sabato 13 luglio 2019

Arte Concettuale, di Sandro Sproccati



Sandro Sproccati

ARTE   CONCETTUALE

                     
Joseph Kosuth , One and Three Chairs , 1965-66, 
Museum of Modern Art, New York.


  A partire dal 1965, sia in America che in Europa, va imponendosi una concezione del lavoro artistico che non ha precedenti nella storia dell'estetica - se non, parzialmente, in alcuni 'spunti' occasionali dell'avanguardia storica. A prima vista sembra trattarsi di un atteggiamento di marca radicalmente idealistica, per il quale ciò che davvero importa nell'opera non è tanto la sua fisicità oggettuale, la sua fattura concreta o il dato materiale della sua presenza, quanto piuttosto l'idea (il concetto, l'asserzione, la proposizione) che risiede dietro l'opera , che la precede e che la informa.
Si ha quasi la rinuncia, entro tale tendenza che diventa ben presto dominante, ad 'avvilire' il progetto artistico calandolo nell'unicità di un oggetto reale, e la decisione, per contro, di conservarne tutta la vitalità (l'apertura 'possibilistica') enunciandolo nella sua astrattezza, come pura riflessione filosofica priva di applicazioni pratiche. L'individuo, l'essere o l'oggetto concreto, tutto ciò che è singolo, rappresenta - in base a questa posizione - un impoverimento del concetto che lo produce, una esemplificazione parziale e provvisoria. Se l'arte è azione linguistica, se è atto di comunicazione e di formazione del pensiero, essa dovrà essere chiamata a recuperare la capacità che è propria del linguaggio: di generalizzare, di tralasciare l'esempio (il fenomeno) per circoscrivere la nozione che ci permette di 'possederlo' culturalmente.
Quando l'americano Joseph Kosuth, nel 1966, espone One and Three Chairs, ovvero quando mette di fronte all'osservatore tre manifestazioni dell'entità 'sedia' (una sedia reale priva di connotazioni stilistiche, una fotografia della medesima, la definizione della parola /sedia/ tratta da un dizionario e riprodotta su tavola), egli intende porre a confronto tre diversi modi di acquisizione della realtà: quello verbale (qui in forma di scrittura) che è il più acculturato, quello iconico (come immagine neutrale, fotografica) che è il più vicino al metodo delle arti plastiche, e infine quello meno acculturato della presenza fisica, che può illustrare la nozione semplificandola. Nessuno dei tre metodi raggiunge realmente l'oggetto, costituiscono tutti, ugualmente, proposizioni di linguaggio: poiché anche la sedia 'reale' non serve che a indicare, attraverso uno degli infiniti casi concreti possibili, il concetto di sedia; e quanto alla fotografia, essa risponde - non diversamente dalla descrizione verbale - a un codice linguistico che, per sua natura, nel parlare dell'oggetto lo esclude facendo astrazione da esso.
L'opera di Kosuth si pone così sulla scia delle ricerche semiologiche di Magritte, incentrate sul problema del confronto tra diversi sistemi di rappresentazione e, quindi, di 'nominazione' della realtà: a partire, nel caso del pittore francese, dalla celebre opera Ceci n'est pas une pipe del 1929. Kosuth radicalizza il metodo di Magritte, lo raffredda fino a farlo divenire pura analisi di laboratorio del linguaggio e del suo funzionamento. E allo stesso titolo, in Inghilterra, il gruppo di Art & Language limiterà la propria azione all'intervento teorico, evitando di 'sporcarsi le mani' (o il cervello) con pennelli e colore, per dichiarare che l'artista della società multimediale e dell'era informatica si occupa esclusivamente di problemi filosofici.
Come dimostrano le operazioni di Robert Barry, Jan Dibbets, Lawrence Weiner, On Kawara, Vincenzo Agnetti, Bernard Venet e dello stesso Kosuth, nell'arte concettuale la teoria prende il posto della prassi concreta, e il lavoro viene a coincidere con la 'riflessione sul lavoro'. La poetica sostituisce definitivamente la poesia; l'artista è colui che cessa di produrre oggetti - anche perché si sente spiazzato dal trionfo dei mass media - e si limita invece ad analizzare il linguaggio nei suoi aspetti funzionali e scientifici.
Tutto ciò rinnova il rifiuto dell'opera che era già stato di Marcel Duchamp (alla fine degli anni Dieci) e ripropone all'attenzione problemi generali intorno al ruolo, alla ragion d'essere, alla sopravvivenza stessa dell'arte nel ventesimo secolo: il problema del riconoscimento pubblico dell'artista, per esempio, e quello dell'incidenza che tale riconoscimento ha sull'attribuzione di valore; quello della collocazione dell'opera (galleria, museo, mercato) come momento indispensabile alla sua 'legittimazione'; infine il problema, globale e centralissimo, della funzione dell'arte all'interno di una società che tende a percepirla come inutile, poiché dispone di mezzi ben più efficaci per costruire il consenso politico e le proprie mitologie.











Brano e foto tratti dal libro ARTE, a cura di Sandro Sproccati, Mondadori, MI, 2000.


























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