LA BELLEZZA : UNA VIA PER
L'UNITA'
di Mons. Bruno Forte
S.E. Rev.ma Mons. Bruno Forte ,
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
1. Fra
lontananza e prossimità: il Tutto nel frammento
È Hans Urs Von Balthasar il pensatore che più di ogni altro ha avvertito
l’epocale attualità del bello come via per il recupero del vero e del bene in
un’epoca tentata dalla debolezza rinunciataria, chiusa agli orizzonti di
fondazione e di senso. La passione tutta cristiana dell’annuncio è in lui motivo
di intensa concentrazione sul bello:
“La nostra
parola iniziale — scrive inaugurando la sua opera maggiore — si chiama bellezza.
La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di
pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore
inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile
rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era
incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno
mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza”1.
La
conseguenza drammatica di questo esilio della bellezza sta nella inevitabile
perdita del senso del vero e del bene: “In un mondo senza bellezza... anche il
bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo
dover-essere-adempiuto... In un mondo che non si crede più capace di affermare
il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di
conclusione logica”2.
Ciò di cui allora v’è urgente bisogno al compimento della
parabola dell’epoca moderna è per von Balthasar un cristianesimo che recuperi
rigorosamente la centralità e la rilevanza del trascendentale del bello: non
basta più testimoniare l’alterità di Dio rispetto al mondo, compito pur
necessario e prezioso in tante epoche. Ad un’umanità che tanto intensamente ha
scoperto la mondanità del mondo e ha rincorso il progetto di emanciparsi da ogni
dipendenza estranea all’orizzonte terreno, è necessario più che mai proporre il
Dio in forma umana, lo scandalo al tempo stesso attraente e inquietante
dell’umanità di Dio: e questo vuol dire riscoprire la chiave estetica di tutto
il messaggio cristiano. “Soltanto chi ama la rivelazione dell’infinito nella
forma finita è non soltanto un ‘mistico’, ma anche un ‘stetico’”3:
e soltanto chi ha il senso della bellezza — e dunque dell’avvento paradossale
del Tutto nel frammento — può anche veramente annunciare un Dio significativo
per l’umanità resa ormai consapevole della piena dignità di tutto ciò che è
storico e mondano.
Solo l’esplicita ed argomentata consapevolezza dell’offrirsi dell’infinito nel
finito, della lontananza nella prossimità, e dunque solo la comprensione
estetica della rivelazione e della fede, potrà essere in grado di parlare
efficacemente al mondo umano, “troppo umano”, che è il nostro mondo. Lo esprime
questo testo drammatico dello stesso von Balthasar:
“Quel
Logos, in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità,
cade lui stesso nel buio, nell’angoscia ... in un nascondimento, che è proprio
l’opposto dello svelamento della verità dell’essere... L’indicativo è perduto,
l’interrogativo è rimasto l’unico modo di parlare. La fine della domanda è il
forte grido. È la parola che non è più parola... Anche il Logos, che ha
accettato la forma a lui adatta, deve essere privato della sua figura... La
parola di Dio nel mondo è diventata muta, nella notte essa non chiede più di
Dio; essa giace sepolta nella terra. La notte che la copre non è una notte di
stelle, ma notte di desolazione profonda e di alienazione mortale. Non è un
silenzio pieno di mille segreti d’amore, che scaturiscono dalla avvertita
presenza dell’amato; ma silenzio di assenza, di distacco, di vuoto abbandono,
che arriva dietro tutti gli strappi dell’addio”4.
L’estetica
teologica – intesa come percezione del Tutto nel frammento, educata alla scuola
della kenosi del Verbo crocifisso e abbandonato — è al tempo stesso la via per
glorificare l’Eterno nel miracolo della sua autocomunicazione nel finito e per
annunciare al mondo la gioia della salvezza che nel “Verbum abbreviatum”
gli è stata donata. Rivisitare i linguaggi della bellezza nella memoria
teologica dell’Occidente sarà pertanto la via per rispondere alla domanda
decisiva su dove e come sarà possibile al pensiero moderno e ai suoi naufragi di
riappropriarsi della via salutare del bello, riconoscendovi anche una singolare
via verso l’unità per cui Cristo ha pregato. È quanto tenteremo di fare — sia
pur in maniera appena evocativa — nelle riflessioni che seguono...
2. I “numeri
del cielo”: la Bellezza come forma
Quale rapporto c’è fra la bellezza e Dio?
L’intera esistenza di Agostino risponde a questa domanda: si
potrebbe dire che tutta la sua riflessione è stata dominata dai temi, che egli
considerava fra loro intimamente connessi, di Dio Trinità e del bello5.
L’interesse per questo secondo tema è predominante nel tempo che precede l’ora
decisiva della conversione. È lo stesso Agostino a riconoscerlo nella struggente
esclamazione delle Confessioni, in cui il Tu dell’invocazione è rivolto a
Colui che è la bellezza: “Tardi Ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova,
tardi Ti amai!”6.
Agostino ammette che proprio la bellezza delle creature lo aveva tenuto lontano
dal Creatore e confessa che Questi lo ha raggiunto con la Sua bellezza per
quella stessa via dei sensi, attraverso cui noi percepiamo il bello in ogni suo
apparire:
“Ecco, Tu
eri dentro di me, io stavo al di fuori: qui Ti cercavo e, deforme qual ero, mi
buttavo sulle cose belle che Tu hai fatto. Tu eri con me, io non ero con Te. Mi
tenevano lontano da Te quelle cose che, se non fossero in Te, non sarebbero.
Chiamasti, gridasti, vincesti la mia sordità; sfolgorasti, splendesti e fugasti
la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai e anelo a Te; Ti gustai e ora
ho fame e sete di Te; mi toccasti e bruciai del desiderio della Tua pace”7.
Udito, vista,
olfatto, gusto, tatto sono raggiunti e presi dalla bellezza: in un primo tempo
da quella delle cose create; quindi, dalla Bellezza ultima, autrice di ogni
altra bellezza. L’intero itinerario di Agostino appare così come un cammino
dalla bellezza alla Bellezza, dal penultimo all’Ultimo, per poter poi ritrovare
il senso e la misura della bellezza di tutto ciò che esiste nella luce del
fondamento di ogni bellezza.
Ciò che unifica in modo pregnante il tema di Dio e quello della
bellezza è per Agostino il motivo dell’amore: in realtà, la bellezza può tanto
su di noi perché ci attrae a sé con vincoli d’amore. Nella concezione di
Agostino alla forza del richiamo del bello corrisponde il movimento unificante
dell’amore: è per questo che la teologia si occupa della bellezza, perché ha a
che fare originariamente e costitutivamente con la rivelazione dell’amore e con
ciò che essa significa per noi. È ancora nelle Confessioni che si trova
questa considerazione: “Allora... amavo le bellezze inferiori, correvo verso
l’abisso e dicevo ai miei amici: Non è forse vero che noi non amiamo che il
bello?”8.
Resterà convinzione costante di Agostino che non è possibile amare se non ciò
che è bello: “Non possumus amare nisi pulchra”9.
Fra rapimento e corrispondenza, il movimento della bellezza non è che il
movimento dell’amore: “ordo amoris” è il mondo della bellezza...10
Da dove scaturisce la forza di attrazione della bellezza? Perché
ciò che è bello attira l’amore? Agostino pone con estremo rigore queste domande,
certamente riflettendo sul proprio cammino: “Che cosa è bello? e che cosa è la
bellezza? Che cosa ci avvince e ci attrae nelle cose, che amiamo? poiché se in
esse non ci fosse decoro e bellezza, non ci attirerebbero per nulla a sé”11.
Due diverse risposte possono qui offrirsi: secondo la prima, la ragione formale
della bellezza è nelle cose stesse che ci appaiono belle; secondo l’altra, la
ragione del bello è nel soggetto, che ne prova piacere. Detto altrimenti: è
bello ciò che è bello o è bello ciò che piace? È la bellezza che attrae o è la
stessa attrazione, e dunque il piacere che gusta, l’origine del fascino della
bellezza? “Anzitutto chiederò se le cose sono belle perché piacciono o se
piacciono perché sono belle”12.
Per chi, come Agostino, è giunto al forte senso dell’oggettività del vero, che
illumina fin dal profondo il mondo del soggetto, non c’è alcun dubbio né
esitazione nella scelta fra le due possibilità:
“All’uomo,
che è in possesso di un occhio interiore e che vede nell’invisibile, non cesserò
di ricordare perché queste cose piacciano, in modo che sia capace di giudicare
lo stesso diletto umano... In proposito, di certo, egli mi risponderà che le
cose piacciono perché sono belle”13.
La
bellezza di ciò che è bello non dipende dal gusto del soggetto, ma è inscritta
nelle cose, possiede una forza oggettiva. In che consiste questa struttura
originaria? È ancora Agostino a rispondere: “Gli chiederò poi perché sono belle
e, se mostrerà qualche esitazione, gli suggerirò che forse sono tali perché le
parti sono tra loro simili e, per una sorta di intimo legame, danno luogo ad un
insieme conveniente”14.
Bello è dunque ciò che presenta un’intima, organica “convenientia”
delle parti che lo compongono, un “con-venire” che emerge dal profondo:
“Chiediti che cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente
altro che l’armonia: infatti, mentre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò
che è in armonia produce piacere”15.
Agostino sviluppa quest’idea cogliendo la bellezza come l’affacciarsi dell’unità
totale nelle parti del frammento, fra loro convenientemente disposte e
relazionate nel loro insieme all’altro da sé: “Osservavo e vedevo che negli
esseri corporei altro è il tutto e perciò il bello, altro ciò che conviene
perché ben si adatta ad un’altra cosa, come una parte del corpo al suo universo
o una calzatura al piede”16.
La bellezza consiste dunque nell’affacciarsi del tutto nel frammento per via di
una precisa corrispondenza delle parti che lo compongono, di una forma che
riproduce l’armonica composizione degli elementi nell’unità ed in cui appare
l’essenza (o species) della cosa: “Non a caso nel lodare si usa tanto il
termine speciosissimum (che ha l’essenza in sommo grado) quanto il
termine formosissimum (che ha la forma in sommo grado)”17.
3. Il
crocefisso Amore: lo splendore del Bello
Nella storia della teologia cristiana il rapporto fra teologia e bellezza, oltre
ed accanto alla tradizione agostiniana, erede del mondo greco, è pensato secondo
un’altra grande possibilità, quella dell’estetica propriamente cristologica,
quale Tommaso d’Aquino l’ha sviluppata, assumendola nella potenza del suo genio
creatore pur senza trascurare l’altra. Questa via può essere riassunta nella
formula semplice e densa, che esprime la bellezza come “crocefisso amore”. La
chiave interpretativa del momento estetico non è qui l’abisso, l’indicibile
ulteriorità, la trascendenza misteriosa e raccolta. Qui la bellezza abita in un
luogo, in un frammento: qui essa si nasconde “sub contraria specie” nel
volto di Colui davanti al quale ci si copre la faccia, e che pure è il volto del
più bello dei figli degli uomini (cf. Is 53,3 e Sal 44,3). È la via cristologica,
la via della meditazione sulla bellezza costruita a partire dal frammento che è
la Croce, vero “verbum abbreviatum” dell’intera rivelazione di Dio. È la
via che ispira in maniera grandiosa la ricerca di Tommaso d’Aquino, nel
movimento dall’apocalisse di una bellezza estatica, concentrata sull’eros
dell’amore divino come rapimento verso l’a-di-sopra-di-tutto e l’al-di-fuori-di-tutto,
alla tragicità del “mysterium paschale”, dove la morte è morte, nel mondo
come in Dio, perché la vita sia vita.
Tommaso riconosce il luogo proprio e caratterizzante della
bellezza nel Verbo incarnato. Scrive nella Pars I della
Summa Theologiae18:
“Pulchritudo habet similitudinem cum propriis Filii” — “La bellezza ha a
che fare con ciò che è proprio del Figlio”. Ed aggiunge a spiegazione di quest’affermazione
netta, decisa, che perché ci sia bellezza occorrono tre cose, l’integritas,
la proportio e la claritas: “Nam ad pulchritudinem tria
requiruntur. Primo quidem, integritas sive perfectio... Et debita proportio sive
consonantia. Et iterum claritas” — “Tre cose richiede dunque la bellezza:
integrità o perfezione... debita proporzione o armonia. E luminosità”. Tommaso
riconosce la presenza di questi tre aspetti esattamente nel Figlio inviato dal
Padre, nel Verbo incarnato e crocefisso. La bellezza ha anzitutto a che fare con
l’integritas, con quella perfectio che è realizzazione compiuta
della cosa: “Perfectio est forma totius, quae ex integritate partium
consurgit” — “La bellezza è la forma del tutto, che sorge dall’integrità
delle parti”19.
Nella bellezza è il tutto che si affaccia: “L’integrità dell’opera appare solo
a chi sappia vedere il tutto nell’atto di animare le parti, di
costruirsele e reclamarle e ordinarle”20.
Così, nel Verbo incarnato è la totalità del mistero divino che si rivela, è la
natura divina che si rende accessibile nella persona del Figlio, che ha assunto
la natura umana: “Quantum igitur ad primum, similitudinem habet cum
proprio Filii, inquantum est Filius habens in se vere et perfecte naturam Patris”
— “Riguardo all’integrità, essa riguarda ciò che è proprio del Figlio, in quanto
il Figlio ha in sé in maniera vera e perfetta la natura del Padre”. Tommaso è
troppo profondamente discepolo dell’eredità classica per non percepire questo
elemento di verità che la cultura greca ha consegnato anche alla fede cristiana:
quando si ha a che fare col bello non ci si accontenta dell’interruzione, del
frammento. La bellezza è rapsodia evocatrice di totalità. Il senso dell’integritas,
della perfectio, il fascino che il πν
esercita sull’anima greca, continua a vivere nell’ethos dell’Occidente. Tommaso
lo sa bene, e non ha difficoltà a riconoscere nel Verbo fatto carne la totalità,
sapendo tuttavia che questo riconoscimento apporta una fondamentale modifica
all’idea stessa del tutto: non si tratta più della totalità chiusa di
un’indicibile alterità; ciò con cui si ha invece a che fare è la totalità
aperta, ospitale, è il tutto che accoglie ciò che è altro da sé.
Questo tutto “aperto” si manifesta come tale venendo ad
affacciarsi nella storia secondo due vie, che Tommaso riconosce proprie della “re-velatio”:
la via della proportio e quella della claritas. Attraverso
l’approfondimento di questi due aspetti viene a delinearsi l’idea della bellezza
secondo Tommaso d’Aquino: si potrebbe dire che il bello è il “Tutto nel
frammento” — “das Ganze im Fragment” (Hans Urs von Balthasar). Non il
Tutt’altro, separato e straniero rispetto al frammento, né il frammento isolato
e caduco rispetto al Tutto, ma questa assente presenza, questa presenza assente
che l’ossimoro segnala. Come può il Tutto abitare nel frammento? Anche qui
Tommaso attinge ai due mondi, che sono le due anime della sua vita:
l’appartenenza alla cultura dell’Occidente greco-latino e la fedele
testimonianza del messaggio biblico, ebraico-cristiano. Ecco allora le parole
chiave: proportio e claritas. Proportio: il Tutto è
presente nel frammento quando il frammento riproduce nell’armonia delle parti,
nella proporzione e consonanza di esse, l’armonia del Tutto. È la via per la
quale la bellezza è “forma”, e quindi armonia di rapporti, tanto che il
latino chiama anche “formosus” ciò che è bello: è la via agostiniana,
erede anche dell’anima greca. Bello è il frammento che mantiene in sé il
rapporto delle parti del Tutto, analogamente riproducendolo, forma da forma,
misura da misura: “L’aspetto costitutivo della bellezza per Tommaso... consiste
essenzialmente in una condizione di organicità”21.
Così è bello il Figlio fatto carne, “Verbum abbreviatum” del “Verbum
aeternum”, icona dell’invisibile, Parola che trasmette nelle nostre parole
un’eco fedele dell’eterno dirsi del divino Silenzio: la proportio “convenit
cum proprio Filii, inquantum est imago expressa Patris. Unde videmus quod aliqua
imago dicitur esse pulchra, si perfecte repraesentat rem” — la proporzione
“corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è l’immagine
espressa del Padre. Di qui si desume che qualunque immagine può dirsi bella, se
perfettamente ripresenta/rappresenta l’oggetto”. La “re-praesentatio” del
Tutto nella forma del frammento si compie cioè nel duplice senso di
“ri-presentarne” le proporzioni, pur nell’assenza della compiuta Presenza, e di
“rappresentarne” l’armonia, in quanto presenza di una comunque irrapresentabile
Assenza.
L’altra via per cui il Tutto viene ad abitare nel frammento,
producendo l’evento della bellezza, è per Tommaso la claritas: qui non si
tratta più della totalità che si affaccia nell’armonia delle parti, ma di
un’irruzione di essa. È come un risplendere, un brillare nella notte, un
trapassare il frammento fatto trasparenza di luce: il Tutto non si offre più
solo come proporzione riflessa, ma anche come irradiazione, abisso che si
schiude e che trapassa, silenzio donde viene la parola e a cui essa apre. È il
bello come splendor: splendido è il bello. È il bello come irruzione:
fulgente, irradiante, sfolgorante è il bello. Questa bellezza Tommaso la
riconosce attuata nell’evento dell’amore del Figlio incarnato, dove la luce
splende nelle tenebre: la claritas “convenit cum proprio Filii,
inquantum est Verbum, quod quidem lux est, et splendor intellectus” —
la luminosità “corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è il
Verbo, luce e splendore dell’intelligenza”. Il Tutto si fa
presente nel Verbo incarnato come “splendore” della gloria del Padre, in una
circolarità piena — tipica peraltro del pensiero medioevale—fra “momento
estetico” e “momento teofanico”22.
La meditazione di Tommaso sulla bellezza ha unito dunque l’anima
greca, con la sua ansia di coniugare il molteplice all’ordinata presenza
dell’Uno, e l’anima ebraico-cristiana, con la sua fede nel Dio della storia, in
quel Dio vivente, che irrompe nel tempo come fuoco divorante e parla le parole
degli uomini e stringe alleanza con loro, fedele alle Sue promesse fino al farsi
carne del Figlio, in Lui autodestinandosi per sempre alla creatura consapevole e
libera, chiamata a rispondere al patto col patto. “Ad rationem pulchri...
concurrit et claritas et debita proportio” — “A definire il bello concorrono
sia la luminosità che la proporzione dovuta”23.
La forma da sola non basta, perché può scadere in estetismo, vuota idolatria del
frammento isolato dal tutto: ma anche lo splendore da solo è insufficiente,
perché è solo attraversando una forma e trasfigurandola dal di dentro che il
Tutto fa irruzione nel tempo, e il frammento diventa finestra sul mistero più
grande, terreno d’avvento dell’eternità. Si potrà perfino schematizzare nel
gioco dello splendore e della forma l’intera storia dell’estetica, e non solo
dell’estetica teologica:
“L’apparizione, come rivelazione della profondità, è indissolubilmente e allo
stesso tempo presenza reale della profondità, del tutto, e rimando reale, al di
là di se stessa, a questa profondità. È possibile che, nelle diverse epoche
della storia dello spirito, si sottolinei una volta il primo ed un’altra volta
il secondo aspetto, una volta il compimento classico (della forma che afferra la
profondità) ed un’altra volta l’infinità romantica (della forma che trascende
verso la profondità). Sia l’uno che l’altra sono tuttavia inseparabili ed
assieme costituiscono la figura fondamentale dell’essere. Noi ‘scorgiamo’ la
forma, ma quando la scorgiamo realmente, non solo come forma disciolta, bensì
come profondità che si manifesta in essa, allora la vediamo come splendore e
gloria dell’essere. Guardando questa profondità veniamo ‘incantati’ da essa e in
essa ‘rapiti’, ma (fin quando si tratta del bello) giammai in modo tale da
lasciare dietro di noi la forma (orizzontale) per immergerci (verticalmente)
nella nuda profondità”24.
4. La luce
taborica: trasfigurazioni della Bellezza
Un altro approccio teologico alla bellezza è quello
dell’Oriente cristiano: esso è caratterizzato dalla nostalgia struggente delle
cose ultime, anticipate e promesse nella rivelazione del Signore crocifisso. In
questo senso si può dire che è la luce “taborica” a guidare la contemplazione
teologica della grande tradizione cristiana orientale, quella luce che risplende
dal Tabor della trasfigurazione, dove l’oscurità del cammino del tempo è
rischiarata dagli splendori della bellezza che irraggia dall’alto ed è
riconoscibile solo per l’occhio della fede. In questo tipo di conoscenza
teologica la contemplazione precede e nutre la via speculativa, l’esperienza
mistica è fondamento dell’attività intellettuale, la dossologia pervade e plasma
l’esercizio del “logos”: “Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il
mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose
che non conosceremo mai”
25.
La tenebra luminosa, caratteristica del mistero rivelato, bacia della sua luce
tutte le cose: in essa ci è dato raggiungere la profondità nascosta di tutto ciò
che esiste.
La luce, che si irradia dal profondo della creazione originaria e sempre in atto
e risplende in pienezza nella redenzione, unifica l’inizio e il compimento, come
la trama nascosta che custodisce nell’essere tutto ciò che esiste. Emergono così
le linee di una “metafisica della luce”, in cui tutto acquista il suo posto
originario e destinale:
“Il primo
giorno della creazione... non è il primo, ma l’uno, l’unico, fuori serie. È l’alfa
che già porta e chiama il suo omega, l’ottavo giorno dell’accordo finale,
il Pleroma. Questo primo giorno è il canto gioioso del Cantico dei Cantici di
Dio stesso, lo sprizzare folgorante del ‘sia la Luce!’... La Luce iniziale,
‘all’inizio’ nel senso assoluto, in-principio, è la rivelazione più
sconvolgente del Volto di Dio. ‘Sia la Luce’ significa per il mondo in potenza:
sia la Rivelazione e dunque il Rivelatore, venga lo Spirito Santo! Il
Padre pronuncia la sua Parola e lo Spirito la manifesta, egli è la Luce della
Parola”26.
La luce
dell’inizio e dell’ottavo giorno non è altro che la partecipazione misteriosa
alla vita della Trinità divina, grembo e custodia di tutto ciò che esiste:
“La
potenza dell’amore divino contiene l’Universo e del caos fa il Cosmo, la
Bellezza. Normalmente, ogni vivente è teso verso il Sole della Bellezza
divina... Nella sua essenza l’uomo è creato con la sete del bello, è egli stesso
questa sete perché ‘immagine di Dio’”27.
Alla sua
origine e nella sua struttura più profonda l’uomo è sete di bellezza, suscitata
e nutrita dalla “luce della Parola”, che è lo Spirito: “Il proprio dello Spirito
è di essere lo Spirito della Bellezza, la forma delle forme; è nello Spirito che
noi partecipiamo alla Bellezza della natura divina”28.
Non sapremmo, tuttavia, riconoscere la chiamata della creatura al bello e
l’opera che in essa svolge il Consolatore, se non ci fosse stata offerta nel
Cristo l’immagine dell’uomo nuovo:
“La figura
del Cristo è il volto umano di Dio, lo Spirito Santo riposa su di lui e ci
rivela la Bellezza assoluta, divino-umana, che nessun’arte può mai rendere
adeguatamente, che l’icona soltanto può suggerire mediante la luce taborica”29.
In questa antropologia della luce Dio è e resta il primo, anche quando si offre
come l’amico e il redentore dell’uomo:
“Il mondo
è... relativo; Dio è... assoluto. Essere relativo è esistere in
rapporto a ciò che non lo è. È unicamente in questa relazione iconografica
all’Assoluto che il mondo trova la sua propria realtà: essere icona,
similitudine e somiglianza. L’uomo non potrebbe mai inventare Dio, perché non si
può andare verso Dio che partendo da Dio. Se l’uomo pensa Dio, è che si trova
già all’interno del pensiero divino, è che già Dio si pensa in lui. L’uomo non
potrebbe mai inventare l’icona. Se l’uomo aspira alla Bellezza, è che è già
bagnato dalla sua luce, è che egli, nella sua stessa essenza, è sete della
Bellezza e sua immagine”30.
La verità sull’uomo non nasce dall’uomo: questi è radicale recettività,
accoglienza di un amore che lo ha creato e continuamente lo rinnova nell’atto
del dono d’esistere. È l’esatto rovesciamento della prospettiva orgogliosa della
modernità occidentale: il protagonismo del soggetto è vinto dallo splendore
della luce che sola lo riscatta a se stesso. E la luce viene verso l’uomo, si
irradia su di lui, non da lui, come mostra la singolare prospettiva dell’icona:
“Nell’iconografia, spesso la prospettiva è rovesciata. Le linee si dirigono in
senso inverso: il punto di prospettiva non è dietro il quadro ma davanti. È il
commento iconografico della metanoia evangelica. Il suo effetto è
impressionante perché ha il suo punto di partenza in colui che contempla l’icona
e allora le linee si avvicinano allo spettatore e danno l’impressione che i
personaggi vanno a incontrarsi. Il mondo dell’icona è rivolto verso l’uomo.
Al posto della visione duale degli occhi carnali, secondo il ‘punto di fuga’
dello spazio decaduto dove tutto si perde in lontananza, è la visione, percepita
dall’occhio del cuore, dello spazio riscattato che si dilata nell’infinito e
dove tutto si ritrova. Il punto di fuga rinchiude, il punto che riavvicina
dilata e apre”31.
L’autosufficienza distrugge l’uomo: la recettività umile e grata della luce, lo
esalta e gli consente di raggiungere la bellezza, a cui il suo essere più
profondo è proiettato...
In questa economia della luce divina partecipata all’uomo in
Cristo, icona del Padre, acquista dunque tutto il suo significato l’icona:
essa è il frammento ospitale dell’Avvento, il minimo disponibile all’irruzione
dell’infinito, la cifra dell’impossibile possibilità, che Dio viene a compiere
nel mondo. “L’icona, punto materiale di questo mondo, apre una breccia; il
Trascendente vi fa irruzione e le ondate successive della sua presenza
trascendono ogni limite e riempiono l’universo”32.
Perciò, da una parte, l’icona è canto, lode di gloria che muove verso il divino:
“Dossologia è l’icona: essa sfavilla di gioia e canta coi suoi propri mezzi la
gloria di Dio. La vera bellezza non ha bisogno di prove. L’icona non dimostra
niente, essa mostra: evidenza folgorante”33.
Dall’altra, l’icona è trasparenza di luce, strumento dell’irruzione dell’Altro e
del suo splendore taborico: “Sulle icone non c’è mai una sorgente di luce,
perché la luce è il loro soggetto: non s’illumina il sole... La contemplazione
della Trasfigurazione insegna ad ogni iconografo a dipingere più con la luce che
coi colori”34.
Così, “l’icona è la visione delle cose che non si vedono. Ancor di più,
essa suscita ed attesta la presenza del trascendente, è il luogo teofanico, ma
la sua strada ha attraversato il cammino della croce e della morte”35.
All’inizio e al compimento di tutte le vie di Dio sta la bellezza dell’amore
trinitario, risplendente di luce: di questa luce, che trasfigura il cuore e la
storia, l’icona è densa presenza, che invade e rapisce, abitando i giorni
feriali con lo splendore della festa. In essa — frammento pervaso dal Tutto,
minimo in cui irrompe l’Infinito — si offre l’alba del Regno che viene...
5. Mortale,
salvifica Bellezza: una via verso l’unità?
La bellezza è rischio, inseparabilmente salvifica e mortale: fragile è il bello
e vive della sua morte, del suo trasgredirsi senza fine. Il Tutto che si offre
nel frammento ne rivela col suo “peso” l’inesorabile finitezza: il bello
denuncia la fragilità del bello. La bellezza è come la morte, minacciosa nella
sua imminenza: è questa la ragione profonda per la quale l’esperienza della
bellezza è impastata di malinconia. Il bello ricorda agli abitatori del tempo la
caducità della loro dimora, che appare fasciata dal silenzio del nulla. E poiché
è sulla vertigine del nulla che si affaccia l’angoscia, si comprende quanto
angosciosa possa rivelarsi la bellezza: sospeso sugli abissali silenzi della
morte, il cuore umano, sovrastato dal bello, si fa inquieto riguardo al suo
destino. Si comprende allora perché la bellezza turbi e venga spesso
esorcizzata: si fugge dalla bellezza come si fugge dal pensiero della morte. Il
bello viene trasformato in spettacolo, ridotto a bene di consumo, in modo che ne
sia esorcizzata la sfida dolorosa e gli uomini siano aiutati a non pensare più,
a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente
fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata.
Ma da principio non fu così: né fu così nel nuovo inizio del mondo, nell’ora di
Cristo. Se la bellezza può essere intesa come amore rivelato e nascosto,
“crocefisso amore”, totalità del Mistero divino rivelata e nascosta nell’evento
dell’Abbandono del Figlio eterno, Luce che splende nelle tenebre, è proprio essa
l’evento simbolico che tiene insieme lo splendore e la kenosi. La vera bellezza
vive dell’analogia cristologica fra l’ultimo e il penultimo, della
proporzionalità e della partecipazione pensate a partire dalla discesa kenotica
di Dio fin nelle tenebre del Venerdì Santo. È proprio qui che si dischiude il
senso più profondo della meditazione teologica sulla bellezza, incontro dei due
polmoni del cristianesimo, l’Oriente e l’Occidente. Nel Verbo fatto carne ci è
data visibilmente l’irruzione dell’Altro, l’affacciarsi del Silenzio nella
Parola fatta carne fino al supremo grido dell’ora nona, l’estasi del Dio vivente
innamorato della Sua creatura. Quando l’Altro irrompe nel frammento, infrange
l’identità della creatura chiusa in se stessa, che è sempre “cattiva”,
imprigionante identità, e proprio così la libera e la salva per la vita eterna.
Bellezza è allora inseparabilmente lotta e riposo, rottura e “agape”. La
tradizione cristiana nel suo complesso ci insegna l’inseparabilità di questi
momenti, di queste anime: e lo fa alla scuola del Verbo incarnato, il Signore
Gesù, dove — una volta per sempre, in pienezza — il Tutto ha abitato il
frammento, trapassandolo da parte a parte, verso l’abisso della divinità e verso
le opere e i giorni degli uomini. Sulla fragile soglia del crocifisso Amore si
scopre lo “sfiorarsi d’ombre” che unisce la morte alla vita, l’eternità al
tempo: il Tutto rivela la fragilità del frammento, ma anche la sua infinita
dignità.
È così che la bellezza-salvifica, mortale, quale è stata accostata dalla
meditazione teologica nella varietà dei suoi momenti e delle sue espressioni —
può offrirsi come una via verso l’unità. In quanto nel frammento lascia cogliere
ed incontrare il Tutto, la bellezza raccoglie, semplifica, riconduce al centro e
al cuore. In questo senso, essa ha una funzione purificatrice ed esercita
un’attrazione misteriosa che unifica ciò che è disperso in un movimento di
concentrazione sull’essenziale: la contemplazione della bellezza aiuta a
distinguere il necessario dal contingente, la Tradizione dalle tradizioni, la
Verità dalle opinioni. Questo però non sarebbe ancora sufficiente a parlare
della bellezza come possibile via verso l’unità se non ci fosse un duplice dato
evangelico, che induce a scoprire nel bello una sfida inquietante per andare
oltre le divisioni. Il primo dato consiste nel fatto che il Pastore unico, che
dovrà ricondurre tutte le pecore all’unità del Suo gregge, è presentato nel
Vangelo come il bel Pastore:
ὁ
ποιμὴν
ὁ
καλός (cf. Gv 10,11). L’ora pasquale rivelerà il volto di
questa bellezza nell’Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore
nostro:
“Due
flauti suonano in modo diverso — scrive Agostino —, ma uno stesso Spirito vi
soffia dentro. Dice il primo: ‘Egli è il più bello tra i figli degli uomini’ (Sal
45,3); e il secondo, con Isaia, dice: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né
bellezza, né decoro’ (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un unico Spirito:
essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare
di capirli. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come ci spiega la
perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: ‘Il più bello tra i figli degli
uomini’; ‘benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio’ (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli
degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né
bellezza, né decoro’: questo perché ‘spogliò se stesso, assumendo la condizione
di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana’ (Fil 2,7).
‘Egli non aveva bellezza né decoro’ per dare a te bellezza e decoro. Quale
bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e
amare correndo... Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello”36.
È l’amore con
cui ci ha amati che trasfigura “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la
faccia” (Is 53,3) nel “più bello dei figli degli uomini”: il crocefisso amore è
la bellezza che salva. Se la via dell’unità è anzitutto quella della conversione
rinnovata di tutti i credenti a Cristo, allora la bellezza del Suo amore
crocefisso è per eccellenza via di unità: nel crocefisso amore i discepoli
incontrano l’Amato e si lasciano raccogliere da Lui nell’unità di un solo gregge
e di un solo Pastore. L’ecumenismo spirituale — fondato sulla permanente
conversione al Signore e Maestro Gesù — trova nella bellezza della Sua carità di
Crocefisso il cammino su cui avanzare, il misterioso richiamo cui sempre di
nuovo corrispondere.
C’è però anche un altro dato evangelico che aiuta a riconoscere nella bellezza
una via verso l’unità: a notarlo è Pavel Florenskij, il “Leonardo da Vinci
russo”, genio della scienza e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di
Cristo, morto martire della barbarie staliniana. Commentando Mt 5,16 — “Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere
buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” — egli osserva che
“‘i vostri atti
buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico:
ὑμäν
τὰ
καλὰ
ἔϱγα
vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità
spirituale—soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si
espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti
dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la
cui immagine sulla terra così sfolgora”37.
Se la
testimonianza comune è via preziosa per l’unità, essa è inseparabile dallo
sfolgorio della bellezza degli atti del discepolo interiormente trasfigurato
dallo Spirito: dove la carità si irradia, lì s’affaccia la bellezza che salva,
lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce l’unità dei discepoli dell’Amato,
uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto.
È lo stesso Florenskij a indicare la via della bellezza come luogo del
misterioso incontro del tempo e dell’eternità, grazie a cui si costruisce
l’unità voluta dal Signore. Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa
sulla collina Makovec, rivolta verso il grande Monastero (la “Lavra”) di Sergiev
Possad, cuore del cristianesimo russo, così descrive la paradossale bellezza
della liturgia, simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla
terra e l’eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel
“tempio santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste”:
“Il
Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono. Scendeva la
sera. I raggi dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un inno solenne
all’Eden. L’occidente impallidiva rassegnato, e verso di esso era rivolto
l’altare, posto sulla sommità della collina. Una catena di nuvole si stendeva
sulla Lavra come un filo di perle. Dalla finestra sopra l’altare erano visibili
le nitide lontananze e la Lavra dominava come una Gerusalemme celeste. Al
Vespero il canto ‘Luce di pace’ sigillava il tramonto. Il sole morente si
abbassava sontuoso. Si intrecciavano e si scioglievano le melodie antiche come
il mondo; si intrecciavano e si scioglievano i nastri d’incenso azzurro. La
lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla
mente, qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita
veniva trasformata misteriosamente dalla gioia del ritorno. E al canto ‘Gloria a
Te che ci hai mostrato la luce’ accadeva significativamente che la tenebra
esterna, pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava
attraverso la finestra dell’altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non
svanisce, quella gioia del crepuscolo della grotta. Il mistero della sera si
univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola”38.
Tentare
di pensare “questa” Bellezza — la Bellezza che salva, sperimentata lì dove
l’eternità mette le sue tende nel tempo — e di portarla al centro
dell’attenzione di tutti coloro cui sta a cuore il cammino dell’unità voluta
dal Signore, è stato lo scopo delle riflessioni proposte: solo un inizio, certo,
e tuttavia — forse — una sfida e una promessa per tutti....
7
Ibid., “Et ecce intus eras et ego foris et ibi te quaerebam et in
ista formosa, quae fecisti, deformis inruebam. Mecum eras, et tecum non eram.
Ea me tenebant longe a te, quae si in te non essent, non essent. Vocasti et
clamasti et rupisti surditatem meam, coruscasti, splenduisti et fugasti
caecitatem meam, fragrasti, et duxi spiritum et anhelo tibi, gustavi et
esurio et sitio, tetigisti me, et exarsi in pacem tuam”.
18
Summa Theologica I q. 39 a. 8 c. Sull’estetica di San Tommaso cf. U.
ECO, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino (Milano: Bompioni, 19822),
dove l’Autore riprende e valuta a distanza di anni la sua tesi di laurea,
pubblicata nel 1956. Sull’estetica medievale resta prezioso E. de BRUYNE,
Études d’estétique médiévale (Paris: A. Michel, 19982) 3 voll..
Fonte : www.atonementfriars.org
Terza conferenza annuale in
onore di Padre Paolo Wattson e Madre Lurana White
Bruno Forte :
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto , Ordinario di
teologia dogmatica nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale.
(Conferenza tenuta al Centro Pro Unione,
giovedì, 14 dicembre 2000)
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