La cooperazione con azioni moralmente cattive contro la vita umana
di Mons. LIVIO MELINA
Presidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia
Nel terzo capitolo dell’Enciclica Evangelium vitae
Giovanni Paolo II esprime un giudizio di elevata autorità dottrinale
sul disordine morale grave dell’aborto procurato (EV, (2), delle
sperimentazioni sugli embrioni umani (EV, 63) e dell’eutanasia (EV, 65),
applicando a questi tre tipi di azioni la valutazione etica negativa
che sempre merita «l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano
innocente» (EV, 57). Questa rigorosa delimitazione dell’oggetto
specifico del documento pontificio ad alcuni particolari attentati
contro la vita umana nascente o terminale è esplicitamente motivata col
fatto che essi presentano «caratteri nuovi rispetto al passato e
sollevano problemi di singolare gravità». (EV, 11).
I. CARATTERI PECULIARI DELLE ODIERNE MINACCE ALLA VITA
Se lungo la storia, in forme e circostanze differenti, la vita
dell’uomo è stata sempre insidiata e continua ad esserlo in molti modi
(EV. 10), nondimeno emergono oggi attentati alla vita con tratti nuovi,
che introducono a dimensioni originali e a sfide inedite. In particolare
tre caratteristiche peculiari connotano le problematiche attinenti
all’aborto, alla sperimentazione sugli embrioni e all’eutanasia. In
primo luogo, a livello di opinione pubblica, influenzata da campagne
ideologiche a largo raggio, questi attentati alla vita tendono ad essere
percepiti come «diritti della libertà individuale». In secondo luogo
essi sono legittimati socialmente, perché attuati mediante la pratica
medica: il contesto scientifico e l’autorità morale del servizio
sanitario sono ampiamente sufficienti, agli occhi di molti, per renderli
accettabili, anzi indiscutibili.
Infine, la normativa giuridica dello stato conferisce a queste
pratiche l’accredito di una legge, approvata dalla maggioranza,
dispensando da ulteriori scrupoli di coscienza.
Contrariamente a quanto affrettati e superficiali lettori hanno affermato, l’
Evangelium vitae non
è dunque un documento di morale sessuale e neppure semplicemente un
documento di etica individuale.1 È invece un testo di grande rilevanza
per la morale sociale, che si colloca nel solco della dottrina sociale
della Chiesa, inaugurato nei tempi moderni dall’Enciclica di Leone XIII
Rerum novarum, cui il Papa significativamente si rifà (EV, 5).2 In primo piano stanno le
dimensioni sociali delle minacce alla vita,
che tendono a formare una vera e propria «cultura della morte» (EV,12):
si tratta di una mentalità individualistica, materialistica e
antisolidaristica, che si chiude all’altro fino a negarne il diritto
alla vita, di una ostilità che si consolida in vere e proprie «strutture
di peccato».
L’azione del cristiano, chiamato a promuovere la vita e a costruire
una «nuova cultura della vita» illuminata dal Vangelo (cap. IV), si
trova inevitabilmente a fare i conti con le situazioni e le strutture
determinate dalla
cultura della morte. La
questione della collaborazione
moralmente possibile, per migliorare dal di dentro le condizioni, o
piuttosto della denuncia profetica si colloca dunque al centro della
problematica dell’Enciclica. Il tradizionale capitolo della
«cooperazione con azioni moralmente cattive» acquista un’urgenza e una
complessità nuove, rispetto al passato in forza del contesto sociale
pluralistico nel quale il cristiano si trova ad agire. È questa
dimensione inedita che occorre mettere a fuoco, prima di esaminare i
principi che regolano la cooperazione e la loro applicazione alle
situazioni morali specifiche attinenti l’aborto e l’eutanasia.
II. LA PROBLEMATICA DELLA COOPERAZIONE IN UNA SOCIETÀ PLURALISTICA E COMPLESSA
Capita sempre più di frequente, nell’ambito della società
pluralistica, che l’azione di una persona entri, come contributo
parziale, nel contesto di un’attività sociale più complessa, e che
questa attività più complessa sia regolata e configurata, al di là delle
intenzioni stesse dei soggetti agenti, da leggi non conformi al bene
della persona. È il caso, ad esempio, dell’esecuzione di diagnosi
prenatali effettuate nell’eventuale prospettiva di un aborto selettivo,
oppure delle prestazioni sanitarie di radiologi o di altri analisti, che
preparano le cartelle cliniche in vista dell’aborto; è la situazione di
farmacisti, che vendono prodotti, poi usati contro la vita; oppure,
ancora, di parlamentari che col loro volo favorevole ad una proposta di
legge sull’aborto procurato o sull’eutanasia, pur contenente aspetti
moralmente inaccettabili, possono contribuire a migliorare una
legislazione più gravemente ingiusta rispetto al diritto alla vita. Tali
situazioni o altre analoghe provocano difficili conflitti di coscienza a
molte persone; esse si vanno moltiplicando nella nostra società.
- Agire insieme agli altri e «partecipare»
«Agire insieme» agli altri può costituire un indubbio arricchimento
della persona, che così si apre alla comunione interpersonale e sociale e
collabora ad un’opera comune.3 In effetti la persona non può attuare
concretamente tutta la dimensione personalistica dell’atto se non nella
partecipazione comune, superando quell’individualismo chiuso e
concentrato unicamente sul proprio interesse, che vede gli altri solo
come un limite all’attività e ai diritti del singolo, D’altra parte la
comunità tra gli uomini non può fondarsi che sul pieno riconoscimento
del valore della persona nel suo agire, il quale non può essere mai
sacrificato mediante costrizioni deresponsabilizzanti da parte della
collettività.
La
partecipazione indica quel modo in cui, agendo con gli
altri, la persona non solo non rinuncia al valore personalistico del
proprio agire, restando pienamente responsabile del suo atto, ma altresì
lo realizza in modo più pieno, tramite la comunione. Ciò esige dunque
che, entrando in sinergia con l’azione altrui e con le dinamiche
sociali, la soggettività responsabile, consapevole e libera, sia
rispettata nelle sue esigenze e potenziata nelle sue dimensioni
costitutive. Con ciò è descritto, nel suo elemento essenziale, il
criterio antropologico di fondo per la valutazione della cooperazione.
Esso è negato tanto dall’individualismo classico, che vede nella
comunità solo un limite all’azione libera del singolo soggetto
individuale, quanto dal totalitarismo collettivista, che sacrifica il
valore personalistico dell’agire allo scopo oggettivo stabilito dalla
società.
- Società complessa e pluralismo
Oggi però ci troviamo di fronte ad un complesso ibrido di
individualismo e di collettivismo, nel quale proprio sotto l’egida della
tolleranza e del pluralismo si profila il pericolo di un’espropriazione
e di una deresponsabilizzazione della persona nel suo agire cooperante;
il «pluralismo» infatti non è solo un dato di fatto delle odierne
società secolarizzata dell’occidente, che sono profondamente divise
riguardo ai valori essenziali su cui fondare l’esistenza e la vita
comune, ma anche un’
ideologia, ispirata al liberalismo
radicale, la quale teorizza che proprio una tale condizione è ideale per
la democrazia.4 L’ esclusione di qualsiasi verità sul bene, lo
scetticismo gnoseologico e il relativismo etico sarebbero dunque l’unica
garanzia per una vita sociale democratica. Da questo punto di vista,
sembra prevalere un radicale individualismo: la collaborazione con gli
altri non ha in se stessa nessun valore, se non quello meramente
strumentale di favorire per ogni individuo il conseguimento di quei
vantaggi che egli reputa di dover perseguire per il suo benessere.
D’altra parte, una qualche forma di vita sociale è comunque
necessaria ed essa di fatto si realizza in forme sempre più
coinvolgenti, benché valutata solo in termini meramente utilitaristici.
Di conseguenza, le azioni che entrano nell’ambito dell’esercizio di
funzioni pubbliche e professionali esigerebbero dalla persona la
rinuncia a proprie valutazioni morali e l’adeguamento a quanto stabilito
legalmente oppure a quanto richiesto dall’utente. La responsabilità
della scelta viene delegata alla legge civile, mettendo da parte le
proprie convinzioni di coscienza nell’ambito dell’azione pubblica. Come
ha acutamente segnalato l’Enciclica (Ev. 69) si è di fronte a due
tendenze solo «in apparenza diametralmente opposte»: da un lato
l’esaltazione della totale autonomia morale della scelta individuale,
dall’altro l’imposizione di adeguarsi obbligatoriamente a quanto
stabilito dalla maggioranza nelle vesti di un funzionario pubblico. In
realtà, alla radice di una tale separazione della morale privata da
quella pubblica sta l’identica negazione del vincolo costitutivo che
lega la libertà alla verità: nel privato la perdita di questo nesso apre
la strada ad un arbitrio senza limiti da pane del singolo individuo,
nell’ambito pubblico essa sfocia nell’imposizione totalitaria da parte
dello stato di scelte, che esigono l’abdicazione alla propria coscienza.
Il cristiano impegnato nella vita professionale pubblica si trova
spesso associato alla banalizzazione di una morale che non è più la sua.
Dal punto di vista delle professioni più attinenti al rispetto della
vita, si assiste così ad una tendenziale deformazione delle fisionomie
del medico e del legislatore. Vale la pena di accennare a qualche
elemento della nuova situazione in cui essi vengono a trovarsi, nel
contesto della società pluralista.
- Le sfide al medico e al legislatore
Certamente la pratica medica implica una pluralità di dimensioni, che
si articolano tra loro differentemente secondo la situazione storica
particolare. La dimensione scientifica, anzi tecnica, rischia oggi di
soverchiare l’originaria ed essenziale intenzione pratico-terapeutica.
D’altra parte gli abusi dell’oggettivazione tecnica, che conosce e
analizza solo sintomi particolari e perde la visione complessiva del
malato come persona, non deve portare ad esasperare la funzione del
medico, affidandogli un compito eccessivo di salvezza globale.5
L’inserzione della pratica medica all’interno del contesto sociale,
secondo rapporti codificati, può portare alla perdita di responsabilità
diretta e personale del medico nei confronti del paziente.
Ecco allora gli abusi della cosiddetta «medicina dei desideri», in
cui il medico si considera semplicemente come un tecnico della
corporeità, che mette a disposizione i suoi servizi ad un utente che
chiede manipolazioni varie, assumendosene tutta la responsabilità. In
tal caso nella cooperazione del medico viene elusa ogni responsabilità
morale. Così sono fatte rientrare nella medicina anche pratiche che
nulla hanno a che fare con la terapeuticità e con la salute, quali la
contraccezione, la sterilizzazione, l’aborto, l’eutanasia. In questa
concezione, che va affermandosi soprattutto nelle società liberali
anglosassoni, il medico si deresponsabilizza di ogni dimensione etica
della medicina, lasciando la totale responsabilità degli atti che compie
a chi glieli chiede. Oppure, delegando allo stato di decidere quali
atti si possano lecitamente compiere e quali invece sia illecito fare.
D’altro canto al
legislatore si chiede sempre più
frequentemente di prescindere dalle sue convinzioni di coscienza
private, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche. Capita di sentire
politici affermare che un conto sono le loro convinzioni personali circa
la morale e un conto le esigenze del loro ruolo pubblico. Anche quando
si tratta non solo di valori etici essenziali, ma di diritti
fondamentali dell’uomo, che stanno alla base di ogni giusto ordinamento,
il parlamentare deputato a legiferare dovrebbe semplicemente farsi
portavoce dei suoi elettori e cercare di mediare le diverse istanze, in
modo da conformarsi alle aspettative della maggioranza. In una
prospettiva del tutto agnostica circa i valori della persona e del bene
comune, il punto di riferimento dell’azione, non solo
politico-amministrativa, ma anche legislativa, sarebbe l’opinione
prevalente, la quale, ovviamente potrebbe sempre essere frutto di ben
calcolate manipolazioni.
Dall’analisi precedentemente svolta circa i pericoli di un’azione di
collaborazione all’interno delle odierne società pluralistiche, emerge
una domanda: a quali condizioni è possibile una «partecipazione»
autentica, nella quale si eviti l’abdicazione della responsabilità del
singolo e la conseguente complicità col male, e si incrementi la persona
e il bene comune della società?
III. DISTINZIONI CLASSICHE CIRCA LA COOPERAZIONE E LORO REINTERPRETAZIONE
Come afferma il padre M. Zalba, le questioni relative alla
cooperazione al male morale possono considerarsi le più difficili da
risolversi.6 La manualistica classica si è trovata talvolta in un grave
imbarazzo nella valutazione di una tale fattispecie. La difficoltà
diventa ancora più rilevante oggi, dal momento che non si tratta più
solo di cooperazioni di un singolo soggetto con un altro, ma
dell’inserimento di una certa azione all’interno di un contesto
complesso, determinato da abitudini codificate di tolleranza entro una
società pluralistica oppure addirittura dalla legge dello stato.
- I criteri della tradizione manualistica
Alla ricerca di elementi certi per la valutazione etica, la
criteriologia tradizionale ha distinto tra cooperazione formale e
materiale, tra cooperazione
mediata e immediata, prossima e remota, necessaria e non necessaria7.
Si può partire da queste distinzioni tradizionali, che mantengono una
loro validità, per cercare di reinterpretarle alla luce di una migliore
teoria dell’azione, nella ricerca di strumenti ermeneutici più adeguati
all’attuale complessità della situazione.
La distinzione fondamentale e decisiva è certamente la prima, quella
tra cooperazione «formale» e cooperazione «materiale». Sant’ Alfonso
definiva quella formale sulla base del concorso del cooperante alla
cattiva volontà altrui: essa si verifica quando chi coopera condivide
l’intenzione eticamente negativa dell’agente principale.8
Giustamente Prümmer sentiva il bisogno di precisare ulteriormente che questo concorso può intervenire non solo «
ex fine operantis» – per l’esplicita condivisione soggettiva dell’intenzione cattiva dell’agente principale -, ma anche «
ex fine operis»,
cioè quando l’oggetto morale dell’atto di cooperazione non ha altra
finalità intrinseca se non quella di contribuire al male voluto
dall’agente principale.9 È quindi cooperazione formale quella che
include necessariamente il consenso della volontà al peccato altrui:
essa non può mai essere lecita. Nella cooperazione materiale invece il
male commesso dall’agente principale può essere detto un
abuso ed è veramente un effetto collaterale, forse anche previsto, ma certo non voluto, al di là delle intenzioni di chi coopera (
praeter intentionem).10
In quella materiale, potendo distinguersi l’intenzione di chi coopera
da quella di chi vuole il male, sarà possibile stabilire condizioni e
limiti di accettabilità morale.
La seconda distinzione tradizionale è quella tra cooperazione
«immediata» e cooperazione «mediata». Immediata è quella che si verifica
quando non c’è soluzione di continuità tra l’agire principale e l’agire
di chi collabora; mediata, quando al contrario si può rilevare uno
stacco ed è necessaria un’ulteriore decisione, perché colui che fa il
male possa procedere all’esecuzione del suo proposito.
Altre distinzioni riguardano la distanza tra l’azione di chi collabora e quella cattiva dell’agente principale (
cooperazione prossima o remota), oppure ancora la necessità o meno dell’azione di collaborazione ai fini dell’esecuzione dell’atto moralmente negativo (
cooperazione necessaria e non necessaria).
Per quanto riguarda la cooperazione ad un’azione ingiustamente dannosa verso un’altra persona (
damnificatio cooperativa), la manualistica ha elencato ben nove fattispecie:
iubens/mandans; consulens, consentiens, participans, palpo (adulans), recursum praebens, mutus, non obstans, non manifestans.11
Le prime tre forme di cooperazione implicano necessariamente una
condivisione dell’intenzione cattiva e sono quindi formali e sempre
illecite.
La tradizione casistica ha cercato quindi di offrire una
criteriologia accurata soprattutto per determinare l’eventuale liceità
della cooperazione materiale mediata. Vanno menzionati alcuni elementi
fondamentali, sempre utili per un discernimento concreto:
- a) la distanza maggiore possibile dall’atto cattivo
dell’agente principale, così che l’atto di chi coopera possa dirsi
semplicemente un’occasione, senza cattiva intenzione, di cui un altro
abusa per peccare12 – quanto più la cooperazione è «remota» tanto più
facilmente può essere riconosciuta come lecita moralmente -.
- b) la presenza di ragioni proporzionatamente gravi. Come
dice Sant’Alfonso13, o impedire l’abuso, che altri possono fare, di un
atto in sé non cattivo è materia di carità, ma la carità non obbliga «cum gravi incommodo». Pertanto, quando ci sia una giusta causa non è peccato porre un atto di cooperazione.
- c) la tentazione di passare a poco a poco ad una cooperazione formale, date le circostanze particolari della collaborazione prestata.
- d) infine la questione dello scandalo, cioè dell’apparenza
di approvazione del male. Tale questione è tanto più rilevante quando
riguarda comportamenti di religiosi, ospedali cattolici, persone che
rivestono posizioni di rappresentanza di associazioni cattoliche. Si
deve anche rammentare la responsabilità profetica della Chiesa 14, per
cui talvolta può essere meglio richiamare con rigore e nettezza la
posizione di principio, che dare l’impressione di essere scesi a
compromessi. Talvolta anche la cooperazione materiale può essere
moralmente negativa in quanto contraddice al dovere di testimoniare la
verità e di ammonire altri ad evitare il male.
- e) va anche precisato che, stante la difficoltà della materia,
l’applicazione di queste distinzioni ai casi concreti è sottoposta al
giudizio della prudenza.15
In sintesi: solo gravi responsabilità morali possono giustificare la
cooperazione materiale all’azione cattiva compiuta da altri.
Nella ricerca di un’oggettività sempre maggiore, si passa quindi
dalla considerazione della dimensione interiore a quella della
connessione esteriore dell’atto cooperativo con l’azione moralmente
negativa dell’agente principale. L’attenzione si sposta così sempre più
dal livello intenzionale al livello esecutivo esterno. Così si afferma
chiaramente che non basta che un’azione ponga una
conditio sine qua non per essere moralmente ingiusta, ma occorre che essa sia
efficaciter iniusta:
solo quando c’è un influsso causale efficace sull’atto cattivo, si può
parlare di partecipazione all’azione ingiusta.16 Avvenendo il pericolo
di un’eccessiva soggettivizzazione dei criteri di valutazione qualora ci
si fermi troppo alla considerazione dell’intenzione, che dà forma
all’agire cooperante, la manualistica mette a fuoco l’influsso effettivo
ed efficace sull’agire esterno. La valutazione della cooperazione
oscilla così tra il criterio formale della condivisione dell’intenzione,
sospettato di soggettivismo, e il criterio materiale dell’influsso
causale sull’atto esterno, che tende a diventare oggettivistico.
- Alla ricerca di una nuova impostazione
Il limite di questa impostazione, che rimane talvolta incerta e
persino inconcludente nell’esame di casistiche concrete, è dato dalla
prospettiva di fondo in cui essa si colloca e che è tipica non solo
della manualistica – a partire da Suarez -, ma di tutta la morale
moderna – a partire da Hobbes -. Essa, in opposizione all’etica
classica, coglie l’atto umano dal punto di vista di un osservatore
esterno: si tratta di un’«etica della terza persona», elaborata nella
prospettiva del giudice o del confessore, che guarda l’atto esterno e,
per valutarne l’imputabilità soggettiva da esso risale all’elemento
interiore dell’intenzionalità.17 Al contrario, l’impostazione classica, e
in particolare tomista, si pone dal punto di vista del soggetto agente,
che progetta un’azione: essa si qualifica come un’«etica della prima
persona». Mentre quest’ultima pone al centro l’intenzione del soggetto
agente nella sua dinamica costruttiva dell’atto, per le etiche moderne
al centro sta una regolazione esterna del comportamento, mediante le
norme e i precetti. Nella prospettiva della terza persona in primo piano
sta l’atto esterno, valutato moralmente in rapporto alla norma – «etica
della legge» -: l’intenzione è un elemento che si aggiunge solo
successivamente per stabilire l’imputabilità, Invece nella prospettiva
della prima persona l’azione è colta dall’interno del soggetto, nella
sua identità intenzionale oggettiva; la sua valutazione morale è
misurata prima che dalle norme stabilite esternamente e formulate
linguisticamente, dalla ragione pratica e dai suoi principi cioè
dall’ordine delle virtù morali – «etica delle virtù».18
Le precedenti considerazioni hanno una rilevanza particolare anche
per quanto riguarda il nostro tema della cooperazione con le azioni
cattive.19 Le distinzioni tradizionali della manualistica possono
trovare un’illuminazione più adeguata e un’espressione più sintetica
facendo perno sull’oggetto dell’atto della cooperazione. Tale
prospettiva è conforme all’insegnamento della
Veritatis splendor,
secondo cui «la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e
fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà
deliberata» (n. 8); l’oggetto va inteso però non in senso materiale ed
estrinseco, bensì «nella prospettiva della persona che agisce», cioè
come «fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto del
volere della persona che agisce».
L’oggetto di un atto, che determina la sua specie morale, è, secondo san Tommaso d’Aquino,
aliquid a ratione constitutum», una
forma a ratione concepta20:
è il contenuto della scelta colto dalla ragione come essenziale per
costituire l’identità dell’atto. La natura di un atto, nella prospettiva
del soggetto che agisce, implica sempre un’intenzionalità immanente,
che determina il «perché» esso è voluto. L’identità intenzionale di base
dell’atto permette di stabilire il suo significato oggettivo,
distinguendolo sia dalle ulteriori intenzioni soggettive per cui esso è
fatto (
finis operantis), sia dalle conseguenze previste, ma non volute (
praeter intentionem)
21 Appartiene alla virtù della prudenza cogliere il contesto in cui si
agisce e quindi riconoscere i tratti intenzionali intrinseci
dell’azione, che ne determinano oggettivamente l’identità.22 Questa
prospettiva, originale rispetto a quella consueta, permette una ripresa
delle distinzioni della tradizionale casistica cattolica, in una forma
che sembra nello stesso tempo coerente con essa e più soddisfacente.
L’essenziale distinzione tra cooperazione formale e materiale può
essere riespressa a partire dal criterio dell’oggetto: è formale infatti
non solo la cooperazione esplicitamente manifestata mediante un atto di
volontà, ma anche quella implicitamente determinata per il fatto che
nessun altro significato può ragionevolmente connotare l’identità
dell’azione e distinguere l’oggetto dell’atto di chi coopera
dall’oggetto dell’atto di chi intende fare l’azione cattiva. L’atto
della cooperazione non risulta semplicemente dalla giustapposizione tra
un agire esterno e un’intenzione soggettiva, che potrebbero
arbitrariamente separarsi. Se fosse così si aprirebbe l’eventuale
discussione, senza prospettive di soddisfacente soluzione, tra una
soggettivistica accentuazione dell’intenzione e un’oggettivistica
enfatizzazione dell’aspetto puramente esteriore con le sue connessioni
di causalità fattualmente efficace. Decisivo è invece stabilire
l’identità oggettiva dell’atto di collaborazione, cioè l’intenzionalità
intrinseca che lo connota.
Anche per quanto riguarda l’altra distinzione, di connessione
immediata o mediata tra l’atto cooperante e l’azione cattiva dell’agente
principale, la situazione può essere illuminata nella prospettiva
dell’oggetto. La cooperazione immediata si verifica quando vi è
un’identità tra l’oggetto dell’azione di chi coopera con quello di chi è
l’agente principale. La seconda si dà quando è possibile distinguere e
la collaborazione può dirsi solo remota. Va quindi rilevato che la
cooperazione immediata si identifica con quella formale ed è pertanto
sempre illecita; tuttavia può darsi una cooperazione immediata non
formale quando si è di fronte ad una costrizione. Per la verità, qui si
dovrebbe dire che non si tratta più di un atto umano in senso proprio,
ma in fondo è solo questione di linguaggio.
IV. LA COOPERAZIONE NELL’AMBITO DI UNA LEGGE INGIUSTA
Consideriamo ora quel tipo di cooperazione al male che ha connessione
con le legislazioni civili, le quali in molti paesi presentano aspetti
in contraddizione col rispetto del diritto alla vita dovuto ad esseri
umani innocenti. La situazione di fatto pluralistica del contesto
sociale pone nuove questioni ai legislatori, agli operatori sociali e
sanitari e ai cittadini.
- Leggi civili e legge morale
È chiaro che le leggi civili non hanno né il potere, né il compito di
tutelare l’ordine morale come tale.23 Esse devono assicurare il bene
comune delle persone attraverso il riconoscimento e la difesa dei
diritti fondamentali, la promozione della pace e della pubblica
moralità.24 Talvolta esse devono tollerare, in vista dell’ordine
pubblico ciò che, se fosse proibito, provocherebbe un danno più grave.25
La tolleranza non può essere tuttavia indiscriminata e totale: qualora
riguardasse un diritto fondamentale della persona, come quello alla
vita, un tale atteggiamento del legislatore umano si trasformerebbe in
complicità e significherebbe la fine della stessa ragion d’essere della
vita politica. Essa non può richiamarsi al rispetto della decisione di
coscienza altrui (pro choice) quando è in gioco il diritto alla vita.
Anche la tolleranza ha dei limiti: tollerare tutto è essere intolleranti
verso la giustizia e il bene comune.
Una legge che misconosca uno dei fondamentali diritti dell’uomo, come
quello della vita è dunque non solo una legge «imperfetta»26, ma
«ingiusta» (EV, 72). Possiamo così comprendere il giudizio forte e netto
che l’
Evangelium vitae esprime a riguardo delle leggi civili sull’aborto e sull’eutanasia: «
Le
leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono
dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro
il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità
giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio
perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha
motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e
irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue
che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa per
ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante»
(EV, 72). Si tratta di un giudizio che si colloca all’interno della
prospettiva propria della legge civile: definisce infatti le leggi che
autorizzano l’aborto e l’eutanasia come «leggi ingiuste», e perciò anche
immorali.
Ci troviamo oggi in una situazione di pluralismo tale per cui anche
gli stessi fondamenti etici della convivenza civile sono messi in
discussione. I contenuti basilari dei diritti dell’uomo, che pure
restano formulati nelle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e nelle
Carte costituzionali, non sono più ritenuti come immutabilmente sanciti
una volta per tutte a partire dalla legge naturale27, ma piuttosto sono
sentiti come valori validi in quanto riconosciuti in un determinato
momento storico. È allora il consenso sociale l’unico punto di
riferimento per la determinazione di quanto va difeso dalle leggi
civili. Il principio della maggioranza diventa l’unico criterio della
verità così che il carattere democratico della società è ricondotto solo
alla correttezza delle procedure formali con cui viene reperita
l’opinione prevalente.
Come possono e debbono agire i cristiani in un tale contesto
pluralista? Già Pio XII intervenne con un importante discorso all’Unione
dei Giuristi Cattolici Italiani, il 6 dicembre 1953, offrendo i
principi per un comportamento moralmente adeguato.28 Egli parte dalla
distinzione tra situazione ideale dal punto di vista dei principi e
situazione come si dà di fatto. In considerazione delle possibilità
realistiche di quest’ultima, il Papa riconosce che non sempre i politici
possono porre come norma ultima della loro azione quella di reprimere
il male. Nell’interesse di un bene superiore e più vasto essi possono
evitare di intervenire. Nella valutazione concreta della situazione di
fatto Pio XII riconosce che la competenza spetta al giurista.
Dopo aver delineato gli aspetti di carattere generale della
problematica, cerchiamo ora di prendere in considerazione alcune
casistiche più determinate, relative alla cooperazione nell’ambito della
legge civile.
- L’azione del legislatore
Una prima serie di questioni si pone al legislatore nella
preparazione e nella realizzazione concreta della legge civile: il
contesto procedurale dei lavori parlamentari comporta interventi a
livello di proposta di legge, di lavoro di commissione di emendamenti,
di votazioni. L’Enciclica
Evangelium vitae invita ad
intervenire non solo per promuovere leggi pienamente rispettose del
diritto alla vita – obiettivo che rimane sempre prioritario -: ma,
qualora ciò non fosse realisticamente possibile, anche «
per favorire
una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli
aborti autorizzati, in alternativa ad una legge già in vigore o messa al
voto» (EV, 73).
Per valutare adeguatamente la situazione e cogliere l’oggetto
dell’atto di cooperazione, che qualifica moralmente la scelta, come è la
metodologia suggerita dalla
Veritatis splendor, occorre «
collocarsi nella prospettiva della persona che agisce»
(n. 78), cioè, per il caso presente, nella prospettiva del legislatore.
In tal senso, al di là dell’aspetto esteriore di un’iniziativa
procedurale, della formulazione esteriore di un emendamento proposto o
di una legge votata, occorre cogliere il significato oggettivo e
sostanziale dell’intervento nel contesto concreto della situazione
giuridica.29 Ad esempio, la proposta di rendere lecito l’aborto fino
alla sedicesima settimana di gravidanza, al di là delle apparenze, può
essere un giustificato tentativo di opporsi nei realistici limiti del
possibile ad una legge ancor più ingiusta in vigore, che preveda la
liceità dell’aborto fino alla ventiquattresima settimana, quando non
fosse possibile ottenere il consenso parlamentare sufficiente per una
norma legislativa più giusta: «
Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare […]
potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno
a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne
gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica» (EV, 73). Dove “
offrire il proprio sostegno”
è riferito al votare a favore di una legge meno cattiva – ma pur sempre
cattiva – promossa da altri, non dal parlamentare stesso. Naturalmente
il parlamentare che così agisse avrebbe il dovere di giustificare il
senso del suo comportamento e di manifestare la sua posizione
assolutamente in favore della vita, per evitare lo scandalo.
- La collaborazione nei consultori previsti dalle leggi sull’aborto
Un’altra situazione problematica è quella posta dall’applicazione
delle leggi sull’aborto in alcuni paesi – come la Germania e la Francia
-, che prevedono una consultazione previa con funzione tendenzialmente
dissuasiva e che sanciscono l’obbligo di una certificazione di questa
consultazione come condizione necessaria per poter accedere ad aborto
depenalizzato ed assistito pubblicamente. Si pone allora la grave e
difficile questione morale: è lecito al singolo – e in certe situazioni,
alla Chiesa come tale – intervenire in questa fase consultiva, cercando
di favorire l’accoglienza della vita nascente, accettando però di
firmare dei certificati che sono di fatto, per la configurazione data
loro dalla legge, e al di là del loro tenore verbale, delle
autorizzazioni a ricevere l’intervento abortivo?
In questo caso si deve riconoscere l’intenzione dissuasiva
dall’aborto di chi partecipa alla consulenza ed anche la presenza di
risultati positivi: almeno alcune donne incinte vengono persuase a
rispettare la vita del bambino che portano in sé e a proseguire la
gravidanza. Ma le intenzioni e le conseguenze di un atto non sono né
l’unica, né la principale fonte per la valutazione della sua moralità.
In realtà il vero problema non è la consulenza in se stessa, ma il suo
inserirsi in una procedura legale mediante il rilascio di un
certificato, che a norma di legge e al di là del suo tenore verbale, è
titolo necessario e sufficiente per accedere all’aborto assistito.
Nell’atto del rilascio il consulente agisce come ufficiale pubblico,
compiendo atti, che hanno il valore giuridico attribuito loro dalla
legge. E il significato primario e principale dell’attestato di avvenuta
consulenza, oggettivamente stabilito dalla legge, è quello di
permettere l’accesso all’aborto: la donna lo chiede per questo motivo. E
quando essa lo presenta alla clinica per ottenere l’aborto, si deve
dire che essa ne usa e non che ne abusa.
Una conferma di questo aspetto di partecipazione diretta all’azione ingiusta, come collaborazione formale
ex fine operis,
è dato dal fatto che, come documentano testimonianze degne di fede, il
senso stesso del dialogo consultivo tende ad essere falsato dal suo
condizionamento legale e dalla prospettiva di un certificato necessario
per poter abortire. Lo stesso consulente tende a subordinarsi alla
logica perversa della legge, che rinuncia a difendere la vita del
bambino non ancora nato e mette in primo piano il rispetto della
decisione di coscienza della donna, e ad essere reticente nel giudizio
morale sull’aborto.
- Testimonianza profetica e disobbedienza civile
Nella linea opposta a quella della collaborazione, si trova la scelta
di taluni di resistere alle leggi gravemente ingiuste contro la vita
mediante la protesta pacifica o anche mediante la disobbedienza
civile.30 Quest’ultima può essere definita come un metodo specifico di
lotta politica contro leggi ingiuste o contro politiche governative
attraverso metodi moralmente accettabili. Si tratta, in pratica di una
aperta violazione delle leggi ingiuste, al fine di attirare l’attenzione
dell’opinione pubblica, evitando azioni ingiuste contro altri e contro
il bene comune e mostrando il proprio rispetto dell’autorità, anche
coll’accettare la pena conseguente al proprio gesto.31
Al di là della legittima violazione della legge ingiusta si pone qui
il problema morale se un gesto simile non contribuisca a distruggere
l’autorità della legge come tale e non finisca quindi per danneggiare
comunque il bene comune. Si tratta certamente di valutare la situazione
concreta, per vedere se con la disobbedienza civile non si vada contro
responsabilità morali più gravi, ma in linea di principio la legittimità
di questo atteggiamento non può essere esclusa, alle condizioni sopra
menzionate. Si tratterebbe qui comunque di un gesto di
testimonianza profetica, corrispondente alle esigenze di una
vocazione personale,
non obbligatoria per tutti.32 Quando non si violino leggi morali che si
impongono a tutti, resta infatti aperto lo spazio ad un pluralismo di
opzioni e a scelte storiche che possono essere divergenti, talune di
cooperazione in vista di un miglioramento della situazione, altre di
resistenza e di opposizione. Ogni cristiano ha un suo specifico ruolo da
svolgere nella storia della salvezza e nell’impegno nel mondo, per
corrispondere alla sua missione e vocazione battesimale.
- L’obiezione di coscienza
Per tutti si impone, invece, il «
grave e preciso obbligo morale di opporsi» alle leggi ingiuste contro la vita umana nascente o declinante «mediante
obiezione di coscienza»,
(EV, 73), quando esse prevedano il compimento di atti gravemente
immorali. Se si verifica infatti la situazione per cui la collaborazione
con una legge ingiusta è manifestamente una cooperazione formale,
oppure anche una cooperazione materiale senza ragioni proporzionate e
cogenti, allora «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At
5,29), astenendosi dal compiere atti che sono contrari ai comandamenti
di Dio e all’amore del prossimo.
Il dovere naturale dell’astenersi da ciò che la propria coscienza
giudica come moralmente cattivo dovrebbe essere garantito anche a
livello legale.33 Si dovrebbe agire perché le leggi ingiuste
garantiscano almeno la libertà di coscienza. Spesso infatti si verifica
una strana e paradossale contraddizione: mentre da un lato viene
esaltata l’autonomia della coscienza nelle scelte private, fino a
rivendicare il diritto di aborto e di eutanasia contro il diritto del
bambino e/o il bene comune; d’altra parte si esige che nell’esercizio
delle funzioni pubbliche e professionali la persona prescinda dalle
proprie convinzioni e compia gli atti legalmente prescritti (cf. EV,
69). In realtà mai, neppure nell’ambito dei servizi pubblici, si può
abdicare alla propria coscienza, la quale trova la propria dignità
nell’obbedienza alla verità e nel rispetto delle altre persone e dei
loro diritti.
V. ALCUNE ALTRE SITUAZIONI DI COOPERAZIONE CONNESSE AL RISPETTO DELLA VITA
In modo esemplificativo si può ora passare alla considerazione di
alcuni altri casi particolari di cooperazione, ai quali si applicano i
principi appena esposti.
- La collaborazione di medici e personale sanitario all’aborto
Una prima difficile situazione è quella che si pone a coloro che,
nell’ambito del servizio sanitario pubblico, si trovano di fronte alla
possibilità di collaborare con l’aborto procurato, in molti paesi
legalmente previsto – e forse un domani anche all’eutanasia -. È sempre
illecita l’azione abortiva diretta e la collaborazione formale ad essa,
mediante l’esecuzione dell’aborto. Non è mai lecita la cooperazione
prossima all’azione abortiva diretta,34 che si verifica nella
certificazione medica, nell’assunzione di esami radiologici ed
ematologici richiesti esplicitamente in vista di un aborto,
nell’autorizzazione concessa dai giudici tutelari per le minori. Il
pericolo di scandalo può rendere lecite anche altre forme di
cooperazione non prossima, soprattutto per la posizione di alcune
persone, si pensi ad esempio alle religiose … È invece lecita
l’assistenza antecedente, diagnostica e consultiva, se non
specificamente e necessariamente finalizzata a determinare
l’interruzione della gravidanza. L’assistenza conseguente all’aborto non
pone invece problemi morali di cooperazione, anzi può essere
testimonianza di umana sollecitudine e attenzione.35
- La diagnosi prenatale
Nell’ambito delle questioni relative al rispetto della vita umana embrionale e ferale, l’Enciclica
Evangelium vitae
affronta anche il problema della diagnosi prenatale36 (EV, 14 e 63). Si
tratta di sistemi di osservazione e di analisi per stabilire le
condizioni di salute dell’embrione e del feto. In se stesse queste
pratiche diagnostiche, quando non comportino rischi sproporzionati per
la vita dell’embrione o del feto, sono pienamente legittime.
Le difficoltà più gravi nascono dalle connessioni che possono
stabilirsi, a livello intenzionale o anche istituzionale con l’aborto,
in dipendenza dai risultati della diagnosi prenatale. Si può infatti
configurare la specie morale della cooperazione all’azione abortiva. Va
qui prestata attenzione alle finalità per cui viene fatta la diagnosi.
Ci può essere una finalità terapeutica in favore del piccolo essere
umano, anzitutto. Un tempo le possibilità terapeutiche all’interno del
seno materno erano molto limitate e praticamente quasi inesistenti; oggi
si stanno sviluppando, con successi promettenti, tecniche di intervento
endoscopiche e chirurgiche. Una seconda finalità può essere
informativa: la madre e il padre del bambino possono essere rassicurati
da timori – è il caso del 98% delle diagnosi -, oppure possono
prepararsi con maggior disponibilità ad accogliere la vita di un
bambino, che avrà problemi fisici o psichici più o meno gravi. La forte
riserva morale sulle diagnosi prenatali deriva però da un facile
scivolamento all’aborto, come soluzione più semplice e quasi obbligata,
quando venissero diagnosticate malformazioni o malattie ereditarie.
Procedere alla diagnosi con questa intenzione eventuale significa cadere
in una pratica eugenetica. La situazione sarebbe ancora più gravemente
evidente quando le stesse strutture socio-sanitarie o le istituzioni di
assistenza medica consigliassero o imponessero condizioni che
favorissero l’aborto selettivo, in caso di esito diagnostico non felice.
Facilmente si potrebbe passare alla pianificazione e all’imposizione di
una strategia eugenetica a livello di tutta la popolazione.
- Sperimentazioni sugli embrioni umani
L’etica delle sperimentazioni sugli embrioni e sui feti umani, cui
hanno aperto la strada le differenti tecniche di procreazione
artificiale e, particolarmente, la fecondazione «in vitro», deve trovare
il suo punto di riferimento nel principio che
Evangelium vitae riprende in proposito dall’Istruzione
Donum vitae: «
L’essere
umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo
concepimento e pertanto, da quello stesso momento gli si devono
riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto
inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita» (EV, 60). Ciò
significa che quel piccolissimo essere umano dev’essere sempre
considerato e trattato come un fine e mai unicamente come un mezzo per
altro: è un soggetto e non una cosa da usare per altro. Per quanto gli
scopi delle sperimentazioni possano essere importanti e nobili gli
intenti dei ricercatori, ciò non basta a legittimare la violazione dei
diritti dell’embrione. Vanno quindi applicate in proposito i criteri,
già noti netta deontologia medica e stabiliti dalla
Dichiarazione di Helsinki del 1964. 37
Problemi specifici di cooperazione possono crearsi quando si tratta
di ricerche svolte sui corpi di feti provenienti da aborti procurati. Di
per sé, trovandosi di fronte a piccoli cadaveri, atteso il rispetto
dovuto e ottenuto il consenso, possono essere utilizzati per ricerche e
sperimentazioni. Va però fatta molta attenzione alle eventuali
connessioni che possano stabilirsi tra aborto procurato e
sperimentazioni su feti abortiti. Possono infatti verificarsi interessi
tali da configurare un’approvazione dell’aborto o addirittura una
complicità con esso da parte dei ricercatori, che magari favoriscono
l’esecuzione dell’aborto secondo determinate modalità e in un tempo
determinato, oppure trattano il feto vivo con certe sostanze, in vista
delle loro successive indagini.
Va sottolineato che il rifiuto di prestarsi ad azioni contro la vita da parte dei
medici e del
personale sanitario
in genere non implica il venir meno alla loro professionalità. Al
contrario significa difenderne l’originaria identità ippocratica al
servizio della vita. È proprio per ragioni di deontologia medica che
essi devono sentirsi obbligati ad obiettare a certe pratiche in realtà
non mediche, anche se questo rappresenterà una testimonianza difficile,
che costa sacrifici e forse anche pesanti condizionamenti sulla propria
carriera.
- La cooperazione nell’ambito della professione del farmacista
Analoga è la situazione in cui vengono a trovarsi i farmacisti, quali
si trovano di fronte alla messa in commercio di prodotti che nulla
hanno a che fare con un’autentica terapeuticità: è il caso non solo dei
contraccettivi, ma soprattutto degli abortivi – come la spirale, la
pillola del giorno dopo o, forse in futuro, di quella del mese dopo – e
degli eutanasici. Come ha richiamato loro Giovanni Paolo II, 38 essi non
sono semplici commercianti o distributori neutrali di ciò che viene
chiesto; la dignità del loro servizio professionale esige che vivano
responsabilmente e in favore della vita il ruolo di mediazione tra
medico e paziente, Dovranno rifiutarsi quindi di distribuire ciò che è
contro la vita, direttamente o surrettiziamente. La vendita di prodotti,
che fossero unicamente destinati ad uno scopo contrario alla vita,
dev’essere oggetto di obiezione. Mentre non si dà un dovere positivo di
assicurarsi che non vi saranno abusi quando si tratti di medicinali con
varie indicazioni, tra cui alcune lecite.
- Il problema delle tasse
Alcuni moralisti hanno posto anche il problema della liceità morale di pagare le
tasse,
o anche addirittura della doverosità morale di astenersi dal pagarle,
quando il sistema legislativo preveda che i contributi fiscali servano a
finanziare, tramite il sistema sanitario pubblico, azioni contro la
vita. Va qui osservato, da un lato che il contributo fiscale del singolo
è dato al bilancio dello Stato come un tutto e non ad una singola voce
di bilancio. Non si può quindi parlare in questo caso di doverosità di
evitare una cooperazione formale all’atto criminoso dell’aborto
procurato. D’altro canto si deve notare che l’obbligo morale di pagare
le tasse, contribuendo così alla vita comunitaria, non viene meno per il
fatto che vi siano abusi. Nonostante le buone intenzioni soggettive, il
rifiuto di pagare le tasse potrebbe configurarsi come un sottrarsi
individualistico alla logica del bene comune della società. Altre quindi
possono e devono essere le vie per mutare le legislazioni inique che
permettono l’aborto e altre violazioni del diritto alla vita. In ogni
caso queste difficili problematiche della cooperazione al male pungono
in positivo la questione della cooperazione al bene, cioè del doveroso
contributo culturale, sociale e politico ad una «civiltà della vita».
Non basta insomma evitare di compromettersi col male; anzi: proprio per
evitare queste compromissioni, occorre farsi protagonisti di un’efficace
e intelligente azione sociale.
CONCLUSIONE
Se guardiamo ora le problematiche della cooperazione al male da un
punto di vista non più solamente etico, ma anche teologico, così come è
compito di un’autentica
teologia morale, dobbiamo riconoscere
che la condizione dell’agire del cristiano nella storia è per tanti
aspetti veramente paradossale.39 Egli si trova ad operare
nel
mondo, ma senza poter adempiere le attese del mondo. Nel suo agire egli
deve fare i conti coi limiti connessi con la creaturalità e con la
presenza del peccato, che implicano innumerevoli e penose resistenze.
Non di meno deve cercare di introdurre proprio nella condizione storica
il nuovo, per far maturare già fin d’ora il mondo verso il Regno.40
Come si è visto, anche per quanto riguarda il rispetto della vita
umana il cristiano è talvolta lacerato nella difficile scelta tra la
collaborazione, che accetta inevitabilmente limiti e forse anche
compromessi per migliorare dal di dentro le situazioni, e la
testimonianza profetica, che afferma con nettezza il valore della vita.
La luce del Vangelo fa splendere il valore della vita umana (2Tim 1,10)
col dono della vita divina.41 Spinge così ad impegnarsi fattivamente in
favore della vita, verso un’autentica «civiltà della vita». Se la Chiesa
come tale è il «popolo della vita», che rende testimonianza al valore
della vita, vi è certamente al suo interno una differenza tra vocazione
laicale, chiamata piuttosto ad inserire nelle realtà temporali la novità
evangelica,42 e testimonianza profetica dei religiosi, che devono
ricordare e anticipare le realtà escatologiche. All’interno dei diversi
stati di vita si delineano poi le singolarissime vocazioni personali di
ciascuno, perché ognuno è chiamato ad una missione originale.
La teologia morale ha svolto finora il compito essenziale di
delimitare l’ambito della liceità di certe forme di cooperazione al
male, attraverso l’analisi della struttura dell’atto umano e le
distinzioni che ne conseguono tra varie forme di partecipazione. Ciò
lascia aperto però il campo al discernimento positivo del contributo da
offrire al sorgere della civiltà dell’amore e della vita, che
un’autentica prudenza cristiana, guidata dal dono dello Spirito, deve
suggerire.
In ogni caso il criterio ultimo dell’agire non sarà mai per il
cristiano quello dell’efficienza e della ricerca del successo storico.
Il Signore della storia è, come ricorda l’Enciclica nella sua
conclusione, l’Agnello immolato, che vive per sempre con i segni della
sua passione gloriosa e che ora ha il potere sulla vita e sulla morte
(EV, 105). La misteriosa fecondità dell’azione cristiana non è
raggiungibile mediante una verifica storica della sua efficacia, ma
nell’analogia e nella partecipazione all’azione di Colui che, pur
sconfitto, è vincitore.
___________________
Note
1 L’Enciclica non si occupa direttamente, ad esempio, della
contraccezione, se non per mostrarne, insieme con la comune radice in
una mentalità chiusa alla vita, la specie morale diversa dall’aborto
(EV, 13).
2 In proposito si veda il mio intervento dal titolo
Il rispetto della vita come questione sociale:
dalla «Rerum novarum» alla «Evangelium vitae»: L’Osservatore Romano, 13 aprile 1995.
3 Sul tema “Agire insieme con gli altri” come autentica partecipazione personalistica si vedano le opere di K. WOJTYLA:
Persona e atto,
cap. VII: “Lineamenti di teoria della partecipazione” (L. E. V., Città
del Vaticano, 1982), pp. 297-333; Perché l’uomo. Scritti inediti di
antropologia e filosofia (Leonardo, Milano 1995), pp. 59-136.
4 Al riguardo si veda un intervento di J. FINNIS.
Unjust laws in a democratic society. Some philosophical considerations, tenuto in occasione di un Simposio organizzato a Roma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (9-12 novembre 1994).
5 Cf. K. Jaspers,
Der arzt un technischen Zeitalter (R. pieper Verlag, Munchen 1986); tr. it. Il medico nell’età della tecnica (Cortina, Milano 1991).
6 Cf. M. ZALBA, Cooperatio materialis ad malum morale in
Periodica de re morali canonica et liturgica 71 (1982), 411-441.
7 Un’esposizione chiara e sintetica dei principi classici circa la
cooperazione al male si può trovare in G. GRISEZ, The way of the Lord
Jesus, vol. I: Christian Moral Principles (Franciscan Herald Press,
Chicago 1983) pp. 300-303.
8 «Dicendum illam esse formalem quae concurrit ad malam voluntatem
alterius et nequit esse sine peccato; materialem vero illam quam
concurrit tantum ad malam actionem alterius, praeter intentionem
cooperantis», SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, Theologia moralis l. II,
II, III, op. I, dub. V, n. 63.
9 D.M. PRUMMER. Manuale Theologiae moralis secundum principia S.
Thomas Aquinatis, t. I, p. I, Tr. LX, cap. III, art. III. Par. 2
(Herder, Friburg Br. 1935). p. 447.
10 Per una chiarificazione, nella luce di San Tommaso d’Aquino, della
decisiva distinzione tra ciò che è per se intentum (e quindi rientra
nell’oggetto della scelta) e ciò che è praeter intentionem, si veda
l’importante saggio di J. M. BOYLE, Praeter intentionem in Aquinas. The
Thomist 42 (1978). 649-665. L’opera essenziale sull’argomento è comunque
quella di G.E.M. ANSGOMBE, Intention, (Basil Blackwell, Oxford, 2 Ed.
1963).
11 Cf. D.M. PRUMMER, Manuale Theologiae moralis, O.C., t. II, p. I, Tr. XI, cap. III, art. III, nn. 100ss.
12 Cf. D. TETTAMANZI, Problemi morali circa la cooperazione all’aborto, Medicina e morale 28 (1978), 396-427.
13 Cfr., SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI. Theologia moralis, cit., n. 63.
14 Cf. C. CAFFARRA, Aborto e obiezione di coscienza: L’Osservatore Romano, 12 luglio 1978, 1.
15 Si veda il documento della Congregazione per la Dottrina della
Fede, Responsa ad quesita Conf. Ep. Americae Septentrionalis circa
sterilizationem in nosocomiis catholicis (13 marzo 1975). n. 3:
Documenta inde a Conc. Vaticano II expleto edita (1966-85) (LEV, Città
del Vaticano 1985), pp. 92-94.
16 Cf. D.M. PRUMMER, Manuale Theologiae moralis, cit., t. II, p. I,
Tr. XI, cap. III, art. III, nn. 93-110; H. Noldin, Summa Theologiae
moralis, t. II, nn. 479-494 (Oeniponte-Lipsiae, 17 Ed. 1941).
17 Questo spostamento del punto di vista principale secondo cui viene
elaborata l’etica, che definisce una frattura decisiva tra etiche
antiche e medioevali da una parte ed etiche moderne, dall’altra, è stato
individuato da S. Hampshire, in uno studio del 1949, ristampato in (Ed.
A. MAGINTYRE-S. HAWERWAS) Revisions, Changing, Perspectives in Moral
Philosopy (Univ. of Notre Dame Press, Notre Dame 1983) e da E. PINCOFFS,
Quandary Ethics: Mind 80 (1971), 552- 571, pure presente nella raccolta
precedente Revisions. Su tutto questo, un’ottima presentazione e
discussione critica in C. ABBA’, Felicità, vita buona e virtù, Saggio di
filosofia morale (LAS, Roma 1989), pp. 97-104.
18 Al riguardo si veda: M. RHONHEIMER. La prospettiva della morale.
Fondamenti dell’etica filosofica (Armando, Roma 1990, pp. 269-297.
19 In tal senso si muove, nell’applicazione a due casi particolari,
il contributo di R. GARCIA DE HARO, Cooperacion al mal, gradualidad y
conversion Anthropores 9 (1993), 135-153; al riguardo si veda anche la
sua trattazione sulla cooperazione in La vita cristiana. Corso di
teologia morale fondamentale (Ares, Milano 1995), pp. 270-276.
20 Summa Theologiae. I-II, q. 18, art. 10.
21 Al riguardo, oltre alle opere già citate di G.E.M. Anscombe e di
M. Rhonheimer, si veda l’articolo di J. FINNIS. Object and Intention in
Moral Judgement according to Aquinas in the Thomist 55/1 (1991), 1-27.
In riferimento al dibattito successivo alla pubblicazione dell’Enciclica
Veritatis splendor e in polemica con le posizioni proporzionaliste, si
vedano gli importanti interventi di M. RHONHEIMER “Intrisecallv Evil
Acts” and the Moral Vietepoint Clarifying a Central Teaching of
Veritatis Splendor: The Thomist 58 (994), 1-39 e Intentional Actions and
the Meaning of Object: A Reply to Richard McCormick: The Thomist 58
(1995), 279-311.
22 In merito si veda: L. MELINA, La conoscenza morale, Linee di
riflessione sul Commento di san Tommaso all’Etica Nicomachea (Città
Nuova, Roma 1987), pp. 169-219.
23 Per una sintetica esposizione della dottrina magisteriale sui
rapporti tra legge civile e morale, si veda: la terza parte
dell’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede
Donum vitae
(22 febbraio 1987), col commento di G. MEMETEAU, Morale e legge civile,
in: Donum vitae. Istruzione e commenti. Documenti e Studi 12 (LEV,
Città del Vaticano 1990), pp. 143-156.
24 Cf. CONCILIO VATICANO II, Dich. Dignitatis humanae n. 7. Per Il
concetto di «bene comune” si veda: PAOLO VI, Octogesima adveniens, n.
46; Giovanni PAOLO II, Enc. Centesimus annus, n. 47; Congregazione per
la Dottrina della Fede, Istruz. Libertatis conscientia, n. 84.
25 Cf. SAN TOMMASO D’AQUINO. Summa Theologiae, I-II. q. 96, a. 2.
26 Talvolta nel dibattito sulla questione è stata introdotta, anche
in buona fede, questa formulazione che giudico non solo insufficiente,
ma anche fuorviante: ogni legge umana è per sua natura imperfetta e
perfettibile, ma quando una legge è in grave contraddizione con un
diritto fondamentale dell’uomo e ne permette la violazione essa non è
solo imperfetta, ma ingiusta.
27 Si veda in proposito il saggio di O. OFFE, Diritto naturale
(diritto razionale) e diritti dell’uomo: problemi fondamentali di
un’etica contemporanea e di una filosofia politica, che funge da
presentazione all’opera di A. SCOLA, L’alba della dignità umana, La
fondazione dei diritti umani nella dottrina di Jacques Maritain (Jaca
Book, Milano 1982), pp. 11-47.
28 Cfr.
http://www.totustuustools.net/pvalori/Ciriesce.html
. Per il commento e l’ermeneutica dell’intervento nel contesto storico,
rimando a J. Joblin, Diritti umani. Valori comuni, società pluralista,
intervento tenuto in occasione del già menzionato Simposio organizzato a
Roma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede [9-12 nov. 1994).
29 Al riguardo mi ispiro all’intervento di J. FINNIS. Unjust laws in a democratic society, op. cit.
30 Cf. l’intervento di W. MAY, Unjust laws and catholic citizens:
opposition, cooperation and toleration, al Simposio già menzionato della
Congregazione per la Dottrina della Fede 19-12 nov. 1994).
31 Cf. G. GRISEZ, THE way of the Lord Jesus, vol. II: Living a Christian life (Franciscan Press, Quincy 1993), p. 883.
32 Al riguardo si vedano: CONC. VAT. II, Cost. Gaudium et spes, n.
43; Giovanni PAOLO II, Enc. Redemptor hominis, n. 19; G. GRISEZ, THE way
of the Lord Jesus, vol. I: Christian, cit., pp. 559-562.
33 Cf. D. TETTAMANZI, Problemi morali circa la cooperazione all’aborto, cit., 409-410.
34 Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. De abortu procurato, 18 nov. 1974. n. 22.
35 Per questi criteri applicativi ci siamo rifatti all’Istruzione
pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, La comunità cristiana e
l’accoglienza della vita umana nascente, 8 dicembre 1978; e alla
Dichiarazione dei Vescovi della Germania Federale del settembre 1976.
36 Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum
vitae, I, 2; si veda anche il fascicolo 4 (1984) della rivista «Medicina
e Morale», interamente dedicato alla questione, con interventi di A.
Serra, C. Caffarra. E. Leuzzi: inoltre: PH. GAUER, Choix de l’amour.
Diagnostic antenatal (Tèqui, Paris 1989).
37 Cf. E. SGRECCIA, Bioetica. Manuale per medici e biologi (Vita e Pensiero, Milano 1986), pp. 305-325.
38 Cf. Giovanni PAOLO II, Discorso alla Federazione Internazionale dei Farmacisti Cattolici, (3-11-1990): L’Osservatore Romano.
39 Al riguardo si veda: H.U. VON BALTHASAR, L’Azione, vol. IV di Teodrammatica (Jaca Book, Milano 1986), pp. 457.466.
40 Cf. Cost. Gaudium et spes, n. 39.
41 L’articolazione dei vari significati del termine “vita”, proposta
dall’Enciclica sulla scorta della teologia giovannea, è stata da me
messa in evidenza in: L. MELINA, Linee antropologiche della Evangelium
vitae: Medicina e morale 4 (1995). 677-700. Al riguardo: F. MUSSNER.
Zòè. Die Anschauung vom “Leben” im vierten Evangelium (Zink Verlag,
Munchen 1952); R.W. THOMAS, The meaning of the Terms “Life” and “Death”,
in the fourth gospel and in Paul: Scottish journal of Theology 21
(1968). 199-212.
42 Cf. Cost. Gaudium et spes n. 43, Giovanni PAOLO II, Es. ap. Christifideles laici n. 15.
Saggio tratto da: Ramón Lucas Lucas (cur.), Commento interdisciplinare alla Evangelium Vitae, Libreria Editrice Vaticana 1997, pp. 467-490
Fonte:
www.paginecattoliche.it/la-cooperazione-con-azioni-moralmente-cattive-contro-la-vita-umana/#more-2658