perché non venga introdotta nel culto divino qualsiasi cosa che contrasti con la
vera fede o si discosti dalla tradizione ecclesiastica. Nel can. 1399 sono
dichiarate proibite per legge le immagini, in qualsiasi modo stampate, contrarie
al modo di sentire ed alle prescrizioni della Chiesa.
Non si permetta mai che siano esposte nelle chiese o
negli edifici sacri immagini, che siano espressioni di una dottrina falsa o che
offendano il pudore o il decoro, o che possano indurre gli incolti in errori
pericolosi. Inoltre, secondo il disposto dei canoni 485 e 1178, gli Ordinari
faranno rimuovere dagli edifici sacri tutto quello che contrasta con la santità
del luogo e con la riverenza dovuta alla casa di Dio; ne consegue quindi che non
può tollerarsi il costume di esporre alla venerazione dei fedeli, sugli stessi
altari o sulle pareti contigue una incomposta
molteplicità di statue o di immagini di scarso valore artistico, per lo più
stereotipate.
Conviene inoltre rispettare le alte e severe parole degli ultimi Sommi
Pontefici: S. Pio X, Pio XI e Pio XII gloriosamente regnante.
Moniti di S. Pio X: “Nulla deve occorrere nel tempio che turbi od anche solo
diminuisca la pietà e la devozione dei fedeli, nulla che sia ragionevole motivo
di disgusto o di scandalo, nulla soprattutto che... sia indegno della casa
di orazione e della maestà di Dio” (Motu
proprio Tra le sollecitudini, 2 nov. 1903;
Acta Pii X, vol. I, p. 75).
Moniti di Pio XI: “Il Nostro ardente voto, la Nostra volontà può essere soltanto
che sia ubbidita la legge canonica, chiaramente formulata e sancita anche nel
Codice di diritto canonico, e cioè: che tale arte non
sia ammessa nelle nostre chiese e molto più che non sia chiamata a costruirle, a
trasformarle, a decorarle; pur spalancando tutte le porte e dando il più
schietto benvenuto ad ogni buono e progressivo sviluppo delle buone e venerande
tradizioni, che in tanti secoli di vita cristiana, in tante diversità di
ambienti e di condizioni sociali, ed etniche, hanno dato tanta prova di
inesauribile capacità di ispirare nuove e belle forme, quante volte vennero
interrogate o studiate e coltivate al duplice lume del genio e della fede”
(Discorso del 27 ottobre 1932, A. A. S., XXIV p. 356).
Moniti del S. P. Pio XII: “È assolutamente necessario dar
libero campo anche all'arte moderna, se serve con la dovuta riverenza e il
dovuto onore ai sacri edifici ed ai riti sacri: in modo che anch'essa possa
unire la sua voce al mirabile cantico di gloria che i geni hanno cantato nei
secoli passati alla fede cattolica.
Non
possiamo fare a meno, però, per Nostro dovere coscienza, di deplorare e
riprovare quelle immagini e forme da alcuni introdotte, che sembrano essere
depravazione e deformazione della vera arte, e che talvolta ripugnano
apertamente al decoro, alla modestia e alla pietà ,cristiana
e offendono miserevolmente il genuino sentimento religioso; esse si devono
assolutamente tener lontane e metter fuori dalle nostre chiese come, in
generale, tutto ciò che non è in armonia con la santità del luogo” (Can 1178)
(A. A. S., XXXIX (1947) p. 590 s.).
Istruzione del S. Officio
In
fine si deve tener presente e osservar l'Istruzione della Suprema S.
Congregazione del S. Officio, che tutatur
doctrinam idei et
morum (Can. 249). Essa è intervenuta più volte
a proibire alcune immagini, che offendevano la dottrina e il culto cattolico.
Considerando però il continuo dilagare dell'eresia della profanazione
iconografica, il 30 giugno 1952 emanò una speciale Istruzione sull'arte sacra,
diretta ai Vescovi di tutto il mondo. L'Istruzione, appoggiandosi alla
venerabile tradizione della Chiesa, dice che la S.
Congregazione del S. Officio si è sempre preoccupata perché l'arte contribuisca
a conservare le fede e la pietà nel popolo cristiano e ha ritenuto necessario di
ricordare a tutti gli Ordinari le norme da seguire, affinché essa s'ispiri a
principi ed assuma forme, che si addicano al decoro ed alla santità della casa
di Dio.
Essa dà poi norme precise sull'architettura e sull'arte figurativa. Si ammette
tutto quello che è buono nell'arte moderna, ma si condannano tutte le
deviazioni.
Occorreva richiamare all'attenzione questi chiari e severi moniti, perché,
anche da Religiosi e artisti cristiani, si tenta di ignorare o di deformare o di
diminuire il valore del Magistero ecclesiastico. Del
resto, nil sub sole novi; l'attuale
eresia iconografica ha remotissimi precedenti, che
dimostrano il lineare pensiero della Chiesa e le sue decisive vittorie. E ciò
vedremo nel capitolo seguente.
II - Antiche crisi iconografiche superate
Le
sacre immagini non trovarono un immediato e generale favore nella Chiesa
primitiva. L'iconografia nei primi tempi entrò nelle chiese più de facto
che de iure; e non senza qualche
difficoltà.
Pesava sulla Chiesa primitiva la proibizione della legge ebraica (non ti farai
alcun dio [Esod., 34,
17]); inoltre l'iconografia era sospettata per la presenza dell'idolatria pagana
e per il timore che i cristiani fossero in qualche modo disorientati e ingannati
per il diffuso costume di quella conturbante moltitudine di idoli.
S.
Clemente d'Alessandria (n. tra il 145 e il 150 e m. intorno al 215), nella
mirabile Cohortatio ad
gentes (Cap. I e IV) leva la voce contro
l'idolatria, ricordando appunto le proibizioni formali dell'Antico Testamento, i
pericoli a cui erano esposti i cristiani e la proibizione per i fedeli di
scolpire o dipingere idoli (1).
Minucio
Felice, nell'Ottavio, scritto verso il 190 d. C., lascia intendere che al
suo tempo non erano in uso le immagini sacre, spiegando però il valore
spirituale del segno della croce (2).
Il
Concilio Eliberitano nel 300 (306?) proibì le sacre
immagini realistiche (3). Tale divieto potè essere
interpretato come un principio disciplinare più che dogmatico, ritenendo fosse
proibito di esporre le sacre immagini nelle chiese aperte al pubblico, nelle
quali avrebbero potuto essere profanate e distrutte
dai persecutori. Forse si era inteso anche di evitare le pratiche superstiziose
che potevano essere collegate alle immagini in un tempo in cui vigeva ancor
l'idolatria pagana.
Epifanio, Vescovo di Costantina nell'isola di Cipro (n. circa il 315), avendo
trovato in una chiesa un velo con una sacra immagine, lo strappò e lo distrusse
(4).
Eusebio Panfilo (n. verso il 340 m. verso il 420) pur dicendo di aver visto le
immagini di S. Pietro e di S. Paolo, scrisse alla
principessa Costanza, sorella dell'imperatore
Costantino, mostrandosi avverso alle sacre immagini, perché l'arte non può
rappresentare l'immagine di Dio né prestare a lui l'immagine di un uomo (5).
Anche S. Giovanni Damasceno, il
grande protagonista nella difesa delle immagini contro gli iconoclasti,
si arresta davanti al tentativo di rappresentare Dio invisibile (6).
Conviene però tener presente che le voci isolate di questi antichi padri,
lontani uno dall'altro, non poterono avere una grande
risonanza presso il popolo, che era naturalmente portato a onorare e venerare
le sacre immagini, come è attestato dall'antica iconografia.
I
monofisiti erano contrari alla rappresentazione di Cristo, perché la natura
umana sarebbe apparsa distinta dalla natura divina,
mentre la loro eresia predicava un'unica natura in Cristo.
Altre notizie sulla controversia teologico-artistica
si trovano nella Lettera Ap. che Benedetto XIV
scrisse al Vescovo di Augsburg
il 1° ottobre 1745.
Nei
primi tempi della Chiesa non mancò neppure la caricatura contro la nuova fede,
come è noto per il Cristo blasfemo del Palatino
(secolo III) e per altre caricature nel prossimo Oriente. Ho visto nel museo
di Alessandria antichi monumenti cristiani, tra cui è
rappresentata due volte la Leda; essa non può spiegarsi altrimenti che come uno
scherno anticristiano. Le caricature anticristiane riflettono il pensiero di
Celso, il Voltaire del secolo II.
Perciò
nei primi secoli prevalse la rappresentazione simbolica di Cristo (croce
monogrammatica, croce gemmata e fiorita, la croce
semplice, il pesce, l'ancora, la colomba, il Buon Pastore, il Maestro che
insegna, ecc.). Tuttavia nelle catacombe di Roma la figura di Cristo e della
Vergine, specialmente negli episodi storici, assumono forme realistiche in mezzo
alla vasta iconografia simbolica e ornamentale.
Il
Crocefisso entra nell'arte al V secolo (porte di S. Sabina);
ma il Crocefisso è inteso come trionfatore:
regnavit a ligno Deus. Ancora nel
VI secolo nelle colonne bizantine di S. Marco a Venezia, nella scena della
crocefissione, è posto l'Agnello in luogo del
Crocefisso.
Finalmente il Concilio Quinisesto
o Trullano II nel 692 ordinò di rappresentare
realisticamente G.
Cristo invece dell'Agnello seguendo il costume ormai
largamente prevalso (7).
Non
si deve dimenticare che i Vangeli e gli scritti dei primi Padri rappresentavano
una forma di catechesi, e che la catechesi si aiuta
molto con le sacre rappresentazioni; queste diventano una catechesi figurativa.
S. Cirillo Alessandrino, morto
nel 444, scrisse: “Facciamo bensì le immagini degli uomini pii, ma non le
adoriamo come Dei; le facciamo perché, mediante la loro visione, siamo spinti
alla loro imitazione; così facciamo anche l'immagine di Cristo, affinché la
nostra mente sia eccitata al suo amore” (8).
S.
Teodoro Studita (759-826) dice
che la sacra immagine produce una impressione edificante se l'immagine è
edificante, dannosa se essa è brutta (Migne. P. G.
T. XCIX, col. 1219).
La
causa dell'iconografia cristiana è vinta. Ma qui sorse una
inquietante domanda : — G. Cristo doveva essere rappresentato in
bellezza o con un aspetto umiliato e deforme?
Vinta la tesi della bruttezza
Una
scuola di teologi e artisti pensava che Cristo fosse il più bello degli uomini,
un'altra pensava invece che Cristo, essendo il
divino lebbroso che portava i peccati di tutto il mondo, fosse brutto e
ripugnante.
S.
Giustino, S. Clemente d'Alessandria (9), Tertulliano (10), S. Basilio, S.
Cirillo d'Alessandria, sostenevano la tesi della bruttezza (V.
Dict. d'arch.
et Lit. chrét.
Images).
Però
Tertulliano, morto dopo il 222, fa una capitale distinzione. Egli ammette che in
Cristo non erat species
neque gloria e che non avrebbe potuto patire la
passione e la morte si quid
illa carne de coelesti
generositate radiasset;
ma lo considera vincitore della morte e glorioso: tunc
scilicet speciem
honorabilem et
decorem habiturus est
indeficientem supra
filios hominum.
Eusebio Gerolamo (circa 340-420), S. Gregorio di Nissa,
S. Crisostomo, Teodoreto, S. Giovanni
Damasceno, i Padri più recenti e il buon senso
popolare difesero la tesi della bellezza di Cristo, a cui si
applica il passo del Salmo: Speciosus
forma prae hominum (Ps.
44, 3). E questa tesi prevalse nella sacra
iconografia (11).
Iconografia di G. Cristo
Nell'arte ellenistica in Oriente si rappresentò Gesù Cristo come giovane
imberbe. In Occidente si aggiunse la barba. Nelle più antiche immagini Cristo
ha una espressione dolce e bella; più tardi, dal
secolo VI in poi, l'arte sacra segue la linea decadente, e il Salvatore assume
una espressione più dura. Le forme vanno congelandosi in immagini di maniera. N.
Müller scrive: “Si era riuscito a rappresentare un
Cristo la cui età corrispondeva del tutto o quasi alla S. Scrittura e il cui
aspetto poteva con l'espressione giungere alla
dignità di eminenza del Figliuolo di Dio e degli uomini; ma più tardi traviò
così che non si regolò più con le idee, su cui si formarono le prime
riproduzioni, ma si esagerò mostruosamente. Il solenne si mutò in cerimonioso e
rigido, il sublime in inaccessibile, il grave in cupo, anzi tenebroso, il
naturale nel suo contrario. Da Cristo uomo venne quasi un vecchio, dal maestro
annunciante la grazia e dal Salvatore attraente i peccatori, un giudice rigoroso
poco assicurante per i suoi amici, terrore dei nemici.
Quest'impronta è indicata da una serie di mosaici che sono
particolarmente adatti ad illustrare il tempo della decadenza. Il Cristo, per
esempio, dei Ss. Cosma e
Damiano a Roma, del secolo VI, apparisce come uomo dal viso lungo, i cui zigomi
prominenti e il color smorto possono rammentare un asceta.
Quest'impressione cresce ancora per il naso sottile e lungo, gli occhi
grandi, incavati. La capigliatura è figurata in guisa di chioma che cade dalla
nuca ed in confronto alla quale è meschina la barba
che lascia scoperto affatto parte del mento. Questa rappresentazione del tempo
della decadenza cerca d'impressionare i visitatori con la scarsezza della
barba, come al contrario il pittore dell'immagine di S.
Gaudioso a Napoli mira allo stesso fine con la lunghezza della medesima che fa
finire con due piccole punte. Ma questi
artisti sono ancora discretamente lontani dal punto più basso. Come
rappresentanti della più triste decadenza sono
indicati i dipinti a mosaico nell'arco del trionfo a S. Paolo fuori le Mura e
nell'abside di S. Marco a Roma” (N. Müller:
Christusbilder. Nella
Realezyklopädie für
prot. Theol.
und Kirche, IV, 73).
Va
però tenuto presente che in queste rappresentazioni dell'arte decaduta non si è
mai cercato il deforme per il deforme. L'artista
parlava il linguaggio del proprio tempo e perciò parlava barbarico.
L'eresia iconoclasta degli imperatori di
Bisanzio
Nei
secoli VIII e IX insorse l'eresia iconoclasta, che minacciò di morte l'arte
sacra. Non è qui il caso di riassumere la tempestosa storia. Basti solo qualche
accenno. Gli imperatori bizantini Leone Isaurico,
Costantino Copronimo e Leone IV furono i potenti e
accaniti sostenitori dell'eresia contro le sacre immagini. L'eresia infuriò
nello spezzare le immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi e perseguitò con
supplizi e la morte stessa i sostenitori della causa
cattolica.
Dopo lunghi dibattiti, fu adunato nel 787 il II
Concilio di Nicea e l'eresia fu solennemente condannata. Qualche
anno prima, cioè nel 769, il Concilio del
Laterano aveva già difeso il culto delle sacre
immagini.
Le
chiare e precise norme del II Concilio
Niceno, in cui si riassumeva la dottrina dei Padri,
specialmente di S. Gregorio Magno e di S. Giovanni
Damasceno, furono confermate nel Concilio di Costantinopoli del 843; e
diedero un meraviglioso sviluppo all'iconografia cristiana e costituiscono
l'ampia e precisa legislazione della Chiesa circa tale iconografia. Dopo tanti
secoli questa legislazione è limpida e impegnativa oggidì come per il passato.
La tesi iconoclasta aveva incontrato qualche favore anche in Occidente, sotto
Carlo Magno. Ma la Chiesa sgominò anche questi
avversari.
Nell'articolo del fascicolo II (febbraio 1954, p. 51) di “Fede e Arte” ho
riportato la parte essenziale delle decisioni del II
Concilio di Nicea. Qui mi piace di trascrivere la conclusione, che è di una
rovente attualità e suona come un grave monito per tutti gli artisti,
specialmente per i nuovi eretici, consapevoli o inconsapevoli, che mettono
sotto i piedi le sante leggi della Chiesa.
“Ordiniamo di scomunicare coloro che osano pensare o
insegnare diversamente oppure, a guisa degli empi eretici, osano disprezzare le
tradizioni ecclesiastiche e immaginare altre novità o rigettare alcunché
destinato alla Chiesa, sia il Vangelo, sia la figura della croce, sia
l'immagine dipinta, sia le sante reliquie dei martiri; e scomunichiamo coloro
che con perversa e scaltra mente osano escogitare qualsiasi cosa atta a
sovvertire le legittime tradizioni della Chiesa cattolica...” (12).
L'eresia iconografica dei protestanti
Nei
secoli XVI e XVII il protestantesimo, specialmente sotto l'influsso di Calvino e
Melantone, rinnovò l'eresia iconoclasta.
Nella Germania, nella Svizzera, ecc. si bruciavano o
si distruggevano i crocefissi, si spezzavano le statue della Vergine e dei Santi
o si laceravano le sacre tele. Lo zelo iconoclasta e antiromano giunse a delle
forme veramente triviali e fanatiche. Si vide, in un quadro della crocifissione,
Cristo lacerato mentre fu lasciato intatto il cattivo
ladrone; in una tavola consacrata a S. Michele, l'Arcangelo era stato distrutto,
ma il demonio era stato rispettato (Molanus: De
Historia Sanct.
Imag.,
Lib. II-C. LXX).
Ed
è allora che il Concilio di Trento insorse contro la pseudo
riforma protestantica, e nella Sessione XXV
rivendica il culto delle Sacre Immagini, dando anche preziose indicazioni
contro le deviazioni iconografiche.
Il
Papa Urbano VIII poco appresso riassume in una lettera le
dicisioni del Concilio, aggiungendo altre gravi precisazioni.
L'arte sacra è salva un'altra volta. Essa offre alla Chiesa romana la sua
stupenda eloquenza e il suo incomparabile fasto per
celebrare le verità della fede e la maestà del culto. “I novatori ci accusano —
scrisse S. Canisio — di una certa prodigalità negli
ornamenti delle chiese; essi somigliano a Giuda che rimproverò Maria Maddalena
perché versò dei profumi sulla testa di Cristo” (De Maria
Virgine, pag. 710).
Il
Codice di Diritto Canonico riassume e aggiorna tutta la legislazione della
Chiesa circa il culto alle sacre immagini.
III - Ufficio e carattere dell’arte sacra
Non
è mia intenzione di ripetere quanto ho detto nei numeri di “Fede e
Arte” (fascicolo d'ottobre 1953, fascicolo di
febbraio 1954) sull'ufficio e sul carattere dell'arte
cristiana. Dirò solo che l'arte sacra non deve reggere il cencioso strascico
dell'arte profana. L'arte sacra non brancola nel buio o nell'affannoso dibattito
delle ricerche : essa serve un'idea chiara, viva,
vitale, splendente, e può innalzare, come ai tempi del Rinascimento, il suo
vessillo d'avanguardia.
Il
S. P. Pio XII ha definito l'arte sacra ancella
nobilissima della liturgia (Mediator
Dei): e in mirabili discorsi ha chiarito l'ufficio e il carattere
dell'arte cristiana. Perciò mi piace di riportare qui
le luminose parole del S. Padre. Nessuno può mettere in dubbio che Egli è, per
quanto riguarda l'ufficio e il carattere dell'arte sacra, il più autorevole e
augusto Maestro.
Il pensiero del S. P. Pio XII
L'8
aprile 1952, ricevendo gli artisti della Quadriennale Romana, rivolse loro
queste alte parole: “Quanto ci sia gradita la vostra presenza,
vi insegna la tradizione stessa del Pontificato
Romano, che, erede di universale coltura, non ha mai cessato di pregiare l'arte,
di circondarsi delle sue opere, di farla collaboratrice, nei debiti limiti,
della sua divina missione, conservandone ed elevandone il destino, che è di
condurre lo spirito a Dio.
E
voi, da parte vostra, già al varcare la soglia di questa casa del Padre comune,
vi siete sentiti nel vostro mondo, riconoscendo voi stessi e i vostri ideali
nei capolavori qui adunati attraverso i secoli. Nulla dunque manca a rendere
scambievolmente gradito questo incontro fra il
Successore, sebbene indegno, di quei Pontefici, che rifulsero come munifici
mecenati delle arti, e voi, continuatori della tradizione artistica italiana.
Non
occorre che spieghiamo a voi — che lo sentite in voi
stessi, spesso come nobile tormento — uno dei caratteri essenziali dell'arte,
il quale consiste in una certa intrinseca “affinità” dell'arte con la religione,
che fa gli artisti in qualche modo interpreti delle infinite perfezioni di Dio,
e particolarmente della sua bellezza ed armonia. La funzione
di ogni arte sta infatti nell'infrangere il recinto
angusto e angoscioso del finito, in cui l'uomo è immerso finché vive quaggiù, e
nell'aprire come una finestra al suo spirito anelante verso l'infinito.
Da
ciò consegue che ogni sforzo — vano, in verità — inteso a negare e sopprimere
qualsiasi rapporto fra religione ed arte, risulterebbe
menomazione dell'arte stessa, poiché qualsiasi bellezza artistica che si voglia
cogliere nel mondo, nella natura, nell'uomo, per esprimerla in suoni, in colori,
in giuoco di masse, non può prescindere da Dio, dal momento che quanto esiste è
legato a lui con rapporti essenziali. Non si dà, dunque, come nella vita, così
nell'arte — sia essa intesa quale espressione del soggetto o
quale interpretazione dell'oggetto — l'esclusivamente “umano”,
l'esclusivamente “naturale” od “immanente”. Con quanto maggior chiarezza l'arte
rispecchia l'infinito, il divino, con tanta maggior probabilità di felice
successo essa s'innalza all'ideale e alla verità artistica.
Perciò
quanto più l'artista vive la religione, tanto è meglio preparato a parlare il
linguaggio dell'arte ed intenderne le armonie e a comunicarne i fremiti.
Naturalmente siamo ben lontani dal pensare che per essere interpreti di Dio nel
senso ora esposto, si debbano trattare esplicitamente soggetti religiosi;
d'altra parte, non si può contestare il fatto che
forse mai come in essi l'arte ha raggiunto i suoi più alti fastigi.
In
tal guisa i sommi Maestri dell'arte sacra divennero interpreti oltre che della
bellezza, anche della bontà di Dio Rivelatore e Redentore.
Meraviglioso ricambio di servigi tra il Cristianesimo e l'arte. Dalla
fede essi attinsero le sublimi aspirazioni; alla fede essi attrassero le anime,
allorché, durante secoli, comunicarono e diffusero le verità
contenute nei Libri Santi, verità inaccessibili, almeno direttamente, all'umile
popolo. A ragione furono detti “Bibbia del popolo” i capolavori
artistici, come, per citare noti esempi, le vetrate
di Chartres, la porta di
Ghiberti (con felice espressione detta del Paradiso) i mosaici romani e
ravennati, la facciata del Duomo di Orvieto.
Capolavori questi ed altri, che non soltanto traducono in caratteri di facile
lettura e con lingua universale delle verità cristiane, ma di
esse comunicano l'intimo senso e la commozione con
una efficacia, un lirismo, un ardore, quale forse non possiede la più fervida
predicazione. Ora le anime ingentilite, elevate, preparate
all'arte sono più disposte ad accogliere la realtà religiosa e la grazia di
Gesù Cristo. Ecco dunque uno dei motivi, per i
quali i Sommi Pontefici, e in generale la Chiesa, onorano ed onorarono l'arte,
e ne offrono le opere quale omaggio delle umane
creature alla maestà di Dio nei suoi templi, che sono stati sempre in pari tempo
dimore di arte e di religione.
Coronate, diletti figli,
i vostri ideali di arte, con gli ideali religiosi, che quelli rinvigoriscono ed
integrano. L'artista è di per sé un privilegiato fra gli uomini, ma l'artista
cristiano è, in un certo senso, un eletto perché è proprio degli Eletti
contemplare, godere ed esprimere le perfezioni di Dio. Cercate Dio quaggiù nella
natura e nell'uomo, ma innanzitutto dentro di voi;
non tentate vanamente di dare l'umano senza il divino, né la natura senza il
Creatore; armonizzate invece il finito con l'infinito, il temporale con
l'eterno, l'uomo con Dio, e voi darete così la verità dell'arte, la vera arte.
Anche senza proporvelo espressamente come scopo, studiatevi
di educare gli animi — così facilmente inclinati verso il materialismo
— alla gentilezza e al gusto spirituale; avvicinateli gli uni agli altri, voi a
cui è dato di parlare un linguaggio che tutti i popoli possono comprendere. Sia
questa la missione a cui tenda la vocazione
artistica, della quale siete a Dio debitori; missione così nobile e degna che
basta da sé sola a dare alla vostra vita quotidiana, spesso aspra ed ardua, la
pienezza e il fiducioso coraggio”.
* * *
Abbiamo riportato nel N. precedente di Fede e Arte lo stupendo
discorso che il S. Padre pronunciò il 20 aprile
all'inaugurazione della Mostra del B. Angelico in Vaticano. Qui ne riportiamo la
conclusione.
È
vero che all'arte, per essere tale, non è richiesta una
esplicita missione etica o religiosa. Essa, come linguaggio estetico
dello spirito umano, se questo rispecchia nella sua verità totale, o almeno non
lo deforma positivamente, è già di per sé sacra e
religiosa, in quanto cioè è interprete di un'opera di Dio; ma se anche il
contenuto e le finalità saranno quelle che l'Angelico assegnò alla propria,
allora assorgerà alla dignità quasi di ministro di Dio, riflettendone un maggior
numero di perfezioni. Questa eccelsa possibilità dell'arte
Noi vorremmo qui additare alla schiera, tanto da Noi amata, degli artisti.
Che se invece il linguaggio artistico si adeguasse,
con le sue parole e cadenze, a spiriti falsi, vuoti e torbidi, cioè difformi dal
disegno del Creatore, se, anziché elevare la mente e il cuore a nobili
sentimenti, eccitasse le più volgari passioni, troverebbe bensì presso alcuni
eco ed accoglienza, anche solo in virtù della novità, che non è sempre un
valore, e della esigua parte di reale che ogni linguaggio contiene; ma una tale
arte degraderebbe se stessa, rinnegando il primordiale ed essenziale suo
aspetto, né sarebbe universale e perenne, com'è lo spirito umano, a cui si
rivolge.
Nel
tributare pertanto il Nostro omaggio al sommo artista, e nell'invitare i Nostri
diletti figli ad accogliere, quasi disposto dalla Provvidenza, il messaggio
religioso e umano di Fra Giovanni da Fiesole, il
Nostro pensiero non riesce a staccarsi dal considerare con ansia il presente
mondo in cui viviamo, così differente da quello descritto in queste mirabili
tavole, ove si trovano, suggellate da arte squisita, le più alte e più vere
aspirazioni dell'uomo.
Facciamo perciò ardenti voti, affinché il soffio della cristiana bontà, della
serenità e dell'armonia divina, che si sprigiona dall'opera dell'Angelico,
pervada i cuori di tutti”.
In questi mirabili discorsi, in cui il cuore del padre non
ha minor parte che il suo altissimo intelletto, è detto tutto per quanto
riguarda il fine e il carattere oggettivo dell'arte cristiana, e tutto per
quanto riguarda la disposizione soggettiva dell'artista.
Cercate Dio nella natura e nell'uomo, ma anzi tutto dentro
voi stessi...
Animalis
homo — ha detto S. Paolo — non percipit
ea quae
sunt spiritus (I Cor.,
15, 44). Perciò non si può leggere senza una grande
pena quanto L. Montano scrive nel “Corriere
d'Informazione” (alias “Corriere della Sera”) del
21-22 febbraio 1955: La più celebre chiesa moderna è di un uomo che non credeva
in Dio.
“Padre Couturier, un domenicano morto anch'egli
l'anno scorso e che lottò con fervore contro la decadenza dell'arte religiosa,
sosteneva che dove la tradizione è ancora viva, ai
bisogni della Chiesa possono supplire artisti minori; dove invece è morta, per
risuscitarla val meglio affidarsi ad un genio senza
fede, che a delle mediocrità credenti. Vogliono sia stato questo Padre ad
incoraggiare Matisse a far la Cappella del Rosario;
essa è in tutti i casi la traduzione in atto di
quella sua proposizione...
Infatti
Matisse non era punto credente: e ci teneva a far
capire che la sua offerta non indicava nessun mutamento nelle sue convinzioni,
da lui conservate fino all'ultimo. Non intervenne
né all'inaugurazione né alla consacrazione
dell'opera sua”.
Io
voglio sperare che la luce della verità sia lampeggiata all'ultimo momento
nella mente del pittore e che l'anima si sia rivolta all'infinita misericordia
di Dio. Ma poi faccio tutte le mie riserve sulla
celebre Cappella e sul genio del pittore, di cui parlerò più diffusamente nel
cap. seguente.
Non
nego che anche gli increduli possono intendere il fascino dell'idea religiosa;
ma rimarranno sempre degli interpreti semplicemente tecnici ed esterni senza
quell'accento e quel fuoco
che solo il sentimento e la sincerità possono dare. Somigliano a
colui che sente la melodia di un canto, ma non ne
capisce le parole.
L'arte cristiana è anzi tutto arte di pensiero; gli
increduli possono possedere mirabilmente il mestiere, ma sono
costituzionalmente incapaci di esprimere con sincerità il pensiero della Chiesa.
Non basta conoscere il vocabolario per scrivere una pagina eloquente; occorre il
pensiero e quella vis intima accende
l'eloquenza.
Si verifica
talvolta anche per l'arte lo strano fatto dell'indovino
pagano Balaam, che era stato chiamato dal Re di
Moab per maledire Israele e invece per tre volte fu
costretto a benedirlo.
Nella storia di Balaam la Bibbia narra anche di
un'asina che ha parlato. (Num.,
22-23).
Un opportuno chiarimento
Sono d'accordo col P. Regamey e con
L. Venturi su alcuni principi
generali — non su tutti. Si desidera il risorgimento dell'arte sacra e
l'epurazione delle chiese dalla paccotiglia
industriale e una più consapevole e cordiale intesa e collaborazione tra gli
artisti ed il clero. Benissimo.
Tutti lo desideriamo. Mi sia permesso di ricordare
che fin dal 1913 io ho fondato la rivista “Arte Cristiana” (che si pubblica ora
dalla Scuola B. Angelico di Milano) e la “Società degli Amici dell'Arte
Cristiana” appunto per rialzare il decoro dell'arte e del culto e per mettere a
miglior contatto il clero e gli artisti e stabilire
una miglior comunione tra il parroco e i fedeli. Ma, oggidì, io guardo, non alle
buone intenzioni e ai lodevoli propositi, ma agli odierni tentativi, alle nuove
esperienze dell'arte sacra, che non possono in alcun
modo persuadermi, perché mancano assolutamente al proprio fine.
Questo altissimo fine è stato consacrato da una storia quasi
bimillenaria ed è stato mirabilmente definito nei
citati discorsi del S. P. Pio XII.
H.
Leclerq, riferendosi ai primi secoli, scrive:
“Se, nel corso di tre secoli di lotte, di miserie e di persecuzioni, il
cristianesimo ebbe tanta cura per abbellire e decorare le volte sepolcrali, ciò
dimostra che è nella sua stessa essenza di tener conto della bellezza; dimostra
che tra il cristianesimo e le arti l'alleanza è, non
solo legittima, ma naturale, intima, pressoché necessaria” (H.
Leclerq: Dict.
D'Arch. Chr.
et de Liturgie.
Images).
Giova pur ricordare che Urbano VIII nel 1642, dopo il Concilio di Trento,
scrisse la nota lettera circa il fine dell'arte sacra: “Ciò che
viene presentato ai fedeli non deve apparire
disordinato e singolare, ma deve contribuire a ravvivare la devozione e la
pietà: quae oculis
fidelium subiiciuntur
non inardinata, nec
insolita appareant, sed
devotionem pariant
et pietatem.
L.
Venturi dice: - “Vi è sempre stata un'arte che deve all'afflato religioso del
proprio autore la capacità di trascendere i limiti della conoscenza umana, di
aprire le porte del finito verso l'infinito. È quella l'arte religiosa che anche
prima del cristianesimo è stata compresa e ammirata”.
Il Venturi
cita Dione Grisostomo del I secolo dopo Cristo e Filostrato
del III secolo dopo Cristo e riporta le parole che si leggono a S. Agnese fuori
le mura sotto il mosaico del VII secolo: — “Ecco la pittura d'oro e di tessere
musive; sembra che racchiuda tutta la luce del giorno... Dio che ha potuto
segnar la fine sia della notte sia del giorno, è lui stesso che ha cacciato le
tenebre di qui” (La “Nuova Stampa”, Torino, 9 marzo 1954).
Nulla da eccepire. L'arte, e specialmente l'arte sacra, deve riflettere la luce
di Dio, non le tenebre del demonio, un raggio della bellezza che Dio,
speciei generator
(Sap., 13-3) ha diffuso
nell'universo e specialmente nell'uomo, fatto a sua immagine (imaginem
Dei circumferimus, dice S. Clemente
Alessadrino) — non i sacrileghi attentati di coloro
che mutaverunt
gloriam incorruptibilis Dei, in
similitudinem imaginis
corruptibilis hominis,
et volucrum,
et serpentium - hanno
cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo
corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili (Rom., I, 23).
Mi
scrive un signore, indignato, per aver visto in una Mostra d'arte sacra moderna
un Cristo rappresentato con una testa di gorilla...
Del
resto sembra che lo stesso P. Regamey, in pratica,
si tenga alla buona tradizione. Infatti il suo bel
libro Les plus beaux
textes sur la Vierge
Marie è illustrato dalle riproduzioni di opere
dei nostri grandi maestri.
Architettura
In
questo cataclisma dell'arte figurativa pare però che si salvi la nuova
architettura intesa cum grano
salis. Questa, nei suoi elementi fondamentali è
venuta chiarendosi e soddisfa al gusto della semplicità, al bisogno
dell'economia, alla
esigenza dei nuovi materiali di costruzioni e ai bisogni della vita moderna,
cercando di rendere abbastanza bello l’elemento semplicemente utilitario.
Ma
per l'architettura ecclesiastica occorre qualcosa di più che
la funzionalità edonistica della vita. Il tempio è la
misteriosa dimora di Dio, il rifugio delle anime; la struttura architettonica,
la luce e le ombre devono, come nelle cattedrali antiche, avvolgere il fedele
nella suggestione del mistero, che lo innalza a Dio;
ascensiones in corde suo disposuit
(Ps. 83-6).
La
chiesa non è una macchina per pregare, come pensa il Le
Corbusier. È un ponte gettato tra il finito e
l'infinito; è la mistica nave, che imbarca gli uomini sulla sponda del tempo per
condurli all'approdo dell'eternità.
Noi
non accettiamo per le chiese il senso della serie
delle case moderne, né il nudismo delle sale protestanti. Tutto è vivo e
funzionale nella chiesa, il dramma liturgico, l'oratoria, il canto, l'arte
figurativa e anche il decoro ornamentale.
L'Istruzione del S. Officio sull'Arte Sacra dice
chiaramente:
“L'architettura sacra, anche se assume nuove forme, deve adempiere sempre il suo
ufficio, che è di costruire la casa di Dio, casa di
preghiera, giammai assimilabile ad un edificio profano.
Miri pure alla comodità dei fedeli, rendendo loro agevole
seguire, con la mente e con gli occhi, lo svolgimento delle sacre cerimonie;
all'eleganza delle linee, ma non disprezzi la semplicità per dilettarsi di vuoti
artifizi, e soprattutto eviti con cura tutto quello che possa rivelare
negligenza nell'opera d'arte”.
Purtroppo ci sono ingegneri e architetti, che ignorano ostentatamente
l'Istruzione del S. Officio, inserendo e sviluppando negli schemi architettonici
delle chiese le più arbitrarie stravaganze costruttive, in modo che dette chiese
possono sembrare padiglioni per fiere campionarie o capannoni per spiagge
balneari o qualsiasi altro edificio meno che chiese.
Ricevo ora il Numero 33 della rivista “Arquitetura
e Engenharia” del Brasile
con strampalati disegni per diverse chiese. Un architetto, indignato, mi
scrive: “Da quando un basso materialismo ha invaso il campo
dell'arte in questo paese, specialmente nel settore dell'architettura,
sto dando battaglia senza tregua contro questa manifestazione esistenzialista
nelle arti plastiche, chiamata “arte moderna”, la quale, per mezzo di una
potente organizzazione di carattere internazionale,
sta danneggiando enormemente la formazione artistica della gioventù di tutto il
mondo”.
Opportunatamente
l'Istruzione del S. Officio ricorda che, a tenore del Can. C. I. C. 1162, non si
può erigere una chiesa senza il permesso scritto dell'Ordinario. L'Istruzione è
appunto diretta ai Vescovi, i quali hanno il diritto e il dovere di far valere
il proprio giudizio anche sulle chiese affidate ai Religiosi quando queste
chiese sono aperte al pubblico.
IV - Artigianato
Noi
assistiamo a un felice rinascimento dell'artigianato
in opposizione all'industrialismo pseudo-artistico.
Noi dobbiamo incoraggiare l'artigianato che offre i suoi doni di modesta ma
sincera bellezza alla svariata suppellettile ecclesiastica. Il prodotto, che
esce in serie dalle macchine, è artisticamente, una cosa morta; mentre il più
umile arredo prodotto dell'artigiano, per esempio un cancello, un candeliere, un
ferro battuto, un secchiello sbalzato, ecc. è vivo. L'opera, che esce dalla
mano dell'uomo, ha un'impronta originale e piace come piace
una modesta pianta viva in confronto di un fiore artificiale. Ma la tendenza al
sommario e al mostruoso della grande arte fa sentire
il suo peso anche nelle produzioni dell'artigianato. Potremmo citare
esposizioni e riviste. Mi basti di ricordare due riviste: “Das
Münster”, il cui fascicolo 9-10 del 1954 è dedicato
alla illustrazione della suppellettile sacra prodotta
dall'artigianato, e l'“Arte Cristiana” dell'ottobre 1954, in cui si illustra un
concorso della Via Crucis in ceramica.
Accanto a nobili lavori, vivi di modernità e di bellezza, ve ne sono altri di
una linea cruda e sommaria, i quali vi fanno respirare, non tanto la fresca aria
del nostro tempo, ma l'aria appesantita di musei
chiusi o dei sentieri spazzati dal vento modernista.
Comunque,
l'affetto all'artigianato merita tutto il nostro incoraggiamento, perché esso
fiorisce spontaneamente dalla tradizione e dal gusto popolare e corrisponde alla
bella tradizione della Chiesa. È il sermo
plebeus che ha una vivacità tutta sua ed esprime
certe idee meglio che il sermo
aulicus.
V.
Guzzi, parlando dell'Esposizione degli Artisti
Nordici aperta a Roma nell'aprile 1955, scrive: “Le tradizioni non
si improvvisano, ma intanto si creano,
faticosamente... Nello studio della cosiddetta arte decorativa o applicata (così
si diceva una volta) paesi come la Svezia, la Norvegia, la Finlandia si possono
non solo dire all'avanguardia del gusto, ma producono oggetti di grande e
originale bellezza. Perché in quello studio evidentemente si combinano le
tendenze ornamentali del gusto folcloristico (e cioè
della tradizione popolare) con il prestigio d'una tecnica e d'un “gusto” quanto
mai raffinati e moderni” (il “Tempo”, 7 aprile 1955).
Il
P. Knipping O. F. M.
nella rivista olandese “De Bazuin” del 20 marzo 1954
fa questa acuta osservazione degna di attenta
considerazione: “Possiamo aspettarci che un artista come ha imparato a valutare
ed a maneggiare il suo strumento, così dovrà poter arrivare, anche con la
macchina, ad un'opera d'arte. E non è ciò risultato
da qualche secolo nell'arte tipografica e della stampa? E non abbiamo
un'eccellente esperienza nell'arte cinematografica, dove la tecnica
dell'industria domina un sì esteso terreno, senza però avere mai la parte più
importante: la parte più importante l'hanno i
creatori dei films; e sono loro che vengono
biasimati se un prodotto non riesce come opera d'arte, e che vengono lodati se
una creazione riesce”.
Sintomi di ritorno alla iconografia da parte dei
protestanti
Nella crisi di pensiero, che travaglia tanti Protestanti, si
inserisce oggidì anche l'ansia di ritornare alla iconografia cristiana.
Il
P. John B. Knipping O.
F. M. scrive sul Settimanale “De
Bazuin” (24 aprile 1954) :
“All'inizio di quest'anno la rivista protestante “Wending”
ha pubblicato, sotto il titolo Chiesa ed Arte, una serie di articoli
molto interessanti, in cui ogni autore dava — sul proprio terreno — il suo ben
ponderato parere circa il posto ed il compito delle opere d'arte entro
l'ambiente di vita protestante. La maggior parte degli articoli furono delle
conferenze rese adatte per la pubblicazione, e tenute nell'estate del 1953 ad
Amsterdam davanti ai congressisti di “Vie e confini”. È specialmente con i
magnifici studii di Léon
Wencelius nel 1937 e 1938 (“L'Esthétique
de Calvin” e “Calvin
et Rembrandt”, ambedue a
Parigi) che il”problema dell'opera d'arte “abbia
incominciato più particolarmente ad interessare gli animi di molti
Protestanti entro e fuori del nostro Paese. È sempre una
gioia di vedere degli uomini superare la loro avversione per le arti grafiche —
a causa delle circostanze, la loro avversione non è del tutto
irragionevole —, e di veder armarsi di maggiore libertà di giudizio”.
La
“Gazette de Lausanne”
nel numero del 17 maggio 1954 parla di una seduta dedicata a
una discussione sull'arte cristiana.
“Que d'opinions contradictoires! La nuit la plus opaque côtoyait
le jour le plus éblouissant! Reste à savoir si ces entretiens ont fait jaillir
la lumière...
“Il y a une chose certaine : l'Eglise protestante recherche
activement le concours d'artistes susceptibles de lui apporter une bouffée d'art
vivant...
“M. le pasteur Deluz pense que Dieu
peut se servir de formes matérielles et des images pour se manifester. Croire
que Dieu ne se révèle que par des paroles est le fait d'un faux spiritualisme.
Seul le témoignage artistique demeure dans les sanctuaires après le culte.
Seule l'introduction d'oeuvre d'art dans nos sanctuaires peut remédier à
l'impression de vide et d'absence que laissent la plupart d'entre eux. On doit
condamner les idoles, mais pas l'art religieux. Il ne faut pas confondre art
religieux et idolâtrie...”.
È
la rivincita del buon senso e del magistero della Chiesa cattolica!
Un protestante scrive
nella “Gazette Litteraire”
di Losanna: “La rigueur de l'art non-figuratif, sa
singulière cérébralité, cet art dégagé de l'accidentel et de l'éphémère ne
s'accorderait-il pas avec 1'austérité de la pensée protestante? Un peintre
non-figuratif ne serait-il pas — plus qu'un autre — capable de nous donner
l'équivalent plastique d'Esprit et Vérité? Une oeuvre d'art n'est-elle pas
avant tout religieuse par son esprit?”
(n. 246, 1953).
Quest'arte
astratta (che non è nuova, perché è usata da secoli nelle moschee dei musulmani)
potrà rispondere più o meno al sentimento dei
protestanti, ma non può essere accettata nelle chiese cattoliche se non come un
qualsiasi partito ornamentale, non come arte liturgica: questa ha una funzione
catechetica ed edificante, simile alla funzione
dell'oratoria sacra.
V - Scandali nell’arte sacra moderna
La mia casa è casa di orazione; voi ne avete fatto
una spelonca...
(Luc. 19-46).
(Luc. 19-46).
S.
Paolo ha detto: È necessario che vi siano perfino delle eresie fra voi affinché
chi è sincero venga riconosciuto (I Cor, II, 19).
L'Apostolo dice pure che bisogna fare la verità con spirito di carità (Eph.,
4, 15). Perciò qui si parlerà piuttosto delle cose
che delle persone, moltissime delle quali sono certo in buona fede.
Lo scandalo di Torino: La “Stampa” scriveva nel numero del
31 dicembre 1954: “Un delicato problema di culto: Sculture Religiose in
quarantena.
— La Curia non ha concesso la consacrazione di una cappella nell'Istituto di S.
Anna”.
“È
sorta a Torino, nell'Istituto S. Anna di Via Massena
36, una delicata questione riguardante il culto,
l'arte e la morale, nei rapporti spirituali fra figurazione religiosa
chiesastica e il pubblico dei fedeli, nel caso presente, quasi tutti
adolescenti; e se vi accenniamo è perché essa investe un ben più vasto problema;
oggi ardentemente dibattuto in sede di estetica, di liturgia e di dogma sia
dagli artisti che dal più illuminato clero.
Avvenne che le Suore dell'Istituto scolastico femminile di
Sant'Anna (corsi elementari, medi e magistrali) desiderassero una loro
cappella interna per le funzioni religiose ad uso delle allieve, utilizzando
l'incrocio di due vasti ambienti; bracci di gallerie. Per il progetto
dell'altare, per il pulpito e le sculture sacre
l'impresario dei lavori si rivolse allo scultore Umberto
Mastroianni, artista di ben note capacità, invitato alle maggiori mostre
internazionali, il quale, dopo essere stato mosso da un franco naturalismo, s'è
gradatamente avviato a forme più attuali, fino a divenir campione d'astrattismo.
Ma qui non giudichiamo ora le due tendenze e
conversioni. Il fatto è un altro.
È
che, ultimati e collocati, altare, pergamo e
sculture, le povere Suore di Sant'Anna si trovano in
un bell'imbarazzo: in quanto la Curia ritiene di
non poter consacrare la cappella, giudicando “impudiche” le sculture, specie il
grande marmo di Cristo, che sta a fianco, quasi dominandolo, del pulpito.
Problema, ripetiamo, di estrema delicatezza. La
Chiesa fu per secoli il massimo committente, in Italia, degli artisti, e
dà loro tuttora molto lavoro. Come ogni committente
ha esigenze e gusti connessi con opportunità varie; e ha il diritto di chiedere
che siano rispettate; e del maggiore o minore rispetto essa sola è giudice: non
tollerando — giustamente — che altri s'intrometta.
Ma
il clero stesso, su questo punto, non è tutto concorde; chi non conosce
l'appassionata propaganda già svolta dal domenicano padre
Régamey a favore d'una più libera, meno tradizionale e pietistica, e
soprattutto più “artistica”, figuratività religiosa?
Nel contrasto fra conservatorismo e modernismo, può
anche darsi che illusoriamente si veda
“impudicizia”, là dove viceversa parla la stilizzazione; od il rivivere di una
commossa sincerissima e perciò “religiosa” visione arcaica dell'arte, e quindi
della raffigurazione divina.
È
il caso, a parer nostro, dell'opera compiuta del
Mastroianni : il quale si ispirò a motivi ora
bizantini ora romanici, forse risalendo, nel disegno, per noi bello e originale,
dell'altare ad esempi proto-cristiani intelligentemente parafrasati. E
inutilmente ci siamo sforzati di scorgere l’”impudico” in severe sculture che,
anzi, ci sono parse rigorosamente “mistiche”, non nel senso
della pietistica svenevolezza, ma nel concetto più austero che la parola
esprime. Potranno, secondo il punto di vista, esser anche giudicate “brutte”;
non moralmente censurabili. Comunque, è evidente che
in un tema così delicato la decisione spetta soltanto alla Curia” (mar. ber.).
L'Emmo Card. M. Fossati, Arcivescovo di Torino, fu
chiamato un giorno a vedere un quadro sacro, che doveva essere esposto in una
chiesa, ma aveva suscitato delle discussioni. Il Cardinale diede questa
risposta: Non intendo di giudicare il valore artistico del quadro. Lo considero
solo sotto l'aspetto liturgico. Per questo aspetto
devo dire che non può essere esposto al culto.
Osservazione perfetta. Nessuno, neppure gli avversari, possono mettere in dubbio
la competenza dell'Autorità ecclesiastica in fatto di liturgia.
Per
riguardo a certi artisti, che pretendono di giudicare il carattere liturgico
dell'arte, viene alla mente la risposta che Apelle
diede a un calzolaio, che, oltre il giudizio sulle
scarpe dipinte si arrogava la pretesa di altre critiche:
Sutor, ne ultra crepidam... (Ciabattino,
non [andare] oltre le scarpe)
Lo scandalo della cappella di Vence (Francia)
Il
letterato Giovanni Comisso scrisse nel n. 286 di
novembre 1954 della stessa “Stampa” di della Cappella di
Verace:
“... Si chiama Cappella del Rosario, ma tutti la
conoscono come la Cappella Matisse. Fa parte di una
casa di riposo tenuta da Suore domenicane, è situata fuori
dalla cittadina sul declivio di un monte incoronato da una parete di
roccia, simile a un diadema. Si passa di fianco a questa Cappella senza
accorgersene e si deve ritornare indietro. Ha le tegole di ceramica azzurra
come i palazzi imperiali di Pechino. Sopra, si alza una
grande croce in ferro che fa anche da campanile. Discesa una scala si
entra; da due entrate la luce penetra colorata di verde, di giallo e
di azzurro. Tutto è nitido. Un altare sta di sbieco,
sopraelevato. A una parete
Matisse ha tratteggiato su piastrelle di ceramica bianca un ritratto di
San Domenico, su altre piastrelle una Madonna e su altre ancora gli episodi
della Crocefissione, abbozzati come sulle pagine di
un album, confusi, ma segnati da chiarissimi numeri d'ordine. Solo la luce delle
vetrate dà un senso religioso al luogo.
Tra
i visitatori vi è un giovane alto che prega, gli altri sono incuriositi e
dubbiosi. Le donne sembrano turbate di non sentire
voglia di pregare e di non potere mettersi a ridere. Una, che interrogai più
tardi, mi disse che le sembrava di essere in una
stanza da bagno. Difatti è inutile affannarsi a
cercare simboli della Gerusalemme Celeste, quelle mattonelle di ceramica
bianca, dato l'uso comune, hanno solo un simbolo banale. È incredibile che
questa Cappella abbia fatto tanto chiasso, diffuso per tutto il mondo”.
La
Via Crucis si chiama
chemin de la croix, ed è l'uso
comune di percorrerla dal primo dei 14 quadri rifacendo idealmente il viaggio
di Cristo sul Calvario. Il Matisse l'ha
rappresentata tutta in un quadro pieno di un groviglio di geroglifici... È pure
ovvia la necessità di una stesura artistica di facile leggibilità: l'immagine
deve parlare alla fantasia e commuovere il cuore.
Qui
conviene richiamare alla memoria il decreto della S.
Penitenzieria Ap. in data 13 marzo 1938, che
dà le norme fondamentali per l'esercizio della Via Crucis; tra queste, è detto
che le stazioni debbono essere 14 a distanza una
dall'altra e a ognuna deve sovrastare una croce di legno ben visibile. Per
lucrare la indulgenza è necessario fra una stazione e
l'altra fare uno spostamento del corpo come per seguire il cammino di G. Cristo
verso il Calvario.
Le
immagini sacre tracciate a contorno piuttosto che dipinte, e il Crocefisso
contorto e barbarico posto sull'altare ripugnano non
solo alla buona tradizione artistica, ma disorientano il senso religioso. Si
plaude alla novità. Ma Pio XI ha detto: “Se ne
tentano le difese in nome della ricerca del nuovo e della razionalità delle
opere. Ma il nuovo non rappresenta un vero progresso se non è almeno altrettanto
buono che l'antico; e troppo spesso questi pretesi nuovi sono sinceramente,
quando non anche sconciamente, brutti e rivelano soltanto l'incapacità o
l'impazienza di quella preparazione di cultura generale, di disegno — di questo
soprattutto — di quella abitudine di paziente e
coscienzioso lavoro, per il difetto e l'assenza delle quali
vien meno la stessa tanto ricercata novità, troppo somigliando a certe
figurazioni che si trovano nei manoscritti del più tenebroso medioevo, quando si
eran perdute nel ciclone barbarico le buone
tradizioni antiche ed ancora non appariva un barlume di rinascenza” (Discorso
per l'inaugurazione della nuova Pinacoteca Vaticana, 27 ottobre 1932).
Altri scandali
Episodi simili a quelli di Torino e della Francia si
sono verificati qua e là in Germania, nel Belgio, nell'Olanda,
nella Svizzera, nelle Americhe. L'eresia è dura a morire. Ma come la Chiesa,
columna et
firmamentum veritatis
(I Tim., 3, 15), ha
trionfato delle antiche eresie, così assisterà al tramonto della nuova eresia
depravatrice dei soggetti sacri.
Lo scandalo di certe riviste
La
rivista “L’Art d'Eglise”,
pubblicata dai Benedettini dell'Abbazia di S. Andrea di Bruges nel Belgio, è
una nobile palestra per il conoscimento e il rinnovamento dell'arte cristiana.
Ma talvolta troppo indulgente verso i nuovi indirizzi
dell'arte sacra. Non possono persuaderci le stazioni della Via Crucis di
Ludevig Scaffrath
graffite in una chiesa di
Aix-la-Chapelle e pubblicate sul n. 4 del 1954. Ci rincresce di citare
questo esempio, ma crediamo nostro dovere di
segnalare certe aberrazioni anche se sono patrocinate da bravi e buoni
Religiosi. Quanto diciamo per l'Art d'Eglise
vale anche per altre riviste d'arte.
Noi
non intendiamo di giudicare le intenzioni, ma guardiamo obiettivamente ai fatti.
Questa Via Crucis, sommaria e deforme, offende il
nostro sentimento e crediamo che, più che edificare i fedeli, li scandalizzi.
La figura di Cristo non può essere oggetto di forme caricaturali o
depravatrici.
Certi Religiosi, come quelli dell'Art
Sacré di Francia, sono mossi dal desiderio, per
sé lodevole, di portare l'arte della Chiesa nella corrente dell'arte moderna,
perché la Chiesa non apparisca un istituto sorpassato ed estraneo ai nuovi
tempi; pensano che l'arte cristiana ha accettato nel corso dei secoli tutte le
forme progressive.
Sì,
l'intento è lodevole: ma è pericoloso come quello della mano tesa ai
comunisti. Sì, la Chiesa ha accettato tutte le forme progressiste, ma le
ha accettate quando esse non offendevano il carattere
sacro del culto, condannando tutte le aberrazioni, come ha fatto il Concilio di
Trento con la disposizione della XXV Sessione.
I
Religiosi temono di parere sorpassati, di non capire
la sete di novità dell'arte. Pare una specie di rispetto umano.
Si illudono anche di richiamare a Cristo artisti che
si professano atei e agnostici. Un prete italiano, del resto distinto scrittore,
ha detto che i personaggi che il
Podesti ha rappresentato nella Sala dell'Immacolata al Vaticano sembrano
pupazzi di stoffa preziosa inzeppati di paglia. Non ha tenuto conto che questi
affreschi rappresentarono al suo tempo quanto di
meglio si sapesse dipingere; e ora li giudica secondo il capriccio della moda.
Se è tramontata la moda classicheggiante del
Podesti, tramonterà anche la moda dell'arte
contro-natura. Noi vogliamo che l'arte cammini, ma col passo umano, non
coi salti del canguro. Ugo
Ojetti, che non era certo un reazionario, ha scritto: “L'arte è un fiore
che sorge da radici profonde. Chi osa svellerla dalla vita e dalla patria, chi
osa immaginarla astratta e recisa dal tronco che sugge nel suolo nativo le linfe
e le forme i colori, la vede avvizzire in breve ora e
non v'è sottigliezza di dialettica od orgoglio di rettorica
che la salvi...”.
“Questa è la gloria dell'arte italiana: d'avere cercato in ogni uomo il modello
divino, e d'avere così riconciliato l'uomo con l'universo che lo circonda e lo
riflette; d'avergli cioè rivelato l'ordine che è
sopra l'apparente disordine, il sole che è di là dai nembi, la quiete che è di
là dagli uragani, la primavera che è di là dal gelo, il bene che è di là dal
male, la gioia che è di là dal dolore; d'avergli fatto in terra sentire l'eco di
quella che Dante udì dolce sinfonia di Paradiso” (Più Vivi dei Vivi,
pag. 42).
Lo scandalo di certi cataloghi
Non
si sono mai tenute tante esposizioni d'arte sacra come in questi ultimi tempi.
Il fenomeno è significativo ed è degno per sé di
incoraggiamento e di lode. Ma quali frutti si sono
attenuti sinora? Erat
videre miseriam (II
Mac., 6, 9). Ho tra le mani il catalogo della
“Primera Exposición de
Arte Sacra moderna” celebrata a Buenos Aires sull'ottobre del 1954.
Il
catalogo si apre con la lettera di S. E. Mons. G.
Battista Montini, che reca
l'augurio e la benedizione del S. P. Pio XII.
È detto bellamente : “La Iglesia da paso libre a todo lo que de
bueno y bello queda haber en las interpretaciones de cada época.
Mas no habrá de olvidarse quel el magisterio eclesiástico, aún
sin salirse por ello de su propria misión, tiene una palabra que decir tanto
para prevenir o evitar posibles desavenencias entre los cánones de las nuevas
creaciones y las reglas de la moral, como para hacer servir el arte religioso a
su función de ayudar a la piedad y devoción de pueblo fiel. Así lo ha hecho
siempre y últimamente lo acaba de hacer al advertir el peligro de ciertas
desviaciones. El respecto a las disposiciones de la Santa Sede sará guia y
salvaguardia para un sano empeño renovador”.
Vi
è pure riportato il mirabile discorso che il Santo Padre Pio XII rivolse agli
artisti della Quadriennale Romana l'8 aprile 1952.
Dopo una premessa così nobile, si pensa di entrare in una basilica fulgente
d'arte. Ahimè, accanto a concezioni più o meno buone,
ve ne sono alcune che, seguendo i moderni indirizzi
deformatori, avviliscono e oltraggiano i sacri soggetti: sono vere
bestemmie figurative. Ne riporto alcune in questo fascicolo.
Penso che l'Autorità ecclesiastica si sia trovata in grande imbarazzo.
Ma conviene ricordare che l'Autorità ecclesiastica
non deve lasciarsi coinvolgere dai fanatismi
pseudo-artistici, che degradano l'arte sacra. È la Chiesa che deve dare
le direttive agli artisti, come nel passato; non sono gli artisti, che possono
dar norme alla Chiesa in fatto d'arte religiosa.
Quello che è accaduto a Buenos Aires si verifica,
mutatis mutandis,
in quasi tutte le moderne esposizioni d'arte sacra. Una ragione di più per
reagire contro questo disordine.
VI - Le cause dell’epidemia lebbrosa dell’arte moderna
L'arte sacra non è che una branca dell'arte comune.
Conviene quindi risalire alla malattia dell'arte in genere per valutare in
specie l'infezione di cui soffre l'arte sacra. Non pretendo d'arrogarmi una
competenza che non ho, ma esprimo con tutta semplicità il mio parere, che potrà,
se mai, servire come elemento di giudizio per chi voglia approfondire il
problema dell'arte moderna.
L'arte malata
Mi
avvicino al malato con rispetto e amore, come il medico che fa la diagnosi del
male per trovare i rimedi.
Che
l'arte in genere sia ammalata quasi tutti lo
ammettono. Quelli che plaudono all'arte modernista lebbrosa
sono una esigua minoranza, tra cui non manca l'interesse di certi commercianti.
Le
Biennali di Venezia ci offrono la più significativa
documentazione del morbo che affligge l'arte moderna.
Un
acuto studioso mi scrisse dopo aver visitato la Biennale del 1922: “Non so se
devo piangere o ridere...”.
Bernard
Berenson ha detto queste gravi parole circa la
Biennale del 1954: “Si tratta di balbettamenti, di
infantilismi, che io non posso in nessun modo approvare: decadenza: non c'è
altra parola” (Intervista del “Gazzettino” 27 giugno 1954).
I
premi ufficiali dati dalle Autorità ad alcune opere stravaganti delle Biennali
sono un incontrovertibile documento dello sfacelo dell'arte moderna.
Il
valoroso e coraggioso critico d'arte Leonardo Borgese
scrive: “Del resto l'arte d'avanguardia o rivoluzionaria è oggi in Italia
soprattutto un affare burocratico, ministeriale e ufficiale, tra le mani dei
funzionari e dei professori d'università” (“Corriere della Sera” del 6 marzo
1955).
Si
arriva a fare dei grandi ciotoli per la scultura e
si farnetica di rappresentare la statua, che è fatta di volumi, con grovigli di
fili di ferro.
Forse lo sfacelo indica il morire del germe per la creazione di una pianta
nuova, come quando una vecchia quercia produce l'ultima ghianda e muore. La
ghianda cade a terra e ricomincia la vita. Così un vecchio animale genera
l'ultimo figlio e muore. Il figlio ricomincia l'infanzia e procede per l'età
adulta fino alla vecchiezza. E noi speriamo che, dopo questa
aberrante moda della deformazione e della bruttezza, dopo questa morte
della figura. l'arte risorgerà.
Tutto ciò premesso, noi ci domandiamo: Quale virus,
quale infezione ha ridotto a questo stato patologico l'arte? Quali sono
le profonde cause per le quali l'arte moderna rinnega i canoni eterni e
universali della bellezza?
Il
fenomeno è impressionante per la sua estensione e per le approvazioni ufficiali
e per il successo momentaneo del mercato artistico. Tutto ciò non può essere
arbitrario; cerchiamo ora di scoprirne le cause.
L'era atomica
Mi
pare che c'è una causa che dirò ontologica, la quale sfugge agli stessi artisti;
essi ne sono una inconsapevole vittima. Gli artisti,
con la loro ipersensibilità, sono lo specchio del proprio tempo, sono una specie
di radar, che preannuncia i pericoli lontani. Viviamo, col respiro sospeso da un
terrore apocalittico. Winston Churchill, il 1° marzo dell'anno corrente, ha
pronunciato ai Comuni queste tragiche parole sui pericoli della bomba H: “Mi si
stringe il cuore quando guardo la gioventù piena di
ardore e di vita e quando guardo i bambini che giocano ignari. Ed io mi ripeto
questa terribile domanda : Che cosa sarà di essi se
Iddio si stancherà degli uomini?
Noi
viviamo in un periodo unico nella storia, nel quale il mondo intero è diviso
intellettualmente e in largo senso anche geograficamente fra il Credo della
disciplina comunista e il Credo della libertà individuale e nel tempo stesso
questa divisione mentale e psicologica è accompagnata dal possesso, da ambo le
parti, delle pericolose armi dell'epoca nucleare...
Vi
è un immenso abisso fra la bomba atomica e la bomba
H. La bomba atomica con tutti i suoi terrori, non ci
portava al di là dell'ambito del controllo umano e
degli eventi controllabili sia in pace che in guerra. Ma
tutti i fondamenti delle vicende umane sono stati rivoluzionati, e l'umanità è
stata posta in una situazione gravata dall'ombra della perdizione. Non vi è
difesa — nessuna difesa assoluta — contro la bomba H...”.
Il
presidente Eisenhower ha detto nel suo messaggio al
Congresso americano il 6 gennaio 1955: “...È della massima importanza che
ciascuno di noi comprenda la vera natura della lotta che si sta ora svolgendo
nel mondo. Non è una semplice lotta di teorie
economiche, o di forme di governo o di potenza militare. È in gioco la vera
natura dell'uomo. O l'uomo è la creatura che il salmista definisce ”un po'
al di sotto degli angeli”, o è una macchina
senz'anima destinata ad essere sfruttata dallo Stato per la glorificazione di
questo”.
Il
disordine pauroso di questa epoca — non posso dire
di questa civiltà — si ripercuote nell'anima degli artisti, ed essi fanno
un'arte, che alcuni hanno appunto detto nucleare, un'arte del disordine.
V.
Guzzi, parlando di Chagall
(“Il Tempo”, 14 aprile 1955), dice: “Si sa ch'esso è
uno dei fatti autentici dell'arte contemporanea; e ch'esso esprime l'ansia di
sogno e di innocenza d'una età troppo congegnata e meccanica, tutta
razionalità e freddo gusto di forma”.
A.
Malraux scrive: Le arti moderne mettono sordamente
in questione la civilizzazione, che rappresentano. Li
è il legame che unisce gli ingenui ai primitivi medioevali, i pazzi e alle
volte i bambini ai primitivi dell'Eufrate.
Ciò rende ciascuna di queste arti un'espressione dell'antiumano del nostro
secolo .. Il gusto di una certa preferenza di forme,
non avviene senza un appello alle forze oscure dell'uomo (l'inconscio).
Al
principio del secolo, sono i pittori esaltati come i più moderni che scavano
rabbiosamente nel passato. Da Cezanne,
che impone ai paesaggi i piani della scultura gotica, a
Gauguin, che metamosfosa l'arte della
Polinesia, a Derain, a Picasso,
che suscitano i negri e gli idoli sumerici, gli
artisti cercano tutti i mondi, salvo quello che è loro imposto. Essi
sanno come l'accordo dell'uomo
con se stesso è divenuto menzognero; e le loro opere, sembrano convergere verso
il punto vulnerabile della civilizzazione in cui sono chiusi...
Il
dominio del demonio è proprio di tutti quelli che, nell'uomo, aspirano a
distruggere l'uomo (Psychologie
de l'art. A. Skira V. I pagg.
124-126-127).
L'influsso delle correnti filosofiche
Gli
artisti non sono filosofi, ma, con la loro ipersensibilità, avvertono le
correnti filosofiche del tempo e ne subiscono, consapevolmente o
inconsapevolmente, l'influsso.
Le
tendenze filosofiche dell'Ottocento passarono nel Novecento. Il pensiero
positivista, degenerato spesso nell'agnosticismo e
nel materialismo, spense la luce dell'anima;
l'idealismo non ammetteva altre realtà che il pensiero. Il filosofo C.
Wolff nel Settecento aveva detto “che l'idealismo
ammette l'esistenza delle cose nel nostro pensiero, negando l'esistenza reale
del mondo fisico”.
L'arte nella seconda metà dell'Ottocento e nella prima metà del Novecento, si
dibattè nella morta gora del positivismo o si smarrì
nelle nuvole dell'idealismo. Specialmente questo è
riuscito, in arte, a disintegrare la natura esterna dandoci delle
visioni soggettivistiche, deformatrici del vero e
riflettenti i truculenti fantasmi d'una fantasia esaltata. In Italia i corifei
dell'idealismo sono stati B. Croce e G. Gentile.
Il Croce,
nel Breviario di Estetica, così definisce l'arte: “L'arte è visione o
intuizione... Si nega anzi tutto che l'arte sia un fatto fisico... e, se si
domanda per quale ragione l'arte non possa essere un fatto fisico, bisogna in
primo luogo rispondere che i fatti fisici non hanno realtà... talché i fatti
fisici si svelano, per la loro logica interna e per comune consenso, come non
già una realtà ma una costruzione del nostro intelletto agli scopi della
scienza...”.
Noi
possiamo constatare come codesto idealismo abbia una
certa affinità e una indiretta responsabilità circa le correnti artistiche del
cubismo, del fauvisme, dell'astrattismo,
ecc.
I corsi e ricorsi di G. B. Vico
Si
riscontra veramente nella storia la vicenda delle salite e delle discese; delle
aurore e dei tramonti. Anche l'oceano umano subisce
il ritmo dell'alta e della bassa marea. Tutto ciò riguarda anche l'arte, perché
essa è il polso del battito della civiltà. Purtroppo siamo in un periodo di
bassa marea, che mette allo scoperto le brutture del fondo.
Le grandi civiltà babilonese ed egiziana sono tramontate senza nuovi
risorgimenti, i grandi monumenti antichi sono muti e desolati, testimoni di una
civiltà defunta. Altrettanto può dirsi della Grecia, che conobbe gli splendori
del V secolo prima di Cristo.
La
civiltà romana, che incorporò quella etrusca, non
resistette all'urto di barbari, e la grande arte dell'impero, mirabile
espressione di bellezza, di forza e di diritto, si imbarbarì fino alle rozze
espressioni dell'alto medioevo. La Chiesa ricostruì sulle rovine dell'impero
l'unità delle anime; e la civiltà antica, purificata ed innalzata dal
cristianesimo, rifiorì con la scolastica di S. Tommaso e col Rinascimento. I
nostri artisti del XV-XVI secolo porgono la mano ai
grandi artisti della Grecia e di Roma.
Oggidì assistiamo a un ricorso di decadenza, l'arte
bamboleggia falsamente rifacendo l'arte rude del medioevo e dei popoli delle
caverne. È un crepuscolo che, nei corsi e ricorsi storici, prelude all'aurora o
al vespero notturno? Speriamo che sia il crepuscolo di un nuovo giorno.
Comunque è un'arte in travaglio, una involuzione
regressiva.
La
vita dell'uomo non ha due infanzie: il vecchio, che
infantilisce, si dice che è un rammollito e
istupidito.
E.
Paratore scrive nel “Giornale d'Italia” del 12 marzo 1955: “Nel nostro secolo
la capacità creativa s'è andata inaridendo ed ha ceduto progressivamente il
posto ad un gigantesco sopravvento della critica, sotto tutte le forme. E questo
fenomeno ha portato con sé il trionfo del più rigido formalismo, il culto per
tutti i primitivismi, e, nelle arti figurative, moduli rivoluzionari che rappresentano
una via senza uscita puramente atta al dissolvimento, e nella musica (a breve
distanza dalle grandi conquiste dell'Ottocento romantico)
quell'altro fenomeno di rivoluzione puramente grammaticale e
spiritualmente disgregatrice che è la dodecafonia. E voglia il cielo che tali
tendenze non preludano a un fenomeno pari a quella
millenaria notte dell'arte e della poesia che gravò sull'Occidente dal sec. II
al sec. XII della nostra era.
“Parallelamente a questo trionfo della critica sulla fantasia, lo scetticismo,
il disorientamento riguardo a tutti i valori più alti della tradizione,
l'abitudine a veder tutto in termini di economia e di
benessere materiale, l'illusione che la civiltà occidentale possa essere
rappresentata e difesa da forme di pseudocultura
periferica rispetto ai grandi centri europei e nutrita solo dei cascami più
esteriori dell'immensa creazione ch'essa aveva espressa”.
Ma in faccia a questo cataclisma la Chiesa rappresenta una
vita perenne; vive della vita di Dio; e noi auspichiamo un'arte che si disgeli
alle fonti dell'eterna e possente giovinezza della Chiesa.
La Chiesa dice all'artista cristiano le parole che Cristo
pronunciò sulla tomba di Lazzaro, già in decomposizione:
Lazare, veni foras...
Solvite eum
et sinite
abire (Joan. 11-43).
L'ansia del nuovo
Gli
artisti sono tormentati dall'ansia del nuovo, dalla sete della modernità;
vogliono parlare, non un linguaggio arcaico, ma il
linguaggio del proprio tempo. Questo stato d'animo risponde al loro
istinto artistico ed è degno di grande rispetto. Noi,
se deploriamo gli sviamenti dell'arte, comprendiamo la tragedia spirituale degli
artisti e parliamo di loro con consapevole amore: amore
e rispetto per chi soffre in buona fede, non per i furbi trafficanti e per i
profittatori delle stravaganze artistiche.
M.
Porena, uno studioso d'arte di
alto livello, dice: “Vi sono quadri e statue rappresentanti uomini e
donne bellissimi per regolarità di forme o intensità di espressione, che da
tale bellezza, per una certa qualità di osservatori conseguono ben poco pregio
e suscitano ben poco diletto estetico. Il che avviene per esempio, quando
l'artista, come è caso frequente in certe epoche,
abbia nell'opera sua ripetuto un tipo che, quasi a guisa di canone, si sia
andato fissando nella pratica artistica fino a divenire comune, si che di suo
lavoro individuale, nella visione e nell'elaborazione di quel tipo, egli non
abbia messo nulla o quasi nulla”. M.
Porena, Il bello d'arte e il bello nella natura (Comunicazione
all'Accademia dei Lincei, 11 dicembre 1954).
Quel tipo comune non interessa gran che il pubblico e l'artista si
sente mortificato e quasi tagliato fuori dalla vita.
L'influenza della critica
Vi
sono dei critici d'arte probi e solitari; ma vi sono altri che hanno una certa
responsabilità sullo sviamento dell'arte moderna.
Su
questo delicato argomento cedo la parola allo stesso M.
Porena : “Da un certo tempo in qua i critici
d'arte formano una classe ben distinta e riconosciuta, che cercano distinguersi
dalla folla dei profani avvolgendosi nelle nuvole. Per esempio, uno dei modi
oggi assai in voga è quello di parlare d'un'arte con
parole, frasi e concetti che appartengono a un'altra arte... Cercano di
distinguersi allontanandosi dal gusto comune, capovolgendo i valori, coltivando
il paradosso, mettendo a base dei loro giudizi elementi di poco o nessun pregio.
E, per esempio, avanti a un quadro invece di additare
il contenuto lirico o drammatico scaturente dall'invenzione delle situazioni,
la potenza dell'espressione nei volti e nei gesti, l'energia dinamica e
passionale nelle figure, la perfezione della riproduzione nel disegno, nel
colore, nel chiaroscuro, parlano un gergo comprensibile a essi soli, in cui
compaiono, se per esempio trattasi di pittura, linee orizzontali, verticali,
oblique, parallele, convergenti, divergenti, spazi, volumi, pieni, vuoti;
intessuti in un frasario che spesso, in italiano almeno, è incomprensibile; e
tutto ciò prescindendo totalmente dal fatto che tali elementi appartengono a
uomini, o ad animali, o a piante, o a oggetti inanimati; e altrettanto pei
colori... Ma sono molti, purtroppo, fra gli artisti e fra il pubblico, i timidi
e gli umili, che diffidano di sé, che si lasciano sgomentare dai falsi
ragionamenti, e a cui le nuvole in cui s'avvolgono quei critici sembrano segno
d'altezza. Se sono galantuomini si limitano a
tacere; se non lo sono, si mascherano alla moderna e plaudono alla corrente
(I. c.)”.
La moda
Il
fenomeno complesso e oscuro della moda, legato a varie influenze del gusto, del
tempo, dell'economia, della morale, impera specialmente sull'abbigliamento, ma
esercita un notevole potere anche sull'arte, sulla
politica, persino sulla medicina.
La
moda del deforme passerà come passano tutte le mode.
La storia ne offre una chiara documentazione. Dopo
Raffaello imperversarono i manieristi, poi insorsero, col
Rembrant, il Caravaggio e il
Ribera, i luministi; nel Settecento
tiepoleggiarono tutti i minori; poi, tra la fine del
Settecento e il principio dell'Ottocento, subentrò il fanatismo classico con il
Canova e il David, ma i neoclassici finirono col
produrre un senso di sazietà, e venne la reazione del romanticismo e poi del
verismo. Noi tutti ricordiamo la moda effimera dello stile umbertino e floreale
e del neoromanico e del neogotico.
Così siamo giunti alla babele moderna. Se è tramontato il
bello ideale del Wincktelmann,
tramonterà anche il moderno brutto ideale. Le mode passano come il fumo,
anche se questo è il fumo dell'incenso che si brucia
davanti agli altari. Però finché imperversa la moda del
deforme giova lottare per affrettarne il tramonto.
Questo verrà certamente — mi diceva uno studioso — quando
sorgerà un artista di genio. La massa dei minori lo seguirà volentieri. L'antico
Petronio, arbitrer
elegantiarum, è oggidì sostituito in arte
da Picasso, l'arbiter
pravitatum. Noi speriamo nell'avvento di un
arbitrer
pulchritudinis, “d'un grande artista, la cui produzione
dia all'anima sensazioni nuove, che appunto per tale
loro freschezza hanno un'energia superiore a quella con cui agiscono i pregi
di artisti già noti a cui la sensibilità estetica è già assuefatta, e quindi più
languida. Artisti e pubblico si gettano allora su queste nuove forme di
bellezza: quelli per cercar di produrle anch'essi,
questi per goderne (M. Porena, 1. c.)”.
Il peso della tradizione
Anche
la tradizione, male intesa, ha una parte nello smarrimento dell'arte moderna.
La
tradizione è, sotto un certo aspetto, un peso. Quando l'artista pensa
a un soggetto, specialmente se si tratta di un
soggetto sacro, si vede la fantasia affollata da una ridda di immagini del
passato; egli è come assordato e confuso da un riecheggiamento di mille voci
uscenti dai secoli passati. Egli vuol essere originale, vuol
essere personale. Ma come è possibile farsi notare se
si ha una statura ordinarla e se si è confusi alla folla comune?
G.
Dupré racconta che un tempo lavorava alacremente
intorno al gruppo della Pietà. Entrò nello studio un amico e
disse che la Pietà gli ricordava esattamente quella di Michelangelo, con
l'intenzione di lodare il lavoro. Dupré ributtò nel
mastello la creta del gruppo. Aggiunse poi che ebbe una specie di visione e
compose la nota Pietà del cimitero della Misericordia a Siena; che è un
capolavoro di forma e di sentimento.
Sì, la tradizione è un peso; ma, se si sa considerarla bene,
è anche una direzione.
Nei moderni cenacoli artistici non si vuol sentir parlare
di tradizione.
È questione di intendersi: per tradizione non si vuole significare il
rifacimento di modi artistici del passato, non un ritorno indietro; ma il punto
di partenza per un nuovo cammino. Un profeta, vissuto oltre 2500 anni fa, ha
detto: “Fermatevi sul crocicchio e osservate; cercate tra i sentieri antichi
qual sia la via buona; camminate per essa e troverete
riposo per la vostra anima” (Gerem. VI-16).
Cari artisti, voi oggi vi trovate veramente a un
crocicchio. I sentieri sono confusi e la direzione è incerta e l'anima respira
in una intima angoscia. Qual è la via buona?
Cercatela nelle indicazioni della tradizione, avanzare pesa e troverete
refrigerio per le vostre anime.
Il bisogno degli artisti
Tempo fa è venuto da me un valente scultore. Mi mostrò un album dei suoi
lavori. L'album cominciava con una serie di bei bassorilievi, concepiti con un
sagace senso dei volumi e con una purezza di forme plastiche, quasi accademiche.
Poi, ad un tratto, le figure umane apparivano deformate
fino alla mostruosità. Io mostrai qualche sorpresa. Lo scultore mi rispose: Io
ho studiato e amo il disegno e la forma. Ma devo
vivere, devo mantenere la mia famiglia. E ho dovuto
piegarmi alla moda...
E
questa è l'intima tragedia di tanti artisti. Un altro pittore mi disse: — Lei ha
ragione. Quest'arte passerà, ma intanto noi non
dobbiamo morire di fame. La Chiesa può aspettare che
torni il sereno. Noi non possiamo aspettare... La rivista “La Rocca”
scrive: l'artista, che tra l'altro deve ogni giorno
mangiare, ovviamente deciderà di dedicarsi a ciò che rende meglio come
aspirazione cronistica e guadagno economico (15
febbraio 1954).
In
questi giorni un vecchio scultore mi scrive: “Noi tradizionalisti (e
viene, oggi, regalato questo titolo come una patente
d'imbecillità) abbiamo bisogno di lavorare e ci occorre molto tempo per
lavorare, perché siamo molto rispettosi della forma. Oggi siamo messi al bando
come inabili al lavoro e le occasioni di fare, per noi, sono rarissime”.
Troppi artisti
Sembra pure che l'eccessivo numero degli scultori e specialmente dei pittori non
sia estraneo alla presente babele dell'arte. La
Guida Monaci annovera per l'Urbe oltre 700 pittori. L'arte è troppo alta e
ardua cosa perché sia lasciata al capriccio del primo venuto. “In questi tempi —
dice A. Martini, il noto scultore avanguardista — tutti hanno dipinto, perfino i
pizzicagnoli e i panettieri” (Lettere di A.
Martini, Canova, Treviso).
Naturalmente l'arte moderna, che si infischia del
disegno e della forma, è alla portata di tutti. I giornali di Roma hanno
elogiato un barbiere che, tra una barba e l'altra, si è dilettato a fare
dell'arte moderna; a Roma era annunziato per l'aprile 1955
la IV Mostra d'arte dei vigili urbani...
La fotografia
Parrebbe che la fotografia dovesse essere un buon aiuto per l'arte.
Invece sembra che essa stessa abbia una parte nel
disordine figurativo dei nostri giorni. Nei tempi antichi non esisteva la
fotografia, e gli artisti dovevano osservare e interpretare il vero. Oggidì la
riproduzione del vero è lasciata alla macchina, e questa ha raggiunto una tale
perfezione nella riproduzione del vero, con ombre sfumate, con colori pastosi,
con sfondi prospettici da vincere l'abilità dei pittori. Questi sono
scoraggiati. Si dirà che alle fotografie manca
l'anima. Ma la pittura moderna, con i suoi sgorbi
contro-natura, sa rendere forse l'anima?
La mancanza di mecenati
Un
tempo la Chiesa e i Principi erano i grandi e intelligenti Mecenati delle arti.
I Principi volevano un'arte, che celebrasse la loro potenza, e gli
ecclesiastici promovevano un'arte che contribuisse
allo splendore e all'efficacia del culto.
Le
rivoluzioni hanno impoverito le chiese, gli Ordini religiosi e le confraternite
e hanno detronizzato i Principi. Il mecenatismo è ora
rappresentato dai Governi e, in piccola parte, dalla ricca borghesia.
Ma i Governi, legati alla rotazione dei partiti, non
hanno un proprio programma artistico; secondano le correnti del giorno col
presupposto d'incoraggiare l'arte e di raccogliere anche i documenti dell'arte
patologica.
Il
fatto che il vecchio parlamentare Herriot, sindaco
di Lione, ha avuto il coraggio di rifiutare una ceramica di
Picasso, ha sollevato molte discussioni.
La
ricca borghesia ha altre preoccupazioni e altre manifestazioni che l'arte; se
qualche signore vuole adornarsi del prestigio dell'arte o fa raccolta di cimeli
antichi o compera i prodotti dell'arte modernista per darsi l'aria
di essere à la page.
Sfavorevole clima per l’arte sacra
A
tutte queste ragioni, con cui ho cercato di individuare i motivi del marasma
dell'arte moderna, se ne aggiunge una
particolarissima per riguardo all'arte sacra, cioè il clima
tutt'altro che propizio. S. E. Mons. G. B.
Montini, Arcivescovo di Milano, ha detto il 6
gennaio 1955 nella prima omelia: “La vita cattolica è minacciata di
restringimento e di assedio da chi, non pago dei
confini che essa stessa pone fra sacro e profano, tra campo religioso e campo
civile, e non conscio del diritto spettante allo spirito di tutto illuminare e
vivificare, vuole sottrarle con le barriere del laicismo la sua benefica
irradiazione nelle varie manifestazioni sociali. Minacciata di soffocamento e
di inaridimento dalla indifferenza religiosa con cui
la febbre della vita materiale, economica ed edonistica paralizza gli spiriti
moderni, minacciata di annullamento dall'esplosione cieca e fanatica
dell'ateismo moderno, che, armato di pretesa logica e scientifica, tanto nega i
principi supremi dell'essere e del pensiero, da convertire in idoli disperati e
crudeli i frammenti di verità, che ha rubato al tempio della sapienza divina...
Ora
a me pare che un'altra pacificazione, un altro piano,
quello ideologico-morale, sia necessario promuovere:
la pacificazione cioè della tradizione cattolica con l'umanesimo buono della
vita moderna. Mi sia consentito da questa cattedra, esprimere l'augurio. Esso
non vuole avere fondamento soltanto sui diritti storici di tale tradizione, ma
si fonda principalmente sul disegno misterioso e misericordioso di Dio, che al
nostro Paese ha elargito tanti favori da farne terra di
elezione e centro d'irradiazione del nome cristiano nel mondo e si
convalida del fatto che tutti i principi che danno al mondo moderno un
dinamismo foriero di vero progresso umano e di nuova e vera civiltà, sono
principi mutuati dal Vangelo”.
L'arte greca, l'arte dell'Estremo Oriente, l'arte egiziana, la
grande arte cristiana fiorirono in un clima
spirituale. Perciò la primordiale condizione per il risorgimento
dell'arte sacra sta, oggidì, nella necessità di purificare e
ricristianizzare il clima della civiltà
materialistica per ridare alle anime un libero e vivifico respiro e dar ali
all'estro degli artisti.
VII - I tentativi artistici dell’infanzia
Nel
1954 è stata organizzata a Roma nel Palazzo delle Esposizioni una bella e
istruttiva Mostra dell'Arte dell'infanzia.
Nel marzo dell'a. c. è
stata aperta una Esposizione della pittura collettiva dei fanciulli francesi
nel palazzo della Fondazione Besso.
Contemporaneamente l'Unesco (Organizzazione delle
Nazioni Unite per l'educazione, la coltura, la scienza) ha ordinato nel Palazzo
Venezia un'altra Mostra della “Pittura dei Ragazzi” impostata sopra un più vasto
panorama, perché la Mostra ha un carattere internazionale. E
ci si rende subito conto che i bambini hanno la stessa anima in tutte le parti
del mondo.
Questa Mostra dell'arte dei ragazzi è veramente importante per il suo
significato pedagogico, artistico e sociale e per la
accorta distribuzione delle opere. Visitandola, migliaia di
fanciulli si affacciano alla nostra fantasia dalle diverse e anche
lontane nazioni: l'incomparabile visione è illuminata dalla luce della primavera
umana, luce che commuove e sorpassa tutte le altre bellezze terrene. Ma non vi è
solo bellezza; vi è la vita dell'anima, cioè il
sentimento di quella fraternità umana e di quella spontanea bontà, che ha fatto
scrivere a tre bambini: “Dall'amicizia, che oggi nasce tra noi può sorgere
domani un mondo migliore, dove non apparirà più la guerra... Anche noi ragazzi
dobbiamo collaborare agli sforzi degli uomini per creare un mondo unito... Io
spero che tu abbia il babbo e la mamma; se non li hai sono triste per te”.
Il
piccolo Catalogo illustra i nobilissimi scopi
pedagogici della Mostra. Non è qui il luogo di insistervi. Io mi fermo sul
problema artistico. Il G. C. Argan
dice che questa rassegna non mira a celebrare il
mito dell'infanzia... Va bene. Ma nulla impedisce
che si studi anche questo mito sotto l'aspetto dell'arte, della forma e dei
colori. L'“Osservatore Romano” scrive: “C'è un vero mondo nascosto
di aspirazioni e di inclinazioni, ancor più segreto
di quello che si cela dietro le forme: il giovane pittore scandinavo ha certi
cieli e certi mari così squillanti di azzurro quali certo nel suo paese non ha
visto mai e che rivelano pure uno stato d'animo: un villaggio
papua è trattato con mano che si può dire maestra in
toni d'ocra e di marrone che fanno pensare ad una
ubbriacatura di sole anelante alle ombre. In generale il colore è audace,
esatto nei suoi limiti, parte integrante del messaggio”. (19
marzo 1955). E nulla impedisce che, specialmente, si
avvicini questa rassegna all'infantilismo artistico degli adulti, molti dei
quali oggidì bamboleggiano senza raggiungere il candore, l'ingenuità, la
sincerità, la freschezza delle pitture di questi ragazzi.
La
contemplazione di questi lavori infantili ci delizia gli occhi e l'anima come il
balbettio di un bambino, come il barcollamento dei suoi primi passi. L'infanzia
è un fiore in boccio; e in essa sorride il primo lume
della bellezza e della vita e ci incanta e ci innamora. Noi riproduciamo due
disegni di questi scolaretti. La Crocefissione di
Leif Sorerin della
Danimarca, la Festa delle Palme di
Anton Heidenreich, di 13
anni, austriaco.
In
queste due composizioni i ragazzetti colgono l'aspetto sintetico delle persone
e delle cose: il loro vocabolario è povero, ma contiene i termini essenziali, ed
essi si fanno capire.
Ora
io dico, con rispetto, ma con coraggio: avvicinate queste composizioni a tante
moderne opere di adulti, opere sgrammaticate,
insufficienti o caricaturali, con il palese disprezzo del disegno e della forma,
insomma con un infantilismo di materia. E noi sappiamo che tutte le maniere
nell'arte sono condannate, in tempo più o meno lungo,
a sparire. L'infanzia della vita e l'infanzia
dell'arte non si vivono due volte. E il vecchio che fa l'asino ragliante
è semplicemente ridicolo e anche repellente.
Sì,
questa Mostra, ha un alto valore pedagogico, ma ha pure un notevole valore come
pedagogia dell'arte, cioè insegna e documenta
che il principio fondamentale dell'arte è la
sincerità contro tutte le falsificazioni, contro tutti gli infantilismi o gli
imbarbarimenti di maniera.
Silvio Negro scrive nel “Corriere della Sera” del 23 febbraio 1955 sotto il
titolo: “Ragazzi di tutto il mondo emuli di
Matisse e di Van
Gogh”; “Problemi grossissimi ed affascinanti vengono
posti dalla felice ingenutà della pittura dei
ragazzi, tra gli altri questo. Qui siamo nel regno dell'inconscio; qui, poi, il
colore si lascia indietro di gran lunga il disegno, e
quello dei ragazzi è colore puro. La pittura dei ragazzi, dunque, sia fatta in
Italia o nel Sudan, in Francia o in Papuasia, è
tutta pittura moderna. Dipingono tutti come Matisse
e Scipione, e lo fanno incosciamente, e lo
fanno sotto tutte le latitudini ed in tutti i regimi.
E in questa gara i ragazzi di Paesi nuovissimi
tengono testa benissimo ai discendenti di Paesi di vecchia e gloriosa
tradizione.
Poiché i ragazzi di tutto il mondo non possono essere
stati influenzati da Matisse e compagni, par chiaro
che sono stati Matisse e compagni che, forse senza
saperlo, sono andati ai ragazzi, e si può trarne tutte le conclusioni che si
vuole”.
Un
libro fondamentale sul Linguaggio grafico e arte infantile è stato
recentemente pubblicato da R. Dal Piaz (S.E.I.).
Anche il Dott. G. Rioux
ha scritto un libro Dessin
et Strutture mentale (Presses
Univ. de
France, Paris) in cui studia i disegni dei fanciulli
dell'Africa settentrionale.
A pagina 253 è riportata
questa constatazione
del prof. Luquet: “Cette
analogie dans la représentation des bonshommes et des animaux se trouvait
également dans 1'art paléolithique, avec cette différence que la reproduction de
la figure étant relativement exceptionelle à cette
époque, le transfert s'y fait, non de l'homme à l'animal comme chez l'enfant,
mais de l'animal à l'homme”.
A pagina 289 è detto: “Il n'existe
pas de coupure fondamentale entre mentalité orientale et mentalité occidentale
en ce qui les concerne”.
Tutte due i libri contengono una ricca bibliografia sull'arte dei ragazzi.
La pittura degli ex-voto
Mi
sia permesso di ricordare qui anche l'arte ingenua degli ex-voto. Molti dei
nostri santuari sono esposizioni permanenti di
ex-voto. Tra questi menzioneremo le tavolette dipinte da qualche artigiano del
luogo, il quale non ha inteso fare un'opera d'arte, ma ha
voluto fissare il ricordo di un episodio in cui si è manifestato un intervento
miracoloso.
Sono quadretti che hanno, artisticamente, un carattere infantile, salvo rare
eccezioni; ma piacciono per il loro candore e pure per l'efficacia della
rappresentazione, che coglie l'essenziale dell'episodio e ispira un senso di
rispetto.
Certa arte modernista non vale di più per la costruzione artistica e vale
infinitamente di meno per la sincerità, anzi ripugna come
ripugnano tutte le falsificazioni.
VIII - L'arte dei popoli primitivi
Col
nome di popoli primitivi intendiamo designare le genti che vissero negli oscuri
tempi preistorici e le genti, che, in alcune parti remote del mondo, si
affacciano solo ora al costume della comune civiltà.
Si
tratta di un'infanzia dell'umanità che ha i suoi incantesimi, ma ha le sue
inevitabili deficenze.
Mi
sia permesso di rilevare che l'arte dei popoli primitivi, antichi e moderni, è
spesso ispirata da un senso sacro, magico, terroristico, rituale.
E per quanto le forme d'arte siano schematiche,
grossolane, anche ridicole, impressionano profondamente per la sincera
espressione del dramma religioso che tormentò e consolò, tormenta e consola le
genti primitive.
Le pitture cavernicole e rupestri
H.
Kün nel libro, L'uomo dell'età glaciale (A.
Martello, Milano 1952), scrive: “L'epoca glaciale è la giovinezza della specie
umana, l'alba dello spirito. E, al principio, sta la stupefatta ammirazione
delle cose; come il padre o la madre di una tribù hanno
creato tutto ciò che la tribù possiede, così un Padre, creatore, progenitore, ha
creato e modellato tutto ciò che è intorno agli uomini: la terra, gli animali,
il cielo...
I
quadri murali sono sempre stati legati al culto, non solo nell'età glaciale, ma
anche in seguito, nel mesolitico, nel neolitico,
nell'età del bronzo, anche nel medioevo e fino ai giorni nostri...”.
Alla domanda — se l'arte moderna si svolge nella stessa direzione dell'arte
preistorica — il dottor Kün risponde:
“Impressionismo, espressionismo, cubismo, sono tre
stadi che si susseguono costantemente...
Il
cubismo della preistoria diventa via via tanto
astratto, e i quadri non riproducono più che triangoli e angoli, indicanti in
prima linea la figura umana, la figura umana risolta
in forme cubiste; esattamente come nel cubismo moderno. I quadri vogliono
probabilmente raffigurare dèmoni, spiriti, mostri. Ma questi sono più
misteriosi e spaventosi dell'uomo, non hanno figura umana, e tuttavia sono di
natura affine ad essa. Così nasce il cubismo; viene
dal trascendente, da una sfera dello spirito posta nel mondo ultraterreno,
mentre l'impressionismo ha le sue radici nell'al-di-qua,
sia essa l'impressionismo della preistoria, l'arte dell'età glaciale, o sia
l'impressionismo della fine del secolo scorso...”.
Circa le pitture rupestri, tra cui sono famose quelle dei
Boscimani in Africa, L.
Cipriani scrive: “Un vistosa costume
boscimano fu quello di incidere e dipingere sulle
rocce. I Boscimani attuali lo hanno perduto
completamente. Le incisioni e pitture rupestri si rinvengono su un vastissimo
spazio, nell'Africa meridionale, e si è voluti arguire dalla loro diffusione
quanto fosse esteso in antico. questo popolo o quale
fosse stato il cammino da esso seguito nella lenta migrazione verso il sud. È da
tener presente tuttavia che non siamo affatto certi
che l'arte in parola sia stata esercitata soltanto dai
Boscimani e (esclusi i Negri) non possa invece essere attribuita, almeno
nelle sue fasi più antiche, anche ad altri elementi razziali: alcune recenti
scoperte segnalerebbero infatti la presenza di razze
europoidi, sul principio dell'età geologica attuale, sino all'estremità
del continente. Può darsi che esse siano state le
prime ad esercitare quest'arte, tanto
caratteristica dell'età paleolitica superiore dell'Europa sud-occidentale e
tanto diffusa in età preistorica anche nell'Africa settentrionale. Probabilmente
i loro discendenti si incontrarono e si fusero con
le orde dei Boscimani e trasmisero anche a questi la
loro arte...
Ignote sono le ragioni per cui i Boscimani e i loro
predecessori furono spinti a coprire di disegni
certe rocce. Può supporsi che, per essi, disegnare
abbia significato fissare il ricordo di una caccia memorabile o di un
avvenimento straordinario; ma può darsi pure che quelle raffigurazioni abbiano
avuto un significato più profondo. Difficile è immaginare, nei primitivi, l'arte
per l'arte e vedere nei loro disegni soltanto l'espressione di
una tendenza artistica manifestata nei pochi momenti
di riposo della vita randagia. Più probabile mi sembra, in accordo a molti, il
supporre quelle raffigurazioni come dovute a magia; né ciò deve sembrare
strano quando si pensi alle tante superstizioni
influenzanti la vita di ogni popolo primitivo.
Di
tutta l'Africa, la Rhodesia meridionale è la regione ove si ha la maggior
abbondanza di figurazioni rupestri; essa, quindi, è anche la più indicata per le
ricerche intorno a questo genere di arte e intorno
alla varietà dei suoi stili. A proposito di questi, non è da passare sotto
silenzio la rassomiglianza propria di certe pitture sud-africane con altre,
pure rupestri, della Spagna, trovate in ricoveri preistorici. Difficilmente la
rassomiglianza può essere casuale” (Biasutti:
Razze e Popoli della Terra, V. 2-UTET).
Ed ora un'occhiata all'isola di Pasqua sperduta
nell'immensità dell'Oceano Pacifico-Orientale.
Vi si contano oltre 500 esemplari di statue gigantesche, costituite dal busto e
dalla testa; alcune di queste statue monolitiche superano i 20 metri
di altezza.
Si
tratta di colossi grossolani ed enormi, con volti rozzamente schematizzati.
Appartengono a un'epoca lontana e ignota di cui si
conservano pure delle tavolette con scritture pittografiche
indecifrate.
Interessanti sono pure i vari fittili riproducenti
figure patologiche dell'antico Perù.
Un
cenno particolare meritano pure le statuette
neolitiche di Malta e i piccoli bronzi della Sardegna; questi riflettono con
forme di straordinaria immediatezza stilistica, rude e sintetica, la mentalità e
i costumi dei popoli protosardi tra l'VIII e il VI
secolo a. Cristo, quando si incrociavano sulla
Sardegna le correnti commerciali e artistiche dei Fenici, dei Greci e degli
Etruschi.
I
falsi primitivi della moderna arte sono goffi e ridicoli in confronto
alla ingenua sincerità dell'arte dei primitivi e dei
bronzi sardi. I primi passi che muove un bambino ci
piacciono e ci commuovono, mentre il brancolare di un vecchio ci dà
l'impressione disgustosa di un ubriaco o di un uomo paralitico.
L'arte dei popoli primitivi viventi
Quello che si dice dei popoli preistorici per il senso sacro — meglio per il
terrore sacro — vale anche per i popoli tuttora
viventi in uno stato ancora primitivo.
Devo limitarmi ad alcuni accenni, trattandosi di materia
largamente conosciuta. Nell'Africa e nelle isole del Pacifico si scolpiscono e
si dipingono maschere, feticci, uomini e animali, in cui è deformata, spesso
mostruosamente, la figura umana. Ricorderemo pure i pali totemici degli
Haida, indiani d'America, scolpiti con maschere
umane e animalesche sovrapposte le une alle altre.
Ora, se si considerano spassionatamente tali esempi dell'arte preistorica e
dell'arte dei popoli primitivi moderni, si potrà
constatare che Picasso e i suoi seguaci non hanno
inventato nulla; sono tornati ai balbettamenti di un'infanzia superata da
millenni, dandoci delle falsificazioni grossolane. Somigliano
al Nicodemo del Vangelo, il quale si domandò se era
possibile di rientrare nell'alvo materno per rigenerarsi… (Giov.,
3-4).
Ma
c'è di più. Noi consideriamo come selvaggi alcuni popoli, che allungano o
schiacciano il cranio o malformano le labbra con
l'inserzione di piattelli o compiono anche delle mutilazioni o adornano il corpo
con tatuaggi, cataplasmi o cicatrici ornamentali. Ricordiamo ad esempio la
zanza, cioè le
riduzioni mummificate delle teste recise ai nemici fatte dai
Chivaro nell'Amazzonia;
i dischi labbiali dei Botucudo
pure nell'Amazzonia e dei Sora
nell'Africa Occidentale.
Ebbene,
come giudicare certa arte moderna, che si compiace di alterare e depravare la
figura umana? Si ritorna all'età selvaggia. Se tutto
ciò vale per l'arte in genere a maggior ragione
ripugna per l'arte sacra. Noi non esitiamo a dire
che quando certi artisti moderni tentano di introdurre nelle chiese opere che
gareggiano con le mostruosità dell'arte primitiva, commettono dei
sacrilegi figurativi. Sacrilegio da sacrum
ledere: offendere una cosa sacra.
IX - L'arte dei pazzi e dei criminali
Il
26 marzo dell'a.c. si è aperta a Roma, nel palazzo della Fondazione E.
Besso, una Mostra dei disegni e delle pitture dei
malati di mente dell'ospedale psichiatrico di Imola.
La
visita alla Mostra ci ha suggerito di rilevare nel vasto quadro del disordine
artistico del nostro tempo, anche l'istinto estetico e la produzione dei malati
di mente e dei criminali. Non è compito nostro di valutare il fattore
psicologico e terapeutico. Noi ci fermiamo semplicemente al fatto estetico.
Esula dal nostro studio qualsiasi riferimento alle persone degli artisti, che
rispettiamo. Ci poniamo semplicemente in faccia ad
alcuni confronti obbiettivi delle manifestazioni artistiche.
Il
prof. L. Telatin,
Direttore dell'Ospedale psichiatrico di Imola, nella
presentazione della Mostra, accenna anche al problema artistico dei poveri
malati: “Quasi tutti ignorano la tecnica della pittura, perciò la loro
produzione è libera espressione di uno stato d'animo nei quale sentimenti e
passioni si manifestano in tutta la loro genuina
primitività...
“Ci
si è accorti, che, oltre ad aver conseguito uno scopo
terapeutico e diagnostico, si è anche ottenuto un certo risultato nel
campo artistico...
“In
tutti ha destato meraviglia il trovarsi di fronte a pitture che hanno un certo
valore artistico, pitture che si potrebbero attribuire a qualche pittore moderno
di buon nome. La produzione di uno schizofrenico ricorda ad
esempio certe opere di Klee, quella di un altro
ricorda la maniera di V.
“Ci
si è profondamente stupiti vedendo come un malato con deficit mentale o con
sindrome dissociativa o con turbe distimiche ecc.,
fosse in grado di produrre qualche cosa che impressionava per i fedeli
accostamenti e fusione dei colori, per lo spirito creativo, per il rispetto del
senso cromatico, e del senso della prospettiva...”.
II “Tempo” di Roma del 29 marzo a.c. scrive a proposito di
questa Mostra: “Tutte le cosiddette tendenze moderne sono rappresentate ma
soprattutto le più attuali: un certo astrattismo, per esempio, che sente ancora
di cubismo e che vuole nello stesso tempo sganciarsi, in una liberazione totale,
infantile e frantumosa del soggetto, dell'oggetto,
della sintassi visiva e perfino delle forme create...
“Schizofrenici, encefalitici, depressi, frenostenici,
esplodono in genere con le forme vaneggianti di un M.; ma poi vi sono i
Kandinsky, i Max Ernst,
i Nohlde, i Redon...
Meno di tutti, è presente Picasso...”.
In
America è molto avanzato lo studio delle esperienze artistiche dei pazzi,
come è documentato da una copiosa letteratura.
Il
libro del dott. J. Reitman,
Psychotic Art (International
Universities Press, New York) è presentato con
queste parole: “I prodotti artistici degli uomini malati di mente stanno
sollevando un considerevole interesse nel tempo presente, in parte perché essi
dimostrano apparenti rassomiglianze con certe tendenze della moderna pittura e
in parte perché l'attività artistica è ognor più
usata come una misura terapeutica nel trattamento delle malattie mentali...”.
Mi
sia permesso di riportare qualche altro brano del libro.
“Molte volte, specialmente in ciò che è chiamata arte astratta, nel
lavoro dei pittori cubisti, in certe pitture di Picasso
e altre, la ricostruzione delle realtà è condotta tanto lontano che l'apparenza
o la semi-illusione della visione in rapporto alle
realtà è perduta e il lavoro diventa un esercizio di disegno, di relazioni delle
forme, ombre e colori” (p. 6).
“La
materia dell'arte della pittura può derivare completamente o parzialmente dai
sogni diurni o simili fantasie o della reminiscenza
di sogni notturni. I pittori surrealisti ammettono che i sogni notturni
hanno offerto l'ispirazione per molte delle loro
pitture, e ciò può affermarsi per altre pitture...”.
“Spesso si dice che il pittore realmente vede
la cosa come l'ha dipinta, ciò può essere vero solamente se egli parla
metaforicamente...” (p. 9).
“I
pazienti di psicopatia producono talvolta delle opere,
che hanno un valore artistico. E queste vanno giudicate alla stregua delle
produzioni degli artisti normali...”
(p. 15).
“Gli artisti di oggidì analizzano consciamente il sistema totale dei rapporti.
Questa analisi li ha invariabilmente condotti ad impiegare una tecnica, che
porta a delle somiglianze tra i loro prodotti d'arte e quelli
dei schizofrenici. In sostanza i surrealisti hanno
esplorato il subcosciente invece che la realtà esterna; così
i schizofrenici producono le loro allucinazioni e il
loro mondo. I cubisti hanno analizzato la realtà nei termini delle
inter-relazioni geometriche; i schizofrenici
dimostrano una tendenza per la ornamentazione geometrica nel corso della loro
malattia. Chagal ha dipinto un uomo che cammina
sopra le nubi, spiegando ed esaltando il suo sentimento e così ha esperimentato
il significato del simbolo; negli schizofrenici il simbolo riesce identico con
lo stesso significato e con la stessa forma...”
(p. 115).
“L'esperienza estetica richiede come condizione sine
qua non che il riguardante possa “comprendere la pittura che osserva”...
“Questo sforzo cerebrale per intendere le esperienze estetiche dell'arte
contemporanea ha condotto a un intelligente
apprezzamento dei suggestivi prodotti degli schizofrenici, specialmente quando
le pitture prendono le forme di manifesti, avvertimenti, ecc.
Widdington cita in proposito una pittura di
Picasso” (p. 160).
Il
dottor Reitman conclude
il suo studio con questa affermazione: “Un aspetto della forza inventiva che sta
nelle pitture dei schizofrenici non è ancora esplorato; mentre uno sforzo è
stato fatto per esaminare i fattori che influenzano i moderni artisti a
dipingere opere somiglianti a quelle degli schizofrenici. È stato ben affermato
che le somiglianze tra l'arte moderna e quella degli schizofrenici sono solo
apparenti, perché l'attitudine dei pittori moderni è deliberatamente analitica e
frammentaria e anche perché l'arte moderna è una conseguenza logica degli
eventi culturali” (p. 168).
Anche un medico italiano, professore universitario, mi ha detto: “Certi artisti
modernisti disgregano la figura umana; ma lo fanno consapevolmente, rivelando
spesso una innegabile abilità. I pazzi disgregano
anch'essi la figura umana, ma inconsapevolmente,
seguendo il disordine che annebbia la loro mente. Ciò non toglie però che ci si
trovino delle somiglianze obbiettive tra i prodotti
degli uni e degli altri”.
Aggiungo qualche brano tratto dal libro di E. Kris,
Psychoanalityc
Explorations in Art (International
Universities Press, New York).
Nell'arte dei schizofrenici è evidente il pensiero
arcaico, che può paragonarsi ai prodotti simili delle primitive religioni.
Se
una persona ha doppia faccia non significa che sia
dipinta in due situazioni, ma dimostra chiaramente che le due facce o le due
personalità sono rappresentate in una volta. Questa industria economica è stata
usata da Picasso in alcune delle sue produzioni a
doppia faccia” (p. 38).
L'arte dei criminali
Nei
testi di Medicina legale si incontrano disegni fatti
da pazzi o delinquenti, con linee schematiche e sommarie, che non mancano di una
certa espressione; tali disegni ricordano certe pitture delle moderne Mostre
d'arte. Un autore dice: — Si trova nei criminali sviluppati in maniera
abbastanza apprezzabile il senso estetico... Una
tendenza alle raffigurazioni plastiche, con caratteri che li avvicinano a quelli
dei selvaggi. M. Carrara, Medicina Legale, UTET.
Ho
ritenuto riportare tali considerazioni in questo studio, che cerca di scrutare
a fondo il complesso problema dell'arte, così come si fa nei testi di teologia
morale, in cui si analizzano i diversi aspetti degli atti umani, buoni o
cattivi.
Io
amo e stimo gli artisti e comprendo la loro ansia, spesso angosciosa, per il
rinnovamento dell'arte in genere, e, in specie, per il risorgimento dell'arte
sacra. Posso perciò chiudere questo studio con le parole di Dante: Amor mi
mosse che mi fa parlare (Inf. 30-139).
X - Gli insegnamenti dell’Ottocento
Nel
marzo dell'a.c. è stata aperta a Roma una Mostra dei Capolavori dell'Ottocento
francese sotto il Patronato dei Governi italiano e francese. Fu mirabilmente
ordinata da Germain Bazin,
Conservatore del Louvre, coadiuvato da altri insigni
studiosi francesi e italiani.
Era
una rassegna, che ci permise di ripercorrere il cammino della
grande arte francese dell'Ottocento e di trovarci a
tu per tu a colloquio coi più insigni Maestri.
Ma
la via soleggiata si oscurò alla fine, e ci trovammo a
una svolta insospettata, che ci parve quasi l'orlo di un precipizio: da David,
Ingres e Delacroix a
Cézanne e Rousseau. Desinit
in piscem mulier formosa
superne (Orazio).
G.
Bazin scrive: “Sono venti uomini che lungo tutto il
corso del secolo si tramandano la fiaccola: venti pittori di genio, in
questa età dominata dall'imperativo della materia,
tentano di salvare lo spirito. Il destino di un'antica civiltà è affidato a
loro...”.
Questa esposizione è veramente esemplare e istruttiva, perché ci dà la misura
dei nani in confronto coi giganti, l'aspetto dei
malati in presenza dei sani. L.
Borgese scrive nel “Corriere della Sera” del 6 marzo 1955: “Non si può
non riaffermare che nella cultura moderna ci dev'essere
un grosso, ridicolo, penoso, mortale errore...
Andiamo! Com'è possibile che da David a
Ingres, da Delacroix a
Courbet, da Manet a
Seurat, da Lautrec a
Rousseau, da Picasso a Léger
a Villon a Masson a
Dupont a Testevuide a
De Rien, tutto fili alla perfezione e tutto sia
continuamente arte e arte, pittura e pittura e pittura! Che
scherzo sarebbe? È possibile che tanti geni, tanti
bravi pittori abbiano lavorato cent'anni perché oggi
qualsiasi sciocco imbroglione sbrodoli tinte a caso e butti giù fregacci e
scarabocchi strillando — applaudito dalla “cultura” e premiato — che pittura e
arte sono sue soltanto? È possibile non accorgersi che — perfino con la Mostra
di via Nazionale — si continua nello svilimento
progressivo della pittura, volendo far credere che da David a
Ingres a Delacroix a
Manet a Rousseau, e cioè da una cultura
all'ignoranza, il cammino sia giusto, logico, perfetto e volendo mostrare e
magnificare continuamente una pittura pura, autonoma e rivoluzionaria?
(Altro assurdo, poiché se rivoluzionaria, non può
essere né pura né autonoma). Ed è possibile che da una secolare lezione
di ordine e chiarezza vengan
fuori i balbettamenti dei candidi, i giochetti dei cubisti, le bestemmie di
Apollinaire, il dadaismo, l'astrattismo,
l'automatismo, il concretismo, il macchinismo,
etc.?
No.
Non è possibile. L'errore mortale su cui la cultura odierna
non si stanca d'insistere par tuttavia facile da trovare: l'errore stesso che
nasce fra gli artisti dopo la metà dell'Ottocento: l'errore che effettivamente,
con un minimo di sensibilità e di buona volontà, chiunque visitando la Mostra
deve anche riuscire a trovare...”.
La
Mostra di Roma mette in vista l'Ottocento francese. Ma
qui mi piace di ricordare anche l'Ottocento italiano, che fino a qualche tempo
era bistrattato dai capricci di una moda avventata. In
quest'arte si agitano correnti diverse, il neoclassicismo, il
romanticismo, il verismo, l'espressionismo, ecc. Ma
in ciascuna di queste tendenze si levarono uomini di alta statura, nutriti di
pensiero, padroni della forma, anche se talvolta parve troppo leccata e
calligrafica oppure anniebbata nell'espressionismo,
artisti probi, che fecero onore all'arte e all'Italia.
Dice giustamente L. Borgese:
“che importa il sistema? Ci sono giustamente dei
capolavori eseguiti, diciamo così, col sistema accademico e magari con le
ricette; e ci sono invece delle bruttissime croste fatte con
ogni libera regola da ribelli, candidi e avanguardisti d'ogni tempo.
L'essenziale nell'arte è qualcosa di ben diverso”. (“Corriere
della Sera”, 10 ott. 1952).
Mi
sia permesso di citare almeno alcuni nomi, che, dopo la
foschia di una nuvolaglia passeggera, tornano a splendere nel sereno
firmamento dell'arte. Per l'architettura, Antonelli,
Piacentini senior, Koch,
Sacconi, Calderini, Mengoni,
Basile, ecc. Per la scultura, Bartolini,
Dupré, Tenerani, Vela,
Grandi, Dal Zotto, Monteverde,
Biondi, Gemito, Rutelli, A. D'Orsi, C.
Zocchi, Trentacoste,
Bistolfi, Canonica, ecc. Per la pittura:
Fracassini, Mariani, Bertini,
Podesti, L. Serra,
Michetti, D. Morelli,
Celentano, Segantini, Patini,
Maccari, Mussini,
Faustini, Grigoletti,
Hayez, Barabino,
Loverini, Previati, Sartorio, Tito, ecc.
Mi
duole che non sia qui il luogo di ricordare più ampiamente i nomi di quella
pleiade di altri artisti, i quali onorarono
nell'Ottocento ogni parte d'Italia.
Contemporaneamente alla Mostra dei Capolavori francesi era aperta a Roma nel
palazzo dell'Arte Moderna una bella esposizione dei
disegni di D. Morelli. Si vedeva con quanta cura egli preparava i suoi quadri,
con quanto amore studiava dal vero, non solo le figure, ma anche i partiti del
panneggiamento.
Disegno: oggi si trascura o si falsa. Giova ricordare il monito di Leonardo: lo
studio dei giovani, i quali desiderano di perfezionarsi nelle scienze
imitatrici di tutte le figure delle opere di natura,
dev'essere circa il disegno accompagnato dalle ombre
e lumi convenienti al sito dove tali figure sono collocate (Trattato della
Pittura, pag. 48. Carabba).
I Nazareni e i preraffaelliti
Parlando dell'arte dell'Ottocento conviene ricordare le Scuole dei Nazareni
detti anche Puristi. Si tratta di una specie di Confraternita, non nel senso
ecclesiastico, ma nel senso di una Unione di artisti,
i quali si prefissero di celebrare l'idea cristiana in opposizione all'idea
pagana. Fu fondata a Roma dal pio pittore Overbeck
nel 1810 e fiorì con una certa, ma breve fortuna, in Italia, Austria e Germania.
Vi fecero parte F. Pforr
di Francoforte, L. Vogel
di Zurigo, P. von
Cornelius di Dusseldorf,
Y. Sahmorr
von Carolsfeld di Lipsia
e, in Italia T. Minardi,
L. Mussini, P.
Tenerani, D. Morelli e molti altri minori,
italiani ed esteri.
I
Nazareni si proponevano di ricondurre la pittura
all'ispirazione cristiana sulle linee della
tradizione preraffaellesca con l'intento di
avvicinarsi alla perfezione del grande Maestro. L'Overbeck
aveva detto che l'arte era per lui “un'arpa di
Davide” sulla quale avrebbe voluto “far risuonare inni di lode al Signore”.
Nobilissimo intento, sorretto da
una esperta capacità artistica. Ciascuno di quei valorosi artisti aveva
il suo temperamento, ma tutti, come tecnica e come stile, seguivano il
purismo della forma, cioè quella sagace, ma
calligrafica conoscenza del disegno e della composizione che allora era in fiore
nelle Accademie e negli studi degli artisti.
Subentrò poi in arte il romanticismo medievale mentre il pensiero liberale e i
movimenti politici sconvolgevano la serena atmosfera del pensiero cristiano.
E il nobile tentativo dei Nazareni non ebbe seguito.
Al tramonto concorse anche quella specie di raggelamento
della forma, che poi si disse accademico per indicare quel suo fare levigato e
cifrato che metteva troppo in evidenza il mestiere e
il tratto convenzionale.
Lodovico Seitz di Roma (1844-1908), figlio di un
pittore nazareno, può considerarsi l'ultimo epigono di questa scuola, epigono
nobile, ma solitario.
Qui
conviene anche ricordare il movimento dei Preraffaelliti,
sorti più tardi in Inghilterra, verso il 1850, con il proposito di rinfrescare
la pittura alle fonti del Quattrocento, proposito più stilistico che culturale.
Infatti i Preraffaelliti,
pur ispirandosi talvolta a temi cristiani in opposizione al materialismo,
amarono i temi romantici. Essi guardarono, tra i quattrocentisti, specialmente
Botticelli, trasformando spesso l'intenso pathos
dei volti botticelliani in un melanconico languore. Gli artisti più famosi, che
fecero parte di questa specie di confraternita estetizzante
sono Dante Gabriele Rossetti, d'origine italiana ma vissuto in Inghilterra,
Holman Hunt,
John E. Millais,
Burne-Jones.
Dobbiamo ricordare ancora la singolare scuola di Beuron,
fondata dal benedettino Don O. Lenz (1852-1925).
Essa si prefiggeva lo scopo di rendere l'animo liturgico delle pitture,
geometrizzando le figure con uno stile che ricordava
l'arte bizantina ed egiziana.
Abbiamo fatto questo rapido excursus nell'Ottocento, perché intendiamo di
indicare ai novatori l'esempio di quegli onesti e valorosi artisti e
specialmente il loro studio del disegno, dell'ombreggio,
cioè dei volumi, del colorire e della composizione. Non c'è salvezza
senza il rispetto a questi eterni principi dell'arte.
Il
navigante, travolto da una burrasca notturna, appena le onde si placano e appare
nel cielo una schiarita, leva gli occhi, e nel lume delle stelle ricerca la
direzione sicura.
Così, cari artisti, questa burrasca che ha sconvolto e sommerso gli essenziali
principi dell'arte, passerà, e ritornerà il sereno.
Guardate ai nostri grandi Maestri, alla loro coscienza
artistica e studiatevi di trarne salutare ammaestramento.
Dovremo dunque imitare gli antichi? No, assolutamente no.
Leonardo dice ai pittori: “Nessuno deve imitare la maniera di un altro, perché
sarà detto nipote e non figliuolo della natura;
perché, essendo le cose naturali in tanta abbondanza, piuttosto si deve
ricorrere ad essa natura che ai maestri, che da quella hanno imparato” (Trattato
di Pittura, V. I pag. 66. Carabba).
Altrove lo stesso Leonardo dice che la natura è la
maestra dei maestri e che l'arte decadde quando si imitarono le fatte pitture.
Bisogna saper guardare la natura con gli occhi con cui la guardarono i Maestri.
Canova non copiò i modelli greci, ma
disse che guardava la natura con gli occhi dei greci
e si esercitava nello studio del vero.
Voi, cari artisti, avete imparato il linguaggio dalla mamma, ma con
esso esprimete il vostro pensiero. Così potete
imparare il linguaggio tecnico dei maestri, ma
dovete esprimere il vostro pensiero. E il linguaggio
non deve essere ridicolmente arcaico o infantile o barbarico, ma deve essere
vivo, fresco e corretto.
Parlate sì il linguaggio del vostro tempo, ma fatevi capire. Le astruserie e
l'astrattismo in arte sono giuochi, che possono
rivelare una certa bravura da acrobati, ma sono un assurdo artistico, perché
l'arte parla alla fantasia e deve avere una eloquenza chiara e intuitiva.
Se
questo vale per l'arte in genere, vale tanto più per l'arte sacra, che è al
servizio della liturgia. Essa ha nei modi di
espressione quella libertà che ha l'oratore: questi, pur esprimendo verità
antiche, commuove e trascina l'uditorio con le sue qualità personali.
I
pittori ottocentisti seppero darci stupende composizioni, furono dei mirabili
registi (Cacciata del Duca di Atene, dell'Ussi,
La Giuditta e Le ultime ore della libertà senese di P.
Aldi, Il funerale di Giulietta di
Vannutelli, il Voto di
Michetti, Instauratio
aerari del Maccari,
l'Irnesio del Serra, Le ultime ore di
Carlo Emanuele I di Savoia del Barabino, il
Martirio dei Maccabei del
Ciseri, il Liston del
Favretto ecc.).
Chi
ci dà oggi qualche quadro di pensiero, qualche composizione storica o religiosa
da stare a petto coi pittori dell'Ottocento? Le
esposizioni sono piene di nature morte, spesso morte una seconda volta per la
ghigliottina dell'arte.
XI - La rivincita del buon senso
Il buon senso, che già fu caposcuola,
adesso
in molte scuole è morto affatto;
la
scienza, sua figliuola,
l'ha
ucciso per veder com'era fatto.
La
scuola artistica dei disgregatori della figura umana e della natura ha fatto e
fa ancora un certo chiasso, come chi grida per darsi
coraggio nella solitudine oscura. Essa si illude di
aver ucciso il buon senso; ma questo risorge, come risorgono le vigorose piante
di un bosco dopo il passaggio della bufera.
Da
molte parti provengono alla S. Sede gravi reclami
contro le profanazioni dell'arte sacra.
Pubblico alcune lettere
e documenti significativi, compreso un inedito di Ugo
Ojetti.
Il pensiero dell’E.mo Card. A. Ottavini
Prosegretario del S. Officio
...In fatto di prerogative dell'arte, occorre ricordare che contro Dio e contro
le anime non esistono diritti di nessuno, e da nessuna parte; e chi contro Dio e
le anime invocasse l'arte e la modernità, a parte che
darebbe prova, così facendo, di capire poco di tutte queste cose, non solo,
cioè, di Dio e delle anime, ma anche di arte e di modernità: a parte tutto ciò —
non farebbe che bestemmiare, anche se la sua bestemmia restasse nell'incognito.
C’è chi sostiene che un’opera d'arte non perde la sua
bellezza, perché è indecente; ma aggiungiamo subito che quella è una bellezza
che disonora l’arte, come certe esibizioni disonorerebbero una donna; e coloro
che la celebrassero cercherebbero clienti non alla bellezza, ma alla
turpitudine.
Quando, poi, si tratta di arte sacra, noi dobbiamo
mettere l’accento su ciò che vuol dire la parola “sacra”. A costo di passare per
gente fuori di moda, noi sacerdoti, soprattutto quando sopra le spalle ci
pesasse diretta responsabilità di anime, siamo in
diritto, anzi in dovere, di respingere dalle soglie della chiesa tutto ciò che a
Dio non conduce.
Che
dire, poi, di ciò che turbasse le menti e scandalizzasse i cuori?
Meglio, cento volte meglio, un’opera d’arte mancata che non
un’anima perduta; meglio ignorare una gloria della terra che ignorare la gloria
di Dio.
Ma
oggi, più che altro, il pericolo è costituito da coloro che, non sapendo
raggiungere in arte la bellezza, vogliono emergere con la mostruosità, con la
stranezza, emula della caricatura e dell'arte dei primitivi, con lo scempio
delle cose e delle persone sante.
Sembra che un folle rancore devasti l'uomo, che non riesce a raggiungere le
altezze del passato, ma è rancore contro “se stesso”; ed è la giusta pena per
avere obliato, o addirittura disprezzato i fini sublimi del dono di Dio. Orbene,
a quel modo che non ci è permesso di mutilarci
fisicamente, così non ci è consentito di calunniarci con l'arte e aiutar per tal
via la disgregazione della persona umana.
Siamo, o non siamo immagine di Dio?
E se sì, chi può imbrattarla o deformarla? Più
ancora, chi può imbrattarla o deformarla nei Santi, nella Madonna o perfino in
Quegli che è speciosus
forma prae filiis
hominum?
Non
si dica che vogliamo comprimere l'arte: sta di fatto
che, nei secoli, anche con tutte le giuste esigenze dei sacri canoni, chi più ha
fatto lavorare l'arte è stata per l'appunto la Chiesa; e oggi ancora, solo che
certi artisti accettassero di non essere altrettanti semidei, ma figli di Dio e
come tali lavorassero con la luce della fede e con l'ardore dell'amore
cristiano, la casa di Dio sarebbe casa loro e l'arte sarebbe nello stesso
istante più umana e più cristiana.
(Dal
discorso che l'Emo Card. A. Ottaviani tenne a Roma
il 13 dicembre 1954 a conclusione della Mostra Internazionale del Libro
Mariano).
Un inedito di Ugo Ojetti
Dopo l'articolo franco e severo ma educato e ragionato dell'arcivescovo Celso
Costantini nel L'Osservatore Romano del 24
settembre v'è più poco da dire sul confuso dipinto di Renato
Guttuso esposto a Bergamo in quella mostra nazionale
e intitolato addirittura “Deposizione” proprio come quello
dipinto da Raffaello nel 1507 che è a Roma nella Galleria Borghese. In terra
bolscevica non avrebbero osato dargli quel nome e
forse non avrebbero spinto nemmeno in piena guerra l'entusiasmo degli osanna
fino ad attribuirgli anche un premio vistoso e sonante.
Nella Germania nazionale socialista che non è cattolica ma è civile e la
cui arte nuova s'annuncia, specie in scultura, un poco enfatica, un titolo tanto
sacro imposto a un quadro tanto sacrilego, con due donne ignude e procaci
strette alla croce davanti a Gesù crocefisso, sarebbe stato giudicato
inammissibile da qualunque giuria, anche come era questa, di gerarchi e di
giurati ufficiali. Da noi invece... Nella Francia del
1939, nemmeno i più sconvolti dalla paralisi libertaria, avevano mai pensato,
per fare scandalo e rumore, di mescolare sul calvario Gesù crocefisso a siffatta
compagnia.
Il
fatto è che la Chiesa negli ultimi cinquanta o sessant'anni
è stata giustamente in sospetto contro il secolo e contro l'arte che il
secolo ammirava. Verismo, Impressionismo,
Postimpressionismo, Cubismo, Espressionismo
contraddicevano per definizione alle più elementari necessità dell'arte
sacra la quale non solo è stata la prima forma in cui l'arte sia apparsa a fare
luce sul mondo, ma è e resta l'altissima tra le arti perché in essa canoni
liturgici e poetica fantasia, sentimento e ragione, certezza e mistero, mito e
realtà, cielo e terra, morti e vivi collaborano. Nel franare e disgregarsi
dell'arte e dell'insegnamento dell'arte, cioè dello
stesso mestiere che è la prima condizione d'ogni arte, gli artisti venivano
perdendo non solo il sentimento, anzi la passione necessaria all'arte sacra, ma
sovente la stessa capacità di dipingere come si può vedere nelle parti più
corsive e improvvisate della stessa “Deposizione” di
Guttuso. E mi duole di parere crudele
insistendo nel ricordo di Raffaello e di quel suo Cristo morto ed esangue
portato di peso dai suoi fedelissimi verso la Madonna svenuta. Purtroppo non
conosco Guttuso e non so come egli
difenda il suo dipinto e se gli piaccia farlo a
spintoni rientrare nella continuità e umanità della tradizione italiana, oppure,
in una ribellione che ho veduto chiamare coraggiosa, opporlo a questa
tradizione e umanità. Certo è che la religione cattolica è al fondamento
dell'arte nostra, e da Giotto a Tiepolo s'è veduto
da molti secoli che lo spazio pel movimento e per la
così detta libertà non le è mai mancato.
Del
resto, finita la guerra, è certo che nella prima grande
esposizione internazionale d'arte la “Deposizione” di
Guttuso, a Venezia o a Roma o a Berlino o, sia pure,
a Parigi, non figurerà. E questo vorrà dire che
l'arte italiana e la religione da cui essa è sbocciata, vivranno se schiette ed
umane, ammirate e seguite, come sono da molti secoli. La mostra di Bergamo è
chiusa, ma sarebbe istruttivo leggere le relazioni
delle giurie per l'ammissione e per la premiazione d'un quadro siffatto.
Istruttivo, specialmente in Italia, con Roma capitale...
Firenze, 1952.
Il pensiero di alcuni artisti di Francia
Un
gruppo di artisti cattolici mi scrisse da Parigi il 9
gennaio 1953:
“A une époque où sous l'influence pernicieuse d'un monde
matérialiste, on cherche à introduire, avec la complicité inconsciente de
certains membres du Clergé, des interprétations des figures divines sous une
forme démoniaque, nous, Artistes Chrétiens, habitant Paris, venons remercier le
Saint-Office d'avoir promulgué des directives sur l'Art Sacré, répondant ainsi
à l'appui que nous espérions de Rome.
En tant que Chrétiens, Artistes, et chefs de famille nous
luttons de toutes nos forces pour que nos Eglises de France, où avec nos
enfants, nous venons chercher la paix et la force, ne s'ornent pas d'un art
théâtrale et hermétique, d'où la Dignité, la Grandeur, et la Miséricorde de
Dieu sont exclus.
Dans cette lutte que nous soutenons, en nous appuyant sur notre
foi, nous cherchons à apporter aux Eglises notre effort artistique; mais parce
que nous refusons d'orner les demeures de Dieu avec des formes morbides et
malsaines, non seulement les pouvoirs publics, mais le Clergé lui-même hésite à
nous confier ses Eglises.
Les leaders d'Extrême-Gauche ne
veulent considérer que les productions de Saint-Sulpice au bas de l'echelle
et celles de leurs idoles au sommet.
Or, les produits de Saint-Sulpice sont archi-condammnés
et méprisés depuis 50 ans par toute personne douée d'un minimum de culture,
méme primaire. On n'a pas attendu pour cela les
inutiles sarcasmes de ces extremistes.
Quant aux idoles de cette presse de gauche, parmi lesquelles il
y a, certes, des gens de talent, voir même de génie, elles comptent parmi elles
une grande majorité de farceurs, de suiveurs (modernes “pompiers”) et de
gloires déclinantes sombrant malheureusement dans la déchéance physique et
mentale.
Le plus difficile pour le public non averti des choses de l'art,
est de démeler parmi les oeuvres de cette dernière
cohorte, ce qui est valable de ce qui ne l'est pas; car l'oeuvre géniale
(d'ailleurs rare) y voisine toujours avec la farce et l'insuffisance.
La vérité n'est pas au “milieu”, comme “ils” disent; elle est
autre. Elle est dans un art ouvert à toutes les tendances et tempéré par la
raison. Un art fort d'une science plastique retrouvée (parfois retrouvée par
“eux”, ceux de gauche) mais un art accessible, lisible par les foules, un art
qui peut porter la consolation et l'amour, et non le trouble, la polémique et la
haine.
Aussi est-il urgent que l'Eglise sage, équilibrée et qui présent
l'existence d'un art et d'artistes accordés sur ces principes, prenne la tête
d'un mouvement de Renaissance productive faisant suite au mouvement de
Renaissance expérimentale des cinquante dernières années.
Cependant, un tel mouvement pour être efficace doit commencer,
non par le choix des artistes et des oeuvres, mais par l'éducation, la culture
de “ceux qui choisiront”: les futurs prêtres, les futures religieuses, tous les
futurs chrétiens-rayonnants.
Aussi, avec combien de joie avons nous lu le dernier alinéa de
l'instruction du Saint-Office réclamant des cours dans les séminaires de la part
de Maîtres avertis pour que “les aspirants au Saint Ordre soient formés à l'Art
Sacré d'une manière adaptée à l'esprit et à l'âge de chacun”.
Nous seraient ils permis de soumettre ce projet au Saint-Office;
que les professeurs se mettent en contact avec des techniciens de l'Art, mais de
formation chrétienne, de manière à poursuivre de plus en plus dans le sens de
l'Eglise cette adaptation de l'Art Sacré avec l'âme contemporaine.
Déjà chacun de nous, selon ses possibilités, essaye
personnellement d'éclairer et fortifier les hésitants (visite à des Evêques et
des Curés, lettres de protestations) en insistant sur la valeur des directives
du Saint-Père.
Un buon cattolico scrive
5
ottobre 1954
On peut réellement se demander si les organisateurs ne se sont
pas fixés comme but, en organisant les expositions, de favoriser les
insults publiques à ce qui est sacré en même temps
que de ridiculeser notre religion et les
catholiques. Les intentions de certains oeuvres sont trop évidentes.
Tout ceci est fort triste. Ne peut-on agir contre ces insulteurs
de Dieu?
Una signora scrive dalla Svizzera
20 agosto 1954
Tous les ennemis de la religion catholique se servent de ces
déformations artistiques pour nous faire du tort.
C'est donc cela Jésus-Christ!
Notre-Seigneur, source de Foi, source de Vie! Il faut avoir l'esprit
déformé, être fou ou poursuivre un but précis, pour livrer ces “oeuvres d'art”
au grand public.
Toutes ces oeuvres méritent la destruction ou le badigeon. Les
Jacobins ont été plus énergiques que nous les sommes. Dans le Mal, il est vrai,
mais ils ont réussi. Et nous, que faisons-nous? Nous parlons, nous écrivons,
nous tolérons, pensant que cet art moderne ne durera que ce que dure un feu de
paille, et que l'Eglise est assez grande et assez
puissante pour ne pas en souffrir.
Nous nous étonnons des progrès des
communistes, nous ne comprenons pas, ou nous ne voulons pas comprendre qu'ils
cherchent à corrompre le monde entier, par tous les moyens, afin de s'en rendre
maître.
XII - Il ritorno del figliuol prodigo
Il
Vangelo di S. Luca ci parla del figlio traviato, che aveva
abbandonato la casa paterna ed era passato in
regionem longinquam, et
ibi dissipavit
substantiam suam vivendo
luxuriose (Luc. 15,
13 et seg.). Il meschino si era ridotto a pascolare
i porci. Ritornato in sé, sorse e si diresse alla casa paterna. Il buon vecchio
padre lo accolse con gioia, perché — disse — il
figlio era morto e rivisse, si era smarrito e fu ritrovato...
Ci
sono anche nel campo dell'arte questi figlioli prodighi. Ora molti cominciano ad
accorgersi della loro perdizione e vincono il rispetto umano e si muovono verso
la casa paterna. La Santa Chiesa li aspetta.
Le
mode passano, le generazioni si rinnovano, le età si succedono come le onde
procellose che si accavallano e si infrangono sullo
scoglio di un faro: il faro, su quello scoglio eterno, è la Chiesa. Essa aspetta
che le onde si plachino e che ritorni il sereno.
Da
duemila anni le burrasche si sono scatenate intorno a quello scoglio.
Grande forza questa di poter aspettare! I secoli
hanno travolto tutti i persecutori. La Chiesa, ferma, paziente, amorosa, ha
detto spesso parole di perdono sulla tomba dei nemici.
Non
c'è al mondo altra istituzione paragonabile alla Chiesa; per
essa i secoli sono giorni, per essa il tempo non conta perché essa
respira nell'atmosfera dell'eternità. Christus
heri et
hodie; ipse
et in saecula (Hebr.
13, 8).
In arte, tutte
le forme sane ed oneste si sono affermate o riabilitate con lei; essa ha
aspettato e accolto anche il ritorno dei figli prodighi.
Ed
ora, calma, sicura, amorosa, aspetta.
Note:
(1)
CLEMENTIS ALEXANDRINI: Cohortatio ad
gentes. (…)
(2)
Nell'Ottavio di Minuccio Felice, il pagano Cecilio domanda ad Ottavio:
perché i cristiani nullas aras
habent, templa nulla,
nulla nota simulacra? (Cap.
X). (…)
(3)
Concilium Eliberitanum
300 (306?).
Placuit
picturas in Ecclesia
esse non debere, ne
quod colitur
et adoratur in
parietibus dipingatur.
KIRCH CONRADUS: Enrichidion
Fontium Historiae
Ecclesiasticae Antiquae,
pagg. 192-193.
(4)
Epiphanius Ep.
Constantinus (n. circa il 315). (…)
(5)
Eusebii Pamphili
epistola ad Constantiam
Augustam. (…)
(6) S. Ioannes
Damascenus, fin. saec.
VII, ante 754. (…)
(7) Concilium
Quinixestum seu Trullanum
II (692). (...)
(8) Cyrillus
Alexandrinus + 444. (...)
(9) CLEMENS ALEXANDRINOS (De exteriore
specie Christi
Paedagogus 3, I, fin.). (…)
(10) Q. SEPTIMIUS FLORENS TERTULLIANUS: De
exteriore specie
Christi. (…)
(11) SOPHRONIUS EUSEBIUS HIERONYMUS. (…)
(12) Concilium
Nicaenum.
Eos
ergo, qui audent
aliter sapere
aut docere
aut secundum
scelestos haereticos
ecclesiasticas traditiones
spernere et novitatem
quamlibet excogitare,
vel proicere
aliquid ex
his, quae
sunt Ecclesiae
deputata, sive
evangelium, sive figuram
crucis, sive
imaginalem picturam,
sive sanctas
reliquias martyris;
aut excogitare
prave aut
astute ad
subvertendum quidquam
ex legitimis
traditionibus Ecclesiae
catholicae; vel
etiam quasi
communibus uti
sacris vasis
aut venerabilibus
monasteriis : si quidem
episcopi aut
clerici fuerint,
deponi praecipimus;
monachos autem
vel laicos a communione
segregari.
E. DENZINGER: Enchiridion Symbolorum,
n. 304.
Fonte testo : www.lucisullest.it/ACC/ACC_FedeedArteLanuovaeresiaiconografica.htm
tratto da FEDE E ARTE, Rivista Internazionale di Arte Sacra, sotto la direzione della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, Città del Vaticano, Anno III, Maggio 1955 - Numero V, Tipografia Poliglotta Vaticana, pag. 130-160.
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