sabato 4 gennaio 2020

Leone Magno, Sermone XXXIV sull'Epifania



Leone Magno sull'Epifania 
Sermone XXXIV, nn. 1-3
 
   1. Dilettissimi, è giusto e ragionevole, ed è ossequio di una sincera pietà godere con tutto il cuore nei giorni che magnificano le opere della divina misericordia; ed è giusto celebrare con onore quei fatti che sono stati compiuti per la nostra salvezza. A questa devozione ci invita lo stesso corso del tempo che, dopo la festa in cui il Figlio di Dio, coeterno al Padre, è nato dalla Vergine, a breve intervallo, ci porta la festa dell'Epifania, consacrata alle manifestazioni del Signore.
    In questa festa la divina provvidenza ha dato un grande aiuto alla nostra fede. Infatti, mentre si ricorda con solenne venerazione come il Salvatore, da bambino, fu adorato, dai fatti stessi della sua nascita è provato che in lui è nata la natura di vero uomo. Questo è ciò che giustifica gli empi, è quello che trasforma in santi i peccatori, se, cioè, si crede che nell'unico e identico Gesù Cristo, nostro Signore, è la vera divinità e la vera umanità: la divinità per cui è nella condizione di Dio prima di tutti i secoli ed è uguale al Padre; l'umanità per cui negli ultimi tempi si è unito all'uomo nella condizione di schiavo.
   Per rafforzare questa fede e perché fosse, così, premunita contro tutti gli errori, è avvenuto per grande misericordia del divino beneplacito che gente dimorante nella lontana regione dell'Oriente, esperta nell'osservare il corso delle stelle, ricevesse il segno del fanciullo, nato per regnare su tutto Israele. Ai Magi, infatti, apparve la nuova luce di una stella più lucente che, mentre la guardavano, riempì i loro animi di ammirazione per il suo splendore, per cui credettero che non si doveva trascurare ciò che era annunciato con un segno tanto grande. La grazia di Dio era già preceduta — il fatto stesso lo rivela — a questo miracolo; e mentre non ancora tutta Betlemme aveva appreso la nascita di Cristo, la grazia già l'annunciava alle genti, perché la credessero. Ciò che non poteva essere esposto con le parole umane, lo faceva conoscere con l'annuncio del cielo.
   2. Ma benché fosse un dono della divina bontà il far conoscere alle genti la nascita del Salvatore, i Magi per comprendere il prodigioso segno poterono essere istruiti anche dall'antico oracolo di Balaam sapendo che una volta era stata detta e con memoranda celebrità diffusa la profezia: «Un astro spunterà da Giacobbe, uno scettro sorgerà da Israele» [Nm 24, 17].
    Dunque i tre uomini, spinti divinamente dal fulgore della insolita stella, seguono il viaggio della fulgida luce che li precede, stimando di trovare nella città di Gerusalemme il fanciullo indicato. Ma questa congettura li ingannò; tuttavia appresero dagli scribi e dai dottori giudei quel che la sacra Scrittura aveva preannunciato della nascita di Cristo. Così, confortati da ambedue le testimonianze, cercarono con fede più ardente colui che era manifestato dallo splendore della stella e dall'autorità della profezia. L'oracolo divino fu presentato dalla risposta dei pontefici e così venne proclamata la parola dello Spirito che dice: «E tu Betlem Efrata, tu sei piccola fra le migliaia di Giuda; ma da te uscirà colui che deve regnare in Israele» [Mic 5, 2; Mt 2, 6]. Quanto sarebbe stato facile e consequenziale che i capi degli Ebrei credessero quel che insegnavano! Invece è chiaro che essi, insieme a Erode, ebbero pensieri carnali e stimarono il regno di Cristo alla stessa stregua della potestà di questo mondo; cosicché gli uni sperarono un duce temporale e l'altro temette un competitore terreno. O Erode, sei turbato da un vano timore; inutilmente pensi di perseguitare il fanciullo, a te sospetto. La tua regione non può restringere il potere di Cristo, né il Signore si accontenta del minuscolo tuo regno. Colui che tu non vuoi far regnare in Giudea, regna dovunque; e tu stesso regneresti più felicemente, se ti sottomettessi al suo comando. Perché non fai con animo sincero ciò che prometti con dolosa falsità? Va con i Magi e venera con supplice adorazione il vero Re. Ma tu, fedele seguace dei ciechi Giudei, non imiti la fede delle genti e pieghi il tuo cuore a insidie crudeli: però non ucciderai colui che temi, né nuocerai a coloro che uccidi.
     3. Dilettissimi, i Magi furono condotti in Betlemme dalla stella che li precedeva e, come narra l'evangelista, «furono ripieni di una grande gioia; ed entrati nella casa, videro il Bambino con Maria, sua madre e, prostratisi, lo adorarono; aperti poi i loro tesori gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» [Mt 2, 10-11]. O mirabile fede, perfettamente istruita, che non fu edotta dalla sapienza terrena, ma infusa dallo Spirito santo! Come mai questi uomini che non avevano ancora visto Gesù, né alcuna cosa che lo riguardava, hanno avuto tale ispirazione che rese la loro venerazione regola in modo da osservare un simbolismo nei doni portati? Certamente, oltre la luce di quella stella che eccitò la loro vista corporea, un raggio più fulgente della verità ammaestrò i loro cuori, affinché, prima di intraprendere il faticoso viaggio, comprendessero che era indicato loro colui al quale si doveva onore regale nell'oro, la venerazione divina nell'incenso, la confessione della mortalità nella mirra. Tutto questo, creduto e compreso, per quel che era necessario a una fede illuminata, poteva loro bastare; non occorreva che ricercassero con la vista corporea colui che avevano ammirato con profondo intuito della mente. Ma la diligenza e la sagacità dell'ardore che essi misero nell'adempimento del loro dovere, perseverando fino a vedere il fanciullo, era in servizio ai popoli del tempo futuro e agli uomini del nostro secolo. Come a tutti noi giovò che, dopo la risurrezione del Signore, Tommaso abbia toccato con la mano le cicatrici delle ferite nella carne di Cristo; così ridondò a nostra utilità che la vista dei Magi abbia provato la sua infanzia.
   Dunque, i Magi videro e adorarono il fanciullo della tribù di Giuda, «nato, come uomo, dalla stirpe e di David [Rm 1, 3], «nato da donna e nato sotto la legge» [Gal 4, 4], che era venuto non ad abolire, ma a completare [cfr. Mt 5, 17]. Videro e adorarono il fanciullo, piccolo di statura, bisognoso dell'altrui aiuto, impotente a parlare e in nulla diverso dalla generalità della umana infanzia. Infatti, come erano valide quelle testimonianze che attestavano in lui la maestà dell'invisibile divinità, così doveva essere cosa provatissima che il Verbo si è fatto carne e la sempiterna essenza del Figlio di Dio aveva preso vera natura di uomo. Questo era necessario, perché né i miracoli e le opere ineffabili che sarebbero seguite, né i supplizi della passione che bisognava sopportare, turbassero il mistero della fede per l'apparente contraddizione dei fatti. In realtà non può essere in nessun modo giustificato se non chi crede che Gesù, Signore, è vero Dio e vero uomo.
Sermone XXXIV, nn. 1-3, PL 54; tr. it. Il mistero del Natale, a cura di Andrea Valeriani, Paoline, Roma 1983, pp. 141-144.
 http://disf.org/leone-magno-quarto-discorso-epifania

Prof. Giovanni Gardini, IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE NELL’ARCO ABSIDALE DI SANTA MARIA MAGGIORE A ROMA

 

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE NELL’ARCO ABSIDALE DI SANTA MARIA MAGGIORE A ROMA

 Prof. Giovanni Gardini

 

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    Quando papa Leone Magno pronuncia, come vescovo della città eterna (440-461), i Sermoni sul Natale, questa festa a Roma era celebrata da poco più di un secolo. Da pochi anni si era celebrato ad Efeso il terzo concilio ecumenico (431) nel quale a Maria era stato attribuito il titolo cristologico di Theotokos, Madre di Dio, e recentemente era stato terminato il grande ciclo musivo nella basilica di Santa Maria Maggiore sul colle Esquilino, ascrivibile alla committenza di papa Sisto III (432-440), come si evince dall’iscrizione posta al culmine dell’arco absidale: Xystus episcopus plebi Dei.

 

 Se i mosaici presenti nelle navate laterali sono incentrati sulle storie dei patriachi (Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè) comprese entro ventuno pannelli per parte, quello che allora figurava come arco absidale era stato concepito per proclamare il mistero dell’incarnazione e della manifestazione alle genti del Signore Gesù, vero Dio e vero Uomo. Il grande arco, suddiviso in quattro registri, presenta con grande solennità le scene del Natale: 1) Annunciazione (Lc 1, 26-38) e primo sogno di Giuseppe in cui l’angelo lo invita a non temere di prendere con sé Maria (Mt 1, 19-24) scene entrambe poste alla sinistra di chi guarda; la raffigurazione dell’etimasia con i Pietro e Paolo al centro, la presentazione al tempio (Lc 2, 22-38) e secondo sogno di Giuseppe (Mt 1, 13-15) a destra; 2) Adorazione dei Magi (Mt 2, 9-11) a sinistra e incontro con Afrodisio (Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo) a destra; 3) La strage degli innocenti (Mt 2, 16-18) a sinistra e scribi e Magi davanti ad Erode (Mt 2, 1-9) a destra; 4) La città di Gerusalemme a sinistra e Betlemme a destra.
Per comprendere appieno la maestosa narrazione dell’arco sistino occorre prestare attenzione, oltre ai Vangeli dell’infanzia di Matteo (1-2) e Luca (1-2), alla tradizione apocrifa con una particolare attenzione al Protovangelo di Giacomo e al Vangelo dello Pseudo Matteo; oltre alle fonti testuali, inoltre, va notato il pensiero teologico della committenza che nella disposizione delle scene crea, all’interno dell’arco, una nuova cronologia narrativa rispetto a quella del testo evangelico, un espediente funzionale non tanto e non solo a un’articolazione interna nell’assetto dei riquadri ma, necessaria per l’esplicitazione del messaggio proclamato (lo stesso accorgimento vale anche per alcuni dei riquadri raffiguranti le storie dei patriarchi). Si pensi ad esempio al secondo sogno di Giuseppe (primo registro a destra) nel quale l’angelo del Signore ordina a Giuseppe di fuggire in Egitto perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo, scena che nell’arco sistino anticipa l’adorazione dei Magi (secondo registro a sinistra). Quest’anticipazione permetteva di collocare la fuga in Egitto sopra alla scena dell’incontro di Afrodisio con Gesù (secondo registro a destra), avvenuto sempre in terra d’Egitto e di collocare l’adorazione dei Magi sullo stesso registro di Afrodisio, creando così una potente immagine del riconoscimento della Signoria di Cristo suddivisa in due tempi, Magi e Afrodisio, in antitesi con quanto raffigurato al di sotto, nel terzo registro, dove si assiste al disconoscimento di Cristo nella figura di Erode, re cieco nella sua crudeltà. Singolare è la raffigurazione dell’annunciazione non tanto per il chiaro riferimento alla tradizione apocrifa esplicitato in Maria che tesse la porpora (ricordiamo due illustri confronti ravennati nel sarcofago Pignatta e nella Cattedra d’Avorio di Massimiano) quanto per l’impianto iconografico che crea un’immagine solenne. Maria vestita con abiti d’oro, impreziositi da gemme e perle, siede su un ampio trono circondata dalla corte celeste. Sopra di lei, tra nubi apocalittiche, sono la colomba dello Spirito Santo e l’angelo Gabriele. Accanto all’annunciazione è il primo sogno di Giuseppe espresso in un’insolita iconografia. Egli, a differenza di quanto si legge nel testo evangelico, non sta dormento, ma è vigile, in piedi davanti all’angelo (nella cattedra d’avorio di Massimiano, invece, è raffigurato conformemente alla tradizione matteana). Un dettaglio non deve sfuggire: Giuseppe regge una piccola verga che rievoca il momento in cui, secondo la tradizione apocrifa, egli, secondo il progetto di Dio, accoglie Maria nella sua dimora. Si rafforza così la figura di Giuseppe, uomo giusto, e disponibile al disegno divino (si veda il testo completo dello Pseudo Matteo in allegato). Sulla destra del primo registro, come già è stato anticipato, ammiriamo la presentazione al tempio e il secondo sogno di Giuseppe. L’incontro tra Gesù, Simeone e Anna, avviene secondo un’iconografia inconsueta e di non facile lettura, come singolare appare la scena dell’adorazione dei Magi nel secondo registro, dove il Bambino non figura in braccio alla Madre, bensì assiso su di un enorme trono gemmato, mentre essa gli siede accanto. I Magi non sono disposti in processione, bensì collocati uno alla sinistra e due alla destra del Bambino. Essi hanno gli occhi puntati sulla stella che il primo Mago indica, una stella enorme, posta sopra al Cristo, immagine, quella della stella, rievocata nel testo dello Pseudo Matteo: «Pure una enorme stella splendeva dalla sera al mattino sopra la grotta; così grande che non si era più vista dalla creazione del mondo. I profeti che erano a Gerusalemme dicevano che questa stella segnalava la nascita di Cristo, che avrebbe realizzato la promessa fatta non solo a Israele, ma anche a tutte le genti» (13, 7). Leone Magno, ricordando la stella dei Magi, ebbe a dire: «Nell’Oriente apparve a tre Magi una stella di insolito splendore, tale che superando in luminosità e bellezza tutte le altre stelle, facilmente attirava a sé gli occhi e la mente di coloro che l’ammiravano, così da far capire subito che non era senza ragione ciò che appariva tanto insolito. Colui che offrì questo segno, diede anche la capacità di intenderlo a coloro che osservavano il cielo, e quel che fece loro comprendere glielo fece anche cercare, e divenuto Egli stesso oggetto di ricerca fece sì che lo trovassero» (Sermone 12 sull’Epifania, 1. 3). Pietro Crisologo, il cui episcopato ravennate (426-450) coincide in parte con quello di Leone Magno, parlando dell’incarnazione del Verbo, nel quarto discorso sull’annunciazione indugia sulla luce della stella: «La sublimità dell’evento ci induce e la grandezza del mistero ci costringe a rinviare il discorso sulla nascita di Cristo. La Vergine ha partorito: chi parlerà? Il Verbo si è fatto carne: chi ne farà il racconto? Se il Verbo di Dio emette il vagito dell’infanzia, l’uomo, divenuto per tale motivo perfetto, come alzerà la sua voce per parlare del Verbo? Quanta luce di notte la stella offrì ai Magi che erano alla ricerca, altrettanta luminosità offre agli uditori il discorso di chi insegna [chi insegna è il vescovo] sulla nascita del Signore, affinché godano di aver trovato Cristo, non presumano di fare indagini, con doni onorino, non già avviliscano la sua infanzia. Ma pregate, fratelli, perché colui che gradatamente crebbe in un corpo come il nostro, a poco a poco si degni di crescere nella nostra parola» (Sermone 144, 1).
Ai Magi corrisponde la figura di Afrodisio, governatore della città di Sotine in Egitto, figura che con essi crea un perfetto parallelismo sul tema del riconoscimento della Signoria di Cristo da parte dei regni della terra. Afrodisio, più dei Magi, rappresenta i popoli pagani nella misura in cui l’Egitto simboleggia il luogo della più antica idolatria. Scrive Leone Magno: «Il Salvatore fu portato perfino in Egitto, perché quel popolo soggetto ad antichi errori fosse contrassegnato per la salvezza ormai vicina mediante la grazia nascosta, e pur non avendo ancora rigettato la superstizione dal suo cuore, offrisse ospitale accoglienza alla Verità» (Sermone 13, 1.4, secondo sull’Epifania). La storia di Afrodisio, riportata dallo Pseudo Matteo, racconta di quando Cristo entrò nel tempio di Sotine, detto il campidoglio d’Egitto, provocando la distruzione dei trecentocinquantacinque idoli «ai quali ogni giorno erano tributati, in modo sacrilego, onori divini. […] Quando la notizia fu riferita ad Afrodisio, governatore di quella città, venne al tempio con tutto il suo esercito. Visto che Afrodisio con tutto il suo esercito era venuto al tempio, i pontefici del tempio pensarono che si fosse affrettato per vendicarsi contro coloro a causa dei quali erano caduti gli idoli. Egli, invece, entrato nel tempio, visti tutti gli idoli giacere prostrati con la faccia a terra, si appressò alla Beata Maria che portava il Signore sul suo seno, l’adorò e disse a tutto il suo esercito e a tutti i suoi amici: – Se questi non fosse il dio dei nostri dei, i nostri dei non sarebbero assolutamente caduti davanti a lui con la faccia a terra, né giacerebbero prostrati al suo cospetto. Noi dunque se non faremo tutti, con la più grande attenzione, ciò che vediamo fare ai nostri dei, potremo incorrere nel pericolo della sua indignazione e andare tutti incontro alla morte, come accadde al faraone re d’Egitto il quale, non avendo creduto a così numerosi prodigi, fu sommerso in mare con tutto il suo esercito» (22, 2; 24, 1). Il terzo registro presenta la strage degli innocenti, qui raffigurata per la prima volta, e i Magi davanti al re Erode: egli compare come protagonista in entrambe le scene divenendo l’immagine del re illegittimo che, accecato dal potere di questo mondo, si chiude alla grazia. Eppure anche Erode, scrive Leone Magno, «finiva per favorire senza saperlo questo piano divino. Avvenne infatti che, mentre costui tutto preso dall’atroce delitto perseguitava il fanciullo a lui ignoto con una strage indiscriminata di bambini, la voce della nascita del Sovrano annunziata dal cielo si diffondeva dovunque con maggior risalto, resa più facile a divulgarsi e più precisa sia dalla novità del segno celeste che dall’empietà del sanguinario persecutore» (Sermone 13, 1.3 secondo sull’Epifania). Questi bambini, barbaramente uccisi, sono visti come i primi martiri della chiesa. A commento del passo evangelico Leone Magno ebbe a dire: «Egli, infatti, per mostrare quale sia la gloria preparata per quanti lo imitano, consacrò col martirio i fanciulli nati nei giorni della sua nascita; sicché, nati come Cristo a Betlemme, associati a Lui per la medesima età, essi divennero compartecipi della sua passione» (Sermone 18, 4.4).
L’arco sistino di Santa Maria Maggiore si pone come un potente manifesto dogmatico che dall’annunciazione sino alla strage degli innocenti esprime la fede nel Signore Gesù Cristo, l’Unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Colui che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Una simile espressione di fede ortodossa legata al mistero della nascita del Cristo doveva trovarsi a Ravenna, non a caso nell’omonima Basilica di Santa Maria Maggiore, basilica che il vescovo Ecclesio dedicò alla «santa e sempre Vergine immacolata Maria», nella cui volta absidale – come riportato dal Liber Pontificalis ravennate – era «l’effigie della Santa Madre di Dio e mai occhio umano ha potuto vedere qualcosa di simile ad essa. Chi abbia voluto a lungo contemplare quell’immagine, troverà sotto ai suoi piedi versi che dicono così: Rifulge l’aula della Vergine, che ricevette Cristo dal cielo e prima dal cielo venne un angelo ad annunziarlo. Mistero! Genitrice del Verbo ed eternamente vergine, e fu fatta madre del Signore che l’aveva creata. Riconoscono la verità i magi, gli zoppi, i ciechi, la morte e la vita. Ecclesio consacra il tempio a Dio».

  La fonte: https://giovannigardini.com/2014/12/15/il-mistero-dellincarnazione-nellarco-absidale-di-santa-maria-maggiore-a-roma/

  

 

     

  

La cooperazione con azioni moralmente cattive contro la vita umana, di Mons. LIVIO MELINA


La cooperazione con azioni moralmente cattive contro la vita umana

di Mons. LIVIO MELINA
Presidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia
   

Nel terzo capitolo dell’Enciclica Evangelium vitae Giovanni Paolo II esprime un giudizio di elevata autorità dottrinale sul disordine morale grave dell’aborto procurato (EV, (2), delle sperimentazioni sugli embrioni umani (EV, 63) e dell’eutanasia (EV, 65), applicando a questi tre tipi di azioni la valutazione etica negativa che sempre merita «l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente» (EV, 57). Questa rigorosa delimitazione dell’oggetto specifico del documento pontificio ad alcuni particolari attentati contro la vita umana nascente o terminale è esplicitamente motivata col fatto che essi presentano «caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità». (EV, 11).


I. CARATTERI PECULIARI DELLE ODIERNE MINACCE ALLA VITA
Se lungo la storia, in forme e circostanze differenti, la vita dell’uomo è stata sempre insidiata e continua ad esserlo in molti modi (EV. 10), nondimeno emergono oggi attentati alla vita con tratti nuovi, che introducono a dimensioni originali e a sfide inedite. In particolare tre caratteristiche peculiari connotano le problematiche attinenti all’aborto, alla sperimentazione sugli embrioni e all’eutanasia. In primo luogo, a livello di opinione pubblica, influenzata da campagne ideologiche a largo raggio, questi attentati alla vita tendono ad essere percepiti come «diritti della libertà individuale». In secondo luogo essi sono legittimati socialmente, perché attuati mediante la pratica medica: il contesto scientifico e l’autorità morale del servizio sanitario sono ampiamente sufficienti, agli occhi di molti, per renderli accettabili, anzi indiscutibili.
Infine, la normativa giuridica dello stato conferisce a queste pratiche l’accredito di una legge, approvata dalla maggioranza, dispensando da ulteriori scrupoli di coscienza.
Contrariamente a quanto affrettati e superficiali lettori hanno affermato, l’Evangelium vitae non è dunque un documento di morale sessuale e neppure semplicemente un documento di etica individuale.1 È invece un testo di grande rilevanza per la morale sociale, che si colloca nel solco della dottrina sociale della Chiesa, inaugurato nei tempi moderni dall’Enciclica di Leone XIII Rerum novarum, cui il Papa significativamente si rifà (EV, 5).2 In primo piano stanno le dimensioni sociali delle minacce alla vita, che tendono a formare una vera e propria «cultura della morte» (EV,12): si tratta di una mentalità individualistica, materialistica e antisolidaristica, che si chiude all’altro fino a negarne il diritto alla vita, di una ostilità che si consolida in vere e proprie «strutture di peccato».
L’azione del cristiano, chiamato a promuovere la vita e a costruire una «nuova cultura della vita» illuminata dal Vangelo (cap. IV), si trova inevitabilmente a fare i conti con le situazioni e le strutture determinate dalla cultura della morte. La questione della collaborazione moralmente possibile, per migliorare dal di dentro le condizioni, o piuttosto della denuncia profetica si colloca dunque al centro della problematica dell’Enciclica. Il tradizionale capitolo della «cooperazione con azioni moralmente cattive» acquista un’urgenza e una complessità nuove, rispetto al passato in forza del contesto sociale pluralistico nel quale il cristiano si trova ad agire. È questa dimensione inedita che occorre mettere a fuoco, prima di esaminare i principi che regolano la cooperazione e la loro applicazione alle situazioni morali specifiche attinenti l’aborto e l’eutanasia.

II. LA PROBLEMATICA DELLA COOPERAZIONE IN UNA SOCIETÀ PLURALISTICA E COMPLESSA

Capita sempre più di frequente, nell’ambito della società pluralistica, che l’azione di una persona entri, come contributo parziale, nel contesto di un’attività sociale più complessa, e che questa attività più complessa sia regolata e configurata, al di là delle intenzioni stesse dei soggetti agenti, da leggi non conformi al bene della persona. È il caso, ad esempio, dell’esecuzione di diagnosi prenatali effettuate nell’eventuale prospettiva di un aborto selettivo, oppure delle prestazioni sanitarie di radiologi o di altri analisti, che preparano le cartelle cliniche in vista dell’aborto; è la situazione di farmacisti, che vendono prodotti, poi usati contro la vita; oppure, ancora, di parlamentari che col loro volo favorevole ad una proposta di legge sull’aborto procurato o sull’eutanasia, pur contenente aspetti moralmente inaccettabili, possono contribuire a migliorare una legislazione più gravemente ingiusta rispetto al diritto alla vita. Tali situazioni o altre analoghe provocano difficili conflitti di coscienza a molte persone; esse si vanno moltiplicando nella nostra società.
  1. Agire insieme agli altri e «partecipare»
«Agire insieme» agli altri può costituire un indubbio arricchimento della persona, che così si apre alla comunione interpersonale e sociale e collabora ad un’opera comune.3 In effetti la persona non può attuare concretamente tutta la dimensione personalistica dell’atto se non nella partecipazione comune, superando quell’individualismo chiuso e concentrato unicamente sul proprio interesse, che vede gli altri solo come un limite all’attività e ai diritti del singolo, D’altra parte la comunità tra gli uomini non può fondarsi che sul pieno riconoscimento del valore della persona nel suo agire, il quale non può essere mai sacrificato mediante costrizioni deresponsabilizzanti da parte della collettività.
La partecipazione indica quel modo in cui, agendo con gli altri, la persona non solo non rinuncia al valore personalistico del proprio agire, restando pienamente responsabile del suo atto, ma altresì lo realizza in modo più pieno, tramite la comunione. Ciò esige dunque che, entrando in sinergia con l’azione altrui e con le dinamiche sociali, la soggettività responsabile, consapevole e libera, sia rispettata nelle sue esigenze e potenziata nelle sue dimensioni costitutive. Con ciò è descritto, nel suo elemento essenziale, il criterio antropologico di fondo per la valutazione della cooperazione. Esso è negato tanto dall’individualismo classico, che vede nella comunità solo un limite all’azione libera del singolo soggetto individuale, quanto dal totalitarismo collettivista, che sacrifica il valore personalistico dell’agire allo scopo oggettivo stabilito dalla società.
  1. Società complessa e pluralismo
Oggi però ci troviamo di fronte ad un complesso ibrido di individualismo e di collettivismo, nel quale proprio sotto l’egida della tolleranza e del pluralismo si profila il pericolo di un’espropriazione e di una deresponsabilizzazione della persona nel suo agire cooperante; il «pluralismo» infatti non è solo un dato di fatto delle odierne società secolarizzata dell’occidente, che sono profondamente divise riguardo ai valori essenziali su cui fondare l’esistenza e la vita comune, ma anche un’ideologia, ispirata al liberalismo radicale, la quale teorizza che proprio una tale condizione è ideale per la democrazia.4 L’ esclusione di qualsiasi verità sul bene, lo scetticismo gnoseologico e il relativismo etico sarebbero dunque l’unica garanzia per una vita sociale democratica. Da questo punto di vista, sembra prevalere un radicale individualismo: la collaborazione con gli altri non ha in se stessa nessun valore, se non quello meramente strumentale di favorire per ogni individuo il conseguimento di quei vantaggi che egli reputa di dover perseguire per il suo benessere.
D’altra parte, una qualche forma di vita sociale è comunque necessaria ed essa di fatto si realizza in forme sempre più coinvolgenti, benché valutata solo in termini meramente utilitaristici. Di conseguenza, le azioni che entrano nell’ambito dell’esercizio di funzioni pubbliche e professionali esigerebbero dalla persona la rinuncia a proprie valutazioni morali e l’adeguamento a quanto stabilito legalmente oppure a quanto richiesto dall’utente. La responsabilità della scelta viene delegata alla legge civile, mettendo da parte le proprie convinzioni di coscienza nell’ambito dell’azione pubblica. Come ha acutamente segnalato l’Enciclica (Ev. 69) si è di fronte a due tendenze solo «in apparenza diametralmente opposte»: da un lato l’esaltazione della totale autonomia morale della scelta individuale, dall’altro l’imposizione di adeguarsi obbligatoriamente a quanto stabilito dalla maggioranza nelle vesti di un funzionario pubblico. In realtà, alla radice di una tale separazione della morale privata da quella pubblica sta l’identica negazione del vincolo costitutivo che lega la libertà alla verità: nel privato la perdita di questo nesso apre la strada ad un arbitrio senza limiti da pane del singolo individuo, nell’ambito pubblico essa sfocia nell’imposizione totalitaria da parte dello stato di scelte, che esigono l’abdicazione alla propria coscienza.
Il cristiano impegnato nella vita professionale pubblica si trova spesso associato alla banalizzazione di una morale che non è più la sua. Dal punto di vista delle professioni più attinenti al rispetto della vita, si assiste così ad una tendenziale deformazione delle fisionomie del medico e del legislatore. Vale la pena di accennare a qualche elemento della nuova situazione in cui essi vengono a trovarsi, nel contesto della società pluralista.
  1. Le sfide al medico e al legislatore
Certamente la pratica medica implica una pluralità di dimensioni, che si articolano tra loro differentemente secondo la situazione storica particolare. La dimensione scientifica, anzi tecnica, rischia oggi di soverchiare l’originaria ed essenziale intenzione pratico-terapeutica. D’altra parte gli abusi dell’oggettivazione tecnica, che conosce e analizza solo sintomi particolari e perde la visione complessiva del malato come persona, non deve portare ad esasperare la funzione del medico, affidandogli un compito eccessivo di salvezza globale.5 L’inserzione della pratica medica all’interno del contesto sociale, secondo rapporti codificati, può portare alla perdita di responsabilità diretta e personale del medico nei confronti del paziente.
Ecco allora gli abusi della cosiddetta «medicina dei desideri», in cui il medico si considera semplicemente come un tecnico della corporeità, che mette a disposizione i suoi servizi ad un utente che chiede manipolazioni varie, assumendosene tutta la responsabilità. In tal caso nella cooperazione del medico viene elusa ogni responsabilità morale. Così sono fatte rientrare nella medicina anche pratiche che nulla hanno a che fare con la terapeuticità e con la salute, quali la contraccezione, la sterilizzazione, l’aborto, l’eutanasia. In questa concezione, che va affermandosi soprattutto nelle società liberali anglosassoni, il medico si deresponsabilizza di ogni dimensione etica della medicina, lasciando la totale responsabilità degli atti che compie a chi glieli chiede. Oppure, delegando allo stato di decidere quali atti si possano lecitamente compiere e quali invece sia illecito fare.
D’altro canto al legislatore si chiede sempre più frequentemente di prescindere dalle sue convinzioni di coscienza private, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche. Capita di sentire politici affermare che un conto sono le loro convinzioni personali circa la morale e un conto le esigenze del loro ruolo pubblico. Anche quando si tratta non solo di valori etici essenziali, ma di diritti fondamentali dell’uomo, che stanno alla base di ogni giusto ordinamento, il parlamentare deputato a legiferare dovrebbe semplicemente farsi portavoce dei suoi elettori e cercare di mediare le diverse istanze, in modo da conformarsi alle aspettative della maggioranza. In una prospettiva del tutto agnostica circa i valori della persona e del bene comune, il punto di riferimento dell’azione, non solo politico-amministrativa, ma anche legislativa, sarebbe l’opinione prevalente, la quale, ovviamente potrebbe sempre essere frutto di ben calcolate manipolazioni.
Dall’analisi precedentemente svolta circa i pericoli di un’azione di collaborazione all’interno delle odierne società pluralistiche, emerge una domanda: a quali condizioni è possibile una «partecipazione» autentica, nella quale si eviti l’abdicazione della responsabilità del singolo e la conseguente complicità col male, e si incrementi la persona e il bene comune della società?
III. DISTINZIONI CLASSICHE CIRCA LA COOPERAZIONE E LORO REINTERPRETAZIONE
Come afferma il padre M. Zalba, le questioni relative alla cooperazione al male morale possono considerarsi le più difficili da risolversi.6 La manualistica classica si è trovata talvolta in un grave imbarazzo nella valutazione di una tale fattispecie. La difficoltà diventa ancora più rilevante oggi, dal momento che non si tratta più solo di cooperazioni di un singolo soggetto con un altro, ma dell’inserimento di una certa azione all’interno di un contesto complesso, determinato da abitudini codificate di tolleranza entro una società pluralistica oppure addirittura dalla legge dello stato.
  1. I criteri della tradizione manualistica
Alla ricerca di elementi certi per la valutazione etica, la criteriologia tradizionale ha distinto tra cooperazione formale e materiale, tra cooperazione mediata e immediata, prossima e remota, necessaria e non necessaria7. Si può partire da queste distinzioni tradizionali, che mantengono una loro validità, per cercare di reinterpretarle alla luce di una migliore teoria dell’azione, nella ricerca di strumenti ermeneutici più adeguati all’attuale complessità della situazione.
La distinzione fondamentale e decisiva è certamente la prima, quella tra cooperazione «formale» e cooperazione «materiale». Sant’ Alfonso definiva quella formale sulla base del concorso del cooperante alla cattiva volontà altrui: essa si verifica quando chi coopera condivide l’intenzione eticamente negativa dell’agente principale.8
Giustamente Prümmer sentiva il bisogno di precisare ulteriormente che questo concorso può intervenire non solo «ex fine operantis» – per l’esplicita condivisione soggettiva dell’intenzione cattiva dell’agente principale -, ma anche «ex fine operis», cioè quando l’oggetto morale dell’atto di cooperazione non ha altra finalità intrinseca se non quella di contribuire al male voluto dall’agente principale.9 È quindi cooperazione formale quella che include necessariamente il consenso della volontà al peccato altrui: essa non può mai essere lecita. Nella cooperazione materiale invece il male commesso dall’agente principale può essere detto un abuso ed è veramente un effetto collaterale, forse anche previsto, ma certo non voluto, al di là delle intenzioni di chi coopera (praeter intentionem).10 In quella materiale, potendo distinguersi l’intenzione di chi coopera da quella di chi vuole il male, sarà possibile stabilire condizioni e limiti di accettabilità morale.
La seconda distinzione tradizionale è quella tra cooperazione «immediata» e cooperazione «mediata». Immediata è quella che si verifica quando non c’è soluzione di continuità tra l’agire principale e l’agire di chi collabora; mediata, quando al contrario si può rilevare uno stacco ed è necessaria un’ulteriore decisione, perché colui che fa il male possa procedere all’esecuzione del suo proposito.
Altre distinzioni riguardano la distanza tra l’azione di chi collabora e quella cattiva dell’agente principale (cooperazione prossima o remota), oppure ancora la necessità o meno dell’azione di collaborazione ai fini dell’esecuzione dell’atto moralmente negativo (cooperazione necessaria e non necessaria).
Per quanto riguarda la cooperazione ad un’azione ingiustamente dannosa verso un’altra persona (damnificatio cooperativa), la manualistica ha elencato ben nove fattispecie: iubens/mandans; consulens, consentiens, participans, palpo (adulans), recursum praebens, mutus, non obstans, non manifestans.11 Le prime tre forme di cooperazione implicano necessariamente una condivisione dell’intenzione cattiva e sono quindi formali e sempre illecite.
La tradizione casistica ha cercato quindi di offrire una criteriologia accurata soprattutto per determinare l’eventuale liceità della cooperazione materiale mediata. Vanno menzionati alcuni elementi fondamentali, sempre utili per un discernimento concreto:
  1. a) la distanza maggiore possibile dall’atto cattivo dell’agente principale, così che l’atto di chi coopera possa dirsi semplicemente un’occasione, senza cattiva intenzione, di cui un altro abusa per peccare12 – quanto più la cooperazione è «remota» tanto più facilmente può essere riconosciuta come lecita moralmente -.
  2. b) la presenza di ragioni proporzionatamente gravi. Come dice Sant’Alfonso13, o impedire l’abuso, che altri possono fare, di un atto in sé non cattivo è materia di carità, ma la carità non obbliga «cum gravi incommodo». Pertanto, quando ci sia una giusta causa non è peccato porre un atto di cooperazione.
  3. c) la tentazione di passare a poco a poco ad una cooperazione formale, date le circostanze particolari della collaborazione prestata.
  4. d) infine la questione dello scandalo, cioè dell’apparenza di approvazione del male. Tale questione è tanto più rilevante quando riguarda comportamenti di religiosi, ospedali cattolici, persone che rivestono posizioni di rappresentanza di associazioni cattoliche. Si deve anche rammentare la responsabilità profetica della Chiesa 14, per cui talvolta può essere meglio richiamare con rigore e nettezza la posizione di principio, che dare l’impressione di essere scesi a compromessi. Talvolta anche la cooperazione materiale può essere moralmente negativa in quanto contraddice al dovere di testimoniare la verità e di ammonire altri ad evitare il male.
  5. e) va anche precisato che, stante la difficoltà della materia, l’applicazione di queste distinzioni ai casi concreti è sottoposta al giudizio della prudenza.15
In sintesi: solo gravi responsabilità morali possono giustificare la cooperazione materiale all’azione cattiva compiuta da altri.
Nella ricerca di un’oggettività sempre maggiore, si passa quindi dalla considerazione della dimensione interiore a quella della connessione esteriore dell’atto cooperativo con l’azione moralmente negativa dell’agente principale. L’attenzione si sposta così sempre più dal livello intenzionale al livello esecutivo esterno. Così si afferma chiaramente che non basta che un’azione ponga una conditio sine qua non per essere moralmente ingiusta, ma occorre che essa sia efficaciter iniusta: solo quando c’è un influsso causale efficace sull’atto cattivo, si può parlare di partecipazione all’azione ingiusta.16 Avvenendo il pericolo di un’eccessiva soggettivizzazione dei criteri di valutazione qualora ci si fermi troppo alla considerazione dell’intenzione, che dà forma all’agire cooperante, la manualistica mette a fuoco l’influsso effettivo ed efficace sull’agire esterno. La valutazione della cooperazione oscilla così tra il criterio formale della condivisione dell’intenzione, sospettato di soggettivismo, e il criterio materiale dell’influsso causale sull’atto esterno, che tende a diventare oggettivistico.
  1. Alla ricerca di una nuova impostazione
Il limite di questa impostazione, che rimane talvolta incerta e persino inconcludente nell’esame di casistiche concrete, è dato dalla prospettiva di fondo in cui essa si colloca e che è tipica non solo della manualistica – a partire da Suarez -, ma di tutta la morale moderna – a partire da Hobbes -. Essa, in opposizione all’etica classica, coglie l’atto umano dal punto di vista di un osservatore esterno: si tratta di un’«etica della terza persona», elaborata nella prospettiva del giudice o del confessore, che guarda l’atto esterno e, per valutarne l’imputabilità soggettiva da esso risale all’elemento interiore dell’intenzionalità.17 Al contrario, l’impostazione classica, e in particolare tomista, si pone dal punto di vista del soggetto agente, che progetta un’azione: essa si qualifica come un’«etica della prima persona». Mentre quest’ultima pone al centro l’intenzione del soggetto agente nella sua dinamica costruttiva dell’atto, per le etiche moderne al centro sta una regolazione esterna del comportamento, mediante le norme e i precetti. Nella prospettiva della terza persona in primo piano sta l’atto esterno, valutato moralmente in rapporto alla norma – «etica della legge» -: l’intenzione è un elemento che si aggiunge solo successivamente per stabilire l’imputabilità, Invece nella prospettiva della prima persona l’azione è colta dall’interno del soggetto, nella sua identità intenzionale oggettiva; la sua valutazione morale è misurata prima che dalle norme stabilite esternamente e formulate linguisticamente, dalla ragione pratica e dai suoi principi cioè dall’ordine delle virtù morali – «etica delle virtù».18
Le precedenti considerazioni hanno una rilevanza particolare anche per quanto riguarda il nostro tema della cooperazione con le azioni cattive.19 Le distinzioni tradizionali della manualistica possono trovare un’illuminazione più adeguata e un’espressione più sintetica facendo perno sull’oggetto dell’atto della cooperazione. Tale prospettiva è conforme all’insegnamento della Veritatis splendor, secondo cui «la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata» (n. 8); l’oggetto va inteso però non in senso materiale ed estrinseco, bensì «nella prospettiva della persona che agisce», cioè come «fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto del volere della persona che agisce».
L’oggetto di un atto, che determina la sua specie morale, è, secondo san Tommaso d’Aquino, aliquid a ratione constitutum», una forma a ratione concepta20: è il contenuto della scelta colto dalla ragione come essenziale per costituire l’identità dell’atto. La natura di un atto, nella prospettiva del soggetto che agisce, implica sempre un’intenzionalità immanente, che determina il «perché» esso è voluto. L’identità intenzionale di base dell’atto permette di stabilire il suo significato oggettivo, distinguendolo sia dalle ulteriori intenzioni soggettive per cui esso è fatto (finis operantis), sia dalle conseguenze previste, ma non volute (praeter intentionem) 21 Appartiene alla virtù della prudenza cogliere il contesto in cui si agisce e quindi riconoscere i tratti intenzionali intrinseci dell’azione, che ne determinano oggettivamente l’identità.22 Questa prospettiva, originale rispetto a quella consueta, permette una ripresa delle distinzioni della tradizionale casistica cattolica, in una forma che sembra nello stesso tempo coerente con essa e più soddisfacente.
L’essenziale distinzione tra cooperazione formale e materiale può essere riespressa a partire dal criterio dell’oggetto: è formale infatti non solo la cooperazione esplicitamente manifestata mediante un atto di volontà, ma anche quella implicitamente determinata per il fatto che nessun altro significato può ragionevolmente connotare l’identità dell’azione e distinguere l’oggetto dell’atto di chi coopera dall’oggetto dell’atto di chi intende fare l’azione cattiva. L’atto della cooperazione non risulta semplicemente dalla giustapposizione tra un agire esterno e un’intenzione soggettiva, che potrebbero arbitrariamente separarsi. Se fosse così si aprirebbe l’eventuale discussione, senza prospettive di soddisfacente soluzione, tra una soggettivistica accentuazione dell’intenzione e un’oggettivistica enfatizzazione dell’aspetto puramente esteriore con le sue connessioni di causalità fattualmente efficace. Decisivo è invece stabilire l’identità oggettiva dell’atto di collaborazione, cioè l’intenzionalità intrinseca che lo connota.
Anche per quanto riguarda l’altra distinzione, di connessione immediata o mediata tra l’atto cooperante e l’azione cattiva dell’agente principale, la situazione può essere illuminata nella prospettiva dell’oggetto. La cooperazione immediata si verifica quando vi è un’identità tra l’oggetto dell’azione di chi coopera con quello di chi è l’agente principale. La seconda si dà quando è possibile distinguere e la collaborazione può dirsi solo remota. Va quindi rilevato che la cooperazione immediata si identifica con quella formale ed è pertanto sempre illecita; tuttavia può darsi una cooperazione immediata non formale quando si è di fronte ad una costrizione. Per la verità, qui si dovrebbe dire che non si tratta più di un atto umano in senso proprio, ma in fondo è solo questione di linguaggio.

IV. LA COOPERAZIONE NELL’AMBITO DI UNA LEGGE INGIUSTA
Consideriamo ora quel tipo di cooperazione al male che ha connessione con le legislazioni civili, le quali in molti paesi presentano aspetti in contraddizione col rispetto del diritto alla vita dovuto ad esseri umani innocenti. La situazione di fatto pluralistica del contesto sociale pone nuove questioni ai legislatori, agli operatori sociali e sanitari e ai cittadini.
  1. Leggi civili e legge morale
È chiaro che le leggi civili non hanno né il potere, né il compito di tutelare l’ordine morale come tale.23 Esse devono assicurare il bene comune delle persone attraverso il riconoscimento e la difesa dei diritti fondamentali, la promozione della pace e della pubblica moralità.24 Talvolta esse devono tollerare, in vista dell’ordine pubblico ciò che, se fosse proibito, provocherebbe un danno più grave.25 La tolleranza non può essere tuttavia indiscriminata e totale: qualora riguardasse un diritto fondamentale della persona, come quello alla vita, un tale atteggiamento del legislatore umano si trasformerebbe in complicità e significherebbe la fine della stessa ragion d’essere della vita politica. Essa non può richiamarsi al rispetto della decisione di coscienza altrui (pro choice) quando è in gioco il diritto alla vita. Anche la tolleranza ha dei limiti: tollerare tutto è essere intolleranti verso la giustizia e il bene comune.
Una legge che misconosca uno dei fondamentali diritti dell’uomo, come quello della vita è dunque non solo una legge «imperfetta»26, ma «ingiusta» (EV, 72). Possiamo così comprendere il giudizio forte e netto che l’Evangelium vitae esprime a riguardo delle leggi civili sull’aborto e sull’eutanasia: «Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante» (EV, 72). Si tratta di un giudizio che si colloca all’interno della prospettiva propria della legge civile: definisce infatti le leggi che autorizzano l’aborto e l’eutanasia come «leggi ingiuste», e perciò anche immorali.
Ci troviamo oggi in una situazione di pluralismo tale per cui anche gli stessi fondamenti etici della convivenza civile sono messi in discussione. I contenuti basilari dei diritti dell’uomo, che pure restano formulati nelle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e nelle Carte costituzionali, non sono più ritenuti come immutabilmente sanciti una volta per tutte a partire dalla legge naturale27, ma piuttosto sono sentiti come valori validi in quanto riconosciuti in un determinato momento storico. È allora il consenso sociale l’unico punto di riferimento per la determinazione di quanto va difeso dalle leggi civili. Il principio della maggioranza diventa l’unico criterio della verità così che il carattere democratico della società è ricondotto solo alla correttezza delle procedure formali con cui viene reperita l’opinione prevalente.
Come possono e debbono agire i cristiani in un tale contesto pluralista? Già Pio XII intervenne con un importante discorso all’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, il 6 dicembre 1953, offrendo i principi per un comportamento moralmente adeguato.28 Egli parte dalla distinzione tra situazione ideale dal punto di vista dei principi e situazione come si dà di fatto. In considerazione delle possibilità realistiche di quest’ultima, il Papa riconosce che non sempre i politici possono porre come norma ultima della loro azione quella di reprimere il male. Nell’interesse di un bene superiore e più vasto essi possono evitare di intervenire. Nella valutazione concreta della situazione di fatto Pio XII riconosce che la competenza spetta al giurista.
Dopo aver delineato gli aspetti di carattere generale della problematica, cerchiamo ora di prendere in considerazione alcune casistiche più determinate, relative alla cooperazione nell’ambito della legge civile.
  1. L’azione del legislatore
Una prima serie di questioni si pone al legislatore nella preparazione e nella realizzazione concreta della legge civile: il contesto procedurale dei lavori parlamentari comporta interventi a livello di proposta di legge, di lavoro di commissione di emendamenti, di votazioni. L’Enciclica Evangelium vitae invita ad intervenire non solo per promuovere leggi pienamente rispettose del diritto alla vita – obiettivo che rimane sempre prioritario -: ma, qualora ciò non fosse realisticamente possibile, anche «per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge già in vigore o messa al voto» (EV, 73).
Per valutare adeguatamente la situazione e cogliere l’oggetto dell’atto di cooperazione, che qualifica moralmente la scelta, come è la metodologia suggerita dalla Veritatis splendor, occorre «collocarsi nella prospettiva della persona che agisce» (n. 78), cioè, per il caso presente, nella prospettiva del legislatore. In tal senso, al di là dell’aspetto esteriore di un’iniziativa procedurale, della formulazione esteriore di un emendamento proposto o di una legge votata, occorre cogliere il significato oggettivo e sostanziale dell’intervento nel contesto concreto della situazione giuridica.29 Ad esempio, la proposta di rendere lecito l’aborto fino alla sedicesima settimana di gravidanza, al di là delle apparenze, può essere un giustificato tentativo di opporsi nei realistici limiti del possibile ad una legge ancor più ingiusta in vigore, che preveda la liceità dell’aborto fino alla ventiquattresima settimana, quando non fosse possibile ottenere il consenso parlamentare sufficiente per una norma legislativa più giusta: «Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare […] potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica» (EV, 73). Dove “offrire il proprio sostegno” è riferito al votare a favore di una legge meno cattiva – ma pur sempre cattiva – promossa da altri, non dal parlamentare stesso. Naturalmente il parlamentare che così agisse avrebbe il dovere di giustificare il senso del suo comportamento e di manifestare la sua posizione assolutamente in favore della vita, per evitare lo scandalo.
  1. La collaborazione nei consultori previsti dalle leggi sull’aborto
Un’altra situazione problematica è quella posta dall’applicazione delle leggi sull’aborto in alcuni paesi – come la Germania e la Francia -, che prevedono una consultazione previa con funzione tendenzialmente dissuasiva e che sanciscono l’obbligo di una certificazione di questa consultazione come condizione necessaria per poter accedere ad aborto depenalizzato ed assistito pubblicamente. Si pone allora la grave e difficile questione morale: è lecito al singolo – e in certe situazioni, alla Chiesa come tale – intervenire in questa fase consultiva, cercando di favorire l’accoglienza della vita nascente, accettando però di firmare dei certificati che sono di fatto, per la configurazione data loro dalla legge, e al di là del loro tenore verbale, delle autorizzazioni a ricevere l’intervento abortivo?
In questo caso si deve riconoscere l’intenzione dissuasiva dall’aborto di chi partecipa alla consulenza ed anche la presenza di risultati positivi: almeno alcune donne incinte vengono persuase a rispettare la vita del bambino che portano in sé e a proseguire la gravidanza. Ma le intenzioni e le conseguenze di un atto non sono né l’unica, né la principale fonte per la valutazione della sua moralità. In realtà il vero problema non è la consulenza in se stessa, ma il suo inserirsi in una procedura legale mediante il rilascio di un certificato, che a norma di legge e al di là del suo tenore verbale, è titolo necessario e sufficiente per accedere all’aborto assistito. Nell’atto del rilascio il consulente agisce come ufficiale pubblico, compiendo atti, che hanno il valore giuridico attribuito loro dalla legge. E il significato primario e principale dell’attestato di avvenuta consulenza, oggettivamente stabilito dalla legge, è quello di permettere l’accesso all’aborto: la donna lo chiede per questo motivo. E quando essa lo presenta alla clinica per ottenere l’aborto, si deve dire che essa ne usa e non che ne abusa.
Una conferma di questo aspetto di partecipazione diretta all’azione ingiusta, come collaborazione formale ex fine operis, è dato dal fatto che, come documentano testimonianze degne di fede, il senso stesso del dialogo consultivo tende ad essere falsato dal suo condizionamento legale e dalla prospettiva di un certificato necessario per poter abortire. Lo stesso consulente tende a subordinarsi alla logica perversa della legge, che rinuncia a difendere la vita del bambino non ancora nato e mette in primo piano il rispetto della decisione di coscienza della donna, e ad essere reticente nel giudizio morale sull’aborto.
  1. Testimonianza profetica e disobbedienza civile
Nella linea opposta a quella della collaborazione, si trova la scelta di taluni di resistere alle leggi gravemente ingiuste contro la vita mediante la protesta pacifica o anche mediante la disobbedienza civile.30 Quest’ultima può essere definita come un metodo specifico di lotta politica contro leggi ingiuste o contro politiche governative attraverso metodi moralmente accettabili. Si tratta, in pratica di una aperta violazione delle leggi ingiuste, al fine di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, evitando azioni ingiuste contro altri e contro il bene comune e mostrando il proprio rispetto dell’autorità, anche coll’accettare la pena conseguente al proprio gesto.31
Al di là della legittima violazione della legge ingiusta si pone qui il problema morale se un gesto simile non contribuisca a distruggere l’autorità della legge come tale e non finisca quindi per danneggiare comunque il bene comune. Si tratta certamente di valutare la situazione concreta, per vedere se con la disobbedienza civile non si vada contro responsabilità morali più gravi, ma in linea di principio la legittimità di questo atteggiamento non può essere esclusa, alle condizioni sopra menzionate. Si tratterebbe qui comunque di un gesto di testimonianza profetica, corrispondente alle esigenze di una vocazione personale, non obbligatoria per tutti.32 Quando non si violino leggi morali che si impongono a tutti, resta infatti aperto lo spazio ad un pluralismo di opzioni e a scelte storiche che possono essere divergenti, talune di cooperazione in vista di un miglioramento della situazione, altre di resistenza e di opposizione. Ogni cristiano ha un suo specifico ruolo da svolgere nella storia della salvezza e nell’impegno nel mondo, per corrispondere alla sua missione e vocazione battesimale.
  1. L’obiezione di coscienza
Per tutti si impone, invece, il «grave e preciso obbligo morale di opporsi» alle leggi ingiuste contro la vita umana nascente o declinante «mediante obiezione di coscienza», (EV, 73), quando esse prevedano il compimento di atti gravemente immorali. Se si verifica infatti la situazione per cui la collaborazione con una legge ingiusta è manifestamente una cooperazione formale, oppure anche una cooperazione materiale senza ragioni proporzionate e cogenti, allora «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29), astenendosi dal compiere atti che sono contrari ai comandamenti di Dio e all’amore del prossimo.
Il dovere naturale dell’astenersi da ciò che la propria coscienza giudica come moralmente cattivo dovrebbe essere garantito anche a livello legale.33 Si dovrebbe agire perché le leggi ingiuste garantiscano almeno la libertà di coscienza. Spesso infatti si verifica una strana e paradossale contraddizione: mentre da un lato viene esaltata l’autonomia della coscienza nelle scelte private, fino a rivendicare il diritto di aborto e di eutanasia contro il diritto del bambino e/o il bene comune; d’altra parte si esige che nell’esercizio delle funzioni pubbliche e professionali la persona prescinda dalle proprie convinzioni e compia gli atti legalmente prescritti (cf. EV, 69). In realtà mai, neppure nell’ambito dei servizi pubblici, si può abdicare alla propria coscienza, la quale trova la propria dignità nell’obbedienza alla verità e nel rispetto delle altre persone e dei loro diritti.
V. ALCUNE ALTRE SITUAZIONI DI COOPERAZIONE CONNESSE AL RISPETTO DELLA VITA
In modo esemplificativo si può ora passare alla considerazione di alcuni altri casi particolari di cooperazione, ai quali si applicano i principi appena esposti.
  1. La collaborazione di medici e personale sanitario all’aborto
Una prima difficile situazione è quella che si pone a coloro che, nell’ambito del servizio sanitario pubblico, si trovano di fronte alla possibilità di collaborare con l’aborto procurato, in molti paesi legalmente previsto – e forse un domani anche all’eutanasia -. È sempre illecita l’azione abortiva diretta e la collaborazione formale ad essa, mediante l’esecuzione dell’aborto. Non è mai lecita la cooperazione prossima all’azione abortiva diretta,34 che si verifica nella certificazione medica, nell’assunzione di esami radiologici ed ematologici richiesti esplicitamente in vista di un aborto, nell’autorizzazione concessa dai giudici tutelari per le minori. Il pericolo di scandalo può rendere lecite anche altre forme di cooperazione non prossima, soprattutto per la posizione di alcune persone, si pensi ad esempio alle religiose … È invece lecita l’assistenza antecedente, diagnostica e consultiva, se non specificamente e necessariamente finalizzata a determinare l’interruzione della gravidanza. L’assistenza conseguente all’aborto non pone invece problemi morali di cooperazione, anzi può essere testimonianza di umana sollecitudine e attenzione.35
  1. La diagnosi prenatale
Nell’ambito delle questioni relative al rispetto della vita umana embrionale e ferale, l’Enciclica Evangelium vitae affronta anche il problema della diagnosi prenatale36 (EV, 14 e 63). Si tratta di sistemi di osservazione e di analisi per stabilire le condizioni di salute dell’embrione e del feto. In se stesse queste pratiche diagnostiche, quando non comportino rischi sproporzionati per la vita dell’embrione o del feto, sono pienamente legittime.
Le difficoltà più gravi nascono dalle connessioni che possono stabilirsi, a livello intenzionale o anche istituzionale con l’aborto, in dipendenza dai risultati della diagnosi prenatale. Si può infatti configurare la specie morale della cooperazione all’azione abortiva. Va qui prestata attenzione alle finalità per cui viene fatta la diagnosi. Ci può essere una finalità terapeutica in favore del piccolo essere umano, anzitutto. Un tempo le possibilità terapeutiche all’interno del seno materno erano molto limitate e praticamente quasi inesistenti; oggi si stanno sviluppando, con successi promettenti, tecniche di intervento endoscopiche e chirurgiche. Una seconda finalità può essere informativa: la madre e il padre del bambino possono essere rassicurati da timori – è il caso del 98% delle diagnosi -, oppure possono prepararsi con maggior disponibilità ad accogliere la vita di un bambino, che avrà problemi fisici o psichici più o meno gravi. La forte riserva morale sulle diagnosi prenatali deriva però da un facile scivolamento all’aborto, come soluzione più semplice e quasi obbligata, quando venissero diagnosticate malformazioni o malattie ereditarie. Procedere alla diagnosi con questa intenzione eventuale significa cadere in una pratica eugenetica. La situazione sarebbe ancora più gravemente evidente quando le stesse strutture socio-sanitarie o le istituzioni di assistenza medica consigliassero o imponessero condizioni che favorissero l’aborto selettivo, in caso di esito diagnostico non felice. Facilmente si potrebbe passare alla pianificazione e all’imposizione di una strategia eugenetica a livello di tutta la popolazione.
  1. Sperimentazioni sugli embrioni umani
L’etica delle sperimentazioni sugli embrioni e sui feti umani, cui hanno aperto la strada le differenti tecniche di procreazione artificiale e, particolarmente, la fecondazione «in vitro», deve trovare il suo punto di riferimento nel principio che Evangelium vitae riprende in proposito dall’Istruzione Donum vitae: «L’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita» (EV, 60). Ciò significa che quel piccolissimo essere umano dev’essere sempre considerato e trattato come un fine e mai unicamente come un mezzo per altro: è un soggetto e non una cosa da usare per altro. Per quanto gli scopi delle sperimentazioni possano essere importanti e nobili gli intenti dei ricercatori, ciò non basta a legittimare la violazione dei diritti dell’embrione. Vanno quindi applicate in proposito i criteri, già noti netta deontologia medica e stabiliti dalla Dichiarazione di Helsinki del 1964. 37
Problemi specifici di cooperazione possono crearsi quando si tratta di ricerche svolte sui corpi di feti provenienti da aborti procurati. Di per sé, trovandosi di fronte a piccoli cadaveri, atteso il rispetto dovuto e ottenuto il consenso, possono essere utilizzati per ricerche e sperimentazioni. Va però fatta molta attenzione alle eventuali connessioni che possano stabilirsi tra aborto procurato e sperimentazioni su feti abortiti. Possono infatti verificarsi interessi tali da configurare un’approvazione dell’aborto o addirittura una complicità con esso da parte dei ricercatori, che magari favoriscono l’esecuzione dell’aborto secondo determinate modalità e in un tempo determinato, oppure trattano il feto vivo con certe sostanze, in vista delle loro successive indagini.
Va sottolineato che il rifiuto di prestarsi ad azioni contro la vita da parte dei medici e del personale sanitario in genere non implica il venir meno alla loro professionalità. Al contrario significa difenderne l’originaria identità ippocratica al servizio della vita. È proprio per ragioni di deontologia medica che essi devono sentirsi obbligati ad obiettare a certe pratiche in realtà non mediche, anche se questo rappresenterà una testimonianza difficile, che costa sacrifici e forse anche pesanti condizionamenti sulla propria carriera.
  1. La cooperazione nell’ambito della professione del farmacista
Analoga è la situazione in cui vengono a trovarsi i farmacisti, quali si trovano di fronte alla messa in commercio di prodotti che nulla hanno a che fare con un’autentica terapeuticità: è il caso non solo dei contraccettivi, ma soprattutto degli abortivi – come la spirale, la pillola del giorno dopo o, forse in futuro, di quella del mese dopo – e degli eutanasici. Come ha richiamato loro Giovanni Paolo II, 38 essi non sono semplici commercianti o distributori neutrali di ciò che viene chiesto; la dignità del loro servizio professionale esige che vivano responsabilmente e in favore della vita il ruolo di mediazione tra medico e paziente, Dovranno rifiutarsi quindi di distribuire ciò che è contro la vita, direttamente o surrettiziamente. La vendita di prodotti, che fossero unicamente destinati ad uno scopo contrario alla vita, dev’essere oggetto di obiezione. Mentre non si dà un dovere positivo di assicurarsi che non vi saranno abusi quando si tratti di medicinali con varie indicazioni, tra cui alcune lecite.
  1. Il problema delle tasse
Alcuni moralisti hanno posto anche il problema della liceità morale di pagare le tasse, o anche addirittura della doverosità morale di astenersi dal pagarle, quando il sistema legislativo preveda che i contributi fiscali servano a finanziare, tramite il sistema sanitario pubblico, azioni contro la vita. Va qui osservato, da un lato che il contributo fiscale del singolo è dato al bilancio dello Stato come un tutto e non ad una singola voce di bilancio. Non si può quindi parlare in questo caso di doverosità di evitare una cooperazione formale all’atto criminoso dell’aborto procurato. D’altro canto si deve notare che l’obbligo morale di pagare le tasse, contribuendo così alla vita comunitaria, non viene meno per il fatto che vi siano abusi. Nonostante le buone intenzioni soggettive, il rifiuto di pagare le tasse potrebbe configurarsi come un sottrarsi individualistico alla logica del bene comune della società. Altre quindi possono e devono essere le vie per mutare le legislazioni inique che permettono l’aborto e altre violazioni del diritto alla vita. In ogni caso queste difficili problematiche della cooperazione al male pungono in positivo la questione della cooperazione al bene, cioè del doveroso contributo culturale, sociale e politico ad una «civiltà della vita». Non basta insomma evitare di compromettersi col male; anzi: proprio per evitare queste compromissioni, occorre farsi protagonisti di un’efficace e intelligente azione sociale.
CONCLUSIONE
Se guardiamo ora le problematiche della cooperazione al male da un punto di vista non più solamente etico, ma anche teologico, così come è compito di un’autentica teologia morale, dobbiamo riconoscere che la condizione dell’agire del cristiano nella storia è per tanti aspetti veramente paradossale.39 Egli si trova ad operare nel mondo, ma senza poter adempiere le attese del mondo. Nel suo agire egli deve fare i conti coi limiti connessi con la creaturalità e con la presenza del peccato, che implicano innumerevoli e penose resistenze. Non di meno deve cercare di introdurre proprio nella condizione storica il nuovo, per far maturare già fin d’ora il mondo verso il Regno.40
Come si è visto, anche per quanto riguarda il rispetto della vita umana il cristiano è talvolta lacerato nella difficile scelta tra la collaborazione, che accetta inevitabilmente limiti e forse anche compromessi per migliorare dal di dentro le situazioni, e la testimonianza profetica, che afferma con nettezza il valore della vita. La luce del Vangelo fa splendere il valore della vita umana (2Tim 1,10) col dono della vita divina.41 Spinge così ad impegnarsi fattivamente in favore della vita, verso un’autentica «civiltà della vita». Se la Chiesa come tale è il «popolo della vita», che rende testimonianza al valore della vita, vi è certamente al suo interno una differenza tra vocazione laicale, chiamata piuttosto ad inserire nelle realtà temporali la novità evangelica,42 e testimonianza profetica dei religiosi, che devono ricordare e anticipare le realtà escatologiche. All’interno dei diversi stati di vita si delineano poi le singolarissime vocazioni personali di ciascuno, perché ognuno è chiamato ad una missione originale.
La teologia morale ha svolto finora il compito essenziale di delimitare l’ambito della liceità di certe forme di cooperazione al male, attraverso l’analisi della struttura dell’atto umano e le distinzioni che ne conseguono tra varie forme di partecipazione. Ciò lascia aperto però il campo al discernimento positivo del contributo da offrire al sorgere della civiltà dell’amore e della vita, che un’autentica prudenza cristiana, guidata dal dono dello Spirito, deve suggerire.
In ogni caso il criterio ultimo dell’agire non sarà mai per il cristiano quello dell’efficienza e della ricerca del successo storico. Il Signore della storia è, come ricorda l’Enciclica nella sua conclusione, l’Agnello immolato, che vive per sempre con i segni della sua passione gloriosa e che ora ha il potere sulla vita e sulla morte (EV, 105). La misteriosa fecondità dell’azione cristiana non è raggiungibile mediante una verifica storica della sua efficacia, ma nell’analogia e nella partecipazione all’azione di Colui che, pur sconfitto, è vincitore.



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Note
1 L’Enciclica non si occupa direttamente, ad esempio, della contraccezione, se non per mostrarne, insieme con la comune radice in una mentalità chiusa alla vita, la specie morale diversa dall’aborto (EV, 13).
2 In proposito si veda il mio intervento dal titolo Il rispetto della vita come questione sociale: dalla «Rerum novarum» alla «Evangelium vitae»: L’Osservatore Romano, 13 aprile 1995.
3 Sul tema “Agire insieme con gli altri” come autentica partecipazione personalistica si vedano le opere di K. WOJTYLA: Persona e atto, cap. VII: “Lineamenti di teoria della partecipazione” (L. E. V., Città del Vaticano, 1982), pp. 297-333; Perché l’uomo. Scritti inediti di antropologia e filosofia (Leonardo, Milano 1995), pp. 59-136.
4 Al riguardo si veda un intervento di J. FINNIS. Unjust laws in a democratic society. Some philosophical considerations, tenuto in occasione di un Simposio organizzato a Roma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (9-12 novembre 1994).
5 Cf.  K. Jaspers, Der arzt un technischen Zeitalter (R. pieper Verlag, Munchen 1986); tr. it. Il medico nell’età della tecnica (Cortina, Milano 1991).
6 Cf. M. ZALBA, Cooperatio materialis ad malum morale in Periodica de re morali canonica et liturgica 71 (1982), 411-441.
7 Un’esposizione chiara e sintetica dei principi classici circa la cooperazione al male si può trovare in G. GRISEZ, The way of the Lord Jesus, vol. I: Christian Moral Principles (Franciscan Herald Press, Chicago 1983) pp. 300-303.
8 «Dicendum illam esse formalem quae concurrit ad malam voluntatem alterius et nequit esse sine peccato; materialem vero illam quam concurrit tantum ad malam actionem alterius, praeter intentionem cooperantis», SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, Theologia moralis l. II, II, III, op. I, dub. V, n. 63.
9 D.M. PRUMMER. Manuale Theologiae moralis secundum principia S. Thomas  Aquinatis, t. I, p. I, Tr. LX, cap. III, art. III. Par. 2 (Herder, Friburg Br. 1935). p. 447.
10 Per una chiarificazione, nella luce di San Tommaso d’Aquino, della decisiva distinzione tra ciò che è per se intentum (e quindi rientra nell’oggetto della scelta) e ciò che è praeter intentionem, si veda l’importante saggio di J. M. BOYLE, Praeter intentionem in Aquinas. The Thomist 42 (1978). 649-665. L’opera essenziale sull’argomento è comunque quella di G.E.M. ANSGOMBE, Intention, (Basil Blackwell, Oxford, 2 Ed. 1963).
11 Cf. D.M. PRUMMER, Manuale Theologiae moralis, O.C., t. II, p. I, Tr. XI, cap. III, art. III, nn. 100ss.
12 Cf. D. TETTAMANZI, Problemi morali circa la cooperazione all’aborto, Medicina e morale 28 (1978), 396-427.
13 Cfr., SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI. Theologia moralis, cit., n. 63.
14 Cf. C. CAFFARRA, Aborto e obiezione di coscienza: L’Osservatore Romano, 12 luglio 1978, 1.
15 Si veda il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Responsa ad quesita Conf. Ep. Americae Septentrionalis circa sterilizationem in nosocomiis catholicis (13 marzo 1975). n. 3: Documenta inde a Conc. Vaticano II expleto edita (1966-85) (LEV, Città del Vaticano 1985), pp. 92-94.
16 Cf. D.M. PRUMMER, Manuale Theologiae moralis, cit., t. II, p. I, Tr. XI, cap. III, art. III, nn. 93-110; H. Noldin, Summa Theologiae moralis, t. II, nn. 479-494 (Oeniponte-Lipsiae, 17 Ed. 1941).
17 Questo spostamento del punto di vista principale secondo cui viene elaborata l’etica, che definisce una frattura decisiva tra etiche antiche e medioevali da una parte ed etiche moderne, dall’altra, è stato individuato da S. Hampshire, in uno studio del 1949, ristampato in (Ed. A. MAGINTYRE-S. HAWERWAS) Revisions, Changing, Perspectives in Moral Philosopy (Univ. of Notre Dame Press, Notre Dame 1983) e da E. PINCOFFS, Quandary Ethics: Mind 80 (1971), 552- 571, pure presente nella raccolta precedente Revisions. Su tutto questo, un’ottima presentazione e discussione critica in C. ABBA’, Felicità, vita buona e virtù, Saggio di filosofia morale (LAS, Roma 1989), pp. 97-104.
18 Al riguardo si veda: M. RHONHEIMER. La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica (Armando, Roma 1990, pp. 269-297.
19 In tal senso si muove, nell’applicazione a due casi particolari, il contributo di R. GARCIA DE HARO, Cooperacion al mal, gradualidad y conversion Anthropores 9 (1993), 135-153; al riguardo si veda anche la sua trattazione sulla cooperazione in La vita cristiana. Corso di teologia morale fondamentale (Ares, Milano 1995), pp. 270-276.
20 Summa Theologiae. I-II, q. 18, art. 10.
21 Al riguardo, oltre alle opere già citate di G.E.M. Anscombe e di M. Rhonheimer, si veda l’articolo di J. FINNIS. Object and Intention in Moral Judgement according to Aquinas in the Thomist 55/1 (1991), 1-27. In riferimento al dibattito successivo alla pubblicazione dell’Enciclica Veritatis splendor e in polemica con le posizioni proporzionaliste, si vedano gli importanti interventi di M. RHONHEIMER “Intrisecallv Evil Acts” and the Moral Vietepoint Clarifying a Central Teaching of Veritatis Splendor: The Thomist 58 (994), 1-39 e Intentional Actions and the Meaning of Object: A Reply to Richard McCormick: The Thomist 58 (1995), 279-311.
22 In merito si veda: L. MELINA, La conoscenza morale, Linee di riflessione sul Commento di san Tommaso all’Etica Nicomachea (Città Nuova, Roma 1987), pp. 169-219.
23 Per una sintetica esposizione della dottrina magisteriale sui rapporti tra legge civile e morale, si veda: la terza parte dell’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Donum vitae (22 febbraio 1987), col commento di G. MEMETEAU, Morale e legge civile, in: Donum vitae. Istruzione e commenti. Documenti e Studi 12 (LEV, Città del Vaticano 1990), pp. 143-156.
24 Cf. CONCILIO VATICANO II, Dich. Dignitatis humanae n. 7. Per Il concetto di «bene comune” si veda: PAOLO VI, Octogesima adveniens, n. 46; Giovanni PAOLO II, Enc. Centesimus annus, n. 47; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruz. Libertatis conscientia, n. 84.
25 Cf. SAN TOMMASO D’AQUINO. Summa Theologiae, I-II. q. 96, a. 2.
26 Talvolta nel dibattito sulla questione è stata introdotta, anche in buona fede, questa formulazione che giudico non solo insufficiente, ma anche fuorviante: ogni legge umana è per sua natura imperfetta e perfettibile, ma quando una legge è in grave contraddizione con un diritto fondamentale dell’uomo e ne permette la violazione essa non è solo imperfetta, ma ingiusta.
27 Si veda in proposito il saggio di O. OFFE, Diritto naturale (diritto razionale) e diritti dell’uomo: problemi fondamentali di un’etica contemporanea e di una filosofia politica, che funge da presentazione all’opera di A. SCOLA, L’alba della dignità umana, La fondazione dei diritti umani nella dottrina di Jacques Maritain (Jaca Book, Milano 1982), pp. 11-47.
28 Cfr. http://www.totustuustools.net/pvalori/Ciriesce.html . Per il commento e l’ermeneutica dell’intervento nel contesto storico, rimando a J. Joblin, Diritti umani. Valori comuni, società pluralista, intervento tenuto in occasione del già menzionato Simposio organizzato a Roma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede [9-12 nov. 1994).
29 Al riguardo mi ispiro all’intervento di J. FINNIS. Unjust laws in a democratic society, op. cit.
30 Cf. l’intervento di W. MAY, Unjust laws and catholic citizens: opposition, cooperation and toleration, al Simposio già menzionato della Congregazione per la Dottrina della Fede 19-12 nov. 1994).
31 Cf. G. GRISEZ, THE way of the Lord Jesus, vol. II: Living a Christian life (Franciscan Press, Quincy 1993), p. 883.
32 Al riguardo si vedano: CONC. VAT. II, Cost. Gaudium et spes, n. 43; Giovanni PAOLO II, Enc. Redemptor hominis, n. 19; G. GRISEZ, THE way of the Lord Jesus, vol. I: Christian, cit., pp. 559-562.
33 Cf. D. TETTAMANZI, Problemi morali circa la cooperazione all’aborto, cit., 409-410.
34 Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. De abortu procurato, 18 nov. 1974. n. 22.
35 Per questi criteri applicativi ci siamo rifatti all’Istruzione pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, La comunità cristiana e l’accoglienza della vita umana nascente, 8 dicembre 1978; e alla Dichiarazione dei Vescovi della Germania Federale del settembre 1976.
36 Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, I, 2; si veda anche il fascicolo 4 (1984) della rivista «Medicina e Morale», interamente dedicato alla questione, con interventi di A. Serra, C. Caffarra. E. Leuzzi: inoltre: PH. GAUER, Choix de l’amour. Diagnostic antenatal (Tèqui, Paris 1989).
37 Cf. E. SGRECCIA, Bioetica. Manuale per medici e biologi (Vita e Pensiero, Milano 1986), pp. 305-325.
38 Cf. Giovanni PAOLO II, Discorso alla Federazione Internazionale dei Farmacisti Cattolici, (3-11-1990): L’Osservatore Romano.
39 Al riguardo si veda: H.U. VON BALTHASAR, L’Azione, vol. IV di Teodrammatica (Jaca Book, Milano 1986), pp. 457.466.
40 Cf. Cost. Gaudium et spes, n. 39.
41 L’articolazione dei vari significati del termine “vita”, proposta dall’Enciclica sulla scorta della teologia giovannea, è stata da me messa in evidenza in: L. MELINA, Linee antropologiche della Evangelium vitae: Medicina e morale 4 (1995). 677-700. Al riguardo: F. MUSSNER. Zòè. Die Anschauung vom “Leben” im vierten Evangelium (Zink Verlag, Munchen 1952); R.W. THOMAS, The meaning of the Terms “Life” and “Death”, in the fourth gospel and in Paul: Scottish journal of Theology 21 (1968). 199-212.
42 Cf. Cost. Gaudium et spes n. 43, Giovanni PAOLO II, Es. ap. Christifideles laici n. 15.


Saggio tratto da: Ramón Lucas Lucas (cur.), Commento interdisciplinare alla Evangelium Vitae, Libreria Editrice Vaticana 1997, pp. 467-490

Fonte: www.paginecattoliche.it/la-cooperazione-con-azioni-moralmente-cattive-contro-la-vita-umana/#more-2658


venerdì 3 gennaio 2020

Paolo VI e l'arte contemporanea


Paolo VI e l'arte contemporanea

Perseguì con tenacia il dialogo con quelli che definiva «i guardiani della bellezza nel mondo»

Quella sera, il 28 giugno del 1964, lo scultore bergamasco Giacomo Manzù stava salendo le scale della basilica di San Pietro, sopraffatto dalla bellezza del tramonto sulla piazza e affascinato dall'andirivieni delle rondini, «indaffarate a cucire il crepuscolo alla notte».
Come racconta Curtis Bill Pepper nel suo Un artista e il Papa (Mondadori, 1968), era in compagnia del figlio Pio, del cognato e del banchiere Raffaele Mattioli. In cima al cancello centrale sostava un gruppo di curiosi intenti a sbirciare oltre la tenda. La basilica era stata già chiusa, quindi appena oltrepassato il cancello, furono accolti da un monsignore che annunciò loro: «Il Santo Padre sarà qui tra poco (...) È appena sceso dall'ascensore e adesso sta pregando sulla tomba di San Pietro».
Nell'attesa lo scultore si guardava intorno. Rimuginava tra sé le ragioni per cui l'inaugurazione della sua Porta della Morte stesse avvenendo in sordina senza nessuna celebrazione-benedizione pubblica. Tutto stava accadendo dietro una sorta di sipario e senza invitati, al solo cospetto del Papa, di qualche dignitario e di due diplomatici tedeschi. Non erano state invitate neanche le mogli. Infine Paolo VI, seguito da alcuni dignitari, arrivò. Manzù notò che «appariva sorpreso, come se avesse appena saputo che sotto il porticato della sua chiesa stava succedendo qualcosa di insolito».
Dopo aver salutato l'artista, il Papa rivolse uno sguardo malinconico verso la porta. Manzù pensò ancora: «Ecco un uomo molto chiuso e molto sensibile, e inguaribilmente triste». Il silenzio durò a lungo. Poi il Pontefice, indicando con un gesto vago i pannelli bronzei, chiese allo scultore: «Se vuol spiegarci il significato di tutte queste». «Sì Santità», rispose Manzù. Ma da quella spiegazione appassionata il Papa non parve particolarmente colpito, tanto che si mise a parlare con l'ambasciatore tedesco, allontanandosi un po' dall'artista.
Prima di andarsene, però, si girò verso lo scultore e gli disse: «Dio la benedica». Quindi, silenziosamente, sparì nel buio della Basilica con tutto il suo seguito.
Quell'apparente indifferenza, quell'indecifrabile silenzio, mortificarono lo scultore che, forse con troppa enfasi, aveva cercato di spiegare la propria opera. Invece, al di là della prima impressione e della suscettibilità di Manzù, probabilmente Paolo VI rielaborò tutto quello che l'artista gli aveva detto e lo fece suo. Del resto Montini da decenni studiava e amava l'arte contemporanea.
La sua raccolta d'arte, che ha preso il nome di Collezione Paolo VI — Arte Contemporanea, conta infatti ben settemila opere, molte delle quali provenienti da lasciti e donazioni successivi al 1987, anno della sua costituzione. Oggi viene celebrata con una nuova e più degna sede espositiva a Concesio, nei pressi di Brescia, a poca distanza dalla casa natale di Giovanni Battista Montini, e ci rivela più che mai quella «volontà di capire» con cui il Papa bresciano si avvicinò all'arte contemporanea con totale apertura e libertà da ogni pregiudizio. Le sue scelte parlano chiaro: egli era convinto che se l'arte è autentica, pur nelle sue manifestazioni più audaci ed estreme, è di per sé religiosa e vicina al sacro.
Né va poi mai dimenticato che nel maggio del 1964 Paolo VI fece un memorabile discorso agli artisti — lo scorso 21 novembre celebrato da Benedetto XVI nella Cappella Sistina — in cui faceva il punto su una situazione di silenzioso imbarazzo che nel tempo si era stratificata tra Arte e Chiesa. Sommessamente quanto umilmente agli artisti è stato ripetuto — ieri come oggi — «Noi abbiamo bisogno di voi».
In effetti gli artisti, perdendo la committenza della Chiesa, che non aveva solo un peso economico, ma rappresentava un faro che illuminava una via da percorrere, si sono trovati a combattere una battaglia del tutto individuale e spesso fitta di incertezze e ostacoli, soprattutto interiori.
L'appello di Paolo VI, quindi, arrivò al momento giusto, mentre infuriavano insensate battaglie tra i vari «ismi». Soprattutto restano attuali alcuni concetti che egli espresse all'epoca: «Il nostro ministero è quello di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile, dell'ineffabile, di Dio (...) E in questa operazione voi siete maestri (...) La vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forma, di accessibilità (...) Bisogna ristabilire l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti».
Paolo VI aveva capito che la questione non era quella di aderire a una tendenza piuttosto che a un'altra, indicando una via precisa allo sviluppo di un genere di pittura o di scultura cosiddette «sacre», ma aveva avuto un'intuizione ben più profonda: attraverso l'arte la Chiesa avrebbe avuto la possibilità di capire meglio l'uomo contemporaneo.
L'originalità della Collezione Paolo VI si basa quindi su una dimensione non territoriale ma universale. Ed è inoltre l'unico museo al mondo che come filo conduttore non ha scelte dettate dal gusto o dalla moda, ma dalla volontà di un Pontefice. Il quale non ha assemblato solo opere di arte religiosa, ma si è avvalso anche di donazioni di opere di grandi artisti svincolati dal tema del sacro.
La Collezione Paolo VI è un'occasione per addentrarsi nell'arte contemporanea seguendo il gusto e il pensiero del Papa bresciano. Egli aveva capito che bisognava smontare l'incomprensione che la Chiesa aveva dimostrato per l'arte del ventesimo secolo, arrivando al punto di teorizzare «la morte dell'arte». E quindi perseguì con tenacia il dialogo con gli artisti del proprio tempo, che definì «guardiani della bellezza del mondo».
Ma ciò che nel discorso della Cappella Sistina del 1964 è valido ancora oggi, riguarda una frase in cui si ammonisce un'eventuale committenza della Chiesa a non ricorrere più «ai surrogati, all'oleografia, all'opera d'arte di pochi pregi e di poca spesa». Un invito ancora valido se pensiamo alle opere vincitrici del recente concorso indetto dalla Conferenza episcopale italiana per le nuove chiese.
Ricordiamo, tra l'altro, che tra gli anni Venti e Trenta monsignor Montini coltivò l'amicizia con il filosofo cattolico francese Jacques Maritain, da cui attinse l'ispirazione per scrivere nel 1931 il libro Sull'arte sacra futura , ispirato alla tradizione dello spirituale nella ricerca dell'arte moderna. Inoltre già negli anni Cinquanta, quand'era arcivescovo di Milano, fece di tutto perché la Chiesa riportasse nei luoghi sacri opere di artisti capaci di testimoniare la condizione umana, di suscitare stupore e di indicare ai fedeli «l'accesso al mistero».
Tornando alla mostra della Collezione Paolo VI, il percorso della visita propone una sala di natura iconografica dedicata a san Paolo e spazi monografici su autori come Gino Severini, Salvador Dalì e Mario Sironi, celebri esponenti delle avanguardie storiche, i quali si misurano nelle opere esposte con un modo nuovo di interpretare il linguaggio dell'arte religiosa. Né manca una campionatura molto significativa delle varie tendenze della pittura italiana dagli inizi del Novecento agli anni Settanta.
Comunque troviamo apprezzabile che non si sia trascurata la presenza dell'arte astratta, rappresentata dai suoi maggiori esponenti (Mario Radice, Emilio Vedova, Hans Hartung, Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla, Lucio Fontana) e dalle diverse declinazioni di tale corrente, la quale pur oscillando tra una geometria rigorosa e il lirismo della materia, dimostra come anche un linguaggio aniconico si possa associare al tema religioso.
Per quanto riguarda invece il percorso legato ai «realismi», notevole è la presenza di artisti come Pablo Picasso, Marc Chagall, Georges Rouault, Henri Matisse, Ferruccio Ferrazzi, Felice Casorati, Giorgio Morandi.
Peccato che sfogliando il catalogo si debba notare che a illustrare nomi altisonanti ci siano spesso immagini di opere minori.
Al termine dell'itinerario espositivo si trovano due sale monografiche. La prima dedicata a Jean Guitton, filosofo e letterato, ma anche artista di grande originalità che fu molto amico e consigliere spirituale di Paolo VI. La seconda è invece destinata completamente a Giovanni Battista Montini, che ci appare attraverso i ritratti che gli hanno dedicato artisti come Mario Sironi o Ugo Attardi, Ernst G. Hansing o Dina Bellotti.
La Collezione di Concesio dialoga a distanza con la Collezione d'Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani, che sempre Paolo VI istituì nel 1973. Nella raccolta vaticana, però, le opere non sono necessariamente di connotazione religiosa o liturgica, ma sono state richieste ad artisti come «dono della loro creatività» a dimostrazione che sono nuovamente protagonisti della vita della Chiesa. In quel museo infatti Papa Montini ci tenne a onorare le storiche raccolte vaticane con il «genio espressivo del nostro tempo».
La raccolta che oggi è a Concesio è invece legata sia a personali rapporti di amicizia che al dialogo con gli artisti, a cui il Pontefice chiese di interpretare i temi dell'evangelizzazione, poiché era suo desiderio riuscire a promuovere un'arte capace di misurarsi con il messaggio della Chiesa. 

 http://www.osservatoreromano.va/it/news/paolo-vi-e-larte-contemporanea


La Natività e i Magi nei primi secoli del cristianesimo, di Nica FIORI


Nica FIORI

La Natività e i Magi nei primi secoli del cristianesimo

    Le festività del Natale e dell’Epifania, con la loro carica di spiritualità, fanno riaffiorare l’esigenza di aggiornare la conoscenza di tutte le memorie storiche che sono all’origine della fede. A Roma, tra gli ambienti più caratteristici del primo cristianesimo, troviamo le catacombe. La loro visita è affascinante, ovviamente per chi non soffre di claustrofobia. Ci si inoltra nel grembo della terra e si scoprono i simboli e i dipinti che dovevano accompagnare i defunti, e non di rado i martiri, nella vita eterna. La Catacomba di Priscilla, in particolare, conserva le più antiche rappresentazioni dipinte della Madonna e dei Magi, relative al III secolo, raffigurazioni che si affermano con una certa regolarità nel IV secolo.



      Museo di Priscilla, nuovo allestimento
    
   La Regina catacumbarum (così è definito il cimitero di Priscilla per i numerosi martiri che vi sono sepolti) è situata nella via Salaria e deve il nome alla proprietaria del terreno, una matrona appartenente all’importante famiglia degli Acilii. Un lungo restauro conclusosi qualche anno fa ha permesso di ridare luce e colore a dipinti che non erano più visibili e nell’occasione è stato riallestito il museo annesso al cimitero, presso la vicina chiesa di San Silvestro. Visitando il complesso ci rendiamo conto che inizialmente, quando i cristiani erano pochi, venivano sepolti insieme ai pagani. Solo con l’accrescersi della comunità si è sentito il bisogno di costruire cimiteri propri: dagli antichi ipogei cominciarono così a dipartirsi chilometri e chilometri di gallerie che nell’arco di due o tre secoli (tanto durò l’uso di questo tipo di sepoltura) costituirono una vera e propria ragnatela cimiteriale, che si sviluppava in profondità sotto il livello della campagna soprastante.   
    Per questo motivo nel museo di Priscilla troviamo anche i reperti marmorei degli scavi della vicina necropoli pagana: oltre 700 frammenti di sarcofagi restaurati e collocati sulle pareti secondo un nuovo criterio di allestimento che porta dai sarcofagi strigilati ai ritratti, ai motivi mitologici, alle scene di transizione e cristiane, alle scene marine, per finire con Eroti, Amorini e Geni.
  Se nel museo prevalgono le decorazioni di ambito pagano, tutti cristiani sono invece i motivi ornamentali dipinti negli angusti ambienti catacombali, a partire da quella che è considerata la prima immagine occidentale della Madonna con il Bambino, affrescata in un nicchione presso l’arenario.

  
Catacomba di Priscilla, Madonna con Bambino e Profeta

     La Madonna indossa una tunica a maniche corte e sul capo ha un velum, simbolo di modestia. È raffigurata seduta con in grembo il Bambino nudo; alla sua sinistra è la figura di un uomo, non San Giuseppe come ci si aspetterebbe, ma un profeta che indica una stella, forse Isaia, Michea o più probabilmente Balaam, perché in un suo oracolo si legge:  Io già lo vedo, ma non al presente, / io già lo contemplo, ma non da vicino: / un astro spunterà da Giacobbe, / uno scettro sorgerà da Israele. / Tale re schiaccerà le tempie di Moab / e il cranio di tutti i figli di Set. (Numeri, 24, 17)
   Giovanni Battista De Rossi, l’archeologo romano che scavò il sito alla metà dell’Ottocento, si accorse subito dell’importanza di questa pittura, dove si coglie l’aggancio tra il Nuovo e l’Antico Testamento, perché mostra insieme Gesù e un Profeta che allude alla venuta del Messia.
   Nella cosiddetta Cappella Greca della stessa catacomba troviamo la più antica raffigurazione dei Magi, resi con un certo dinamismo mentre si avviano a braccia tese verso la Madonna con il Bambino.  



Catacomba di Priscilla, Epifania
   Maria è raffigurata a capo nudo, volendo evidenziare così la sua verginità (le donne sposate non si sarebbero mai fatte vedere senza il velo). Questo soggetto si ritrova anche in altre catacombe romane (tra cui quelle notissime di Domitilla e di Callisto) e la scena è rappresentata sempre allo stesso modo con il Bambino grandicello, vestito di una tunichetta, sulle ginocchia della Madre e i Magi di profilo uno dietro l’altro. Questi sono giovani imberbi e vestono all’orientale con le brache e una corta tunica, a volte coperta da una clamide, e il caratteristico berretto frigio, chiamato pileus. Soltanto più tardi si affermerà l’immagine di uomini di tre differenti età (uno imberbe, uno con barba nera, uno con barba bianca), che troviamo per esempio a Ravenna, nello splendido mosaico del VI secolo di Sant’Apollinare Nuovo.  
   Lo schema iconografico dell’Adorazione dei Magi ricorda quello tardoimperiale relativo al cerimoniale dei popoli vinti che portano doni al sovrano. L’abbigliamento dei vinti è quasi sempre quello tipico degli orientali, che troviamo per esempio nei Parti raffigurati nell’Arco di Settimio Severo, come pure nel dio persiano Mitra. E proprio alla Persia rimanda la credenza da parte di molti greci che i Magi fossero adoratori del fuoco, seguaci di Zoroastro.
    Il loro nome, in effetti, fa pensare al persiano maga, che vuol dire “dono”, nel senso di rivelazione divina annunciata dal profeta Zarathustra (Zoroastro per i greci). I partecipi di questo particolare dono, detti maga-van, mogu o magu, acquistano un potere magico per mezzo del quale possono entrare in contatto con le energie divine e ottenere una conoscenza superiore. I Magi dovevano essere, quindi, una casta sacerdotale iranica con una preparazione astrologica e astronomica, in grado di interpretare i sogni e di avere visioni di avvenimenti futuri. Essendo totalmente estranei al mondo giudaico, meraviglia la loro conoscenza di un evento che riguardava la religione ebraica. In realtà, in diversi ambienti iranici si attendeva in quel periodo un soccorritore (saushiant) che doveva essere concepito dal bagno di una vergine nelle acque del lago di Kayanseh, dove si credeva conservato il seme di Zarathustra. Quest’attesa, che non differiva molto da quella giudaica del Messia, insieme all’apparizione di una strana stella, deve aver spinto i Magi a intraprendere il lungo viaggio alla ricerca del neonato re dei Giudei.
    Il numero dei Magi non è indicato da San Matteo, l’unico tra i quattro evangelisti che ne parla, e pertanto il loro numero è variabile (nel cimitero dei Santi Marcellino e Pietro i Magi sono due e nel cimitero di Domitilla sono quattro), anche se prevale il numero tre, numero che a partire dal IV secolo è costante. La scelta di questo numero è probabilmente legata ai tre doni, oro, incenso e mirra, con i quali i Magi riconoscono Gesù Bambino come sovrano universale, essere divino e guaritore.
   Mentre nelle catacombe è frequente la raffigurazione dei Magi, non è mai rappresentato il presepe, ovvero la mangiatoia della Natività, tranne che in una pittura del IV secolo nel cimitero di San Sebastiano, dove il Bambino è coricato su un lettuccio con accanto l’asino e il bue. Questo potrebbe essere spiegato con il fatto che nei primi tre secoli il Natale non veniva festeggiato, mente la festa dell’Epifania (letteralmente “manifestazione”) commemorava insieme la nascita e la manifestazione ai Magi (la separazione delle due feste viene attribuita a San Giulio I, papa dal 337 al 352).
   La venuta dei Magi richiama il contatto di Cristo con i Gentili, in quanto Cristo non si manifesta solo agli Ebrei, rappresentati nel presepe dai pastori, ma anche ai pagani.




Musei Vaticani, sarcofagi con i Magi
 
  Questa duplicità può essere colta anche dalla presenza nella stalla di Betlemme del bue e dell’asinello, riferita dal vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo. Si è voluto vedere anche in essi un emblema di tutti i fedeli che riconoscono Cristo e lo adorano. Secondo i Padri della Chiesa Eucherio di Lione e Isidoro di Siviglia il bue rappresenterebbe il popolo ebreo e l’asino i pagani, mentre per San Girolamo il primo sarebbe l’emblema del Nuovo Testamento e l’altro dell’Antico.
   Nei sarcofagi paleocristiani il presepe è raffigurato per lo più insieme all’Adorazione dei Magi, in rari casi è invece da solo e in altri c’è la sola Epifania, con i Magi che portano doni al Bambino seduto sulle ginocchia della Madre, a sua volta seduta su una cattedra. Un esempio di questo tipo lo troviamo nel grandioso Sarcofago Dogmatico (o dei Due Testamenti), rinvenuto durante i lavori di rifacimento ottocenteschi a San Paolo fuori le Mura e conservato nei Musei Vaticani (Museo Pio Cristiano). Destinato ad una coppia, il sarcofago presenta su due livelli scene del Vecchio e del Nuovo Testamento ed è databile alla fine dell’età costantiniana (337-340).
    Mello stesso Museo Pio Cristiano troviamo alcuni rilievi di sarcofagi con i Magi, dove compare anche la mangiatoia con il bue e l’asino, come quello di ottima fattura del IV secolo (frammento di un coperchio), in cui la scena si svolge da sinistra a destra:



Musei Vaticani, Coperchio di sarcofago con Magi e presepe
a sinistra i tre re, con i tipici copricapi orientali, avanzano guidati da una stella aureolata a sei punte, fino a toccare il bue che, accanto all’asinello (posto in secondo piano), sembra scaldare col suo fiato il Bambino deposto nella culla-mangiatoia di giunchi al di sotto di un tetto, mentre sulla destra è un Profeta in piedi con corta tunica presso un albero e Maria seduta su un masso, avvolta in una palla (mantello femminile corrispondente al pallium maschile), che guarda verso il lato esterno alla scena.
In un altro rilievo la mangiatoia è vuota, ma con accanto i due animali del presepe, mentre il Bambino in fasce è tenuto dalla Madonna, cha sta a sinistra, e i Magi con i loro cammelli, ancora più a sinistra, si apprestano ad adorarlo portando i loro doni.
    In un altro sarcofago la scena con il Bambino sulla mangiatoia e i due immancabili animali (bue a sinistra e asino a destra),



Musei Vaticani , particolare di sarcofago con presepe
racchiusa sotto una tettoia, è separata da una palma dalla scena dell’Adorazione dei Magi, che vanno da destra verso sinistra, con i loro cammelli,



Musei Vaticani, particolare di sarcofago con i Magi
a portare i doni al Bambino, raffigurato stavolta più grandicello sulle ginocchia di Maria in trono.
In questi esempi manca la figura di Giuseppe, che secondo il protovangelo di Giacomo sarebbe andato in città a cercare una levatrice, e quindi Maria avrebbe partorito solamente al cospetto di Dio. Soltanto più tardi San Giuseppe prenderà il posto del profeta e sarà protagonista del presepe e delle raffigurazioni della Sacra Famiglia.



Bibliografia:
M. BUSSAGLI – M. G. CHIAPPORI, I Re Magi, Rusconi, Milano 1985
M. CENTINI, I Re Magi, Xenia Edizioni, Milano 1992
M.E.GARCIA BARRACO (a cura di) Praesepium. La natività e l’Adorazione dei Magi nell’arte paleocristiana, Arbor Sapientiae Editore, Roma 2016
F. CONSIGLIO, Iconografia mariana nei primi secoli del cristianesimo. Gli affreschi della Catacomba di Priscilla, Arbor Sapientiae Editore, Roma 2017


 La fonte:
https://www.aboutartonline.com/la-nativita-e-lepifania-nei-sarcofagi-dellantichita-e-nellarte-cristiana-e-paleocristiana/


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