venerdì 12 luglio 2019

La crisi dell'Arte, di Franco Della Casa




Franco Della Casa

LA CRISI DELL'ARTE



Vi è un evidente nesso tra la crisi dei valori religiosi nel mondo moderno e le vicende dell'arte degli  ultimi due secoli. Il legame tra arte e religione in passato è sempre stato fortissimo. Nella preistoria e  presso le società primitive l'arte era un momento importante del fenomeno religioso: al tempo stesso  rappresentazione del sacro e veicolo della tradizione. I contenuti delle credenze, dei rituali, rappresentati  simbolicamente sotto forma di immagini, suoni, gesti venivano fissati e tramandati all'interno della comunità.
  La funzione primaria dell'arte antica era sempre magica, evocativa: essa aveva un ruolo fondamentale nelle cerimonie propiziatorie, nei riti funebri come strumento di comunicazione con quelle forze invisibili, al tempo stesso naturali e sovrannaturali, che l'uomo intendeva propiziarsi.  Essa rappresentava dunque un veicolo di contatto diretto con una realtà altra, più profonda, della quale l'uomo comunque  faceva parte.
Era rappresentazione del sacro attraverso l'uso di  simboli  più o meno sensibili.
I temi riguardanti la vita e la morte sono ricorrenti nell'arte della preistoria e dei primordi delle diverse civiltà.
  L'arte come fenomeno estetico si è sviluppato successivamente nelle civiltà più complesse come espressione della differenziazione sociale.  Con la formazione di società stratificate e col prevalere dei ceti aristocratici l'arte è diventata sempre più appannaggio delle classi dominanti come esibizione di ricchezza, buon gusto e sfarzo, pur rimanendo comunque legata a significati religiosi. Nella civiltà greca si riscontra il più alto punto di equilibrio  tra questi due aspetti dell'arte antica, quello estetico e quello religioso: come espressione di un'armonia che rimanda ad un ordine superiore della realtà essa diventa al tempo stesso espressione del bello e del sacro. Nei greci lo stretto legame, enunciato anche a livello filosofico,  tra i concetti di bene, vero e bello consente al divino ed al naturale di incontrarsi nella realtà sensibile.  E l'arte ne diventa il naturale punto d'incontro. Essa non esaurisce la realtà, non riflette  gli aspetti tragici, oscuri, della vita. Il contrasto tra dionisiaco ed apollineo, su cui tanto ha insistito Nietzshe, rimane sullo sfondo di una rappresentazione che privilegia la visione plastica ed armonica della realtà, tuttavia essa rimane pur sempre un mezzo di catarsi di fronte al sentimento tragico della vita. Col cristianesimo, che rompe l'antico equilibrio tra uomo e natura, l'arte rinuncia al ruolo estetico per tornare ad un compito esclusivo di rappresentazione religiosa. L'iconoclastia, ereditata dall'ebraismo, è appunto rivelatrice di un cattivo rapporto con la natura. Questo atteggiamento porta l'arte, nei suoi esponenti più validi, ad affinarsi come esperienza spirituale (architettura gotica, canto gregoriano) e,  nel contempo, a  specializzarsi sempre più come espressione soggettiva. 
  Con l'umanesimo e, successivamente, in modo più maturo con il rinascimento l'arte riconquista a pieno titolo la funzione estetica, ma, nonostante l'evidente richiamo ai modelli dell'antichità classica, emerge una differenza di fondo rispetto al  significato che aveva presso gli antichi: a poco a poco l'espressione del bello diventa sempre di più un fatto umano, culturale e soggettivo al tempo stesso, e sempre meno rappresentazione di un'armonia, di una illuminazione che proviene da una realtà che trascende l'individuo.
  E' l'umanesimo che sposta il centro di gravità dall'oggetto al soggetto: esso fa rivivere le immagini ed i miti dell'antichità, ma con uno spirito nuovo: come affermazioni dell'uomo che a poco a poco si affranca dalla natura e dalla totalità dell'Essere: ed è nell'umanesimo che nasce il concetto di cultura come realtà tipicamente umana. Da qui si svilupperanno i concetti di civilizzazione e di storia. Cultura, civiltà, storia sono i presupposti di quell'antropizzazione radicale del mondo che sarà portata successivamente avanti nella fase più avanzata della modernità.
 Il senso del fondamento, quel sentimento del reale che nell'antichità aveva il suo presupposto nella totalità del mondo naturale  (cosmos) e nel medioevo nella certezza del sovrannaturale, si trasferisce  a poco a poco verso un  epicentro sempre più umano.
Il romanticismo è la presa di coscienza di questa rivoluzione ed insieme la percezione del pathos  che ne deriva: la modernità pone di fatto l'uomo al centro del mondo, ma al tempo stesso ne annulla tutti i riferimenti ad una realtà trascendente che offre certezze e consolazione.  Col romanticismo inizia la  crisi  dell'arte  tradizionale ed inizia appunto l'arte moderna come intesa come arte della crisi. Crisi in quanto il suo percorso  è costantemente accompagnato dalla percezione più o meno consapevole di un destino di autoannullamento legato alla chiusura degli orizzonti  spirituali.  Il bello, persi i riferimenti  sacri ed ontologici,  diventa oggetto di creazione personale e la creazione artistica diventa il paradigma della libertà individuale (Herder).  Il sentimento, come elemento soggettivo, acquista sempre maggiore importanza e su questa strada la bellezza e la spiritualità si ritirano sempre di più nella dimensione dell'umano, del soggettivo. L'arte moderna non  è più finalizzata ad esprimere la bellezza come manifestazione della trascendenza, ma il sentimento, l'impressione, l'emozione di una percezione individuale di una bellezza non più definita. I contenuti dell'arte si aprono all'angoscia, alla paura, al disagio esistenziale.
Hegel pone una distinzione che rimane fondamentale tra   arte classica, prevalentemente  oggettiva (in cui è predominante il rappresentato e l'equilibrio tra contenuto e forma  riflette un ordine esteriore al soggetto) e arte romantica, soggettiva, in cui conta soprattutto l'espressione dell'emozione individuale, del sentimento. L'arte romantica diventa così il paradigma dell' arte moderna.
  Naturalmente Hegel non ha ancora una chiara coscienza di questo processo, ma individua  nettamente il confine tra i due diversi momenti del nuovo e dell'antico.  La sua interpretazione, del resto,  si inquadra perfettamente nella sua filosofia.
  In Hegel tutto è finalizzato all'affermazione del soggetto: il trionfo dello Spirito Assoluto nella storia porta a compimento il cammino iniziato da Kant  lungo il quale la natura diventa un mezzo e l'uomo un fine.  Anche l'arte, come attività dello Spirito, deve  tendere a questo risultato.
  L'arte romantica, che supera l'oggettività dell'arte classica, si pone quindi per Hegel su di un piano superiore in quanto " soggettiva ": questa conclusione, che esalta l'aspetto innovativo del romanticismo,  potrebbe apparire in contrasto con l'atteggiamento conservatore di Hegel: ma Hegel, come filosofo della modernità, è al tempo stesso rivoluzionario e conservatore, come del resto è già stato evidenziato.
 A suo modo Hegel anticipa addirittura il post-moderno; per questo il  suo giudizio sull'arte romantica può assumere una valenza ben più ampia e comprendere tutta l'arte  fino ai nostri giorni.
Nell'arte moderna si esprime infatti quel  contrasto di fondo tra rivoluzione e conservazione che agita il romanticismo e si riflette nella dialettica hegeliana: anzi, in essa  si manifesta in modo più evidente e drammatico,  per la  natura  meno rigida e soggetta a schemi, più libera e indefinibile dell'espressione artistica.
 Le lacerazioni, le contraddizioni, le incertezze, i dubbi  che attraversano la ricerca scientifica, la riflessione filosofica e la meditazione religiosa negli ultimi due secoli, si ritrovano tutti, espressi con maggiore carica emotiva, nelle più importanti opere  degli artisti moderni.  E l'arte forse si è salvata fin quando ha saputo  dar voce in modo diverso, più intenso e sofferto  rispetto ai linguaggi ufficiali della scienza, della tecnica e della filosofia, alle contraddizioni della modernità.
  In questo travaglio l'arte moderna, come  espressione della crisi, della perdita della fede in un ordine superiore che si riflette nell'armonia del mondo sensibile, arriva a negare la possibilità stessa della rappresentazione estetica. Le avanguardie in particolare, nel dichiarato intento di rottura con la tradizione,  rifiutano l'idea di bello estetico.  In questo loro atteggiamento di rivolta c'è qualcosa di velleitario e di eroico al tempo stesso: esse in realtà non si limitano a negare la tradizione, ma intendono soprattutto esprimere un'insofferenza profonda per  quegli aspetti alienanti della modernità che hanno svuotato le forme della tradizione di ogni senso. Attraverso le loro deformazioni cercano di venir fuori, come in un ultimo disperato  richiamo, quelle forze vitali che la modernità ha ridotto  al silenzio. Da espressione del bello l'arte si trasforma in testimonianza tragica della  negazione, del rifiuto, della rivolta prossima al limite dell'autodistruzione.
  Fino all'espressionismo l'arte mantiene ancora per qualche tempo questa funzione evocativa di una realtà altra, benché manifestata in modo negativo, attraverso la rappresentazione distorta  delle forme e delle prospettive. 
  Anche questa funzione critica si svuota tuttavia a poco a poco del suo significato: il decorso della produzione artistica verso il vuoto ed il silenzio ovvero verso una attività puramente riproduttiva, decorativa e ludica, diventa inarrestabile.
  L'arte contemporanea, nei suoi esponenti più  sensibili che continuano ad esprimere la tensione drammatica ereditata dal decadentismo e dall'espressionismo, va lucidamente verso la morte consapevole del fatto che  nel momento in cui tenta di  esprimere una tensione più profonda, un richiamo ad una realtà altra, diventa inconciliabile con la modernità. Nega se stessa proponendosi come rappresentazione del deforme e  dell'informale, del cacofonico, dell'assurdo. Da ultimo, l'action painting di Pollock riduce di fatto tutto all'atto creativo, nell'indifferenza totale verso il contenuto.
  Oppure come riproduzione stereotipata del già visto e del già sentito, come riciclaggio senza fine dei materiali preesistenti, come eclettismo senz'anima, come supermercato.
  La Pop Art ed il New Dada collegano la produzione artistica al mondo della produzione e del consumo delle merci, alimentando il mercato dell'arte con le icone della banalità quotidiana. Ma non solo nel campo delle arti figurative si respira quest'aria da fine millennio: anche la musica sembra arrivata al capolinea. Tralasciando il discorso sulla mercificazione totale della musica leggera, che neppure può essere considerata arte, si ci rende conto che nell'orizzonte del post-moderno, al di là della stereotipata riproduzione del passato, ben poco resta da dire.[1]                                                                                              
  Marx, forse inconsapevolmente, si è reso conto  in anticipo di questo destino affermando, paradossalmente, in contrasto con le premesse storicistiche del suo pensiero, che l'arte si pone al di fuori della storia.  Essa sfugge alle categorie storiche e sociologiche della modernità: nella civiltà  moderna, sia che questa approdi alla società pacificata e senza classi, sia degeneri in un novo tipo di dominio fondato sull'alienazione di massa, l'arte cessa comunque di esistere. Questa intuizione di Marx esprime tutto il travaglio dell'arte moderna che, dal Dada, all'impressionismo fino alle transavanguardie, nel negare tutti i contenuti della tradizione, arriva alla riproduzione del nulla ed al silenzio.
L'intuizione di Marx viene elaborata in modo più articolato da Adorno, esponente di quella scuola di pensiero critico di matrice hegeliana di cui fa parte anche Marcuse: egli individua chiaramente, identificandoli in due personaggi emblematici della musica contemporanea, l'espressionista Schomberg ed il neoclassico Strawinsky, i due possibili  modelli che si offrono all'artista moderno. Essi corrispondono a due diverse forme di negazione: il silenzio e l'assurdo (Schomberg) ovvero la vuota produzione e ripetizione delle forme  stereotipate del classicismo che prelude al riciclaggio del postoderno (Stravinsky).
  Oggi l'arte, in tutte le sue manifestazioni, ha veramente raschiato il fondo: la continua ricerca del nuovo svuotato di ogni riferimento a qualsiasi criterio di valore, la sperimentazione fine a se stessa, lo sfruttamento illimitato del mito romantico dell'atto creatore che sublima una materia insulsa e trita,  hanno fatto terra bruciata ed hanno portato ad un definitivo esaurimento di tutte le forme creative. Nei casi più fortunati il guizzo, l'invenzione estemporanea, la battuta vengono scambiati per arte, né esiste più alcun metro obiettivo di valutazione per cui in definitiva qualsiasi scarabocchio può essere scambiato per capolavoro.
  Questa crisi profonda dell'arte, che rappresenta l'espressione più sensibile e penetrante dell' intelligenza umana, è il segnale inquietante di un disagio veramente  serio.
 L'arte è ormai inconciliabile con una realtà che nega qualsiasi forma di riferimento e di trascendenza : d'altra parte, che vi sia un legame tra l'arte e le forme della vita e del cosmo comincia venire riconosciuto anche a livello scientifico[2]. I canoni della bellezza non sono puramente soggettivi perché la Bellezza non è qualcosa di meramente personale. La percezione delle simmetrie, dell' armonia intrinseca delle leggi matematiche,  delle forme, dei colori generati dalla luce, della successione dei suoni, ha una corrispondenza con realtà che sono poste al di là dell'esperienza soggettiva.
  Naturalmente, in un mondo che nega tutto questo l'arte può tacere oppure tentare una fuga in avanti verso nuovi orizzonti di senso.  





NOTE
[1] cfr. "La musica è finita" (intervista al maestro e compositore Pierre Boulez) in la Repubblica del 27/03/2000

[2]vedere John D. Barrow, L’universo come opera d’arte, Rizzoli, Milano, 1997






Fonte :  http://www.rescogitans.it/ita/Biblioteca/Esilio/7crisiarte.htm
brano tratto dal libro " Esilio Cosmico " di Franco Della Casa


























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