PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA
CULTURA
LA VIA PULCHRITUDINIS ,
cammino privilegiato di
evangelizzazione e di dialogo
la “via pulchritudinis”
Il fondamento teologico di una pastorale della
Bellezza
di
Bruno Forte
Arcivescovo di
Chieti-Vasto
Cristo, il “bel
Pastore” (Gv 10,11) è secondo la fede cristiana la rivelazione della bellezza
che salva: e lo è secondo la duplice via della bellezza armonica, propria del
“più bello fra i figli degli uomini” (Sal 45,3), e di quella conturbante
dell’Uomo dei dolori, davanti a cui ci si copre la faccia (cf. Is 53,2).
Agostino e Tommaso d’Aquino possono essere indicati rispettivamente come i
testimoni di questi due approcci, che convergono nella contemplazione e nella
proclamazione del Redentore dell’uomo quale bellezza che salverà il mondo[1].
1.
La Bellezza come forma
a) Agostino e l’“ordo amoris”
L’intera esistenza
di Agostino è attraversata dalla meditazione dei temi, che egli considerava
intimamente connessi, di Dio Trinità e del bello[2].
L’interesse per questo secondo motivo è dominante già nel tempo che precede la
conversione, vista come un approdo alla vera bellezza. È lui stesso a
riconoscerlo nella struggente esclamazione delle Confessioni, in cui il
Tu dell’invocazione è rivolto a Colui che è la bellezza: “Tardi Ti amai,
bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti amai!”[3].
Queste parole contengono due novità rispetto alla concezione del bello che aveva
dominato il pensiero classico, greco-romano: da una parte, Agostino dà del Tu
alla Bellezza, mostrandone il carattere personale e dialogico; dall’altra, ne
afferma la condizione divina e salvifica, il suo essere “tanto antica e tanto
nuova”, eterna e sempre viva, degna di amore assoluto. La Bellezza non è
qualcosa, è Qualcuno, l’Unico che si debba amare al di sopra di tutto, perché è
la sorgente e il termine stesso dell’amore.
Di fronte a questa
Bellezza prima e ultima, Agostino riconosce la grandezza e i limiti delle
bellezze penultime ed afferma che proprio la bellezza delle creature lo aveva
tenuto lontano dal Creatore. Questi lo ha raggiunto, però, con la Sua bellezza
attraverso quella via dei sensi, mediante la quale percepiamo il bello in ogni
suo apparire[4].
L’itinerario di Agostino appare dunque come un cammino dalla bellezza alla
Bellezza, dal penultimo all’Ultimo, per poter poi ritrovare il senso e la misura
della bellezza di tutto ciò che esiste nella luce del fondamento di ogni
bellezza. Ciò che unifica in modo pregnante questa duplice via di “ek-stasis” e
di ritorno è il motivo dell’amore: in realtà, la bellezza può tanto su di noi
perché ci attrae con vincoli d’amore. È ancora nelle Confessioni che si
trova questa considerazione: “Non è forse vero che noi non amiamo che il bello?”[5].
Il movimento della bellezza non è che il movimento dell’amore: “ordo amoris” è
il mondo del bello[6].
Nasce perciò la domanda su che cosa nella bellezza attiri l’amore, rendendo
bello ciò che è bello.
Agostino riflette
con rigore su questa domanda a partire anche dalla propria esperienza[7]:
due possibili risposte gli si affacciano alla mente. Stando alla prima, la
ragione formale della bellezza è nelle cose stesse che ci appaiono belle;
secondo l’altra, invece, la ragione del bello è nel soggetto, che ne prova
piacere. È l’alternativa, che vale tanto in rapporto alla bellezza, quanto in
rapporto alla verità o al bene: la misura è nel soggetto o nell’oggetto? è bello
ciò che è bello o è bello ciò che piace?[8]
Per chi, come Agostino, è giunto al forte senso dell’oggettività del vero, che
illumina dal profondo il mondo del soggetto, non c’è alcun dubbio nella scelta
fra le due possibilità: “Le cose piacciono perché sono belle”[9].
La bellezza di ciò che è bello non dipende dal gusto del soggetto, ma è
inscritta nelle cose, dotata di una sua forza oggettiva: “Le cose sono belle
perché le parti, per una sorta di intimo legame, danno luogo ad un insieme
conveniente”[10].
Bello è ciò che presenta un’intima, organica “convenientia”, un “con-venire” che
ha la sua sorgente nel profondo: la “forma” rispecchia nel finito l’armonia
infinita; la bellezza riproduce nel frammento i “numeri del cielo”.
Così la bellezza
risulta essere uno con l’amore, inteso come ordine e corrispondenza degli
amanti: e perciò la Bellezza più alta sarà l’amore più alto, la Trinità divina,
l’“ordo amoris” nella sua forma suprema: “In verità vedi la Trinità, se vedi
l’amore”[11].
“Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore”[12]:
eppure, amandoli, ci è dato di “aderire all’Uno, godere dell’Uno, perseverare
nell’Unità”[13].
Si può dire che tutto ciò che è bello viene dalla Trinità ed è attratto da essa:
“Nella Trinità si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta,
il gaudio completo”[14].
È questa attrazione verso la bellezza ultima, è questo amore che ispira l’intero
movimento di ritorno del creato al Creatore: la bellezza dell’Amore infinito
apparso in Gesù Cristo suscita l’amore della bellezza, che di grado in grado fa
percorrere all’uomo interiore la via che porta alla gioia in Dio tutto in tutti.
La via della Bellezza si rivela così come la via di Dio, e perciò come la via
della salvezza e della verità: nella bellezza tutto è unificato, tutto
giustificato nel suo ultimo senso. La sapienza della bellezza greca è così
assunta e superata: l’armonia delle forme è la chiave, ma il movimento di
trascendenza che la percorre - dischiuso sull’abisso dell’atto creatore - porta
ben al di là di una bellezza mondana, verso la sponda - gustata in questo mondo
come anticipo e caparra - della bellezza eterna del Dio Trinità Amore. Questa
bellezza ultima è vittoriosa di ogni sua apparente negazione: come tutto ciò che
esiste non esiste che per amore, così tutto è bello, perché la suprema Bellezza
si partecipa in ogni oggetto d’amore.
b) Implicanze pastorali dell’idea agostiniana del bello
Quali conseguenze ha
questa concezione della bellezza sull’annuncio del bel Pastore, Gesù Cristo, e
l’edificazione della Sua Chiesa? Due urgenze emergono in primo piano: da una
parte, proporre il messaggio cristiano in tutta la sua bellezza, capace di
attrarre le menti e i cuori con vincoli d’amore; dall’altra, vivere e
testimoniare la bellezza della comunione in un mondo segnato spesso dalla
disarmonia e dalla frammentazione.
In quanto annuncio e
dono dell’amore che supera ogni conoscenza, il Vangelo è offerta di bellezza:
Gesù Cristo non è solo la verità e il bene, egli è la bellezza che salva. Bello
è conoscerlo; bello è amarlo; bello è per noi - secondo le parole di Pietro -
“stare sul monte” con Lui (cf. Mt 17,4). In questo senso, la via della bellezza
si offre come pastoralmente feconda per avvicinare gli uomini al Dio di Gesù
Cristo e sostenere l’impegno della Chiesa al servizio della verità. Non a caso
il Pastore, che raccoglie le pecore nell’unità del Suo gregge, è presentato nel
Vangelo giovanneo precisamente come il Pastore buono e bello:
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6"8`H (cf.
Gv 10,11). È Lui la buona novella, il Vangelo vivente: perciò, la bellezza del
Suo amore è per eccellenza la forza dell’evangelizzazione. Nella fede i
discepoli incontrano l’Amato e si lasciano inondare dalla bellezza del Suo
eterno amore. L’evangelizzazione trova nella carità di Gesù l’oggetto da
annunciare, il cammino su cui avanzare, il misterioso richiamo cui sempre di
nuovo corrispondere.
E la bellezza
incontrata nel Maestro diventa la forma e l’oggetto dell’annuncio del discepolo:
a notarlo è Pavel Florenskij, il “Leonardo da Vinci russo”, genio della scienza
e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di Cristo, morto martire della
barbarie staliniana. Commentando Mt 5,16 - “Così risplenda la vostra luce
davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al
vostro Padre che è nei cieli” - egli osserva che “ ‘i vostri atti buoni’ non
vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico:
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vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità
spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si
espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti
dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la
cui immagine sulla terra così sfolgora”[15].
Se la testimonianza è via preziosa per l’annuncio del Vangelo, essa è
inseparabile dallo sfolgorio della bellezza negli atti del discepolo
interiormente trasfigurato dallo Spirito di Cristo: dove la carità si irradia,
lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce
l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore
crocifisso e risorto.
Questa bellezza
risplende allora in modo particolare nella comunione della Chiesa, lì dove essa
è vissuta nell’accoglienza reciproca e nel rispetto della diversità di doni e
ministeri voluta dal Signore: è la bellezza armonica dell’ordine, della
convergenza pacificante delle parti nel tutto, delle diversità in comunione; ed
è la bellezza irradiante della carità, il dono che evoca e ripresenta l’amore
del bel Pastore per ciascuno di noi. Questa figura della bellezza si affaccia in
modo speciale nella liturgia della Chiesa, ripresentazione della carità del Bel
Pastore nel cuore della comunione ecclesiale, culmine e fonte della vita e della
missione del popolo di Dio nella storia. L’ordine e la disciplina liturgica, in
questa luce, appaiono nel loro vero significato di custodia della bellezza, al
servizio di una fedele ed irradiante attualizzazione dell’amore del Salvatore.
Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa sulla collina Makovec,
rivolta verso il grande Monastero (la “Lavra”) di Sergiev Possad, cuore del
cristianesimo russo, Florenskij descrive la paradossale bellezza dell’azione
liturgica, simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla terra e
l’eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel “tempio
santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste”.
Scrive dunque
Florenskij: “Il Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono.
Scendeva la sera. I raggi dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un
inno solenne all’Eden. L’occidente impallidiva rassegnato, e verso di esso era
rivolto l’altare, posto sulla sommità della collina… Al Vespro il canto ‘Luce di
pace’ sigillava il tramonto. Il sole morente si abbassava sontuoso. Si
intrecciavano e si scioglievano le melodie antiche come il mondo; si
intrecciavano e si scioglievano i nastri d’incenso azzurro. La lettura del
canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente,
qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva
trasformata misteriosamente dalla gioia del ritorno. E al canto ‘Gloria a Te che
ci hai mostrato la luce’ accadeva significativamente che la tenebra esterna,
pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava attraverso la
finestra dell’altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non svanisce,
quella gioia del crepuscolo della grotta. Il mistero della sera si univa con il
mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola”[16].
In questa descrizione dell’incontro fra il cielo e la terra, non è solo la
liturgia ad essere espressa, ma l’identità profonda dell’essere e della missione
della Chiesa pellegrina nel tempo sulla via della bellezza senza fine, e proprio
così il suo compito profetico, sacramentale e di servizio alla carità e alla
giustizia.
Da queste
considerazioni nascono allora alcune domande per la verifica e la promozione di
una pastorale della bellezza: come è presentata nella
nostra predicazione e nella catechesi la bellezza di Cristo? In che senso si
educano i cristiani a testimoniare la gioia del sapersi amati e la bellezza di
vivere in questo amore che viene dall’alto? Come è promossa e custodita la
bellezza della comunione nelle nostre comunità? Si ha coscienza che questa
bellezza del volersi bene e del reciproco accogliersi rispettoso della diversità
è condizione fondamentale della missione, secondo la stessa parola del Signore
“da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per
gli altri” (13,35)? Si cura la bellezza e l’ordine della liturgia, degli spazi
sacri, degli ambienti della comunità, per annunciare anche così la pace del
Risorto?
Rispetto a questa
concezione della bellezza e alle sue conseguenze pastorali resta aperta,
tuttavia, una domanda: una tale bellezza giustifica anche il disordine e il male
che devastano la terra? L’“ordo amoris” abbraccia tutte le cose, tutto
riconciliando in sé, o è messo in discussione dalla ferita della sofferenza e
del male? La concezione che Agostino ha della bellezza spinge qui oltre se
stessa: lo mostra una pagina tratta dal suo commento alla Prima Lettera di
Giovanni, la “lettera dell’amore”: “Due flauti suonano in modo diverso, ma uno
stesso Spirito vi soffia dentro. Dice il primo: ‘Egli è il più bello tra i figli
degli uomini’ (Sal 45,3); e il secondo, con Isaia, dice: ‘Lo abbiamo visto: non
aveva più né bellezza, né decoro’ (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un
unico Spirito: essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a
sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come
ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: ‘Il più bello tra
i figli degli uomini’; ‘benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con Dio’ (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in
bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: ‘Lo abbiamo visto:
non aveva più né bellezza, né decoro’: questo perché ‘spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in
forma umana’ (Fil 2,7). ‘Egli non aveva bellezza né decoro’ per dare a te
bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché
tu possa correre amando e amare correndo... Guarda a Colui dal quale sei stato
fatto bello”[17].
È l’amore con cui
Cristo ci ha amati che trasfigura lui, “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si
copre la faccia” (Is 53,3), nel “più bello dei figli degli uomini”: il
crocefisso amore è la bellezza che salva. Qui la bellezza statica della forma è
superata nella “violenta carità” che avvicina i lontani: la bellezza dell’amore
crocefisso rivela il Volto dell’Amato, che nei segni del dolore lascia
trasparire il misterioso richiamo cui sempre di nuovo corrispondere per andare
verso gli abissi della bellezza eterna, unica salvezza del mondo. Agostino
spinge oltre Agostino, sulla via di un’intelligenza teologica della bellezza da
lui intuita, ma non percorsa fino in fondo, forse perché ancora troppo
condizionato dalla malia dell’Uno, propria della cultura classica. Occorrerà il
genio di Tommaso d’Aquino per andare con Agostino oltre Agostino, e consegnare
così all’Occidente una rinnovata comprensione del bello, totalmente segnata
dalla singolarità della rivelazione offerta a noi in Gesù Cristo.
2.
La
bellezza come crocefisso amore
a) Tommaso d’Aquino e la via
cristologica
Per Tommaso d’Aquino
la chiave interpretativa del momento estetico non è solo il rimando dalla forma
alla forma, dai rapporti mondani di proporzione ai rapporti eterni delle armonie
celesti: il suo punto di partenza è la Bellezza che una volta per sempre ha
abitato in un tempo, in un luogo, in quel frammento, che è la carne del Verbo. È
lì che il Bello si è offerto “sub contraria specie”, nel volto di Colui davanti
al quale ci si copre la faccia, che proprio per questo è il volto del più bello
dei figli degli uomini (cf. Is 53,3 e Sal 44,3). È la via della meditazione
sulla bellezza costruita a partire dal frammento che è il Figlio Gesù Cristo,
“verbum abbreviatum” dell’intera rivelazione di Dio. Scrive Tommaso nella
Pars I della Summa Theologiae[18]:
“Pulchritudo habet similitudinem cum propriis Filii” – “La bellezza ha a
che fare con ciò che è proprio del Figlio”. Ed aggiunge a spiegazione di quest’affermazione
che perché ci sia bellezza occorrono l’integritas, la proportio e
la claritas, l’integrità, la proporzione e la luminosità.
La bellezza dipende
anzitutto dall’integritas, da quella perfectio, che altro non è se
non la realizzazione compiuta della cosa: “La bellezza è la forma del tutto, che
sorge dall’integrità delle parti”[19].
Nella bellezza è il tutto che si affaccia: “L’integrità dell’opera appare solo a
chi sappia vedere il tutto nell’atto di animare le parti, di costruirsele
e reclamarle e ordinarle”[20].
Così, nel Verbo incarnato è la totalità del mistero divino che si rivela, la
natura divina resa accessibile nella persona del Figlio che ha assunto la natura
umana: “L’integrità riguarda ciò che è proprio del Figlio, in quanto il Figlio
ha in sé in maniera vera e perfetta la natura del Padre”. Discepolo dell’eredità
classica, convinto perciò che quando si ha a che fare col bello non ci si può
accontentare del frammento, Tommaso non esita a riconoscere nel Verbo incarnato
la presenza del Tutto, ben consapevole di come un tale riconoscimento modifichi
radicalmente l’idea stessa della totalità. Non si tratta più della totalità
chiusa di un’alterità irriducibile; ciò con cui si ha invece a che fare è la
totalità ospitale del Dio incarnato e crocifisso, è il tutto che accoglie in sé
ciò che è altro da sé, il Dio Amore.
Questo tutto
“aperto” si manifesta nella storia non solo secondo la via classica della
proportio, seguita da Agostino e fatta propria non di meno da Tommaso, ma
anche nella via della claritas, secondo cui la bellezza non è solo
“forma” (tanto che il latino chiama “formosus” ciò che è bello), ma anche
luminosità, folgorazione, splendore: bello è propriamente il volto del Figlio
fatto carne, “Verbum abbreviatum” del “Verbum aeternum”, Parola che trasmette
nella fragilità delle nostre parole l’eco fedele dell’eterno dirsi del divino
Silenzio. Il Tutto non si offre più solo come proporzione riflessa, ma anche
come irradiazione, abisso di luce che si schiude e che inabita, che trapassa ed
attira. La claritas “corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in
quanto egli è il Verbo, luce e splendore dell’intelligenza”. Il
Tutto si fa presente nel Figlio incarnato come “splendore” della gloria del
Padre, in una circolarità piena – come osserva Umberto Eco - fra “momento
estetico” e “momento teofanico”[21].
Il volto dell’Uomo dei dolori che soffre per amore nostro è la rivelazione della
bellezza che salva, il luogo in cui la luce irrompe nelle tenebre e le riscatta
dal di dentro.
La meditazione di
Tommaso sulla bellezza unisce così due mondi: l’anima greca, con la sua ansia di
coniugare il molteplice all’ordinata presenza dell’Uno, e l’anima ebraico -
cristiana, con la sua fede nel Dio della storia, che irrompe nella notte del
tempo come luce e fuoco divorante e parla le parole degli uomini e stringe
alleanza con loro, fedele alle Sue promesse fino al farsi carne del Figlio, in
Lui destinandosi per sempre alla creatura consapevole e libera, chiamata a
rispondere al patto col patto. “A definire il bello concorrono sia la luminosità
che la proporzione dovuta”[22].
La forma da sola non basta, perché può scadere in estetismo, idolatria del
frammento isolato dal tutto: ma anche lo splendore da solo è insufficiente,
perché è solo attraversando una forma e trasfigurandola dal di dentro che il
Verbo si fa carne e il Tutto fa irruzione nel tempo, e il frammento diventa
finestra sul mistero abissale, terreno d’avvento dell’eternità. La bellezza è
esodo da sé senza ritorno, amore fino alla fine, crocefissa “agàpe”, apocalisse
del Tutto nel frammento, totalità del Mistero divino rivelata e nascosta
nell’Abbandono del Figlio eterno. Proprio così, nel bello si compie l’evento
simbolico che tiene insieme lo splendore e la forma, a partire da quanto avviene
nella discesa kenotica di Dio nelle tenebre del Venerdì Santo.
Nel Signore Gesù una
volta per sempre in pienezza il Tutto ha abitato il frammento, trapassandolo da
parte a parte, verso l’abisso della divinità e verso le opere e i giorni degli
uomini. Proprio così il volto del “bel Pastore” (Gv 10,11) è Porta, apocalisse
dell’Ultimo nella fragilità di ciò che è penultimo: l’agape crocefissa è la
rivelazione della bellezza che salva. Ed è a partire da questa meditazione,
propriamente cristologica, che si può comprendere il senso teologico del nome
destinato a più larga fortuna per designare la bellezza nelle lingue romanze:
“bello”. Esso deriva dal latino medioevale “bonicellum”, e sta a dire “piccolo
bene”, “bene abbreviato”. Dalla contrazione di questa parola verranno i termini
che nelle lingue latine designano ciò che il latino chiama “formosus” in
riferimento all’armonia e proporzione della forma: “bello”, “bonito”, “beau”,
“beautiful”. L’idea di bellezza che viene in tal modo evocata è quella del
contrarsi dell’Onnipotente nella debolezza, dell’Infinito nel finito, della
gloria nell’umiltà e nella vergogna della Croce: il bello è l’amore che induce
l’infinito Bene a consegnarsi alla morte per il bene dell’amato. Il bello è
umiltà, kènosi dello splendore e proprio così paradossale splendore della kènosi.
Come dice San Francesco nelle Lodi del Dio Altissimo: “Tu sei santo,
Signore… Tu sei forte…Tu sei amore e carità, Tu sei sapienza. Tu sei umiltà...Tu
sei bellezza!”. Inconsapevolmente, il linguaggio del bello nella cultura
dell’Occidente trasmette la fede cristiana nella rivelazione dell’infinito amore
sulle braccia della Croce alzata sulla piccola collina fuori di Gerusalemme…
b) Implicanze pastorali della concezione tomista del bello
Quali conseguenze ha
quest’altra concezione della bellezza sull’annuncio del bel Pastore Gesù Cristo
e per l’edificazione della Sua Chiesa? Due urgenze appaiono qui rilevanti: il
primato della carità come “forma Ecclesiae”, e l’annuncio della speranza fondata
sulla promessa della bellezza, pregustata anche se non ancora pienamente
raggiunta.
Nulla come l’amore
che si consegna alla morte per l’altro rivela la bellezza che viene da Dio:
perciò, la bellezza letta alla luce del bel Pastore contesta la miopia della
falsa bellezza, e perciò la bellezza autentica viene spesso evitata. Il bello
viene trasformato in spettacolo, ridotto a bene di consumo, in modo che ne sia
esorcizzata la sfida esigente e gli uomini siano aiutati a non pensare più, a
fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente
fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. Nel
grande mercato del “villaggio globale” sembrano scomparire i segni della
bellezza: la maschera della propaganda pare trionfare su tutti i fronti rispetto
alla serietà tragica dell’interruzione senza riparo della verità e della
bellezza che salva. La via cristologica insegna invece a cogliere la bellezza
come evento sempre nuovo di un possibile, impossibile amore, impossibile perché
oltre ogni misura delle nostre forze, possibile, perché donato dall’alto: nella
morte della Parola eterna crocifissa e abbandonata per noi si rivela il mistero
dell’amore capace di vincere il dolore e la morte, mistero di un infinito bene,
che si fa piccolo, si “abbrevia”, per donarsi ai “senza Dio” e raggiungere tutti
gli abbandonati dagli uomini.
È questo “amore
folle” di Dio il volto dell’altra Bellezza, che sola può aiutare gli abitatori
del tempo a “trasgredire” veramente la morte ed a “redimere” il frammento ferito
dal male: è la carità umile la Bellezza che salva. Il crocifisso Amore apre alla
possibilità divina di vivere la lontananza più alta come profondissima
vicinanza: nel dolore della separazione più grande si consuma il fuoco
dell’amore, forte come la morte (cf. Ct 8,6). Il dono di sé fino alla consegna
suprema è illuminato dal Bel Pastore che si consegna per noi come via dove può
compiersi il passaggio verso il Mistero accogliente del Dio amore. Il Crocifisso
- proprio nel suo abbandono sulle braccia della Croce - è e resta il più bello
dei figli degli uomini, rivelazione e anticipo della bellezza eterna (cf.
Novo Millennio Ineunte, 28). Questo significa che la fragilità della carne
segnata dal dolore e dal male, proprio in quanto assunta dal Verbo per amore
nostro, è resa partecipe di un mistero di bellezza che può redimerla e
trasfigurarla dal profondo: il “piccolo bene”, il bene contratto del Verbo
abbreviato per noi, rende bello e salvifico tutto ciò che appartiene alla
piccolezza del tempo.
È l’amore del
Crocifisso che trasforma in bellezza la fragilità mortale che egli assume e
redime: è la carità che viene da Lui a trasfigurare e redimere il male del mondo
e a fare della sofferenza la via di un dolore salvifico. Discepola del bel
pastore, la Chiesa è chiamata ad essere su questa strada l’“Ecclesia charitate
formata”, la Chiesa della carità, che trova nel dono di sé fino alla fine -
quale è vissuto dai santi nei confronti dei più piccoli e deboli dei loro
fratelli – forse il più convincente dei motivi di credibilità del suo annuncio.
A poco varrebbe proclamare a parole la retta fede sul Cristo, se questa
confessione non si unisse alla sequela di Lui, a quell’“apostolica vivendi
forma” che è inseparabilmente verità e amore, carità per il prossimo e
confessione di fede. L’“Ecclesia de charitate” mostra la bellezza del suo
Signore e si rivela Sposa bella di Lui nelle scelte e nei gesti della carità,
nell’attenzione solidale per la giustizia, nella cura della grande casa del
mondo in quanto destinata a ogni creatura, perché anche i poveri hanno diritto
alla bellezza.
Ed insieme questa
testimonianza della bellezza per la via della carità e dell’impegno per la
giustizia e la pace è annuncio della speranza che non delude. Proporre alle
donne e agli uomini del nostro tempo la vera bellezza, rendere la Chiesa attenta
ad annunciare sempre, a tempo e fuori tempo, la bellezza che salva, sperimentata
lì dove l’eternità ha messo le sue tende nel tempo, vuol dire offrire ragioni di
vita e di speranza a chi rischia di non averle o di perderle. Una Chiesa
testimone del senso ultimo e perciò apportatrice di fiducia nel cuore della
storia umana è popolo della bellezza che salva, in quanto anticipa nel tempo
penultimo qualcosa della promessa bellezza di Dio tutto in tutti nell’ultimo
tempo. La speranza, anticipazione militante dell’avvenire del mondo redento,
promesso nel Figlio crocifisso e risorto, è annuncio della bellezza, di cui il
nostro tempo ha particolarmente bisogno ed è proprio così condizione preziosa di
un nuovo, possibile slancio evangelizzatore, nel servizio alla causa del volerci
tutti più umani secondo il disegno di Dio: solo una condizione, certo, e
tuttavia - in quanto teologicamente fondata nella forma pacificante e nello
scandaloso abbandono d’amore del Bel Pastore - una sfida e una promessa feconda
per tutti, su cui vale la pena di riflettere e per cui vale la pena di
impegnarci.
Anche qui la
riflessione si traduce in domande: siamo consapevoli del primato che spetta
alla carità nella vita e nella missione della Chiesa, perché essa sia la Sposa
bella del bel Pastore? Ci rendiamo conto della responsabilità che come credenti
abbiamo di testimoniare a tempo e fuori tempo l’amore del Crocifisso che ha
consegnato se stesso per noi e per tutti? Consideriamo l’attività della Chiesa
al servizio della giustizia e della pace, come pure il suo impegno per la
salvaguardia del creato, come un’espressione quanto mai adeguata della bellezza
di cui essa è testimone e riserva per tutti? Coniughiamo alla carità la
testimonianza della speranza, che il bel Pastore ci ha rivelato e garantito in
se stesso crocifisso e risorto? In un mondo malato di penuria di speranza, siamo
consapevoli che la testimonianza della bellezza che salva è inseparabilmente
testimonianza del senso ultimo della vita e della storia e fiducioso annuncio
della patria intravista e promessa nella rivelazione? Anche nella risposta a
queste domande la meditazione cristiana sulla bellezza, alla scuola della
duplice via di Agostino e di Tommaso, diventa scelta pastorale, itinerario per
un rinnovamento possibile della vita ecclesiale in conformità al disegno d’amore
rivelato e donato nel bel Pastore.
[1]
Cf. su quanto segue e in generale sull’apporto della riflessione teologica
alla concezione del bello B. Forte, La porta della Bellezza. Per
un’estetica teologica, Morcelliana, Brescia 20003.
[2]
Cf. J. Tscholl, Dio e il bello in sant’Agostino, Ares, Milano 1996
(originale tedesco: Leuven 1967).
[4]
Ib.:
“Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: qui Ti cercavo e, deforme
qual ero, mi buttavo sulle cose belle che Tu hai fatto. Tu eri con me, io
non ero con Te. Mi tenevano lontano da Te quelle cose che, se non fossero in
Te, non sarebbero. Chiamasti, gridasti, vincesti la mia sordità;
sfolgorasti, splendesti e fugasti la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo
aspirai e anelo a Te; Ti gustai e ora ho fame e sete di Te; mi toccasti e
bruciai del desiderio della Tua pace”.
[6]
Cf. R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Il
Mulino, Bologna 1991.
[7]
Cf. Conf., IV, 13, 20.
[8]
Cf. De vera religione 32,59.
[11]
Agostino, De Trinitate, 8, 8, 12.
[16]
Sulla collina Makovec,
20. 5. 1913, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici,
Piemme, Casale Monferrato 1999, 260s.
[17]
Sant’Agostino, In Io. Ep., IX, 9.
[18]
Summa Theologica
I q. 39 a. 8 c. Sull’estetica di San Tommaso cf. U. Eco, Il problema
estetico in Tommaso d’Aquino, Milano 19822, dove l’Autore
riprende e valuta a distanza di anni la sua tesi di laurea, pubblicata nel
1956.
[20]
L. Pareyson, Estetica, Torino 1954, 284.
[21]
Cf. U. Eco, Il problema estetico..., o.c., 29.
[22]
II IIae q. 145 a. 2 c. Cf. pure II IIae q. 180 a. 3 ad
3um.
Fonte : Pontificio
Consiglio della Cultura , www.vatican.va
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