sabato 13 luglio 2019

La Bellezza : una via per l'Unità , di Mons. Bruno Forte




LA BELLEZZA : UNA VIA PER L'UNITA'
di Mons. Bruno Forte
 
S.E. Rev.ma Mons. Bruno Forte ,
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto


1. Fra lontananza e prossimità: il Tutto nel frammento

                È Hans Urs Von Balthasar il pensatore che più di ogni altro ha avvertito l’epocale attualità del bello come via per il recupero del vero e del bene in un’epoca tentata dalla debolezza rinunciataria, chiusa agli orizzonti di fondazione e di senso. La passione tutta cristiana dell’annuncio è in lui motivo di intensa concentrazione sul bello:
“La nostra parola iniziale — scrive inaugurando la sua opera maggiore — si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza”1.
 La conseguenza drammatica di questo esilio della bellezza sta nella inevitabile perdita del senso del vero e del bene: “In un mondo senza bellezza... anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’eviden­za del suo dover-essere-adempiuto... In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica”2.
                Ciò di cui allora v’è urgente bisogno al compimento della parabola dell’epoca moderna è per von Balthasar un cristianesimo che recuperi rigorosamente la centralità e la rilevanza del trascendentale del bello: non basta più testimoniare l’alterità di Dio rispetto al mondo, compito pur necessario e prezioso in tante epoche. Ad un’umanità che tanto intensamente ha scoperto la mondanità del mondo e ha rincorso il progetto di emanciparsi da ogni dipendenza estranea all’orizzonte terreno, è necessario più che mai proporre il Dio in forma umana, lo scandalo al tempo stesso attraente e inquietante dell’umanità di Dio: e questo vuol dire riscoprire la chiave estetica di tutto il messaggio cristiano. “Soltanto chi ama la rivelazione dell’infini­to nella forma finita è non soltanto un ‘mistico’, ma anche un ‘stetico’”3: e soltanto chi ha il senso della bellezza — e dunque dell’avvento paradossale del Tutto nel frammento — può anche veramente annunciare un Dio significativo per l’umanità resa ormai consapevole della piena dignità di tutto ciò che è storico e mondano.
                Solo l’esplicita ed argomentata consapevolezza dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, e dunque solo la comprensione estetica della rivelazione e della fede, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, “troppo umano”, che è il nostro mondo. Lo esprime questo testo drammatico dello stesso von Balthasar:
 
“Quel Logos, in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità, cade lui stesso nel buio, nell’ango­scia ... in un nascondimento, che è proprio l’opposto dello svelamento della verità dell’essere... L’indicativo è perduto, l’interrogativo è rimasto l’unico modo di parlare. La fine della domanda è il forte grido. È la parola che non è più parola... Anche il Logos, che ha accettato la forma a lui adatta, deve essere privato della sua figura... La parola di Dio nel mondo è diventata muta, nella notte essa non chiede più di Dio; essa giace sepolta nella terra. La notte che la copre non è una notte di stelle, ma notte di desolazione profonda e di alienazione mortale. Non è un silenzio pieno di mille segreti d’amore, che scaturiscono dalla avvertita presenza dell’amato; ma silenzio di assenza, di distacco, di vuoto abbandono, che arriva dietro tutti gli strappi dell’ad­dio”4.
 
L’estetica teologica – intesa come percezione del Tutto nel frammento, educata alla scuola della kenosi del Verbo crocifisso e abbandonato — è al tempo stesso la via per glorificare l’Eterno nel miracolo della sua autocomunicazione nel finito e per annunciare al mondo la gioia della salvezza che nel “Verbum abbreviatum” gli è stata donata. Rivisitare i linguaggi della bellezza nella memoria teologica dell’Occidente sarà pertanto la via per rispondere alla domanda decisiva su dove e come sarà possibile al pensiero moderno e ai suoi naufragi di riappropriarsi della via salutare del bello, riconoscendovi anche una singolare via verso l’unità per cui Cristo ha pregato. È quanto tenteremo di fare — sia pur in maniera appena evocativa — nelle riflessioni che seguono...
 

2. I “numeri del cielo”: la Bellezza come forma

                Quale rapporto c’è fra la bellezza e Dio?
                L’intera esistenza di Agostino risponde a questa domanda: si potrebbe dire che tutta la sua riflessione è stata dominata dai temi, che egli considerava fra loro intimamente connessi, di Dio Trinità e del bello5. L’interes­se per questo secondo tema è predominante nel tempo che precede l’ora decisiva della conversione. È lo stesso Agostino a riconoscerlo nella struggente esclamazione delle Confessioni, in cui il Tu dell’invocazione è rivolto a Colui che è la bellezza: “Tardi Ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti amai!”6. Agostino ammette che proprio la bellezza delle creature lo aveva tenuto lontano dal Creatore e confessa che Questi lo ha raggiunto con la Sua bellezza per quella stessa via dei sensi, attraverso cui noi percepiamo il bello in ogni suo apparire:
 
“Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: qui Ti cercavo e, deforme qual ero, mi buttavo sulle cose belle che Tu hai fatto. Tu eri con me, io non ero con Te. Mi tenevano lontano da Te quelle cose che, se non fossero in Te, non sarebbero. Chiamasti, gridasti, vincesti la mia sordità; sfolgorasti, splendesti e fugasti la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai e anelo a Te; Ti gustai e ora ho fame e sete di Te; mi toccasti e bruciai del desiderio della Tua pace”7.
 
Udito, vista, olfatto, gusto, tatto sono raggiunti e presi dalla bellezza: in un primo tempo da quella delle cose create; quindi, dalla Bellezza ultima, autrice di ogni altra bellezza. L’intero itinerario di Agostino appare così come un cammino dalla bellezza alla Bellezza, dal penultimo all’Ultimo, per poter poi ritrovare il senso e la misura della bellezza di tutto ciò che esiste nella luce del fondamento di ogni bellezza.
                Ciò che unifica in modo pregnante il tema di Dio e quello della bellezza è per Agostino il motivo dell’amore: in realtà, la bellezza può tanto su di noi perché ci attrae a sé con vincoli d’amore. Nella concezione di Agostino alla forza del richiamo del bello corrisponde il movimento unificante dell’amore: è per questo che la teologia si occupa della bellezza, perché ha a che fare originariamente e costitutivamente con la rivelazione dell’amore e con ciò che essa significa per noi. È ancora nelle Confessioni che si trova questa considerazione: “Allora... amavo le bellezze inferiori, correvo verso l’abisso e dicevo ai miei amici: Non è forse vero che noi non amiamo che il bello?”8. Resterà convinzione costante di Agostino che non è possibile amare se non ciò che è bello: “Non possumus amare nisi pulchra9. Fra rapimento e corrispondenza, il movimento della bellezza non è che il movimento dell’amore: “ordo amoris” è il mondo della bellezza...10
                Da dove scaturisce la forza di attrazione della bellezza? Perché ciò che è bello attira l’amore? Agostino pone con estremo rigore queste domande, certamente riflettendo sul proprio cammino: “Che cosa è bello? e che cosa è la bellezza? Che cosa ci avvince e ci attrae nelle cose, che amiamo? poiché se in esse non ci fosse decoro e bellezza, non ci attirerebbero per nulla a sé”11. Due diverse risposte possono qui offrirsi: secondo la prima, la ragione formale della bellezza è nelle cose stesse che ci appaiono belle; secondo l’altra, la ragione del bello è nel soggetto, che ne prova piacere. Detto altrimenti: è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace? È la bellezza che attrae o è la stessa attrazione, e dunque il piacere che gusta, l’origine del fascino della bellezza? “Anzitutto chiederò se le cose sono belle perché piacciono o se piacciono perché sono belle”12. Per chi, come Agostino, è giunto al forte senso dell’oggettivi­tà del vero, che illumina fin dal profondo il mondo del soggetto, non c’è alcun dubbio né esitazione nella scelta fra le due possibilità:
 
“All’uomo, che è in possesso di un occhio interiore e che vede nell’invisibile, non cesserò di ricordare perché queste cose piacciano, in modo che sia capace di giudicare lo stesso diletto umano... In proposito, di certo, egli mi risponderà che le cose piacciono perché sono belle”13.
 
La bellezza di ciò che è bello non dipende dal gusto del soggetto, ma è inscritta nelle cose, possiede una forza oggettiva. In che consiste questa struttura originaria? È ancora Agostino a rispondere: “Gli chiederò poi perché sono belle e, se mostrerà qualche esitazione, gli suggerirò che forse sono tali perché le parti sono tra loro simili e, per una sorta di intimo legame, danno luogo ad un insieme conveniente”14.
                Bello è dunque ciò che presenta un’intima, organica “convenientia” delle parti che lo compongono, un “con-venire” che emerge dal profondo: “Chiediti che cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che l’armonia: infatti, mentre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò che è in armonia produce piacere”15. Agostino sviluppa quest’idea cogliendo la bellezza come l’affacciarsi dell’unità totale nelle parti del frammento, fra loro convenientemente disposte e relazionate nel loro insieme all’altro da sé: “Osservavo e vedevo che negli esseri corporei altro è il tutto e perciò il bello, altro ciò che conviene perché ben si adatta ad un’altra cosa, come una parte del corpo al suo universo o una calzatura al piede”16. La bellezza consiste dunque nell’affacciarsi del tutto nel frammento per via di una precisa corrispondenza delle parti che lo compongono, di una forma che riproduce l’armonica composizione degli elementi nell’unità ed in cui appare l’essenza (o species) della cosa: “Non a caso nel lodare si usa tanto il termine speciosissimum (che ha l’essenza in sommo grado) quanto il termine formosissimum (che ha la forma in sommo grado)”17.

 
3. Il crocefisso Amore: lo splendore del Bello

                Nella storia della teologia cristiana il rapporto fra teologia e bellezza, oltre ed accanto alla tradizione agostiniana, erede del mondo greco, è pensato secondo un’altra grande possibilità, quella dell’estetica propriamente cristologica, quale Tommaso d’Aquino l’ha sviluppata, assumendola nella potenza del suo genio creatore pur senza trascurare l’altra. Questa via può essere riassunta nella formula semplice e densa, che esprime la bellezza come “crocefisso amore”. La chiave interpretativa del momento estetico non è qui l’abisso, l’indicibile ulteriorità, la trascendenza misteriosa e raccolta. Qui la bellezza abita in un luogo, in un frammento: qui essa si nasconde “sub contraria specie” nel volto di Colui davanti al quale ci si copre la faccia, e che pure è il volto del più bello dei figli degli uomini (cf. Is 53,3 e Sal 44,3). È la via cristologica, la via della meditazione sulla bellezza costruita a partire dal frammento che è la Croce, vero “verbum abbreviatum” dell’intera rivelazione di Dio. È la via che ispira in maniera grandiosa la ricerca di Tommaso d’Aquino, nel movimento dall’apocalisse di una bellezza estatica, concentrata sull’eros dell’amore divino come rapimento verso l’a-di-sopra-di-tutto e l’al-di-fuori-di-tutto, alla tragicità del “mysterium paschale”, dove la morte è morte, nel mondo come in Dio, perché la vita sia vita.
                Tommaso riconosce il luogo proprio e caratterizzante della bellezza nel Verbo incarnato. Scrive nella Pars I della Summa Theologiae18: “Pulchritudo habet similitudinem cum propriis Filii” — “La bellezza ha a che fare con ciò che è proprio del Figlio”. Ed aggiunge a spiegazione di quest’affermazione netta, decisa, che perché ci sia bellezza occorrono tre cose, l’integri­tas, la proportio e la claritas: “Nam ad pulchritudinem tria requiruntur. Primo quidem, integritas sive perfectio... Et debita proportio sive consonantia. Et iterum claritas” — “Tre cose richiede dunque la bellezza: integrità o perfezione... debita proporzione o armonia. E luminosità”. Tommaso riconosce la presenza di questi tre aspetti esattamente nel Figlio inviato dal Padre, nel Verbo incarnato e crocefisso. La bellezza ha anzitutto a che fare con l’integritas, con quella perfectio che è realizzazione compiuta della cosa: “Perfectio est forma totius, quae ex integritate partium consurgit” — “La bellezza è la forma del tutto, che sorge dall’integrità delle parti”19. Nella bellezza è il tutto che si affaccia: “L’integri­tà dell’opera appare solo a chi sappia vedere il tutto nell’atto di animare le parti, di costruirsele e reclamarle e ordinarle”20. Così, nel Verbo incarnato è la totalità del mistero divino che si rivela, è la natura divina che si rende accessibile nella persona del Figlio, che ha assunto la natura umana: “Quantum igitur ad primum, similitudinem habet cum proprio Filii, inquantum est Filius habens in se vere et perfecte naturam Patris” — “Riguardo all’integrità, essa riguarda ciò che è proprio del Figlio, in quanto il Figlio ha in sé in maniera vera e perfetta la natura del Padre”. Tommaso è troppo profondamente discepolo dell’eredità classica per non percepire questo elemento di verità che la cultura greca ha consegnato anche alla fede cristiana: quando si ha a che fare col bello non ci si accontenta dell’interruzio­ne, del frammento. La bellezza è rapsodia evocatrice di totalità. Il senso dell’integritas, della perfectio, il fascino che il πν esercita sull’anima greca, continua a vivere nell’ethos dell’Occiden­te. Tommaso lo sa bene, e non ha difficoltà a riconoscere nel Verbo fatto carne la totalità, sapendo tuttavia che questo riconoscimento apporta una fondamentale modifica all’idea stessa del tutto: non si tratta più della totalità chiusa di un’indicibile alterità; ciò con cui si ha invece a che fare è la totalità aperta, ospitale, è il tutto che accoglie ciò che è altro da sé.
                Questo tutto “aperto” si manifesta come tale venendo ad affacciarsi nella storia secondo due vie, che Tommaso riconosce proprie della “re-velatio”: la via della proportio e quella della claritas. Attraverso l’approfondimento di questi due aspetti viene a delinearsi l’idea della bellezza secondo Tommaso d’Aquino: si potrebbe dire che il bello è il “Tutto nel frammento” — “das Ganze im Fragment” (Hans Urs von Balthasar). Non il Tutt’altro, separato e straniero rispetto al frammento, né il frammento isolato e caduco rispetto al Tutto, ma questa assente presenza, questa presenza assente che l’ossimoro segnala. Come può il Tutto abitare nel frammento? Anche qui Tommaso attinge ai due mondi, che sono le due anime della sua vita: l’appartenenza alla cultura dell’Occidente greco-latino e la fedele testimonianza del messaggio biblico, ebraico-cristiano. Ecco allora le parole chiave: proportio e claritas. Proportio: il Tutto è presente nel frammento quando il frammento riproduce nell’armonia delle parti, nella proporzione e consonanza di esse, l’armonia del Tutto. È la via per la quale la bellezza è “forma”, e quindi armonia di rapporti, tanto che il latino chiama anche “formosus” ciò che è bello: è la via agostiniana, erede anche dell’anima greca. Bello è il frammento che mantiene in sé il rapporto delle parti del Tutto, analogamente riproducendolo, forma da forma, misura da misura: “L’aspet­to costitutivo della bellezza per Tommaso... consiste essenzialmente in una condizione di organicità”21. Così è bello il Figlio fatto carne, “Verbum abbreviatum” del “Verbum aeternum”, icona dell’invisibile, Parola che trasmette nelle nostre parole un’eco fedele dell’eterno dirsi del divino Silenzio: la proportioconvenit cum proprio Filii, inquantum est imago expressa Patris. Unde videmus quod aliqua imago dicitur esse pulchra, si perfecte repraesentat rem” — la proporzione “corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è l’immagine espressa del Padre. Di qui si desume che qualunque immagine può dirsi bella, se perfettamente ripresenta/rappresenta l’oggetto”. La “re-praesentatio” del Tutto nella forma del frammento si compie cioè nel duplice senso di “ri-presentarne” le proporzioni, pur nell’assenza della compiuta Presenza, e di “rappresentarne” l’armonia, in quanto presenza di una comunque irrapresentabile Assenza.
                L’altra via per cui il Tutto viene ad abitare nel frammento, producendo l’evento della bellezza, è per Tommaso la claritas: qui non si tratta più della totalità che si affaccia nell’armonia delle parti, ma di un’irruzione di essa. È come un risplendere, un brillare nella notte, un trapassare il frammento fatto trasparenza di luce: il Tutto non si offre più solo come proporzione riflessa, ma anche come irradiazione, abisso che si schiude e che trapassa, silenzio donde viene la parola e a cui essa apre. È il bello come splendor: splendido è il bello. È il bello come irruzione: fulgente, irradiante, sfolgorante è il bello. Questa bellezza Tommaso la riconosce attuata nell’evento dell’amore del Figlio incarnato, dove la luce splende nelle tenebre: la claritasconvenit cum proprio Filii, inquantum est Verbum, quod quidem lux est, et splendor intellectus” — la luminosità “corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è il Verbo, luce e splendore dell’intelligen­za”. Il Tutto si fa presente nel Verbo incarnato come “splendore” della gloria del Padre, in una circolarità piena — tipica peraltro del pensiero medioevale—fra “momento estetico” e “momento teofanico”22.
                La meditazione di Tommaso sulla bellezza ha unito dunque l’anima greca, con la sua ansia di coniugare il molteplice all’ordina­ta presenza dell’Uno, e l’anima ebraico-cristiana, con la sua fede nel Dio della storia, in quel Dio vivente, che irrompe nel tempo come fuoco divorante e parla le parole degli uomini e stringe alleanza con loro, fedele alle Sue promesse fino al farsi carne del Figlio, in Lui autodestinandosi per sempre alla creatura consapevole e libera, chiamata a rispondere al patto col patto. “Ad rationem pulchri... concurrit et claritas et debita proportio” — “A definire il bello concorrono sia la luminosità che la proporzione dovuta”23. La forma da sola non basta, perché può scadere in estetismo, vuota idolatria del frammento isolato dal tutto: ma anche lo splendore da solo è insufficiente, perché è solo attraversando una forma e trasfigurandola dal di dentro che il Tutto fa irruzione nel tempo, e il frammento diventa finestra sul mistero più grande, terreno d’avvento dell’eternità. Si potrà perfino schematizzare nel gioco dello splendore e della forma l’intera storia dell’estetica, e non solo dell’estetica teologica:
 
“L’apparizio­ne, come rivelazione della profondità, è indissolubilmente e allo stesso tempo presenza reale della profondità, del tutto, e rimando reale, al di là di se stessa, a questa profondità. È possibile che, nelle diverse epoche della storia dello spirito, si sottolinei una volta il primo ed un’altra volta il secondo aspetto, una volta il compimento classico (della forma che afferra la profondità) ed un’altra volta l’infinità romantica (della forma che trascende verso la profondità). Sia l’uno che l’altra sono tuttavia inseparabili ed assieme costituiscono la figura fondamentale dell’esse­re. Noi ‘scorgiamo’ la forma, ma quando la scorgiamo realmente, non solo come forma disciolta, bensì come profondità che si manifesta in essa, allora la vediamo come splendore e gloria dell’essere. Guardando questa profondità veniamo ‘incantati’ da essa e in essa ‘rapiti’, ma (fin quando si tratta del bello) giammai in modo tale da lasciare dietro di noi la forma (orizzontale) per immergerci (verticalmente) nella nuda profondità”24.
 

 
4. La luce taborica: trasfigurazioni della Bellezza

                Un altro approccio teologico alla bellezza è quello dell’Orien­te cristiano: esso è caratterizzato dalla nostalgia struggente delle cose ultime, anticipate e promesse nella rivelazione del Signore crocifisso. In questo senso si può dire che è la luce “taborica” a guidare la contemplazione teologica della grande tradizione cristiana orientale, quella luce che risplende dal Tabor della trasfigurazione, dove l’oscurità del cammino del tempo è rischiarata dagli splendori della bellezza che irraggia dall’alto ed è riconoscibile solo per l’occhio della fede. In questo tipo di conoscenza teologica la contemplazione precede e nutre la via speculativa, l’esperienza mistica è fondamento dell’attività intellettuale, la dossologia pervade e plasma l’esercizio del “logos”: “Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai” 25. La tenebra luminosa, caratteristica del mistero rivelato, bacia della sua luce tutte le cose: in essa ci è dato raggiungere la profondità nascosta di tutto ciò che esiste.
                La luce, che si irradia dal profondo della creazione originaria e sempre in atto e risplende in pienezza nella redenzione, unifica l’inizio e il compimento, come la trama nascosta che custodisce nell’essere tutto ciò che esiste. Emergono così le linee di una “metafisica della luce”, in cui tutto acquista il suo posto originario e destinale:
 
“Il primo giorno della creazione... non è il primo, ma l’uno, l’unico, fuori serie. È l’alfa che già porta e chiama il suo omega, l’ottavo giorno dell’accordo finale, il Pleroma. Questo primo giorno è il canto gioioso del Cantico dei Cantici di Dio stesso, lo sprizzare folgorante del ‘sia la Luce!’... La Luce iniziale, ‘all’inizio’ nel senso assoluto, in-principio, è la rivelazione più sconvolgente del Volto di Dio. ‘Sia la Luce’ significa per il mondo in potenza: sia la Rivelazione e dunque il Rivelatore, venga lo Spirito Santo! Il Padre pronuncia la sua Parola e lo Spirito la manifesta, egli è la Luce della Parola26.
 
La luce dell’inizio e dell’ottavo giorno non è altro che la partecipazione misteriosa alla vita della Trinità divina, grembo e custodia di tutto ciò che esiste:
 
“La potenza dell’amore divino contiene l’Universo e del caos fa il Cosmo, la Bellezza. Normalmente, ogni vivente è teso verso il Sole della Bellezza divina... Nella sua essenza l’uomo è creato con la sete del bello, è egli stesso questa sete perché ‘immagine di Dio’”27.
 
Alla sua origine e nella sua struttura più profonda l’uomo è sete di bellezza, suscitata e nutrita dalla “luce della Parola”, che è lo Spirito: “Il proprio dello Spirito è di essere lo Spirito della Bellezza, la forma delle forme; è nello Spirito che noi partecipiamo alla Bellezza della natura divina”28. Non sapremmo, tuttavia, riconoscere la chiamata della creatura al bello e l’opera che in essa svolge il Consolatore, se non ci fosse stata offerta nel Cristo l’immagine dell’uomo nuovo:
 
“La figura del Cristo è il volto umano di Dio, lo Spirito Santo riposa su di lui e ci rivela la Bellezza assoluta, divino-umana, che nessun’arte può mai rendere adeguatamente, che l’icona soltanto può suggerire mediante la luce taborica”29.
 
                In questa antropologia della luce Dio è e resta il primo, anche quando si offre come l’amico e il redentore dell’uomo:
 
“Il mondo è... relativo; Dio è... assoluto. Essere relativo è esistere in rapporto a ciò che non lo è. È unicamente in questa relazione iconografica all’Assoluto che il mondo trova la sua propria realtà: essere icona, similitudine e somiglianza. L’uomo non potrebbe mai inventare Dio, perché non si può andare verso Dio che partendo da Dio. Se l’uomo pensa Dio, è che si trova già all’interno del pensiero divino, è che già Dio si pensa in lui. L’uomo non potrebbe mai inventare l’icona. Se l’uomo aspira alla Bellezza, è che è già bagnato dalla sua luce, è che egli, nella sua stessa essenza, è sete della Bellezza e sua immagine”30.
 
                La verità sull’uomo non nasce dall’uomo: questi è radicale recettività, accoglienza di un amore che lo ha creato e continuamente lo rinnova nell’atto del dono d’esistere. È l’esatto rovesciamento della prospettiva orgogliosa della modernità occidentale: il protagonismo del soggetto è vinto dallo splendore della luce che sola lo riscatta a se stesso. E la luce viene verso l’uomo, si irradia su di lui, non da lui, come mostra la singolare prospettiva dell’icona:
 
“Nell’iconogra­fia, spesso la prospettiva è rovesciata. Le linee si dirigono in senso inverso: il punto di prospettiva non è dietro il quadro ma davanti. È il commento iconografico della metanoia evangelica. Il suo effetto è impressionante perché ha il suo punto di partenza in colui che contempla l’icona e allora le linee si avvicinano allo spettatore e danno l’impressione che i personaggi vanno a incontrarsi. Il mondo dell’icona è rivolto verso l’uomo. Al posto della visione duale degli occhi carnali, secondo il ‘punto di fuga’ dello spazio decaduto dove tutto si perde in lontananza, è la visione, percepita dall’occhio del cuore, dello spazio riscattato che si dilata nell’infini­to e dove tutto si ritrova. Il punto di fuga rinchiude, il punto che riavvicina dilata e apre”31.
 
L’autosufficien­za distrugge l’uomo: la recettività umile e grata della luce, lo esalta e gli consente di raggiungere la bellezza, a cui il suo essere più profondo è proiettato...
                In questa economia della luce divina partecipata all’uomo in Cristo, icona del Padre, acquista dunque tutto il suo significato l’icona: essa è il frammento ospitale dell’Avvento, il minimo disponibile all’irruzione dell’infini­to, la cifra dell’impossibile possibilità, che Dio viene a compiere nel mondo. “L’icona, punto materiale di questo mondo, apre una breccia; il Trascendente vi fa irruzione e le ondate successive della sua presenza trascendono ogni limite e riempiono l’universo”32. Perciò, da una parte, l’icona è canto, lode di gloria che muove verso il divino: “Dossologia è l’icona: essa sfavilla di gioia e canta coi suoi propri mezzi la gloria di Dio. La vera bellezza non ha bisogno di prove. L’icona non dimostra niente, essa mostra: evidenza folgorante”33. Dall’altra, l’icona è trasparenza di luce, strumento dell’irruzione dell’Altro e del suo splendore taborico: “Sulle icone non c’è mai una sorgente di luce, perché la luce è il loro soggetto: non s’illumina il sole... La contemplazione della Trasfigurazione insegna ad ogni iconografo a dipingere più con la luce che coi colori”34.  Così, “l’icona è la visione delle cose che non si vedono. Ancor di più, essa suscita ed attesta la presenza del trascendente, è il luogo teofanico, ma la sua strada ha attraversato il cammino della croce e della morte”35. All’inizio e al compimento di tutte le vie di Dio sta la bellezza dell’amo­re trinitario, risplendente di luce: di questa luce, che trasfigura il cuore e la storia, l’icona è densa presenza, che invade e rapisce, abitando i giorni feriali con lo splendore della festa. In essa — frammento pervaso dal Tutto, minimo in cui irrompe l’Infinito — si offre l’alba del Regno che viene...
 

5. Mortale, salvifica Bellezza: una via verso l’unità?

                La bellezza è rischio, inseparabilmente salvifica e mortale: fragile è il bello e vive della sua morte, del suo trasgredirsi senza fine. Il Tutto che si offre nel frammento ne rivela col suo “peso” l’inesorabile finitezza: il bello denuncia la fragilità del bello. La bellezza è come la morte, minacciosa nella sua imminenza: è questa la ragione profonda per la quale l’esperienza della bellezza è impastata di malinconia. Il bello ricorda agli abitatori del tempo la caducità della loro dimora, che appare fasciata dal silenzio del nulla. E poiché è sulla vertigine del nulla che si affaccia l’an­goscia, si comprende quanto angosciosa possa rivelarsi la bellezza: sospeso sugli abissali silenzi della morte, il cuore umano, sovrastato dal bello, si fa inquieto riguardo al suo destino. Si comprende allora perché la bellezza turbi e venga spesso esorcizzata: si fugge dalla bellezza come si fugge dal pensiero della morte. Il bello viene trasformato in spettacolo, ridotto a bene di consumo, in modo che ne sia esorcizzata la sfida dolorosa e gli uomini siano aiutati a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata.
                Ma da principio non fu così: né fu così nel nuovo inizio del mondo, nell’ora di Cristo. Se la bellezza può essere intesa come amore rivelato e nascosto, “crocefisso amore”, totalità del Mistero divino rivelata e nascosta nell’evento dell’Abbandono del Figlio eterno, Luce che splende nelle tenebre, è proprio essa l’evento simbolico che tiene insieme lo splendore e la kenosi. La vera bellezza vive dell’analogia cristologica fra l’ultimo e il penultimo, della proporzionalità e della partecipazione pensate a partire dalla discesa kenotica di Dio fin nelle tenebre del Venerdì Santo. È proprio qui che si dischiude il senso più profondo della meditazione teologica sulla bellezza, incontro dei due polmoni del cristianesimo, l’Oriente e l’Occidente. Nel Verbo fatto carne ci è data visibilmente l’irruzione dell’Altro, l’affacciarsi del Silenzio nella Parola fatta carne fino al supremo grido dell’ora nona, l’estasi del Dio vivente innamorato della Sua creatura. Quando l’Altro irrompe nel frammento, infrange l’identità della creatura chiusa in se stessa, che è sempre “cattiva”, imprigionante identità, e proprio così la libera e la salva per la vita eterna. Bellezza è allora inseparabilmente lotta e riposo, rottura e “agape”. La tradizione cristiana nel suo complesso ci insegna l’inseparabilità di questi momenti, di queste anime: e lo fa alla scuola del Verbo incarnato, il Signore Gesù, dove — una volta per sempre, in pienezza — il Tutto ha abitato il frammento, trapassandolo da parte a parte, verso l’abisso della divinità e verso le opere e i giorni degli uomini. Sulla fragile soglia del crocifisso Amore si scopre lo “sfiorarsi d’ombre” che unisce la morte alla vita, l’eternità al tempo: il Tutto rivela la fragilità del frammento, ma anche la sua infinita dignità.
                È così che la bellezza-salvifica, mortale, quale è stata accostata dalla meditazione teologica nella varietà dei suoi momenti e delle sue espressioni — può offrirsi come una via verso l’unità. In quanto nel frammento lascia cogliere ed incontrare il Tutto, la bellezza raccoglie, semplifica, riconduce al centro e al cuore. In questo senso, essa ha una funzione purificatrice ed esercita un’attrazio­ne misteriosa che unifica ciò che è disperso in un movimento di concentrazione sull’essenzia­le: la contemplazione della bellezza aiuta a distinguere il necessario dal contingente, la Tradizione dalle tradizioni, la Verità dalle opinioni. Questo però non sarebbe ancora sufficiente a parlare della bellezza come possibile via verso l’unità se non ci fosse un duplice dato evangelico, che induce a scoprire nel bello una sfida inquietante per andare oltre le divisioni. Il primo dato consiste nel fatto che il Pastore unico, che dovrà ricondurre tutte le pecore all’unità del Suo gregge, è presentato nel Vangelo come il bel Pastore: ποιμν καλός (cf. Gv 10,11). L’ora pasquale rivelerà il volto di questa bellezza nell’Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore nostro:
“Due flauti suonano in modo diverso — scrive Agostino —, ma uno stesso Spirito vi soffia dentro. Dice il primo: ‘Egli è il più bello tra i figli degli uomini’ (Sal 45,3); e il secondo, con Isaia, dice: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’ (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un unico Spirito: essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: ‘Il più bello tra i figli degli uomini’; ‘benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio’ (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’: questo perché ‘spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana’ (Fil 2,7). ‘Egli non aveva bellezza né decoro’ per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e amare correndo... Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello”36.
 È l’amore con cui ci ha amati che trasfigura “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia” (Is 53,3) nel “più bello dei figli degli uomini”: il crocefisso amore è la bellezza che salva. Se la via dell’unità è anzitutto quella della conversione rinnovata di tutti i credenti a Cristo, allora la bellezza del Suo amore crocefisso è per eccellenza via di unità: nel crocefisso amore i discepoli incontrano l’Amato e si lasciano raccogliere da Lui nell’unità di un solo gregge e di un solo Pastore. L’ecumenismo spirituale — fondato sulla permanente conversione al Signore e Maestro Gesù — trova nella bellezza della Sua carità di Crocefisso il cammino su cui avanzare, il misterioso richiamo cui sempre di nuovo corrispondere.
                C’è però anche un altro dato evangelico che aiuta a riconoscere nella bellezza una via verso l’unità: a notarlo è Pavel Florenskij, il “Leonardo da Vinci russo”, genio della scienza e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di Cristo, morto martire della barbarie staliniana. Commentando Mt 5,16 — “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” — egli osserva che
“‘i vostri atti buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico: μäν τ καλ ἔϱγα vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale—soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora”37.
 
Se la testimonianza comune è via preziosa per l’unità, essa è inseparabile dallo sfolgorio della bellezza degli atti del discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito: dove la carità si irradia, lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto.
                È lo stesso Florenskij a indicare la via della bellezza come luogo del misterioso incontro del tempo e dell’eternità, grazie a cui si costruisce l’unità voluta dal Signore. Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa sulla collina Makovec, rivolta verso il grande Monastero (la “Lavra”) di Sergiev Possad, cuore del cristianesimo russo, così descrive la paradossale bellezza della liturgia, simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla terra e l’eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel “tempio santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste”:
“Il Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono. Scendeva la sera. I raggi dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un inno solenne all’Eden. L’occidente impallidiva rassegnato, e verso di esso era rivolto l’altare, posto sulla sommità della collina. Una catena di nuvole si stendeva sulla Lavra come un filo di perle. Dalla finestra sopra l’altare erano visibili le nitide lontananze e la Lavra dominava come una Gerusalemme celeste. Al Vespero il canto ‘Luce di pace’ sigillava il tramonto. Il sole morente si abbassava sontuoso. Si intrecciavano e si scioglievano le melodie antiche come il mondo; si intrecciavano e si scioglievano i nastri d’incenso azzurro. La lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente, qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva trasformata misteriosamente dalla gioia del ritorno. E al canto ‘Gloria a Te che ci hai mostrato la luce’ accadeva significativamente che la tenebra esterna, pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava attraverso la finestra dell’altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non svanisce, quella gioia del crepuscolo della grotta. Il mistero della sera si univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola”38.
Tentare di pensare “questa” Bellezza — la Bellezza che salva, sperimentata lì dove l’eternità mette le sue tende nel tempo — e di portarla al centro dell’attenzio­ne di tutti coloro cui sta a cuore il cammino dell’unità voluta dal Signore, è stato lo scopo delle riflessioni proposte: solo un inizio, certo, e tuttavia — forse — una sfida e una promessa per tutti....





 

  1 H.U. von BALTHASAR, Gloria: una estetica teologica. 1: La percezione della forma (Milano: Jaca Book, 1975) 10. Su von Balthasar cf. E. GUERRIERO, Hans Urs von Balthasar (Cinisello Balsamo: Paoline, 1991) con bibliografia.
  2 Gloria...., op.cit., 1, 11.
  3 Gloria. 2. Stili Ecclesiastici: Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura (Milano: Jaca Book, 1978) 98: su Agostino.
  4 H.U. von Balthasar, Il tutto nel frammento (Milano: Jaca Book, 1972) 223. 226.
  5 Cf. la documentata ricerca di J. TSCHOLL, Dio e il bello in sant’Agostino (Milano: Ares, 1996) [originale tedesco: Leuven 1967].
  6 Conf., X, 27, 38: “Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi!”.
  7 Ibid., “Et ecce intus eras et ego foris et ibi te quaerebam et in ista formosa, quae fecisti, deformis inruebam. Mecum eras, et tecum non eram. Ea me tenebant longe a te, quae si in te non essent, non essent. Vocasti et clamasti et rupisti surditatem meam, coruscasti, splenduisti et fugasti caecitatem meam, fragrasti, et duxi spiritum et anhelo tibi, gustavi et esurio et sitio, tetigisti me, et exarsi in pacem tuam”.
  8 Ibid., IV, 13, 20: “Tunc... amabam pulchra inferiora et ibam in profundum et dicebam amicis meis: “num amamus aliquid nisi pulchrum?”.
  9 De musica, VI, 13, 38.
  10 Cf. R. BODEI, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Intersezione, 8 (Bologna: Il Mulino, 1991).
  11 Conf., IV, 13, 20: “Quid est ergo pulchrum? et quid est pulchritudo? quid est quod nos allicit et conciliat rebus, quas amamus? nisi enim esset in eis decus et species, nullo modo ad se moverent”.
  12 De vera religione 32,59: “Et prius quaeram utrum ideo pulchra sint, quia delectant; an ideo delectent, quia pulchra sunt”.
  13 Ibid.,At ego virum intrinsecus oculatum, et invisibiliter videntem non desinam commonere cur ista placeant, ut iudex esse audeat ipsius delectationis humanae... Hic mihi sine dubitatione respondebitur, ideo delectare quia pulchra sunt”.
  14 Ibid., “Quaeram ergo deinceps, quare sint pulchra; et si titubabitur, subiciam, utrum ideo quia similes sibi partes sunt, et aliqua copulatione ad unam convenientiam rediguntur”.
  15 Ibid., 39,72: “Quaere in corporis voluptate quid teneat, nihil aliud invenies quam convenientiam: nam si resistentia pariant dolorem, convenientia pariunt voluptatem”.
  16 Conf., IV, 13, 20: “Et animadvertebam et videbam in ipsis corporibus aliud esse quasi totum et ideo pulchrum, aliud autem, quod ideo deceret, quoniam apte acconmodaretur alicui, sicut pars corporis ad universum suum aut calciamentum ad pedem”.
  17 De vera religione 18,35: “Neque enim frustra tam speciosis-simum, quam etiam formosissimum in laude ponitur”.
  18 Summa Theologica I q. 39 a. 8 c. Sull’estetica di San Tommaso cf. U. ECO, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino (Milano: Bompioni, 19822), dove l’Autore riprende e valuta a distanza di anni la sua tesi di laurea, pubblicata nel 1956. Sull’estetica medievale resta prezioso E. de BRUYNE, Études d’estétique médiévale (Paris: A. Michel, 19982) 3 voll..
  19 Summa Theologica, I q. 73 a. 1c.
  20 L. PAREYSON, Estetica: teoria della formatività (Torino: Edizioni di “Filosofia”, 1954) 284.
  21 U. ECO, Il problema estetico..., op. cit., 116.
  22 Cf. Ibid., 29.
  23 II IIae q. 145 a. 2 c. Cf. pure II IIae q. 180 a. 3 ad 3um.
  24 Ibid., 104.
  25 P. EVDOKÍMOV, La donna e la salvezza del mondo, Già e non ancora, 61 (Milano: Jaca Book, 1980) 13.
  26 Id., La teologia della bellezza. Il senso della bellezza e l’icona (Roma: Paoline, 1971) 17.
  27 Ibid., 23.
  28 Ivi.
  29 Ibid., 26.
  30 Ibid., 274.
  31 Ibid., 261s.
  32 Ibid., 233.
  33 Ibid., 217.
  34 Ibid., 221.
  35 Id., La donna..., op. cit., 133.
  36 Sant’AGOSTINO, In Io. Ep., IX, 9.
  37 P.A. FLORENSKIJ, Le porte regali.  Saggio sull’icona, Piccola biblioteca Adephi, 40 (Milano:  Adelphi, 19997) 50.
  38 P.A. FLORENSKIJ, “Sulla collina Makovec” (20. 5. 1913) in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, L’anima del mondo, 25  (Casale Monferrato: Piemme, 1999) 260s.




Fonte :   www.atonementfriars.org  
Terza conferenza annuale in onore di Padre Paolo Wattson e Madre Lurana White
Bruno Forte : Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto , Ordinario di teologia dogmatica nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale.
(Conferenza tenuta al Centro Pro Unione, giovedì, 14 dicembre 2000)



























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