STORIA DELLE RAPPRESENTAZIONI DI GESU' SOFFERENTE E RISORTO
di P. Felice Artuso
Le antiche rappresentazioni di Gesù crocifisso e risorto.
L’arte sacra,
pittorica o scultorea, è un’attività creativa, che eleva l’uomo alla bellezza di
Dio. Evoca le verità che egli ha rivelato nel corso della storia. Riflette la
tendenza culturale di una determinata epoca e di un’area geografica.
Caratterizza pregi e limiti di un popolo. Dipende ordinariamente dalle
possibilità economiche dei committenti e dal genio di ciascun autore. Suscita
sempre stupore, emozione, fascino, gioia, approvazione o ripudio.
Gli antichi amavano raffigurare le loro divinità. Le concretizzavano con delle
raffinate effigi, le ponevano nei luoghi di culto e le veneravano, confidando
nella loro protezione. Per impedire la diffusione dei culti idolatri, la
divinizzazione del cosmo e la degradazione morale, Dio proibisce agli ebrei di
scolpire figure divine (Es 20,23; 34,17) e vieta a loro di rappresentarlo: «Non
ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è
quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto terra» (Es 20,4). Gli
ebrei osservano con rigore questa prescrizione di Dio. Evitano di raffigurarlo.
Per non attirarsi la sua maledizione, si preoccupano di conservare la cognizione
del suo ineffabile mistero e di testimoniarne la trascendenza, (Gn 1,26; Dt
27,15). Si limitano quindi ad ornare i luoghi sacri con disegni geometrici, con
tessuti colorati, con formelle evocanti la storia d’Israele e con arredi per il
culto: il tabernacolo, il rotolo della Legge, le due tavole dei comandamenti, la
stella di Davide, il candelabro a sette bracci, figura dell’albero della vita, e
le lampade accese, simbolo della creazione, della presenza di Dio e della
preghiera.
I giudeocristiani osservano il comandamento divino. Omettono qualsiasi
raffigurazione di Dio e non producono immagini che divinizzano il creato. Per
evitare i mordaci scherni dei gentili, nelle pitture e nelle sculture esprimono
visivamente la loro fede in Gesù sofferente, morto e risorto, ricorrendo al
frequente impiego di questi simboli: l’ankh , l’aratro, l’albero, il giogo, la
spada, il monogramma XP (Chi-Rho), i remi, l’antenna della nave con le vele
spiegate, la lettera T, l’àncora e la vite con i grappoli d’uva. Dimostrano la
loro capacità creativa, ornandoli con colori, foglie o fiori e li pongono nei
sarcofaghi, nei luoghi di culto, nei manufatti casalinghi e negli stendardi
militari. Presso l’Herodion, fortezza di Erode il Grande a Betlemme, nel primo
secolo dopo Cristo abitata da qualche monaco giudeocristiano, sono stati trovati
alcuni graffiti con delle croci. A Betsaida è stato scoperto un pezzo di
terracotta, databile non oltre il 70 dopo Cristo, su cui compare la traccia di
una croce. Nelle catacombe di Roma si sono rinvenuti diversi graffiti con la
croce. Nel 79 la lava del Vesuvio ha coperto ad Ercolano una villa, che in una
parete aveva incassato una croce, coperta da uno sportello. Secondo alcuni
interpreti si tratterebbe di una prima testimonianza del nuovo culto a Gesù. I
cristiani avrebbero nascosto la croce nella parete della loro casa, per
difendersi dal sarcasmo dei pagani .
Nei primi quattro secoli i cristiani di origine ellenistica si adeguano alla
cultura ebraica. Evitano di raffigurare Gesù nei vari episodi della sua vita
terrena e del suo ingresso alla gloria celeste. Sentendo tuttavia il bisogno di
rappresentare le vicende drammatiche della sua Passione, ricorrono ai simboli
dei giudeocristiani e ne aggiungono altri, ritenuti più espressivi.
Tratteggiano, infatti, l’agnello immolato, il pane cotto, il serpente appeso
sull’asta, la vela spiegata al vento, l’áncora calata nel mare, l’aratro sul
terreno, il carro con il timone elevato, il tridente con il pesce, i rami degli
alberi protesi verso l’alto e gli uccelli con le ali spiegate. Ricorrendo
all’immagine del buon pastore, simboleggiano Gesù, giovane atletico e imberbe,
che porta su una spalla una pecora ferita. In qualche affresco delle catacombe
ritraggono Gesù nelle sue reali sofferenze, suscitando polemiche tra quei
pagani, che ripudiano la presentazione di un corpo appeso ad un patibolo. Nelle
catacombe romane di Prestato sulla Via Appia è, infatti, rimasto un raro
esemplare, risalente agli anni 250. I cristiani di origine ellenistica tentano
inoltre di raffigurare Gesù in un momento storico della sua vita. Un modello di
eccezionale riferimento è il pannello della porta principale della basilica di
Santa Sabina a Roma (422-430). Si tratta di una scultura lignea, che
apparterebbe ad un artista siriano. L’opera rappresenta Gesù posto in mezzo ai
due giustiziati. Egli appare un uomo robusto e senza segni di sofferenza, non
avendo la croce dietro le spalle, ma un simbolo architettonico che evoca le mura
di Gerusalemme. Sta in una posizione eretta. Tiene le braccia aperte, gli occhi
spalancati e la testa rivolta al malfattore, convertito. Chi lo guarda non vede
un giustiziato, ma un vivente, che prega e intercede.
Dopo l’editto del 313
sulla libertà di culto dei cristiani l’imperatore di Costantino I fa apporre
sugli stendardi militari le lettere “X e P”, iniziali ricavate dal greco
Christòs (Cristo). Sapendo che possono esprimere liberamente la loro fede, gli
artisti cristiani cominciano a raffigurare la X e la P all’interno delle corone
d’alloro. Inoltre nelle sculture o nelle pitture dei sarcofaghi rappresentano
Gesù che regge una croce. A volte tratteggiano un apostolo che consegna una
croce a Gesù, quale trofeo di vittoria sul male. In Africa settentrionale gli
artigiani introducono la raffigurazione di una semplice croce negli oggetti
d’uso domestico. Nel V secolo, abrogata la pena della crocifissione, i cristiani
venerano pubblicamente il segno della croce.
Incentivati dalla Chiesa, gli artisti ornano i luoghi di culto, illustrando i
principali episodi biblici. Mettono in prima vista Gesù. Sul nartece, sul catino
delle absidi o sulla volta delle cupole centrali delle basiliche lo raffigurano
glorioso e celestiale. Marcano anche la sua tragica morte, apponendogli una
croce gemmata al centro dell’aureola o sopra le spalle. Si può vedere uno dei
migliori esemplari pervenutoci nel meraviglioso mosaico di Santa Pudenziana a
Roma (642-649), dove Gesù appare il giudice e il signore del mondo, perché egli
sta seduto su un trono e ha sul suo capo una croce, ornata di stelle lucenti, di
metallo dorato, di pietre preziose e di splendidi colori.
Per frenare le eccessive devozioni popolari, il concilio Trullano
(Costantinopoli, anno 692) nel canone 73 proibisce di raffigurare la croce sui
pavimenti delle chiese. Nel canone 82 prescrive agli artisti di rappresentare
Gesù nella sua storicità e di abbandonare i simboli, divenuti omai equivoci.
Superato il periodo delle grandi controversie iconoclaste, sostenute
prevalentemente dagli imperatori bizantini (726-787 e 815-843), gli artisti
cessano quasi unanimemente le riproduzione simbolica di Gesù e cominciano a
creare croci di varie proporzioni. Le raffigurano nei paramenti, negli oggetti
liturgici, negli affreschi delle chiese o nelle pale per gli altari.
Rappresentano anche crocifissi con un volto impreciso, irregolare, barbuto o
imberbe. Lo vestono ordinariamente da sommo sacerdote, che intercede per
l’umanità.
Consolidatosi un modello facilmente riconoscibile, gli artisti orientali
evidenziano la natura trascendente, gloriosa e maestosa di Gesù (Col 1,15),
mentre trascurano gli aspetti della sua umanità, sottoposta alle sofferenze
della crocifissione. Sullo sfondo aureo delle absidi o delle cupole delle chiese
lo tratteggiano seduto su un trono regale: ha gli occhi grandi, i capelli
lunghi, la barba appuntita, le sembianze di un maestro, di un imperatore, di un
trionfatore e di un giudice universale. Tracciano una croce dietro le sue spalle
o un’aureola crocifera dietro la sua testa. Le loro opere musive e pittoriche
destano la fede, suscitano un’esplosione d’elevazione mistica e nei limiti umani
anticipano la contemplazione celeste. Gli esperti d’arte riconoscono che una
delle migliori realizzazioni di quest’epoca è il mosaico absidale di
sant’Apollinare a Ravenna. Nel centro del rosone musivo di questa chiesa brilla
il volto di Gesù e una croce gemmata, attorniata da tante stelle. Nella parte
bassa del mosaico il vescovo Apollinare in abito pontificale guida il suo gregge
(il popolo) verso la croce gloriosa.
Negli anni posteriori gli artisti apportano delle modifiche stilistiche su Gesù.
Lo effigiano pendente dalla croce e trionfatore sulla morte. Imprimono al suo
corpo una posa ondulatoria, evocante il serpente di bronzo, che Mosè ha
innalzato nel deserto. Non lo raffigurano ridente ma compunto e con gli occhi
aperti. Per corrispondere ai desideri delle autorità, lo ornano con gli abiti
dei re o dei sommi sacerdoti. Pongono sulla sua persona una lunga tunica, a
volte senza maniche. Gli mettono un manto di porpora, una corona regale, dei
colori cangianti, delle gemme e dei metalli preziosi. Inseriscono delle sigle
che attestano la sua divinità e la sua sovranità sul mondo. Poggiano la croce su
un teschio, simbolo del cranio d’Adamo, padre dell’umanità decaduta e rinvio al
toponimo, Golgota. Raffigurano i due ladroni ai lati di Gesù crocifisso. Talora
vi pongono il sole e la luna, quali testimoni della sua divinità e della sua
regalità, nonché del turbamento cosmico. Accanto o di fronte a lui tratteggiano
sovente Maria Vergine, l’apostolo Giovanni, le Pie donne ed altre persone
simboliche. Sulle traverse superiori o inferiori della croce dipingono alcuni
santi e alcuni angeli adoranti. Imprimono una funzione liturgica e coreografica
alle loro raffigurazioni.
In Occidente dal secolo VI al X gli artisti, influenzati dallo stile orientale e
dal monachesimo benedettino, aumentano la complessa produzione pittorica,
plastica e scenografica della crocifissione di Gesù. Evitano tuttavia di
tratteggiare l’evento della risurrezione, perché non riescono a inventare un
modello, che coniughi la bellezza e la bruttezza di Gesù, la sua dignità e la
sua fragilità, la sua trascendenza divina e la sua vulnerabilità fisica. Lo
presentano di solito con un corpo morbido, che irradia un’intensa luce sulle
persone e sulle cose circostanti. Conferiscono alle loro opere una funzione
pedagogica, dottrinale e mistica. Nelle miniature dei manoscritti, nei monumenti
privati, nei locali pubblici, nelle absidi, nelle pareti o nei portali delle
chiese rappresentano scene pittoriche o plastiche di crocifissi trionfanti e
attorniati dagli apostoli o dai santi più celebri. Raffigurano Gesù sempre vivo
con il volto sereno o severo e con gli occhi sbarrati, evocanti un benevolo
perdono o una dura condanna del peccato. Lo presentano che sta ritto, maestoso e
raggiante; poggia i piedi su una mensola e tiene le braccia distese
orizzontalmente; sul capo ha la corona regale o il nimbo, il segno della gloria
e dell’immortalità; indossa il colobio purpureo, l’ampia e lunga tunica degli
imperatori o dei sacerdoti orientali, ornata di stelle e di due strisce dorate.
La loro raffigurazione offre al pubblico un’immagine inesatta e fuorviante della
crocifissione di Gesù. Il popolo tuttavia apprezza quest’arte sacra, perché essa
corrisponde alla teologia e alla sensibilità spirituale dell’epoca. Segnaliamo
qualche modello: il piccolo crocifisso di cristallo, dono di san Gregorio Magno
alla regina Teodolinda, opera del secolo VII, conservata nel tesoro della
Cattedrale di Monza; il crocifisso di Santa Maria Antiqua (Roma), affresco del
secolo VIII; il crocifisso d’oro del secolo XII di Ferdinando I, regalato dal
sovrano al convento di sant’Isidoro e custodito nel museo di Madrid; il maestoso
crocifisso ligneo tunicato di Bocca di Magra (La Spezia), opera del secolo XII,
da cui dipenderebbe il crocifisso, la statua lignea, detta il Santo Volto di
Lucca, di Sarzana (La Spezia) e di Spoleto; da ultimo il crocifisso ligneo di
san Candido nel Duomo dell’Alto Adige.
Le rappresentazioni di Gesù sofferente e risorto nel corso degli altri secoli.
Gli artisti orientali sanno di essere i testimoni e i maestri della perfezione
di Dio. Prima di porsi a dipingere le icone sacre, si purificano dai vani
pensieri, digiunano, pregano, s’immergono nel mistero di Dio ed elaborano
mentalmente la raffigurazione che intendono realizzare. Imitano gli artisti
greci che prima di compiere un’opera di valore, invocavano le muse protettrici
delle arti, confidando di ottenere da loro una luminosa ispirazione. Terminato
il tempo della concentrazione, imprimono alle loro concretizzazioni una forte
indole pedagogica e liturgica. Mutano anche lo schema iconografico. Dipendendo
dal Vangelo di san Giovanni, raffigurano Gesù sulla croce che è vivo, vestito
con un tessuto prezioso ed emana la luce divina (Gv 8,12). Lo effigiano con
un’accurata pettinatura, con il capo chino ed ornato da un’aureola regale, con
le braccia distese e le gambe non incrociate, ma in posizione eretta, danzante,
vittoriosa sulla morte e con il corpo leggermente incurvato e senza evidenti
tracce di torture, di ferite e di sangue coagulato. Altri tratteggiano Gesù
crocifisso che dimostra d’avere un perfetto equilibrio, ostenta una grande
maestà e s’immerge tranquillo nel sonno della morte. Posizionano accanto a lui
la Madonna, l’evangelista Giovanni, il Centurione, Longino con la lancia e le
Pie donne.
Dipingono il Risorto che appare ai discepoli, a Maria di Magdala e alle altre
donne. Lo delineano che esce dall’imboccatura degli Inferi, vigoroso e fulgente;
eleva la croce con la mano sinistra, mentre con la destra afferra il polso di
Adamo, lo trascina verso il cielo e con lui solleva una lunga schiera di giusti.
Mediante quest’immagine esprimono la convinzione che Gesù, passando dall’inerzia
del sepolcro alla beatitudine di Dio, salva tutti, anche i morti. Tuttavia non
si rendono conto che la risurrezione di Gesù, anticipo di quella universale, non
va unicamente identificata con una reviviscenza fisica.
Nelle icone, generalmente delle tavole portatili, raffigurano il Crocifisso,
meno trionfante e più sofferente. Producendo queste immagini, inducono i
credenti ad entrare nel mistero d’amore e di dolore, di tristezza e di gioia del
Verbo incarnato; ucciso e vivente (Ap 5,6). Li sollecitano alla preghiera
fervente e all’adorazione incessante. Li spingono a lasciarsi toccare, educare e
redimere dalla bellezza e tenerezza divina. Inoltre indicano a loro la strada da
percorrere, per unirsi al Signore e per arrivare un giorno alla definitiva
glorificazione. Nelle celebrazioni pasquali e nelle solennità i chierici, i
monaci e i fedeli laici distaccano le icone dai luoghi di culto o dalle dimore
domestiche. Le incensano, le baciano, le portano in processione e le mostrano al
pubblico, bisognoso di cogliere in questi segni la presenza del Signore.
Tributano alle icone lo stesso onore, recato al libro dei Vangeli e alle
reliquie della croce.
Gli occidentali si distaccano dal modello di rappresentazione orientale. Negli
affreschi e nelle sculture si collegano alla spiritualità dei monaci, dei
mistici e degli ordini mendicanti, nonché alle differenti maestranze stilistiche
locali. Inaugurano un nuovo stile figurativo, in cui sfoggiano la loro perizia
artistica e cercano di suscitare sorpresa, meraviglia, emozione, fede e
devozione. Producono con frequenza dei crocifissi, nei quali evidenziano la
sofferenza fisica di Gesù e trascurano la sua bellezza divina. Lo raffigurano
ordinariamente contorto, piagato, umiliato, sconfitto e pendente da tre o da
quattro chiodi. Lo effigiano con i muscoli contratti, con le costole e le vene
sporgenti, con le palpebre strette dal dolore, con un serto di spine intrecciate
sulla testa, con gli arti rotti dai chiodi e con rivi di sangue, che colano da
tutto il corpo. Pongono vicino a lui i personaggi biblici, i santi locali ed
altre persone riconoscibili. Alcuni mettono accanto al Crocifisso gli angeli
addolorati e piangenti, i quali con dei calici dorati tentano di prendere il suo
sangue prezioso.
Nel periodo rinascimentale perfezionano la stessa tipologia. Tentano di
conciliare i valori artistici della classicità greca e romana con le esigenze
spirituali dell’arte cristiana. Curano gli aspetti della bellezza somatica di
Gesù e accentuano la bruttezza delle sue ferite. Producono crocifissi idonei a
suscitare atteggiamenti di commozione, contemplazione e pietà. Dipingono scene
della risurrezione del Signore, raffigurando un corpo bello, maestoso, radioso e
proteso verso l’alto. Cimabue, Giotto e il beato Angelico spiccano tra gli
artisti italiani. Cimabue umanizza il Crocifisso, adottando lo stile bizantino,
introdotto in Italia durante le lotte iconoclaste. Nella chiesa dei domenicani
d’Arezzo egli esprime il dramma interiore di Gesù con una perfezionata tecnica.
Lo dipinge privo di segni regali. Lo ritrae con la testa reclinata sulla spalla
destra, gli occhi chiusi, i muscoli contratti e il corpo spostato ad arco.
Giotto evidenzia l’aspetto fisico, dolente, sublime, maestoso e mistico del
Crocifisso. Nella navata centrale di Santa Maria Novella a Firenze lo pittura su
una larga tavola di legno, mentre grava con pesantezza dalla croce. Nella
basilica superiore d’Assisi raffigura quadri della passione di Gesù, dando
risalto alla sua umanità sofferente. Il beato Angelico inventa crocifissi belli
e lucenti. Imprime sul loro corpo i segni dell’umanità e della divinità, della
sofferenza e della gloria, della morte e della vita, dell’elargizione della
grazia e della riparazione del male. Sollecita i cultori dell’arte sacra e la
gente a comprendere il senso teologico delle sue belle opere. Esorta tutti a
credere nel Signore, a lodarlo e ad abbandonarsi alla sua intercessione.
Nel secolo XV iniziano gli studi scientifici sull’anatomia e sulla prospettiva.
Avvalendosi di queste conoscenze, gli artisti trovano uno stile di
raffigurazione più preciso. Coniugano meglio la bellezza anatomica con la
bruttezza del Martire divino. Producono scene di passione, che sono dei veri
capolavori tridimensionali. Rappresentano Gesù nella sua realtà storica:
giovanile, vigoroso e vitale ma anche sofferente, lacerato, curvo, disarticolato
e accasciato. Lo fissano sulla croce con tre o con quattro chiodi. Gli pongono
sui lombi un semplice perizoma. Evidenziano la sua perfetta ossatura e
muscolatura. Lo effigiano con gli occhi lacrimanti, il volto aggrottato, la
bocca contratta o spalancata e le ferite gonfiate. In alcune immagini lo
rappresentano con la testa eretta o alzata verso il cielo. Danno un segno della
sua vitalità o del suo abbandono alla volontà del Padre. In altre opere
inclinano la sua testa petto o su una spalla. Danno la sensazione della crudezza
della sua morte e del suo desiderio di avere un rapporto d’amore con ogni
persona. Imitando la sagoma di un cadavere di un giovane appeso, Michelangelo
Buonarroti realizza un crocifisso di legno di tiglio, che ha una raffinata
muscolatura ed è simbolo della perfezione divina. Nella basilica di sant’Antonio
da Padova Donatello crea un crocifisso bronzeo, che è un vero capolavoro d’arte.
Gli artisti riproducono anche scene del processo, della salita al Calvario,
della crocifissione, della morte, della deposizione, della sepoltura e delle
apparizioni. Rilevano i fantasiosi sentimenti dei diretti testimoni delle
sofferenze o della gloria di Gesù. Raffigurano sovente gli strumenti della sua
crocifissione. Pongono accanto a lui umiliato o risorto i flagelli, le spine, la
tunica, le corde annodate, la colonna, i chiodi, i martelli, le tenaglie, la
scala, la lancia, le tracce di sangue, la spugna, il gallo nel canto, i lini, la
sindone e la tomba spalancata. Aumentano i personaggi che lo assistono nella sua
agonia. Li raffigurano con panneggi raffinati, colorati e teatrali. Sullo loro
sfondo dipingono panoramiche, agglomerati urbani, strutture architettoniche,
oggetti preziosi e decorativi di cui si conservano meravigliosi capolavori.
Pensiamo alla Crocifissione di Antonello da Messina, custodita nel museo reale
di Belle Arti ad Anversa. Ricordiamo la Deposizione di Gesù, attuata da Giorgio
Vasari e collocata sull’altare maggiore dei santi Donato e Ilario nella chiesa
camaldolese. Consideriamo la Pietà di Michelangelo Buonarroti in san Pietro. In
questa scultura Maria indossa un ampio e ondulato drappeggio. Seduta su un
comodo trono e curvata leggermente, guarda con tenerezza il volto di Gesù,
mentre con le braccia gli sorregge il corpo disarticolato.
Gli artisti incrementano anche la produzione iconografica della risurrezione di
Gesù, della sua ascesa al cielo, della sua intronizzazione regale e del suo
ritorno alla fine dei tempi, quale giudice universale. Non avendo un preciso
modello di visualizzazione, adatto ai sensi, ricorrono alle loro immaginose
intuizioni. Rappresentano generalmente il Risorto in un’esplosione di luce,
mentre le tenebre notturne oscurano la natura. Lo raffigurano che, uscito dal
sepolcro, emana dal corpo una fascia di luce intensa, posa sulla tomba o ascende
glorioso al cielo, accompagnato da una schiera angelica. Pensiamo al celebre
dipinto di Piero della Francesca. Espirandosi ad un inno pasquale. egli
raffigura una persona enorme, robusta, atletica e luminosa, che sta per
ascendere al cielo, mentre con una mano regge la croce, quale trofeo di
vittoria. Sullo stesso tema segnaliamo i capolavori di Domenico Cresti, detto il
Passignano, di Dominikos Thetokpulos, detto, El Greco, e di Peter Rubens.
Nei secoli posteriori gli artisti, specialmente quelli dell’area fiamminga
raffigurano Gesù crocifisso, che è sfinito, debole e cadente. Pende da croci
nodose e ai lombi ha un perizoma svolazzante. Ispirandosi alla figura messianica
del Servo sofferente (Is 53,2), lo effigiano con il corpo contorto, piagato,
livido, sanguinante ed ansimante. Fomentano in ognuno un senso di profondo
ribrezzo e di tristezza. Alcuni lo rappresentano vivo, con gli occhi spalancati
e con la stessa fisionomia del Santo Volto, custodito dai Cappuccini a
Manoppello (Pescara). Sembra che emetta il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato» (Mc 15,34). Altri preferiscono raffigurarlo già esanime: ha il
corpo gonfio, gli occhi chiusi o abbassati, la testa poggiata su una spalla
nell’atto di donare completamente se stesso, grava dalla croce con i muscoli
ancora tesi oppure è rilassato, per aver consegnato la sua anima nelle mani
amorose del Padre (Lc 23,46).
In un polittico dei monaci Antoniti, dediti alla cura degli appestati, Mathias
Grünewald accentua fino all’estremo il realismo della crocifissione. Dipinge il
Crocifisso come un malato di peste. Pende dolente e spasimante da un secco
albero. Ha le dita scompigliate, le braccia e le gambe contorte, le schegge dei
flagelli in tutto il corpo, i rivoli di sangue coagulato, le tumefazioni dal
capo ai piedi e le ferite con tracce d’avanzata decomposizione. I monaci ed i
malati lo pregano, sapendo di rivolgersi a Dio, che soffre con loro. In un altro
dipinto Grünewald rappresenta Gesù, che esce trasfigurato e sfolgorante dalla
tomba, si protende vittorioso verso il cielo, mostra le ferite gloriose della
crocifissione e ricorda ai devoti che ha il potere di redimere dalla sofferenza.
Evochiamo altre curiosità artistiche sulla crocifissione di Gesù. I polacchi
rappresentano Gesù lungo le strade o nelle piazze in atteggiamento pensoso e
sofferente. Gli iberici modellano i loro crocifissi, marcando il realismo degli
squarci e dei tormenti. Li forgiano feriti, sanguinanti, spasimanti, agonizzanti
e quasi disperati. Li colorano ordinariamente con tinte forti. Li ornano di
monili, di perle e di drappi preziosi, per creare un grande effetto scenografico
e per infondere negli oppressi sentimenti di devozione, di liberazione e di
sicurezza. In Italia e in altre nazioni europee gli artisti effigiano crocifissi
snodabili, adatti ad inscenare la deposizione e la sepoltura di Gesù. I
rigoristi e pessimisti giansenisti adottano un nuovo modello di crocifissione,
che non avrà lungo seguito. Per convincere i cristiani che il Signore offre la
salvezza a poche persone, forgiano dei crocifissi con le braccia elevate, molto
strette e quasi perpendicolari al corpo. I riformatori calvinisti si
contrappongono radicalmente alle mode stilistiche dei cattolici. Per eliminare
la visione della tragica morte di Gesù, evitano di raffigurarlo crocifisso e
collocano nei luoghi di culto un disadorno simbolo della croce.
Le nuove raffigurazioni di Gesù crocifisso e
risorto.
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