TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO
TESTAMENTO
La "Kenosi di Cristo" secondo
Paolo di Tarso
(una prospettiva esegetica)
di Francesco Cuccaro
Cristo crocefisso , 1631, di Diego Velasquez
Il
‘mysterion’
, delineato da Paolo di Tarso nel suo epistolario, concerne un
‘piano divino di salvezza’
, un ‘disegno di comunione e di
unità’ , concepito “ab
aeternum” nel pensiero di Dio. Che si realizza
nella ‘storia’
che, in tal modo,
palesa tutto il suo ‘valore salvifico’
.
L’Apostolo delle Genti
svela l’essenza di questo piano :
‘ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle
del cielo come quelle della terra’ (
Ef. 1,10 ).
Quindi Cristo é il
“nucleo” o, per meglio, dire la “sostanza” del ‘mysterion’.
Quest’ultimo si concretizza nel tempo e nello
spazio attraverso la ‘creazione’
e la ‘storia della salvezza’
.
L’apice di questo ‘eventuarsi’
del ‘mysterion’ é
costituito dalla ‘Incarnazione’ ,
dal farsi presente di Dio come uomo tra i suoi simili e dal prolungamento
storico effettivo di questa presenza che é la
‘Chiesa’ .
La
‘ricapitolazione’
e la
‘riconciliazione’ risultano essere
possibili non attraverso una semplice teorìa, bensì
attorno all’Idea Universale della Storia,
così denominata da von
Balthasar, un’Idea che é anche Persona*.
*Ci
viene da sorridere a volte, ma anche di rammaricarci, solo al pensare come
l’uomo sia stato così vittima delle proprie illusioni. Ha fatto valere
con la passione, il fanatismo, la violenza, principi astratti di per sé magari
buoni, come libertà, giustizia ( giustizia sociale ),
uguaglianza, fraternità, o concezioni sbagliate come il comunismo.
Ma, invece, di creare un paradiso attorno a questi
valori, ha prodotto sulla terra un vero e proprio inferno. Sono state commesse,
nei secoli, le ignominie più atroci ed inaudite.
Certo che il
Cristianesimo non é stato scevro da incoerenze per colpa dei numerosi peccati
commessi da uomini di chiesa e attraverso la
strumentalizzazione politica e mondana della religione, ma non si può
negare che ha sempre cercato di promuovere l’unità delle coscienze,
sensibilizzando l’amore per il prossimo, alleviando sofferenze e miserie
materiali, inculcando il rispetto per la persona umana nella sua dignità e
libertà. E mai si é “imposto” come una “rivoluzione”, del tipo di quelle che si
caratterizzano nel duplice e demoniaco proposito di violentare la natura e di
cancellare la storia in nome di modelli
apriorici e precostituiti.
L’Incarnazione di Dio in Cristo
sta a questo universale
‘disegno divino di
comunione’ come il mezzo sta al fine.
Un urto teologico
intollerabile per l’antico Giudaismo che ha sempre insistito sul tema della
soprannaturalità divina, esasperando una incolmabile
distanza tra questo e il livello creaturale. Ma la
‘possibilità da parte di una divinità di
farsi uomo’
appare scontata nel paganesimo che la esprime nelle narrazioni mitologiche
venate di antropomorfismo, con i suoi cicli di Osiride,
Diòniso, Mithra, trattandosi, però, di
personaggi veicolati dall’ottica del “simbolo”.
Il Cristianesimo, invece,
nasce e si sviluppa già su un terreno abbastanza fecondo di
idee su questi argomenti. Ma diffonde la sua
prospettiva dell’Incarnazione
in una veste unica ed originale. Unica perché Dio si
é incarnato, una sola volta, in un individuo umano.
Il
‘mistero
dell’incarnazione’ non comprende solo un inizio nel tempo, vale a
dire quello relativo al concepimento verginale di Gesù
Cristo. Ma trascende la storia stessa. Si tratta di
un evento continuo ed aperto : sia nel senso che
Gesù non deporrà mai più, per tutta l’eternità, la
natura umana; sia per il fatto che il Risorto si rende partecipe della storia,
in un modo per così dire “nascosto”, attraverso l’annuncio, la testimonianza, la
fede e l’azione sacramentale della Chiesa.
La distanza del
kerygma apostolico primitivo dalla
mitologìa pagana é assoluta ed irriducibile.
Prova il fatto che i Gentili più refrattari alla
conversione non riescono proprio ad armonizzare il loro schema di incarnazione
divina con quello dei ‘nuovi credenti’, come
dimostra lo sconcertante equivoco degli abitanti di Listra,
narrato dagli Atti degli Apostoli :
“C’era a
Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin
dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo
e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato,
disse a gran voce, disse a gran voce : ‘Alzati
diritto in piedi !’. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente, allora
al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto
licaonio e disse :
‘Gli déi sono scesi tra di noi in figura umana
!’’ . E
chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.
Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio
era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire
un sacrificio insieme alla folla.
Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si
precipitarono tra la folla, gridando : ‘Cittadini,
perché fate questo ? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi
predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il
cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle
generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non
ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e
stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri
cuori’. E così dicendo,
riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio” (
At, 14, 8-18 ).
Anche
per Paolo Dio é disceso tra noi, ma non ha assunto un corpo apparente, né si é
unito ad una persona umana in modo accidentale. Tantomeno
l’Apostolo fa un discorso attorno ad un semidio a
guisa di Ercole o di Achille o su un uomo perfettissimo
e, pertanto, immortale. Nulla di tutto questo.
L’evento
dell’Incarnazione, oggetto del kerygma primitivo, é
originale a causa della sua paradossalità
e drammaticità
e della sua estrema serietà.
Pur tuttavìa, si tratta di un processo reale e
ontologico in seno a Dio ( ed esistenziale nell’ambito della storia di
Gesù di Nazareth ) che
non modifica la sua essenza.
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Paolo offre, nella
Lettera ai Filippesi,
un condensato di
teologìa dell’Incarnazione,
stimolando la sensibilità religiosa, ma urtando la suscettibilità degli
increduli. Si può notare in una tale teologìa
l’assenza di termini tecnici desunti dalla metafisica greca ( Platone e
Aristotele in primo luogo ), in uso presso i successivi Padri della Chiesa
durante le controversie trinitarie e cristologiche.
Il brano biblico di
Fil. 2, 5-11, tuttavìa,
rivela una ricchezza di contenuto del
‘mistero
dell’Incarnazione’, quasi da far da contraltare
rispetto alla povertà e staticità di certe formule astratte ( come ‘ousìa’,
‘physis’, ‘ypostasis’, ‘energheia’,
ecc. ) che sembrano irrigidirne la stessa trattazione.
“Abbiate in voi gli
stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo
Gesù il quale, pur essendo nella forma di Dio, non
stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio, anzi ‘svotò’
se stesso col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo
essere stato trovato come un qualsiasi uomo, si umiliò ( ancora ) facendosi
obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Iddio lo ha
anche sovraesaltato e
gli ha dato il nome che é al di sopra di ogni altro nome, affinché, nel nome di
Gesù ‘si pieghi ogni ginocchio’
( Is. 45, 23 ) degli esseri celestiali, di quelli
terrestri e sotterranei, e ‘ogni lingua proclami’ (
ivi ) che Gesù Cristo é Signore, a gloria di Dio
Padre”
( Ef. 2, 5-11
).
Si tratta di un inno
cristologico pre-paolino,
come sostiene la maggior parte degli esegeti. Ci
interessa considerarlo, piuttosto, come una sua rielaborazione fatta
dall’Apostolo delle Genti.
Esaminiamo i temi
più salienti racchiusi in Fil.
2, 5-11.
E’ da notare la frequenza
di preposizioni come “in” e “con” lungo tutto l’epistolario del Nostro, con i
loro “significati più dinamici che statici” (1).
Secondo Gianfranco
Ravasi, il versetto ( letteralmente preso ) “abbiate
in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo
Gesù” suggerisce la facile idea, secondo la quale i fedeli devono avere
gli stessi sentimenti già manifestati dal loro Signore nella sua breve parentesi
terrena.
Concludendo: Cristo sarebbe un modello da seguire e
da imitare (2). Ma, a ben riflettere,
quell’ ‘in-Cristo
sembra indicare un valore aggiuntivo : il Logos é la causa-sorgente dei
sentimenti di umiltà, di obbedienza e di pace (3).
Allora, questo “abbiate”
dell’Apostolo vuol essere un augurio, un auspicio, più che una raccomandazione.
Tenendo conto di questa chiave esegetica suggerita dal
Ravasi, l’inno sembra acquisire, in realtà aiuta alla riscoperta di un
carattere liturgico con un proprio ritmo di preghiera.
Cristo é all’origine di
questa nuova sensibilità religiosa e morale del redento.
Nel caso del primo versetto, l’agire presuppone l’essere e un’esigenza, un
invito, un “appello richiamano una realtà.....una
persona, Gesù, che quanto più vive in noi, tanto più
ci abilita ad essere come lui” (4).
Condividiamo questo punto
di vista di Ravasi, secondo il quale la fonte
dell’agire moralmente retto non va tanto ravvisata nella ragione, la quale opera
sempre un necessario discernimento tra ciò che si deve e ciò che non si deve
fare ( così come ben delineato in Rom. 1, 18-32, dove
si allude ad una legge scritta nel cuore di ognuno, tanto giudeo quanto pagano
), ma alla unione
alla persona di Cristo Gesù nell’indicativo del dono
della fede’ (5).
***********************
Alla luce del
mistero dell’incarnazione di Dio
é possibile inquadrare la storia di
Gesù di Nazareth.
L’inno
cristologico di
Ef. 2, 5-11 é
ambivalente : tanto nel descrivere un uomo, Gesù
Cristo, legato al proprio tempo e vissuto in un determinato luogo; quanto nel
delineare il Figlio di Dio che si incarna in lui. Paolo si attiene alla storia
forse in un modo non molto esplicito, comunque
attraverso l’uso del passato remoto ( “furono”, “stimò”, “ svuotò”, “umiliò” ) e
la rimemorazione del dato empirico ed irrefutabile
della ‘morte di croce’ del Cristo (
Ef. 2,8 ).
Secondo l’Apostolo,
Gesù, nella sua vita terrena. ha
la consapevolezza di essere Dio, ma non “stima”, vale a dire non giudica
l’uguaglianza ( l’identità sostanziale ) con il Padre come un bene, una
perfezione assoluta da conservare nella fierezza, nell’egoismo e nella
possessività.
“Pur essendo nella
‘forma di Dio’
, non stimò come un
bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio” :
quest’asserzione contiene un evidente paradosso costruito sulla parola
greca “harpagmòn” che designa in senso attivo
“qualcosa da rapire”, o passivo “qualcosa di rapito”. Quindi
un “tesoro geloso” o una “preda ambìta” (6). Questo
versetto, implicitamente, si riferisce alla chiara contrapposizione tra Cristo e
il primo uomo**.
**Per Adamo
l’uguaglianza con Dio era oggetto della sua brama e del suo
desiderio ( Gn. 3,5 ), “qualcosa da rapire”, da
prendere d’assalto, come sottolinea
Ravasi (7), espressione di una “hybris”,
di un atto di tracotanza e di superbia, non solo del nostro primo progenitore (
che dopo si pente ), ma di ogni uomo che sembra avere di Dio quasi un sentimento
di terrore e di repulsione. Atti di tracotanza si moltiplicano nella Bibbia a
dismisura ( quello di Nemrod e dei costruttori della
Torre di Babele, tanto per citare qualcuno ), oppure narrati dalle più disparate
mitologìe ( si
cfr., per esempio, la rivolta dei Giganti contro
Zeus, oppure le figure di Prometeo e di Capaneo ).
L’uomo
Gesù non esibisce in modo velleitario e spropositato
la sua altra natura di essere soprannaturale e la sua
stessa uguaglianza con Jahveh. E quando si riferisce
a Dio, lo chiama ‘Abbà’ –Padre- estremizzando la sua
condizione di essere relativo e la sua diversità
creaturale da Lui, fatte valere addirittura davanti
alle dure e angosciose prove sottoposte dal Maligno ( Mt. 4, 1-11;
Mc. 1, 12-13; Lc. 4,
1-13 ) e di fronte alla morte di croce.
La sua
ritrosìa a compiere, in modo gratuito, i miracoli,
inoltre, é evidente ( si cfr.
Mt. 15, 21-28; Mc. 7, 24-30; Gv.
2,1-5. 4, 46-54. 5, 19-21 ), non per non voler beneficare i
suoi simili, ma per manifestare la sua origine divina secondo tempi opportuni.
In tutto uguale agli
altri uomini, distinto da loro nell’assenza del peccato e della concupiscenza
carnale, distinto da loro anche dal suo esercizio di una scienza infusa e
di altri doni soprannaturali,
Gesù, tuttavìa, era un uomo come gli altri,
nel senso che espletava gli elementari bisogni fisiologici ed era soggetto a
sofferenze nell’anima e nel corpo, al lavoro, alla morte fisica ( e, per giunta,
violenta ). Inoltre, apparteneva al grado più modesto della scala sociale e ai
limiti dell’indigenza. Non si escludono in lui né la presenza di un certo
fascino anche estetico e di una superiorità psicologica e morale nei
comportamenti. Altrimenti non si spiegherebbero gli inizi della sequela da parte
degli Apostoli e degli altri Discepoli, nonché la
mancanza di indifferenza delle folle nei suoi confronti,
tantomeno una ipotetica passione della Maddalena verso di lui ( un
“gossip” tanto sbandierato ai giorni nostri ).
“Pur essendo nella forma
di Dio.....” (
Fil. 2,5 ) equivale a dire che, prima
dell’Incarnazione, Cristo pre-esiste in Dio e come Dio si trova in una
condizione di esistenza gloriosa. Paolo, per designare
quest’ultima, utilizza due vocaboli greci :
“upérchein”
e “morphé”
. Con il primo intende “l’esserci” con “una nota di stabilità” (8);
con “morphé” non soltanto l’aspetto esteriore e la
manifestazione visibile di una cosa, ma anche la determinazione dell’esistenza.
In che modo si dà un esserci ? Come esiste questo
qualcosa o questo qualcuno ? Secondo Fil. 2,5-11 :
come Dio ! Quindi la ‘forma’ può richiamare la ‘essenza’ ( anche se non ne é
l’equivalente esatto ). Quanto meno é una “figura che
scaturisce dalla natura reale di una persona” (9).
Bruno
Maggioni sottolinea come la
‘storia di Gesù’
non sia altro che la “rivelazione di un ragionamento di Dio” (10). Il Signore
non é stato geloso delle sue prerogative divine, ma ha voluto spogliarsele per
condividere fino in fondo la condizione di una realtà finita. Ha illustrato
all’uomo due maniere di esistere e di comportarsi per “potersi ritrovare”, “per
essere-se-stesso” nel modo più autentico e vero
: il ‘dono’ e la
‘umiltà’ . Due atteggiamenti che
non sono possibili all’infuori del senso e della dinamica
dell’ ‘amore’ . Se io amo una
persona senza secondi fini, cosa non faccio se non
elargisco qualcosa o, addirittura, me stesso ? “E-largire” significa ‘aprirsi’,
e questo “aprirsi all’altro”, “offrirsi”, “darsi”, comporta l’impoverimento del
proprio sé per perfezionare l’altro. Tutto l’opposto dell’egoismo che si fonda
sulla chiusura del sé, del proprio essere, su una
illusoria autosufficienza.
Un uomo per
‘essere-se-stesso’ autenticamente – parlando
in termini paradossali- deve donare sé, rendere l’altro partecipe delle proprie
prerogative. Addirittura in modo incondizionato, simile
all’amore genitoriale ( quello materno in primo
luogo ). Poi, se ricambiato con generosità, l’amore ti appaga, ti
arricchisce, neutralizza l’angoscia e la solitudine. Pertanto, la perdita di una
persona estremamente cara rappresenta un
impoverimento del proprio sé, delle proprie energie, della propria e più
profonda realtà. La semplice amicizia e l’amore coniugale possono essere un
veicolo dell’amore universale di Dio per gli uomini e di questi ultimi
tra di loro, in maniera disinteressata, solo se
vengono garantiti nella loro purezza e salvaguardati dal pericolo
dell’esclusivismo.
Questo
crediamo che sia il prezioso succo del
processo di ‘svuotamento’ e di ‘spoliazione’
che caratterizza la discesa del Logos in mezzo alle creature.
L’autore dell’articolo non condivide tanto la riflessione di Settimio
Cipriani (11) dove si
insiste sul carattere “metaforico” della ‘kenosi’.
Quello che ci espone la Fil.
2,5-11 non sembra mostrare una “immagine letteraria” per indurre a seguire un
Cristo maestro morale di umiltà. Ma si tratta di un
vero e proprio processo ontologico ed
esistenziale, dove Dio, finitizzandosi in
un uomo, si rende partecipe delle miserie e delle sofferenze che travagliano il
creato, raggiungendo i livelli più bassi ai quali può condurre il peccato. E
dove, sulla croce, la sua coscienza di uomo
sperimenta la vertigine del nulla e il momento di più totale abbandono ed
estraneità da parte di Dio ( si cfr.
il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” in Mt. 27,47 e in Mc. 15.34 ). Strana
e sconvolgente teofania
!
Lo
‘svuotamento’
non é da interpretare
come una modificazione o cancellazione della natura divina, quanto una
rinuncia alle prerogative, alla gloria e allo
splendore che competono al Logos divino nella sua pre-esistenza;
anche se non mancano circostanze eccezionali nelle quali
Gesù fa ricorso ai suoi straordinari poteri divini ( come nel caso dei
miracoli e, tra questi, delle resurrezioni; o come nella Trasfigurazione sul
monte Tabor ).
Questa
‘kenosi di sé da
parte di Dio’ viene
portata all’estremo. Il Logos “ha voluto limitare anche di più la sua umanità,
ponendosi in uno stato di completa
obbedienza e sottomissione sia a Dio che
agli uomini” (12)
Ultimo in tutto, quindi,
nel rapporto con la madre carnale, il padre putativo e i parenti, con le
autorità civili e religiose costituite, perfino con i suoi Apostoli, con tutti,
salvaguardando, tuttavìa, i diritti della verità e
del Vangelo e il giusto rispetto della Legge di Dio ai quali non può derogare (
e che lo porta al duro scontro con i Farisei, i Sinedriti,
i mercanti del Tempio, ecc.
). Dimostra anche di avere un senso critico che lo induce a smascherare il
carattere puramente convenzionale di certe tradizioni rabbiniche che
appesantiscono e snaturano l’osservanza della Toràh.
L’obbedienza agli uomini gli impedisce tanto di sprofondare in un gretto, banale
ed esagerato conformismo, quanto di incorrere nella ribellione aperta. Il
carattere originale della predicazione di Gesù
non avvalora affatto la posizione grossolana di certi
storici laicisti dei nostri “gloriosi” atenei statali che intendono farlo
passare per un “rivoluzionario” di quei tempi lontani.
Obbedienza agli uomini sì,
ma non a prezzo di alcun compromesso che possa
pregiudicare la volontà di Jahveh, la cui
sottomissione é assoluta. Gesù si trova a vivere i
momenti drammatici, l’ultimo dei quali lo condurrà alla crocifissione,
avvertendo l’acutezza dello scontro tra le due obbedienze che non vengono, però,
equiparate come avviene per un conflitto di valori. Anche se
sa, in modo premeditato e doloroso, di dover fare la scelta giusta al momento
opportuno.
Gesù
comprende che la ‘morte violenta’
é parte integrante e culmine del disegno divino, espressione della
volontà del Padre e delle conseguenze di una perseverante e fiduciosa
sottomissione a Dio. Anche durante il suo ministero pubblico
-possiamo asserire
heideggerianamente- anticipa questa “possibilità dell’impossibilità”,
tanto nell’angoscia e nella tristezza, quanto nella paura, di fronte ad un
evento certo ed ineluttabile, per quanto raccapricciante***.
***La condizione di
Gesù può essere simile ma
non uguale a quella di un uomo che va in guerra a combattere.
Quest’ultimo si trova a dover fronteggiare un
pericolo che può porre termine alla sua vita. Si badi quel “può”, perché vi sono
altre possibilità equivalenti : quella di rimanere
incolume e vincitore, oppure ferito, o disperso, o prigioniero o addirittura
disertore.
Noi abbiamo solo la
certezza della morte, ma non sappiamo di quale tipo, né le modalità, né il
tempo. Gesù, invece, conosce in anticipo tutto e sa
che deve subire l’evento della crocifissione. Sa di dover morire solo in quel
modo. Quando giunge “l’ora”, avviene nel
Gethsémani una spossante ed incredibile lotta
interiore nel suo animo, dove si scontrano l’io carnale, caratterizzato
dall’istinto di conservazione, e il vincente io razionale, conforme al piano
divino di salvezza. L’unica possibilità, per un peccatore, di sfuggire
la croce é disobbedire alla volontà di Dio. Sarebbe
bastato un “no” solo intenzionale in
Gesù, perché Dio potesse contraddire se stesso.
“Svuotò (
ekènosen ) se stesso col prendere
forma di ‘servo’ “. “Dentro il
percorso di Gesù é possibile scorgere due antitesi
che ne descrivono, sia pure indirettamente, anche la persona” (13). L’antitesi
al ‘Signore’
non é quella di una semplice creatura, ma quella di
‘servo’ (in greco
‘doùlos’),
sconvolgendo il pregiudizio dominante in base al quale la schiavitù é
considerata il livello più infimo di esistenza che possa interessare un uomo.
Questa del ‘servo’,
in tal modo, diviene la chiave ermeneutica per una diversa ed originale
concezione della divinità****.
****Gesù,
nella sua breve parentesi terrena, si trova a vivere in un
contesto dove la ‘schiavitù’ é un istituto sociale connesso ad una
economìa prevalentemente agricola. Infatti, nel
mondo ellenistico-romano, allo ‘schiavo’ non
viene riconosciuta una vera e propria dignità
personale, come gli sono negati i diritti civili.
Limitato anche
nell’esercizio di quelli naturali, si trova ad essere soggetto in tutto e per
tutto alla discrezionalità o, addirittura, all’arbitrio del padrone che può
anche farlo uccidere. Inoltre, non ha per niente il diritto di disporre,
autonomamente, di se stesso in qualche modo.
La possibilità per uno
schiavo di mutare, in positivo, la propria misera
condizione sociale é molto minima. La stessa sensazione di vivere sotto la
signorìa assoluta dell’altro lo accompagna per tutta
la vita.
Con l’influsso della
filosofia stoica e con l’affermazione del Cristianesimo, anche la legislazione
romana stabilisce una serie di misure filantropiche miranti a tutelare la figura
del ‘servo’.
Ovviamente,
Gesù non é nato in una famiglia di schiavi ma, per
l’estrema obbedienza riservata a Dio,
egli si é qualificato come ‘servus’,
riabilitando
anche una figura sociale fin troppo disprezzata, improntando di ‘amore’, di
‘dedizione’ e di ‘fraternità’ il suo rapporto di dipendenza dal signore.
In alcune
citazioni evangeliche, Gesù allude non tanto alla
condizione di esistenza del servo, quanto al rapporto
di obbedienza e di dedizione che il credente deve stabilire con Dio e verso il
prossimo. Pensiamo al suo gesto della lavanda dei piedi degli Apostoli e al suo
conseguente ‘discorso sul primato del
servizio’ (
Gv. 13, 1-20 ).
E poi non dimentichiamo
che, nell’ambiente israelitico, la situazione dello schiavo é
meno peggiore rispetto a quella vigente presso i
Gentili, non solo per alcuni spazi di autonomìa a
lui concessi, ma anche per il fatto che ad esso può spettare, di competenza,
anche l’amministrazione dei beni del suo padrone ( a Roma ciò può essere di
pertinenza solo dei liberti ), come Gesù ci ricorda
in una sua similitudine in Mt. 24. 45-51 . Il Maestro
galileo, inoltre, loda il centurione romano di
Cafarnao non solo per l’illimitata fiducia in lui e per l’interesse
mostrato alla religione mosaica, ma anche per lo
spirito di carità verso un suo schiavo che lo induce a sottomettersi di buon
grado al Cristo ( Mt. 8, 5-13; Lc. 7, 1-10 ).
Ma é pur vero che Paolo,
quando scrive “col prendere forma di servo”, si confronta con le profezie
messianiche di Isaia che alludono ad una misteriosa
figura nota come quella del ‘Servo di
Jahveh’ :
“Ecco il mio servo che
io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio
spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né
griderò, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non si
spezzerò, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché
abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” (
Is. 42, 1-4 ).
Effettivamente, l’inno
pre-paolino di Fil. 2,
5-11 richiama la tradizione profetica veterotestamentaria
con l’espressione ‘forma di
servo’
. Esaminiamo, al
riguardo, il quarto carme isaiano sul
Messìa :
“Ecco, il mio servo
avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato
grandemente. Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere
d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così
si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la
bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi
raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano fatto” (
Is. 52, 13-15 ).
Questo brano é un
pò la
chiave ermeneutica retrospettiva dell’espressione di Fil.
2,7 : “col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini.
E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo
nell’aspetto esterno”. Puntualizziamo la nostra attenzione su questo
versetto paolino “diventando simile agli uomini” e
su questo di Isaia “tanto era sfigurato per essere
d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma
da quella dei figli dell’uomo”. Si noti bene :
“simile”, cioè non uguale agli uomini sotto un certo rispetto.
L’inno non ci
dice che Gesù ha assunto
un corpo apparente, oppure che é un essere intermedio tra Dio e noi ( come, per
esempio, può essere inteso un angelo ). Non viene
messa in discussione la sua identità essenziale ( fuorché nel peccato ) con gli
altri uomini.
Il processo
di umiliazione e di spoliazione non concerne solo il
fatto che Gesù diventi un uomo come gli altri,
nascendo, crescendo, subendo gli stessi processi biologici, e morendo.
Oppure ad una continua autolimitazione,
anche in quanto uomo, perché soggetto all’obbedienza verso i suoi simili.
Esso é una “discesa” che
non esclude la ‘derelizione’
, la quale sarà fatto
compiuto durante la Passione, dove Cristo sarà sottoposto al potere mortifero
dei suoi persecutori, in modo che -come predìce
Isaia- il suo aspetto esteriore sarà così sfigurato
tanto da apparire diverso ( e quindi “simile” ) dagli altri.
“E alla morte di Croce”
: questa citazione sembra essere, secondo le osservazioni di alcuni
biblisti, un’aggiunta originale di Paolo all’inno
cristologico preesistente. Eppure in
Fil. 2,5-11 si evince una
‘teologìa della
croce’ o
‘staurologìa’
che si apre in tre direzioni : verso Gesù, verso il
Padre e verso gli uomini (14). In rapporto al Padre la
‘croce’ esprime
l’obbedienza assoluta ed incondizionata,
dove il sacrificio diventa atto
di omaggio e di adorazione ( nonché di accoglienza ), da parte di un uomo, a Dio
e il culmine della redenzione. Significativo questo
suggerimento di Maggioni : “Gesù
ha condiviso la sorte dell’ultimo degli uomini” (15), quale può essere inteso
uno schiavo, al quale può essere comminata la crocifissione.
La
staurologìa di Fil. 2, 5-11, e più
precisamente di Fil. 2,8, si regge sui verbi
“fattosi obbediente” e “si umiliò” che ci indicano
come la crocifissione non sia stata una circostanza fortuita, un semplice
incidente di percorso capitato al Maestro galileo,
ma la logica conseguenza di questa continua umiliazione e di questa estrema
obbedienza al Padre celeste (16).
Quindi, anche la
‘croce’ trova
la sua logicità che si ravvisa nel ragionamento con il quale
Gesù non intende la sua
‘uguaglianza con Dio’
come un bottino da conservare (17). La
‘Croce’ diviene anche una chiave di
comprensione di come Dio sia stato capace di rinunciare alla propria condizione
di esistenza gloriosa per poter essere un uomo, per giunta il più reietto, uno
“schiavo”, in modo da dimostrare ai sofferenti la propria solidarietà e
condivisione nel destino.
E’ chiaro che chi ha
composto questo inno
cristologico di Fil. 2,5-11 é partito proprio
dalla Croce per scoprire il volto dell’Essere supremo, anche se all’incontrario
legge la storia di Gesù a partire da Dio(18).
Maggioni
asserisce che l’ultimo atto della storia di
Gesù Cristo consiste nella sua
‘glorificazione’ come il diretto
contrario dello ‘svuotamento’
che funge, rispetto
alla prima, da “conditio sine
qua non”. Ma non é l’ultimo e conclusivo “capitolo” della
‘storia della salvezza’
(19). La condizione del
‘Servo
di Jahveh’ non é definitiva ed assoluta.
Se fosse tale, rasenterebbe la più totale
insensatezza, la follia più accertata, una forma assurda, inaccettabile e
repellente di masochismo o di vittimismo. Non é definitiva perché ha uno scopo
ben delineato : il ristabilimento di una
‘signorìa’
universale originaria, compromessa e guastata dal peccato e dalla disobbedienza.
Richiamando una formula
felice di Hegel, la ‘positività del
negativo’, la condizione del ‘servo’
diventa, paradossalmente, privilegiata. Non perché
quest’ultimo possa garantire al suo padrone, ma
anche a se stesso, la sopravvivenza materiale con il lavoro.
Ma perché acquisisce una coscienza superiore a quella di chi
esercita il potere su di lui e dei suoi limiti, la consapevolezza delle
potenzialità costruttive della sua esistenza sacrificata. Analogamente
alla posizione dello schiavo, Gesù si rende
consapevole che di fronte a Dio il peccato e la morte fisica vanno incontro al
loro limite e non hanno l’ultima parola su tutto.
“Perciò Iddio lo ha anche
sovraesaltato” ( Fil.
2,9 ) : quel “perciò” pone un “legame di causalità
tra l’obbedienza della Croce e la gloria della esaltazione” (20). La
‘gloria’ é
il frutto della ‘obbedienza’
(21), ma che non esclude l’iniziativa del Padre di donarla in modo gratuito
tanto all’uomo Gesù che si é fatto obbediente fino
al sacrificio della propria vita terrena per l’attuazione del ‘mysterion’,
quanto al Logos preesistente che, incarnandosi in lui, si é svuotato delle sue
prerogative divine, donandosi, a sua volta, al Padre e agli uomini nella più
totale ‘derelizione’
. Il legame di causalità tra
l’obbedienza e la gloria viene rivendicato
da Gesù nella sua vita terrena, come attestato dalla
tradizione sinottica : “chi si abbassa sarà innalzato” ( Mt. 23, 12;
Lc. 18,14 ).
La
‘glorificazione’
deve avvenire attraverso la
‘sofferenza della croce’ .
Gesù, in due occasioni, mostra di avere questa
angosciosa ma tenace consapevolezza :
“
‘L’anima mia é turbata e che devo dire ? Padre, salvami da
quest’ora ? Ma per questo sono giunto a
quest’ora ! Padre
glorifica il tuo nome’. Venne allora una
voce dal cielo : ‘L’ho
glorificato e di nuovo lo
glorificherò !’. La folla che era
presente e aveva udito, diceva che era stato un
tuono. Altri dicevano : ‘un angelo gli ha
parlato’. Rispose Gesù
: ‘Questa voce non é venuta per me, ma per voi. Ora é il giudizio di
questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà
gettato fuori. Io, quando sarò elevato
da terra, attirerò tutti a me” ( Gv. 12,
27-32 ).
“Così parlò
Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse
: ‘Padre, é giunta l’ora, glorifica
il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi
te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli
dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato.
Questa é la vita eterna : che conoscano te, l’unico
vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io
ti ho glorificato sopra
la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora Padre, glorificami
davanti a te, con quella gloria
che avevo presso di te prima che il mondo fosse……..Tutte le cose mie
sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non
sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io
vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché
siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17, 1-11 ).
II termine greco di
‘gloria’ é
indicato, sia in Fil. 2,5-11 che negli scritti
giovannei, con ‘doxa’
. Maggioni ci
informa che con essa si intende tanto la
‘lode’ dal punto di vista della creatura, quanto la
‘manifestazione visibile di
Dio’ perché, per l’appunto, l’uomo possa
stupirsi, accettarlo, amarlo e riconoscerlo quale supremo Signore (22).
Parafrasando
Gv. 12, 17 sembra che Gesù
voglia dire : “Padre, manifestati in me !”. Secondo
gli schemi religiosi israelitici, riferirsi al
‘Nome’ di Dio significa rapportarsi alla sua Persona, per la sussistenza di una
stretta correlazione tra il nome e la realtà da esso designata. Per il pio ebreo
Dio é innominabile nella sua assoluta inaccessibilità.
L’angoscia di
Gesù si fa più pressante per l’avvicinarsi della
fatidica ora della morte e rivela già una tensione tra l’istinto di
conservazione e il principio di realtà. Parafrasando lo stesso versetto, é come
se dicesse : “Non pensare a me, alla mia vita, ma
solo a manifestare la tua potenza e la tua gloria”. Una voce dal cielo intende
richiamare l’attenzione degli astanti, confermando le parole del
Messìa. Per chi ammette il
soprannaturalismo, é indubbio che parecchie persone
assistano ad una rivelazione sorprendente di Dio. Non tutte percepiscono
il fenomeno allo stesso modo ( forse un tuono, forse una voce magari penetrata
direttamente nell’animo ), né la sua origine. E
Gesù non precisa più di tanto, lasciando intendere
che si tratti di una voce rivolta ai suoi ascoltatori.
Quanto alla
‘elevazione’ ,
la si può intendere a due livelli : sia attraverso la ‘crocifissione’, sia
mediante la ‘resurrezione’ e la ’ascesa al cielo’.
E’ interessante esporre
questo ragionamento. Non solo attraverso i miracoli e la sua
predicazione, ma anche mediante l’obbedienza e la sofferenza –fino alla morte-
del Logos incarnato, é avvenuta la glorificazione del Padre celeste.
Attraverso il ‘martyrion’,
la ‘testimonianza’ dalle azioni più elementari fino al sacrificio della propria
esistenza terrena di Gesù, il Padre ha avuto la sua
manifestazione visibile più solenne, sul piano storico, anche se non ultima e
definitiva. Ora il Figlio di Dio incarnato invita il Padre a glorificarlo, a
donargli, nella pienezza della sua unione ipostatica
teandrica, quella gloria che il Logos possedeva ( e
possiederà ) sul piano metastorico.
Questa gloria non é
vista, per l’appunto, come un “tesoro geloso”, ma dovrà essere partecipata dagli
uomini, da coloro che credono e crederanno nel Logos.
Sul piano
storico Gesù sarà continuamente glorificato, prima
dagli Apostoli e poi ( secondo la figura dell’enallage ) dai fedeli di tutte le
generazioni, affinché “siano una cosa sola come noi” ( Gv.
17,11 ). Da non considerare l’ultimo versetto come una semplice metafora, se per
‘cosa’
si intende una realtà fatta di piena comunione tra il creato e il suo Autore.
L’inno
cristologico utilizza un termine greco che rafforza,
superlativamente, l’esaltazione di Gesù, dono del
Padre : “hyperypsosen”.
Che concerne un ‘sovraelevamento’,
una “possente ascensione del Cristo” (23). “E’ la resurrezione con lui di tutto
l’essere” (24). Non solo il ritorno ad un’esistenza
originariamente gloriosa ma, per la natura umana, é anche il conseguimento della
completezza.
Questo supremo atto
divino, denominato “hyperypsosis”, concerne proprio
il ristabilimento di quella signorìa che Dio aveva
prima dell’Incarnazione, prima ancora che Satana e l’uomo la
violassero con il peccato di disobbedienza.
Tuttavìa,
é sbagliato pensare che l’atto sia stato compiuto una volta
per tutte con l’uscita di Gesù, nel suo corpo
risorto, dalla scena del mondo, come sembra suggerire il verbo “hyperypsosen”
volto al passato. Si tratta piuttosto di un atto perenne e continuo perché
metastorico, ma che si svolge anche nel tempo e
nello spazio.
L’Apostolo delle Genti
–come, del resto, tutti gli autori neotestamentari, non considera gli eventi
della storia della salvezza come conclusi in sé, non
solo per la constatazione che tali avvenimenti si richiamano l’un l’altro,
oppure perché uno di essi é sempre foriero di conseguenze e “gravido
dell’avvenire”. Ma anche perché ciascuno assume una
dimensione metastorica che gli permette di
trascendersi e di universalizzarsi. In caso contrario, la liturgia
cristiana (prendiamo, per esempio, la celebrazione eucaristica) sarebbe una
semplice commemorazione di atti del Signore, ormai
conclusi una volta per tutte. Il rapporto tra Dio e le creature,
nell’ottica neotestamentaria, richiama la distinzione
tra l’eternità e il tempo. E una loro implicazione e
compenetrazione. Mai la loro separazione. E gli autori biblici sanno molto bene
questo dettaglio : quando indicano alcuni eventi
importanti -che coinvolgono Gesù- utilizzano un
tempo verbale indefinito.
Si esprime, per
indicare un atto divino compiuto nel tempo, una forma verbale di passato, ma
senza la funzione di indicarlo. Con un verbo volto al passato si descrive la
qualità dell’azione colta nel suo svolgersi, senza prendere in considerazione la
sua durata.
Così vale per la “hyperypsosis”
di Gesù che é continuata nei cieli e sulla terra,
nel senso che il Figlio di Dio si glorifica anche attraverso la Chiesa e in
ognuno dei credenti che si conforma alla fede ricevuta.
L’atto di ‘innalzamento di
Cristo’ –che non si riduce solo alla sua ascensione
corporea- ha il suo momento culminante nel
conferimento del ‘Nome’ che é al di sopra di
ogni altro nome ( Fil. 2,9 ).
Conferire un “nome”,
nell’ottica biblica, significa designare una profonda
realtà e riconoscerla, effettivamente, per quella che essa é.
Lo si é visto già nel racconto della creazione
dell’uomo, secondo la tradizione jahvista, dove
Adamo viene invitato da Dio a dare un nome a tutti gli esseri viventi (
Gn. 2, 19-20 ), esercitando un
potere sul creato in virtù di una scienza a lui infusa. Si badi che a
Gesù crocifisso e risorto
non viene attribuito un nome, ma il ‘Nome’ per eccellenza che lo pone a livello
di Dio ( nel senso che lo si riconosce solo con quello ), al di sopra di ogni
altro essere.
Per
i pii israeliti Dio ha il suo ‘Nome’ e molteplici attributi con tanto di
superlativi assoluti. Esso non può neanche essere pronunciato se non con un
rispetto elevato. E’ un nome che designa la sua essenza
metafisica ma, durante la rivelazione sul Monte
Horeb, andava inteso come “Io sono colui che sono” ( IHWH ) l’aiuto di
Israele che farà uscire dall’Egitto, umiliando il Faraone.
Gesù
risorto ha lo stesso nome di Dio. Rifacendosi alla tradizione
veterotestamentaria, riprendendo
una espressione di Isaia ( Is. 45, 23 ) che
richiama il gesto di adorazione e di sottomissione – consistente nel “piegare il
ginocchio” - di tutti gli esseri creati nei confronti di
Jahveh, l’inno cristologico di
Fil. 2,5-11 ribadisce che lo stesso atto deve essere
rivolto a Gesù nella dignità assunta dalla sua
natura umana, “dopo l’umiliazione dell’Incarnazione e della morte di croce”
(25).
Ma qual é questo ‘Nome’
( in greco “to onoma”
) da conferire a Gesù Cristo ?
L’inno di
Fil. 2,5-11 lo cita al singolare, ma si guarda bene
dal dirci qual é. Non é difficile immaginare che esso, in maniera implicita, si
riferisca al sacro tetragramma
I H W H che i pii
ebrei non osano pronunciare, sostituendolo con il termine
‘Adonai’
che significa ‘Signore’.
Il Padre conferisce il Nome a
Gesù. Ma cosa sta a significare
? Che il Nome non era mai appartenuto al Logos ? Si tratta, invece, proprio
di riconoscere a quest’uomo,
Gesù Cristo ( nel quale il Verbo si é incarnato ), che ha sofferto e
morto in modo così violento per totale obbedienza a Dio, la stessa dignità
divina e la sovranità universale su tutti gli esseri, permettendo così “di
esercitare con pienezza i diritti di sovranità, di giustizia e di giudizio”
(26).
Probabilmente Paolo ( come
pure gli Evangelisti ) ha letto l’Antico Testamento nella versione greca detta
dei ‘Settanta’, dove il termine ‘Adonai’ é tradotto
con ‘Kyrios’.
Duplice é lo scopo della ‘esaltazione’
: una ‘proclamazione
universale’ che equivale ad una
‘confessione di fede’
( nell’inno viene utilizzato il verbo “exomologhein”
), secondo la quale
Gesù Cristo é il Signore
( Fil. 2,11 ),
esprimentesi anche come assoluta
‘lode a Dio Padre
Onnipotente’ ( Fil. 2,11 ).
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Una confessione che
neanche le potenze avversarie al piano di Dio ( Fil.
2,10 ), quelle che agiscono nel mondo umano e le realtà infernali, possono
ignorare e negare.
E che viene richiesta alla fede dei credenti,
soprattutto quelli contemporanei a Paolo di Tarso, e che “sostanzia” la propria
vita su questa terra e nell’oltretomba. Non si può evitare nessuna circostanza
che possa indurre a sottrarsi alla
confessione della propria fede
. Altro che a voce !
Addirittura fatta con il sacrificio della propria esistenza terrena.
I cristiani del
I secolo, del tempo di Nerone e di Domiziano, hanno
la gaudiosa ma anche tragica consapevolezza della loro vita inserita nell’ottica
del ‘martyrion’, da meditare e vivere giorno per
giorno, in un ambiente difficile, a loro diffidente e ostile, dove sono
discriminati e vessati da parte del popolino e dei Giudei, ancor prima della
persecuzione legale. Incorrendo poi in circostanze tremende
dove non é possibile eludere una tale confessione di fede attraverso un
conflitto di valori e di doveri, perché l’Imperatore di Roma ( come pure
l’errore ) non ha gli stessi diritti di Dio ( e della verità ).
Domiziano,
considerandosi “signore e dio”, esprimeva un atto di tracotanza, una “hybris”,
una prevaricazione nei confronti della misura e del giusto equilibrio, urtando
la suscettibilità anche dei pagani più rispettosi delle loro tradizioni
religiose, nonché degli intellettuali onesti.
Non si é tenuti ad una
cieca obbedienza, traducentesi in un atto
di omaggio e di adorazione, per non compiere un
attentato all’unità di Dio, del Dio biblico; ma anche per non essere ritenuti
complici di un inaudito atto di superbia.
Il programma imperiale
di una riforma religiosa che sarà perseguito, con
tenace determinazione, da Domiziano e da altri “princeps”,
mirava non solo a rafforzare l’assolutismo, ma anche a far valere una pretesa
totalitaria a tutto il mondo romano. Che si doveva per forza
interpretare in termini religiosi.
Il consenso alla
persona dell’Imperatore non doveva essere solamente civile e politico, ma anche
interiore. Il culto a questo monarca, in quanto “dominus
et deus”, non era solo un atto liturgico a favore di
un dio accanto ad altri. Possiamo affermare in questo modo
: i diversi culti e le varie religioni del Mediterraneo del I secolo
avevano il diritto di esistere solo se ritenuti subordinati e in funzione di
quelli imperiali.
I pagani si
assoggettavano a queste aberrazioni, dimostrando tutta la loro viltà di fronte
alle disposizioni imperiali ed incoerenza nel tributare onori alle loro
specifiche divinità.
Ma
il riconoscimento della ‘signorìa’
di Gesù non può avvenire se non
attraverso l’umiliazione più assoluta che non é tanto quella di farsi uomo di
Dio, quanto quella del prendere la forma di
‘servo’, gratificando una categoria sociale reietta, dimostrando la
sollecitudine dell’unico Creatore di tutte le cose non dalla parte del
pre-potere, ma sempre nei confronti dei deboli, dei sofferenti, dei vessati.
Il Cristianesimo,
tuttavìa, non si é mai diffuso come un tentativo di
rivoluzione sociale.
Esso ha sempre rispettato il principio di gerarchia e il diritto naturale della
proprietà privata, accettando e coesistendo perfino con strutture
socio-economico-giuridiche, sorte con il peccato,
immettendovi in esse una nuova e vitale linfa, fatta
di fraternità, di amore, di riconoscimento della dignità di qualsiasi uomo, il
rispetto dei deboli e dei sofferenti, che deve improntare sempre i rapporti
interpersonali, compresi quelli di interdipendenza.
Il
‘Vangelo’
si é proposto come un ‘rinnovamento delle
coscienze’ : ha chiamato alla fede “il
giudeo e il greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, senza la pretesa
di abolire distinzioni naturali o anche le disuguaglianze artificiali. Queste
ultime sarebbero venute meno col tempo, grazie anche al trionfo dei principi
cristiani nella società greco-romana e in virtù delle contingenze di fatto (
come, per esempio, la fine delle guerre di conquista da parte di Roma, le
invasioni barbariche con connessi contrazione dei
commerci e impoverimento delle campagne ).
Quella di Paolo é una
religione che riesce ad assecondare la domanda di spiritualità e a rispondere
alle esigenze di rigenerazione esistenziale anche di una
grande massa di uomini senza speranza ( e tali non sono solo gli schiavi
) che prima hanno trovato un debole conforto nei culti
misterici, opponendoli alle religioni delle classi
medio-alte, ritenute, non a torto, come ipocrita espressione culturale e
ideologica del predominio di altri uomini.
L’Apostolo indica,
tuttavìa, un’oppressione e una sofferenza ancora
peggiori che interessano tutti, potenti e deboli, ricchi e poveri
: quelle legate al peccato, all’egoismo e al mancato
disciplinamento delle passioni.
Cristo ha mostrato che il
vero ‘servizio’
da vivere con umiltà
e dono di sé controbatte la peggiore delle servitù, cioé
quella al peccato e al demonio. Esso consiste nel “fare la volontà di Dio” e
nell’amore disinteressato verso il prossimo e, addirittura, verso i nemici (Mt.
5,43-48; Lc. 6,27-36).
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La
valenza teologica della ‘Croce’ di Cristo
permette al neofita di fissare la concentrazione di
tutta la storia della salvezza e
del ‘mysterion’
divino in quello strumento di morte ( e, paradossalmente, di vita ), in
quell’evento, in modo che tutto ciò che attiene alla
Rivelazione biblica non potrà mai risultare concepibile al di fuori di esso.
All’infuori della ‘croce’
più nulla é comprensibile.
Divenendo il segno
inequivocabile di una fede
che dura da due millenni.
Una tale valenza
rispecchiata così bene in questo densissimo e mirabile inno
cristologico della Lettera ai
Filippesi.
N O T E
(1) Gianfranco Ravasi, “Lettere ai
Galati e ai Filippesi”,
EDB, p. 84;
(2)
op. cit.., pp. 84-85;
(3)
op. cit.., pp. 84-85;
(4)
op. cit.., p. 85;
(5)
op. cit.., p. 85;
(6)
op. cit.., p. 94;
(7)
op. cit.., p. 95;
(8) Bruno Maggioni, “Il Dio di Paolo”,
Paoline, p. 71;
(9)
op. cit., p. 71;
(10)
op. cit., p. 72;
(11) Settimio Cipriani, “Le Lettere di
S. Paolo”, Cittadella, p. 605.
(12) op. cit., p. 605;
(13) Bruno Maggioni, op.
cit., p. 83;
(14) op. cit., pp. 76-80;
(15) op. cit., p. 78;
(16) op. cit., p. 78;
(17) op. cit., p. 78;
(18) op. cit., pp. 78-79;
(19) op. cit.., pp. 80-82;
(20) op. cit.., p. 82;
(21) op. cit., p. 82;
(22) op. cit., p. 81;
(23) Gianfranco Ravasi, op.
cit., p. 98;
(24) op. cit., p. 98;
(25) Settimio Cipriani, op.
cit., p. 608;
(26) op. cit., p. 607.
Fonte : scritti e
appunti di Francesco Cuccaro , e-mail
cuccarof@alice.it .
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