Al di là della banalità del bello
di Gianfranco Ravasi
Devo confessare che ormai mi infastidisce il sentir ripetere a mo' di
antifona la frase «La bellezza salverà il mondo»: è uno stereotipo
vacuo se non si connette a un pensiero più ampio e alto, lo stesso
appunto che era all'interno di quella grandiosa opera che è L'idiota di
Dostoevskij (parte III, cap. V) da cui l'assioma è desunto. Sì, perché
il principe Myškin che lo proclama lo intesse con l'ascesa verso lo
zenit del mistero, con la discesa nel nadir del male, con la purezza
della fede, con l'ardire dell'amore. Siamo, quindi, lontani da una
generica fruizione estetica o da una retorica esaltazione di un'armonia
psichica. Come scriveva Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti
(1999), «la bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente», e
solo così redime dalla «vita banale» (per usare la nota formula
kierkegaardiana) e dalla depressione della colpa.
È in questa prospettiva che si muove il testo di un monaco di quella
Santa Montagna che è l'Athos, Basilio di Iviron, ed è per questo che gli
concediamo la legittimità di intitolare il suo saggio proprio con
l'asserto La bellezza salverà il mondo. Con un linguaggio ibridato di
evocazioni bibliche e della tradizione monastica, con un procedimento
mentale a ramificazione secondo i canoni dello stile orientale, con la
trasparenza di una teologia che veleggia nella contemplazione, ma
lambisce anche la terra della morale, Basilio scarta l'ovvietà della
bellezza fenomenica ("bello a vedersi" è anche il frutto dell'Eden) per
intrecciare bellezza-bontà-amore-verità. Folgorante è un passo dei Nomi
divini di Dionigi l'Areopagita, autore geniale e misterioso del V-VI
secolo, che su una base filologica non saprei quanto fondata ma
suggestiva dichiara: «Il bene è bello e bellezza ma anche amore e amato.
Esso chiama (kaléo) a sé tutte le cose, donde appunto si dice bellezza
(kalós/kállos)».
È un po' anche per questa tensione "sim-bolica" unitaria che la
liturgia delle Chiese orientali reca una livrea di splendore, di gloria,
di numen, cioè di mistero invisibile, e di lumen, ossia di bellezza
visibile. È, però, un occidentale, anzi, un cattedratico dell'università
cattolica di Lille, Paul Christophe, a illustrare La bellezza dei gesti
del cristiano all'interno del rito. Fa impressione sempre al turista
superficiale l'approdo al Muro del Pianto del tempio gerosolimitano,
davanti alla folla dei corpi in agitazione degli oranti ebrei. In
realtà, quella è una metafora vivente della totalità armonica della
preghiera: il fedele parla a Dio non solo con la voce, ma anche con
tutte le articolazioni, le nervature, gli organi e la complessità del
suo corpo, strumento supremo di comunicazione. È per questo che
Christophe fa scorrere davanti a noi la lode "somatica" che nella
liturgia cristiana l'orante eleva al suo Dio, stando in piedi, tendendo
braccia e mani, segnandosi con la croce, scambiandosi il bacio,
giungendo o imponendo le mani, inginocchiandosi, battendosi il petto,
prostrandosi e fin sedendosi (sì, anche questo atto ha un significato
che travalica la mera quiete del riposo).
Ma all'interno della liturgia un segno di bellezza suprema è
rappresentato dalla musica (ahimé, cosa che non spesso si verifica oggi
in tante celebrazioni, affidate a repertori corali, a partiture e a
strumenti di basso profilo, indegni del monito biblico: «Cantate a Dio
con arte!»). Un rilievo particolare ha avuto al riguardo la Riforma
protestante, accanto alla gloriosa tradizione gregoriana e polifonica
cattolica. La causa è da cercare storicamente anche nell'ascesi
aniconica che il protestantesimo introdusse, operando una catarsi
eccessiva sull'"immaginario" artistico precedente che aveva colmato le
chiese di statue, dipinti, segni, arredi, e stendendo non di rado una
sorta di colata bianca e asettica su quel mirabile mondo iconografico
(si legga, ad esempio, il curioso romanzo Fratello Jacob dello scrittore
danese, Henrik Stangerup, tradotto da Iperborea nel 1993). La musica
con la sua purezza evocativa e non descrittiva, con la sua potenza
trascendente e col suo linguaggio mistico e universale, divenne la nuova
epifania della bellezza sacra.
Dobbiamo essere grati al musicologo Nicola Sfredda per aver inseguito
lungo i secoli, dagli innari e dai 36 Kirchenlieder di Lutero e dal
Salterio ginevrino calvinista fino al Novecento di Honegger, Hindemith e
Ives, La musica nelle chiese della Riforma. Naturalmente al centro c'è
l'imponente figura sovrana di Bach, senza però ignorare le meraviglie
armoniche di Schütz, Buxtehude, Haendel. Tra le tante ricchezze
imbandite in questa mensa della bellezza vorremmo far emergere i
molteplici rimandi all'intreccio tra musica e teologia negli stessi
padri della Riforma come Lutero, Calvino, Zwingli, ma anche nello stesso
Bach, giù giù fino a Bonhoeffer e all'omaggio di Barth a Mozart: «Se
dovessi giungere in paradiso, domanderei innanzitutto di Mozart, e
soltanto dopo cercherei Agostino e Tommaso, Lutero, Calvino e
Schleiermacher». Altrettanto interessante è l'ingresso in scena non solo
di Mendelssohn – cosa piuttosto naturale – ma anche di Meyerbeer e del
Brahms dell'Ein deutsches Requiem, per non parlare di una sorprendente
nota sulle «suggestioni del mondo protestante nell'opera di Verdi»...
Una domanda finale un po' provocatoria: Cristo era bello? Anche in
questo caso la risposta di Dostoevskij, in una lettera del 1868 alla
nipote Sonia, è da assumere solo nel contesto già evocato: «Al mondo c'è
una sola persona positivamente bella: Cristo. L'apparizione di questa
persona infinitamente bella è già un miracolo infinito». Eppure c'è chi
parla della «mostruosità di Cristo», come fa il filosofo sloveno Slavoj
Žižek, sia pure in forma paradossale all'interno di una lettura
hegeliana del cristianesimo non proprio ineccepibile (è, questo, anche
il titolo dato al volume che raccoglie il suo dialogo col teologo
radicale inglese Alasdair J. Milbank, da poco tradotto in italiano da
Transeuropa). L'iconografia delle origini ha oscillato tra un Cristo
"brutto", sulla scia del Servo del Signore cantato da Isaia come una
figura che «non ha bellezza per attrarre il nostro sguardo» (53,2), e un
Cristo stupendo sulla base del Salmo regale-messianico 45 ove si
proclama: «Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo» (v. 3). In realtà,
la croce e la gloria pasquale, l'umanità e la divinità legittimano
entrambe le rappresentazioni che ancora una volta ci riportano al valore
non solo estetico, ma anche teologico della bellezza cristiana.
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-07-10/banalita-bello-190947.shtml?uuid=Aa2n74mD
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