lunedì 30 dicembre 2019

Al di là della banalità del bello di Gianfranco Ravasi


Al di là della banalità del bello

di Gianfranco Ravasi



Devo confessare che ormai mi infastidisce il sentir ripetere a mo' di antifona la frase «La bellezza salverà il mondo»: è uno stereotipo vacuo se non si connette a un pensiero più ampio e alto, lo stesso appunto che era all'interno di quella grandiosa opera che è L'idiota di Dostoevskij (parte III, cap. V) da cui l'assioma è desunto. Sì, perché il principe Myškin che lo proclama lo intesse con l'ascesa verso lo zenit del mistero, con la discesa nel nadir del male, con la purezza della fede, con l'ardire dell'amore. Siamo, quindi, lontani da una generica fruizione estetica o da una retorica esaltazione di un'armonia psichica. Come scriveva Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti (1999), «la bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente», e solo così redime dalla «vita banale» (per usare la nota formula kierkegaardiana) e dalla depressione della colpa.
È in questa prospettiva che si muove il testo di un monaco di quella Santa Montagna che è l'Athos, Basilio di Iviron, ed è per questo che gli concediamo la legittimità di intitolare il suo saggio proprio con l'asserto La bellezza salverà il mondo. Con un linguaggio ibridato di evocazioni bibliche e della tradizione monastica, con un procedimento mentale a ramificazione secondo i canoni dello stile orientale, con la trasparenza di una teologia che veleggia nella contemplazione, ma lambisce anche la terra della morale, Basilio scarta l'ovvietà della bellezza fenomenica ("bello a vedersi" è anche il frutto dell'Eden) per intrecciare bellezza-bontà-amore-verità. Folgorante è un passo dei Nomi divini di Dionigi l'Areopagita, autore geniale e misterioso del V-VI secolo, che su una base filologica non saprei quanto fondata ma suggestiva dichiara: «Il bene è bello e bellezza ma anche amore e amato. Esso chiama (kaléo) a sé tutte le cose, donde appunto si dice bellezza (kalós/kállos)».
È un po' anche per questa tensione "sim-bolica" unitaria che la liturgia delle Chiese orientali reca una livrea di splendore, di gloria, di numen, cioè di mistero invisibile, e di lumen, ossia di bellezza visibile. È, però, un occidentale, anzi, un cattedratico dell'università cattolica di Lille, Paul Christophe, a illustrare La bellezza dei gesti del cristiano all'interno del rito. Fa impressione sempre al turista superficiale l'approdo al Muro del Pianto del tempio gerosolimitano, davanti alla folla dei corpi in agitazione degli oranti ebrei. In realtà, quella è una metafora vivente della totalità armonica della preghiera: il fedele parla a Dio non solo con la voce, ma anche con tutte le articolazioni, le nervature, gli organi e la complessità del suo corpo, strumento supremo di comunicazione. È per questo che Christophe fa scorrere davanti a noi la lode "somatica" che nella liturgia cristiana l'orante eleva al suo Dio, stando in piedi, tendendo braccia e mani, segnandosi con la croce, scambiandosi il bacio, giungendo o imponendo le mani, inginocchiandosi, battendosi il petto, prostrandosi e fin sedendosi (sì, anche questo atto ha un significato che travalica la mera quiete del riposo).
Ma all'interno della liturgia un segno di bellezza suprema è rappresentato dalla musica (ahimé, cosa che non spesso si verifica oggi in tante celebrazioni, affidate a repertori corali, a partiture e a strumenti di basso profilo, indegni del monito biblico: «Cantate a Dio con arte!»). Un rilievo particolare ha avuto al riguardo la Riforma protestante, accanto alla gloriosa tradizione gregoriana e polifonica cattolica. La causa è da cercare storicamente anche nell'ascesi aniconica che il protestantesimo introdusse, operando una catarsi eccessiva sull'"immaginario" artistico precedente che aveva colmato le chiese di statue, dipinti, segni, arredi, e stendendo non di rado una sorta di colata bianca e asettica su quel mirabile mondo iconografico (si legga, ad esempio, il curioso romanzo Fratello Jacob dello scrittore danese, Henrik Stangerup, tradotto da Iperborea nel 1993). La musica con la sua purezza evocativa e non descrittiva, con la sua potenza trascendente e col suo linguaggio mistico e universale, divenne la nuova epifania della bellezza sacra.
Dobbiamo essere grati al musicologo Nicola Sfredda per aver inseguito lungo i secoli, dagli innari e dai 36 Kirchenlieder di Lutero e dal Salterio ginevrino calvinista fino al Novecento di Honegger, Hindemith e Ives, La musica nelle chiese della Riforma. Naturalmente al centro c'è l'imponente figura sovrana di Bach, senza però ignorare le meraviglie armoniche di Schütz, Buxtehude, Haendel. Tra le tante ricchezze imbandite in questa mensa della bellezza vorremmo far emergere i molteplici rimandi all'intreccio tra musica e teologia negli stessi padri della Riforma come Lutero, Calvino, Zwingli, ma anche nello stesso Bach, giù giù fino a Bonhoeffer e all'omaggio di Barth a Mozart: «Se dovessi giungere in paradiso, domanderei innanzitutto di Mozart, e soltanto dopo cercherei Agostino e Tommaso, Lutero, Calvino e Schleiermacher». Altrettanto interessante è l'ingresso in scena non solo di Mendelssohn – cosa piuttosto naturale – ma anche di Meyerbeer e del Brahms dell'Ein deutsches Requiem, per non parlare di una sorprendente nota sulle «suggestioni del mondo protestante nell'opera di Verdi»...
Una domanda finale un po' provocatoria: Cristo era bello? Anche in questo caso la risposta di Dostoevskij, in una lettera del 1868 alla nipote Sonia, è da assumere solo nel contesto già evocato: «Al mondo c'è una sola persona positivamente bella: Cristo. L'apparizione di questa persona infinitamente bella è già un miracolo infinito». Eppure c'è chi parla della «mostruosità di Cristo», come fa il filosofo sloveno Slavoj Žižek, sia pure in forma paradossale all'interno di una lettura hegeliana del cristianesimo non proprio ineccepibile (è, questo, anche il titolo dato al volume che raccoglie il suo dialogo col teologo radicale inglese Alasdair J. Milbank, da poco tradotto in italiano da Transeuropa). L'iconografia delle origini ha oscillato tra un Cristo "brutto", sulla scia del Servo del Signore cantato da Isaia come una figura che «non ha bellezza per attrarre il nostro sguardo» (53,2), e un Cristo stupendo sulla base del Salmo regale-messianico 45 ove si proclama: «Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo» (v. 3). In realtà, la croce e la gloria pasquale, l'umanità e la divinità legittimano entrambe le rappresentazioni che ancora una volta ci riportano al valore non solo estetico, ma anche teologico della bellezza cristiana.

https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-07-10/banalita-bello-190947.shtml?uuid=Aa2n74mD



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