sabato 27 luglio 2019

ARTE CRISTIANA DELLE ORIGINI, a cura di Maria Cristina Ricciardo



ARTE   CRISTIANA  DELLE  ORIGINI
a cura di Maria Cristina Ricciardo
        



Catacomba Santi Marcellino e Pietro, Roma
Particolare del Cristo in trono tra Pietro e Paolo, IV - V secolo


Dopo la morte di Cristo, prima gli Apostoli e poi i loro discepoli, proseguendo la predicazione cristiana intensivamente, allargano il numero dei proseliti. Si vengono così formando le varie "chiese" (ecclèsia in latino, in greco ecclesìa, da eccaléo, "io chiamo", e perciò "assemblea"), primi nuclei cristiani di differente estrazione e cultura a seconda delle varie regioni.
Nella capitale il cristianesimo penetra intorno alla metà del I secolo, come è testimo­niato da una lettera di San Paolo alla ecclesia di Roma, e si è esteso in seguito alla predicazione dello stesso Paolo e di Pietro. La presenza e la morte per martirio a Roma dei due "principi degli apostoli" giustifica la romanità del cristianesimo che, pure, ha origini orientali.
Le persecuzioni cessarono quando, essendo diventata la religione cristiana patrimonio comune di grandi masse, l’imperatore Costantino, per calcolo politico, prima concede la libertà al culto cristiano (editto di Milano, 313), poi, poco prima della morte (337), si converte e, soprattutto, quando, con Teodosio (380), il cristianesimo diventa religione di stato e si assume quindi, a sua volta, il compito di santificare l’imperatore.
Questa premessa è necessaria per comprendere perché, per avere un’arte cristiana che, in qualche modo, si distingua nelle sue caratteristiche fondamentali da quella romana, bisognerà giungere agli inizi del IV secolo, con l’editto di Costantino, e perché, per avere un’arte cristiana che elabori un linguaggio simbolico autonomo e maturo, bisognerà giungere al V-VI secolo. Poiché l’arte è espressione della società di un determinato periodo storico, per avere un’arte cristiana è necessario che in essa si riconosca la maggioranza della collettività, non soltanto una piccola parte di essa. Ciò potrà accadere quando i primi nuclei cristiani si saranno ingranditi talmente da assorbire larga parte dei cittadini dell’impero, della cui universalità, anche dopo la sua caduta (476), il cristianesimo sarà l’erede.



L'ARTE CRISTIANA
Per arte cristiana noi dobbiamo intendere un’arte che, non tanto nei temi trattati, quanto nel modo di trattarli, rispecchi le esigenze della spiritualità cristiana.
L’arte romana esprime l’ideologia imperiale di unità, di conquista, di suprema­zia della capitale sulla periferia, mediante grandi spazi dilatati, ma accentrati; esprime la concretezza di un popolo che si sa organizzare militarmente e civilmente, mediante il senso pesante della massa e il realismo; ne documenta le vittorie con il rilievo storico.
L’arte cristiana deve esprimere invece il senso trascendente del divino, deve definire ciò che è infinito, rendere visibile l’invisibile. Il prodotto dell’operazione artistica (architettura, scultura o pittura) è davanti ai nostri occhi, è concreto; ma, attraverso esso, il cristianesimo vuole significare l’astratto.
E’ un problema che si erano posti anche gli artisti greci, i quali l’avevano risolto rendendo la divinità in forme umane idealizzate, come, del resto, ci è spiegato dallo scrittore pagano Dione Crisòstomo il quale, fra il I e il II secolo, quando già è iniziata la penetrazione cristiana, dice: "Nessuno scultore o pittore potrebbe riprodurre la sapien­za o l’intelligenza in se stesse, perché mai sono stati ammessi a vedere qualcosa di simile [….] Perciò abbiamo fatto ricorso al corpo, nel quale riconosciamo con certezza la presenza dello spirito. Per mancanza di un modello assegniamo al dio forma umana come vaso di sapienza e di ragione".
A questa affermazione aggiunge una frase particolarmente importante per la concezio­ne artistica cristiana: "noi cercheremo di esprimere, con la materia visibile e sensibile, l’essere invisibile e irraggiungibile per mezzo di un simbolo".
Tutta l’arte cristiana infatti dovrà essere letta attraverso il simbolo: ogni oggetto rappresentato avrà un significato astratto. L’arte paleocristiana non narra, non espone storie con un senso logico e cronologico; espone idee che devono essere capite contem­plando un’immagine. Quando rappresenta Cristo o la Madonna o un santo, non vuole riprodurne le fattezze reali, umane, ma esprimere il significato che esse assumono per i fedeli. Non dimentichiamo che il cristianesimo assomma in sé la Chiesa di origine ebraica e quella di origine ellenistico-romana. Ogni nuovo cristiano porta con sé la sua cultura: mentre greci e romani danno aspetto umano ai concetti astratti e alle forze della natura gli ebrei, obbedendo alla legge mosaica, vietano la rappresentazione dell’im­magine divina sotto qualsiasi aspetto, nel timore che la venerazione di essa possa trasformarsi in adorazione dell’oggetto materiale e quindi in idolatria.
Si tratta di giungere a una conciliazione fra due tradizioni diverse, quella conciliazione che, sul piano religioso, ha sostenuto lo stesso Gesù negando agli ebrei la condizione privilegiata di popolo eletto e che Paolo ha convalidato affermando l’uguaglianza di fronte a Dio fra circoncisi e non circoncisi.
La conciliazione sul piano artistico si trova, appunto, dando alle cose rappresentate un significato simbolico e permettendo così alla Chiesa romana di conferire alle immagini, oltre al significato ideologico, anche una funzione didattica, in quanto esse, attraendo lo sguardo, costringono il fedele a seguire un discorso visualizzato che penetra nel suo inconscio con molta maggior efficacia delle parole.



DOCUMENTI
1. Sulla comprensione del divino attraverso le immagini:
"Se noi facessimo un’immagine del Dio invisibile, saremmo certamente in errore [...]. Ma noi non facciamo questo. Non sbagliamo se facciamo l’immagine del Dio incarnato, apparso sulla terra e nella carne, che, nella sua bontà ineffabile, è vissuto con gli uomini ed ha assunto la natura, lo spessore, la forma ed il colore della carne [...]. Un tempo Dio, non avendo corpo né forma, non si poteva rappresentare in alcun modo. Ma poiché ora è apparso nella carne ed è vissuto fra gli uomini, posso rappresentare ciò che di lui è visibile. Non venero la materia, ma il creatore della materia".
(SAN GIOVANNI DAMASCENO, VII-VIII secolo a.C., Adversos eos qui sacras imagines abiciunt, Pg. 94, 1320, 1245)
"Tramite un volto visibile il nostro spirito sarà trasportato, per attrazione spirituale, verso la maestà invisibile della divinità".
(ADRIANO II, Lettera all’imperatrice Irene e all’imperatore Costantino VI, VIII secolo)
"Noi deliberiamo, con ogni cura e diligenza, che - come la preziosa e vivificante Croce - le venerande e sante immagini - in pittura, o in mosaico o in qualsiasi altra materia -vengano esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle strade, si tratti dell’immagine del Signore Dio Salvatore nostro Gesù Cristo, o della Santa Madre di Dio, o degli angeli degni di onore, o di tutti i santi e pii uomini. Infatti quanto più esse vengono viste nelle immagini, tanto più coloro che le guardano sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare loro rispetto e venerazione. Non si tratta certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di adorazione, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all’immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi vangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, come era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta e chi adora l’immagi­ne, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto".
(Concilium Nicaeum Il, VIII secolo, PG 136, 24-34)
2. Sulla tradizione biblica aniconica:
"Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra. Non farete accanto a me dei d’argento o d’oro".
(Dio a Mosè sul Sinai, Esodo, 20, 3-4, 23)
3. Contro le immagini esteriori fabbricate con la materia e a favore delle immagini sacre che vivono dentro di noi:
"Celso dichiara che noi "rifuggiamo dall’innalzare altari e statue e templi", dacché ritiene che questa "è la convenzione di una società segreta e misteriosa". Ed egli non riesce a scorgere che per noi lo spirito di ciascuno degli uomini giusti è l’altare, da cui si innalzano veracemente ed intelligentemente incensi dal soave odore, preghiere cioè sgorganti da una pura coscienza.
Le statue e le offerte votive, che convengono a Dio, non sono le opere fatte da volgari artigiani, ma quelle manifestate e plasmate dentro di noi dal Verbo di Dio.
[…] Le statue di Fidia, di Policleto e dei loro simili […] sono senz’anima e si distruggono col tempo, mentre queste dimo­rano nell’anima immortale tanto a lungo, quanto l’anima razionale desidera che rimangano in essa.

(ORIGENE, 185-253, ConTh Celso, VIII, 17-20; da B. Patera)
4. Sulla funzione didattica delle immagini:
"Venite in mio aiuto, voi, illustri pittori di grandi gesta. Contemplate con la vostra arte l’immagine perfetta di questo condottiero [il martire Barlaam]. Illustrate con i colori della pittura il martire vittorioso che io ho descritto con poco splendore".
(SAN BASILIO, IV secolo, Omelie, XVII, 3)
"Tutto ciò l’artista lo fa vedere con l’arte dei colori, come in un libro che avesse una lingua. Poiché il disegno muto sa parlare sui muri ove si distende e rende i più grandi servigi".
(SAN GREGORIO di Nissa, IV secolo, Elogio del martire Teodoro, PG 46, 757)
"Riempi il santo tempio da una parte e dall’altra di storie dell’Antico e del Nuovo Testa­mento di mano di un ottimo pittore, di maniera che coloro che non conoscono le lettere e non possono leggere le sacre scritture, contemplando le pitture, acquistino memoria della virtù di coloro che hanno servito nobilmente il vero Dio".
(NILO DI ANCIRA, IV-V secolo, Lettere, LX)
"Ci è giunta notizia che, infiammato da zelo sconsiderato, avresti distrutto, con la scusa che non si devono adorare, le immagini dei santi. E per quanto abbiamo lodato il tuo divieto di adorarle, in verità biasimiamo che tu le abbia infrante. Una cosa è infatti adorare una pittura, un’altra è apprendere, attraverso il soggetto della stessa pittura, ciò che si deve adorare. Infatti, ciò che la scrittura mostra a coloro che sanno leggere, la pittura lo mostra agli ignoranti che la guardano, poiché in essa anche gli ignoranti possono vedere ciò cui devono aspirare, e in essa possono leggere anche coloro che non conoscono le lettere. Cosicché, particolarmente per il popolo, la pittura serve da lezione".
(SAN GREGORIO MAGNO, VI secolo, Epistulae, XI, 13, A Sereno, vescovo di Marsiglia).

LA CHIESA E LE IMMAGINI
L’atteggiamento restrittivo o addirittura negativo della Chiesa verso l’arte non deve ritenersi assoluto e perenne, al pari dell’avversione giudaica ad ogni sorta d’immagine. Certo il pericolo dell’idolatria, da cui nacque l’avversione alle immagini dichiarata da taluni, fu avvertito e vivacemente combattuto: l’atteggiamento avverso, anche nei riguardi degli artisti, di molti scrittori ecclesiastici come Tertulliano, Cipriano, Ireneo, Clemente Alessandrino, Aristide, Giustino, Taziano, Atenagora, Origene, ecc. fu ispi­rato dalla preoccupazione di non perpetuare le divinità e le im­magini impure dei pagani.
La lotta all’idolatria contava già una lunga serie di epi­sodi drammatici anche nella storia del popolo giudaico: superstizione e magia costituirono il sottofondo delle più antiche religioni orientali, da cui dovette difendersi il popolo eletto. La proibizione tuttavia riguardò in maniera precisa solo le immagini di Jahvé e solo progressivamente l’avversione si generalizzò a tutte le imma­gini, senza peraltro essere accolta dalle comunità della diaspora, come prova appunto la decorazione della sinagoga di Dura Europos.
La domus di Dura Europos consiste in una piccola casa a un piano con un cortile, sul quale si affacciano alcune stanze: una sala che può contenere cinquanta-sessanta persone, nella quale era collocata la cattedra del vescovo, una seconda grande la metà, forse destinata ai catecumeni. Una di tali stanze aveva il soffitto decorato di stelle e una vasca sormontata da una volta a botte ugualmente decorata di stelle, mentre nella lunetta era il Buon Pastore con il gregge; su una parete restano tracce di una composizione con tre donne con una face che si avviano verso la casa.L’aula di culto di Dura non ebbe però deco­razione figurata: certo nell’aula cultuale un’immagine figurata poteva risvegliare le tendenze dello spirito popolare all’idolatria e quindi fu più tenace l’opposizione a ornare le pareti di una chiesa che non un ipogeo o anche un battistero, dove scene e simboli figurati ebbero sempre il compito di illustrare al neofita, anche illetterato, i mezzi sacramentali della rigenerazione dell’anima.



LE CATACOMBE
I luoghi di culto dove si espresse il linguaggio simbolico paleocristiano furono dunque prima le catacombe e in seguito i battisteri e le basiliche.
In un primo tempo i cristiani erano tumulati in sepolcri pagani e solo più tardi, a partire dal II secolo, ebbero necropoli loro proprie, perché quelle pagane erano sacre agli dei e i cristiani usarono fin dall’inizio l’inumazione invece dell’incinerazione. La sepoltura avveniva fuori dalle città, quasi sempre ai margini delle vie consolari entro un raggio di tre miglia dalle cinta muraria. Nei primi due secoli i cimiteri cristiani avevano usufruito della tutela delle leggi funerarie e perciò la loro gestione avveniva in un clima per lo più pacifico. Ma nel 257, con le persecuzioni di Valeriano, furono vietate le pratiche funerarie e le visite alle tombe. Nel IV secolo, le catacombe persero il loro carattere di sepoltura e divennero luoghi di venerazione e solo più tardi furono del tutto abbandonate.
Le catacombe si presentano come una rete sotterranea di corridoi di varia larghezza e di tracciato irregolare. La direttrice verticale e orizzontale fu condizionata dal terreno e posta a conveniente distanza da falde freatiche e con banchi di tufo. Mediante una scala discendente di 7-8 metri, si poteva accedere ai cimiteri sotterranei e procedere orizzontalmente lungo la direttrice delle gallerie, che prendeva il nome di ambulacrum. Le pareti delle gallerie erano occupate da loculi, vani rettangolari chiusi con una lastra di marmo o da tegole, sulle quale erano tracciati nomi e parole dal significato nuovo, come vivas, "che tu possa vivere". Poi c’erano i cubicula, camere a pianta varia, che potevano contenere più sepolcri. Nei cubicula si trovavano spesso gli arcosolia, una forma più nobile di tomba, costituita da un’urna chiusa, solium, sormontata da un arco scavato nel tufo o costruito in muratura. Spesso si potevano trovare aperture imbutiformi, che raggiungendo la superficie erano in grado di far passare luce e aria.



Catacomba di San Callisto, galleria



Cubicolo dell'Ipogeo di Via Compagni, Roma
Nella lunetta dell'arcosolio la figurazione della Tellus

La fioritura delle pitture nelle catacombe avviene nel III secolo e si protrae sino a tutto il V. Per le figurazioni più antiche venivano utilizzati temi classici, interpretati allegoricamente, come Amore e Psiche o le stagioni, simbolo del rinnovarsi della natura, il pavone che caratterizzava la resurrezione. Spesso comparivano anche figurazioni bibliche della salvezza e resurrezione dell’anima. Molto importante tra i soggetti cristiani era, naturalmente, Cristo. Dapprima veniva rappresentato con i simboli della croce, del pesce integrato con il simbolo del pane, della vite e dell’agnello. Solo più tardi compare il primo tipo fisionomico di Cristo. A partire dal IV secolo ci fu un progressivo allontanamento dal naturalismo ellenistico, verso forme più disorganiche: possiamo dire che le pitture delle catacombe testimoniano il processo di dissoluzione dell’arte classica.



Catacomba di Callisto, III secolo

C’è un’evidente differenza tra la necropoli pagana e il cimitero cristiano. Per il pagano la tomba è un termine al di là del quale lo attende un mondo di ombre e un rimpianto senza fine per la vita. Per il cristiano la morte, divenuta un episodio nel viaggio dello spirito verso Dio, assume il valore di rinascita. Il modello comune per la decorazione resta però la dimora terrena; gli artisti, del resto, sono gli stessi e decorano le pareti con scene di giardini fioriti, con una fauna varia e pittoresca, idilli agresti, miti di divinità e di eroi. Il cristiano nella sua dimora attende il gran giorno e attraverso le immagini che conosce per tradizione ed esperienza, vuole anche evocare i mezzi per i quali la fede gli assicura la salvezza.
Oltre al comune carattere di domus sia la necropoli pagana che il cimitero cristiano dimostrano l’esistenza di una corrente artistica popolareggiante.
Tra la fine del II e l’inizio del III, quando cioè si formano i nuclei iniziali dei cimiteri sotterranei, gli artefici che sanno tradurre in linguaggio cristiano i temi biblici e le scene rituali hanno personalità diverse; la scelta dei soggetti non è uniforme e soprattutto non è narrativa, poiché si fissa solo su taluni capi saldi concettuali, suggeriti probabilmente dal committente. In ogni caso, mediante elementi chiave sia generici (il pallio, il rotolo) sia appartenenti a singoli personaggi e scene (colomba di Noè, acqua del battesimo) si raggiunse lo scopo di far comprendere il senso dell’episodio o la ragione di una figura isolata anche agli analfabeti e a coloro che apprendevano non dalla diretta lettura dei testi sacri, ma dalla catechesi, cioè dall’istruzione prebattesimale, dal commento di vari passi, dalla lettura delle omelie.



IL LINGUAGGIO SIMBOLICO
All’inizio del III secolo Clemente d’Alessandria dà precetti sull’abbigliamento femminile e sugli anelli, sui quali raccomanda di incidere una colomba, un pesce, una nave, un’ancora, un pescatore. Si capisce che non si è ancora formato un repertorio figurato, ma anche che i cristiani, come tutti gli antichi, ebbero grande amore per l’immagine simbolica. Nessuna frase verbale può rendere la sostanza di un dogma o il mistero di un sacramento: il simbolo, invece, ha la capacità, la concisione e la duttilità per assumere il senso di un intero discorso, cogliere la sostanza delle cose, farsi intendere dall’osservatore e, soprattutto, fissarsi nella mente ripetendo lo stesso messaggio ogni volta che, come un moderno slogan, cade sotto gli occhi di chi lo sa interpretare.
La gran parte dei simboli non furono, nella loro espressione grafica, creazione dei cristiani. Portati da culture diverse, ma diffusi ovunque per il loro valore universale, essi persistettero nell’arte cristiana talvolta con lo stesso significato, oppure si arricchirono di contenuto nuovo mediante complementi che prima non avevano. Alcuni di essi, infine, come i cristogrammi, si diffusero talmente tra il popolo minuto da assumere significati lontani da quello originario, specie nelle sopravvivenze di superstizioni.




L’allusione al nome di Gesù e alla sua regalità (Cristo) fu determinante nella prima formulazione di segni e immagini simboliche come atto di venerazione e più spesso come professione di fede. Sulle lastre di chiusura o sulla calce fresca era facile tracciare un segno accanto alla croce, simbolo di redenzione; nascono così i cristogrammi, combinazioni di lettere rinvenuti già nel III secolo insieme alle varianti della croce commissa, cioè la lettera tau, segno di salvazione anche nel Vecchio testamento e detta anche patibolum, le croci greca, latina e gammata (svastica). Nel IV al monogramma si aggiungono le lettere escatologiche alfa e omega tratte da Giovanni ("Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine"). La croce può essere dissimulata in un’ancora o nel tridente.
Insieme agli ideogrammi compare il pesce, già presente in tradizioni preromane sia in scene di genere e insegne che con significati cabalistici e religiosi. Le lettere del termine greco compongono le iniziali di una frase (Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore) che un anonimo autore greco del II secolo pose in acrostico per 34 versi di un poemetto a carattere escatologico. Tertulliano identifica il pesce direttamente con Cristo in un passo del suo De baptismo.



L’immagine assume complementi concettuali quando si unisce ad altri simboli: pani con la croce, vino e pane, vaso, colomba, ancora, palma, tridente. La ripetizione simmetrica di questi segni non ne complica o altera il significato, ma ha la sua spiegazione nella funzione anche decorativa che essi hanno. Il pastore, noto come buon pastore, trae l’iconografia dal crioforo preromano con il significato di filantropia o humanitas. Insieme all’orante, che rappresenta l’anima salvata, il significato soterico si chiarisce ancora meglio. Intorno a queste figure alberi, spesso riconoscibili come ulivi, colombe e pecore danno contorni bucolici.


 Varianti comuni sono il pastore, ora imberbe ora barbato, a volte calvo, che munge, vigila con il bastone rustico, carezza il cane: queste alludono indirettamente al Cristo e più all'ambiente paradisiaco in cui sarà accolta l'anima. L'asino selvatico e il maiale, simboli demoniaci, sono tenuti lontani dal bastone del pastore. Raramente compare Orfeo tra le pecore o con la siringa, come pacificatore di anime e domatore di uomini: la possibile confusione con la divinità pagana non permise una grande diffusione.





Catacomba di Pretestato, Roma.
Pastore che allontana un asino e un maiale dal gregge.

L’agnello compare nelle absidi come simbolo del sacrificio divino che si compie sull’altare, simbolo del Golgota. E’ tratto dall’episodio degli Ebrei in Egitto e dall’Apocalisse di Giovanni. Altri simboli cristologici sono la vite e l’ariete.
Il più antico simbolo cristiano dell’anima è l’orante, per lo più figura femminile adulta, ma anche maschile o adolescente. Già presso i pagani la figura expansibus manibus, che personificava la pietas, indicava colui che prega o invoca soccorso; notando però accanto a lei gli alberi del paradiso, o le casse e i volumi segno della dottrina o gli apostoli acclamanti, dobbiamo dedurre che nel cristianesimo essa allude alla salvezza avvenuta. Del resto in seguito anche la Vergine e i santi presero lo stesso atteggiamento di preghiera che è comunicazione con Dio.


 

"Cubicolo della Velatio", catacombe di Priscilla a Roma.
Donna velata orante.

Altro simbolo dell’anima è la colomba , con o senza ramoscello di ulivo o altri segni cristologici. Essa assume però molti altri significati a seconda del contesto: nelle scene battesimali simboleggia lo spirito santo, in alcuni episodi biblici l’intervento soterico di Dio, accanto alla moltiplicazione dei pani, l’anima e il nutrimento spirituale. Sempre allusione all’anima si può avere con vasi, cervi, agnelli e pecore a seconda del contesto. Amore e psiche si inquadrano infine in un contesto bucolico marittimo caro all’iconografia cristiana e alla simbologia dell’acqua viva.
La caducità terrena, la brevità della vita, il disfacimento fisico angustiarono sempre l’uomo. Il cristianesimo capovolge questa disperante prospettiva aprendo il cielo a una vita immortale e a una divina felicità per coloro che avessero fatto della vita un’attesa obbediente alle leggi del Signore. La mutata atmosfera si riflette nella metamorfosi di immagini pagane che, pur serbando il loro senso generico, si colorano di fiducia e di serenità. Così le stagioni perdono il carico amaro di ineluttabilità del destino della vita terrena per divenire simbolo dell’eternità della vita oltre la morte, del superamento dell’autunno e dell’inverno per la primavera e l’estate del soggiorno celeste. Così la fenice, col nimbo raggiato e a volte lambita dalle fiamme, risorgendo dalle sue ceneri, allude alla resurrezione dei morti; ne parlano Clemente e Tertulliano, che nel De anima, come pure Agostino nel De civitate dei, descrivono il pavone dalla carne incorruttibile che, secondo la credenza degli antichi, riassumendo in primavera lo splendore dei suoi colori, rievoca l’immortalità dell’uomo e la resurrezione.



Direttamente collegate con il regno celeste, ci sono poi immagini diverse, che ora stanno a sé e creano l’atmosfera di un ambiente, ora fanno da sfondo a figure o gruppi e suggeriscono un’idea di spazio e di tempo in modo generico. La scelta del pittore è sempre legata a ragioni decorative; tuttavia attinge a un repertorio di motivi tradizionali nella forma, ma concettualmente nuovi poiché alludono a un nuovo mondo di felicità intesa anche fisicamente perché gli antichi non la separano mai da quella spirituale. I motivi si desumono dagli elementi primigeni, l’acqua e la terra, concepiti nell’abbondanza di un eden prima del peccato originale. Tutta la tematica bucolico marittima che, specie nel III secolo, si pone a contrasto di un mondo in crisi sociale e spirituale, offre agli occhi dei sofferenti in questa vita visioni ristoratrici: giardini verdeggianti, pascoli, uccelli e amorini con cesti di fiori o vendemmianti, fiori e festoni.
Nella decorazione pittorica e scultorea del III secolo è preminente l’intento simbolico di esprimere in particolare due idee: la potenza soterica di Dio e il dono della vera dottrina. Le figure bibliche, Noè, Isacco, Lot, Mosè, Daniele, sono paradigmi dell’opera divina. Anche Giona, ricordato come colui che per primo portò il messaggio di salvazione ai gentili, è simbolo dell’intervento di Dio sulla terra.


Il dono della fede come mezzo di salvezza, è simboleggiato dai personaggi col rotolo, da scene di insegnamento, dalla negazione di Pietro e anche dalla narrazione dei fatti e dei tempi dell’opera di redenzione (Adamo ed Eva, i profeti, la Madonna con Bambino, l’adorazione dei Magi).
Dopo la pace religiosa un’atmosfera trionfale pervade le comunità. La Chiesa dei martiri, non più al bando come fattore di eversione, diventa il nerbo dell’impero e i suoi vescovi dignitari dello Stato; il vescovo di Roma assume privilegi imperiali, quali la genuflessione, il bacio al piede, l’anello. L’arte, anch’essa pervasa da uno spirito nuovo che avvicina il regno di Dio al potere imperiale, l’aula di culto alla reggia del sovrano, non si limita più ai concetti escatologici del Salvatore e dell’anima salvata, alla celebrazione della dottrina e del Docente, all’esaltazione della vera filosofia e del Filosofo divino: nuove scene irrompono nella decorazione degli edifici di culto, nel repertorio dei sarcofagi e sulle pareti delle catacombe; temi antichi si evolvono, assumendo spesso dimensioni e solennità consone allo sviluppo del pensiero teologico. Già verso il 300 il Maestro compare giovane e bello come in un’aula di corte tra i suoi apostoli, dignitari regali.




Da quel momento l’iconografia si sforza di celebrare le tappe della vittoria del re divino, raffigurando i fatti storici che ne preannunciarono l’avvento nel Vecchio Testamento, i miracoli che furono gli argomenti della sua discendenza dal Padre, gli atti di misericordia che testimoniarono la sua giustizia e benevolenza, gli episodi della passione che contrassegnarono il trionfo, la croce, come evocazione del Golgota e trofeo di gloria dell’imperator e, infine, il Cristo custode della legge e legislatore nella corte celeste sul trono del suo magistero, collocato sulla volta del cielo e sul globo terrestre, cui acclamano o rendono omaggio gli apostoli con le mani velate, tra i quali Pietro e Paolo assumono il posto di corifei, e i defunti genuflessi ai suoi piedi.
In questa tematica glorificante il linguaggio simbolico si frammenta, perde a volte lo stretto nesso logico tra scena e scena che traspariva dai contesti del III secolo. Non mancano, beninteso, in questo periodo, opere di raffinata esecuzione e di coerente contesto allegorico, come ad esempio il sarcofago di Giunio Basso al Vaticano, ma in altre l’intento decorativo con le sue rigide leggi di ritmo e di rapporti tra spazio e volumi prevale sull’organicità dei nessi simbolici.


Sarcofago di Giunio Basso, Vaticano, IV secolo

Tra il IV e V secolo comincia a farsi strada la convinzione che il regno di Dio non è di questo mondo; per conseguenza l'arte si stacca progressivamente dalle corrente popolare da cui era scaturita, per ancorarsi a spazi senza limiti e a racconti ormai privi d'ogni nozione di tempo. Allora il linguaggio simbolico assume un carattere particolare e complesso, sempre più lontano da quello del popolo, sovraccarico di apporti teologici aggiuntisi al sostrato della tradizione apocalittica. Lungo la strada percorsa dai semplici e più antichi paradigmi fino all'immissione di scene relative al culto dei martiri e della Vergine, il simbolismo si fa via via artificioso ed elaborato, perdendo molto della carica emotiva e dell'efficacia che aveva alle sue origini.
Se tra il IV e il V secolo si assiste, come si è detto, al progressivo abbandono delle catacombe, è in questo stesso periodo che sorgono i due principali edifici del culto cristiano, il Battistero e la Basilica che, nelle piante, negli alzati e soprattutto nella decorazione, continuano, ampliandola e rinnovandola, la tradizione del linguaggio simbolico.







Fonte : 
http://www.cortonagiovani.it/progettididattici/simboli/prima.htm
Il linguaggio simbolico nell'arte cristiana . Dalle origini al VI secolo .
Progetto a.s. 2002-2003
Coordinatore Prof.ssa Maria Cristina Ricciardo









giovedì 25 luglio 2019

IL SIGNIFICATO DEL TEMPO DELL'AVVENTO , a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano



IL SIGNIFICATO DEL TEMPO DELL'AVVENTO
a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano




INQUADRAMENTO LITURGICO

Il tempo liturgico che va dai primi vespri del 2 dicembre fino ai primi vespri di Natale (esclusi) è quello dell'Avvento.
Tale tempo liturgico ruota attorno a due  prospettive principali. La prima prospettiva è data dalla parola avvento (dal latino adventus che vuol dire venuta, arrivo) e sta ad indicare. La seconda prospettiva è escatologica, riguarda cioè la fine dei tempi, e indica la seconda venuta del Signore alla fine  dei tempi.
Il Tempo di Avvento, dunque, ha una doppia caratteristica: preparazione alla  solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio  fra gli uomini, e contemporaneamente  è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato  all'attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.
Le letture del Vangelo nelle singole domeniche hanno una caratteristica propria: si riferiscono  alla venuta del Signore alla fine dei  tempi (I domenica), a Giovanni Battista (Il e III domenica); agli antefatti  immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell'Antico  Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal  libro di Isaia. Le letture dell'Apostolo  contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo  tempo.
Il colore liturgico è il viola.
Nel corso dell'Avvento si celebra la solennità dell'Immacolata Concezione di Maria, la Vergine Madre del Signore e Madre nostra. Il tempo d'Avvento è tempo mariano per eccellenza perché Maria è in "dolce attesa" del Figlio. Anche noi siamo chiamati a diventare "generatori di Dio", come diceva il carmelitano beato Tito Brandsma.

 
PREPARIAMOCI AD ACCOGLIERE IL SIGNORE GESÙ

Eccoci giunti al tempo forte dell'Avvento: viene il Signore Gesù.
Chi di noi dovendo ricevere in casa un amico o un illustre ospite non la riordinerebbe, preparando fin nei minimi dettagli ogni cosa, pranzo compreso? Tutti ci daremmo da fare per rendere gradita la visita dell'amico.
Ecco, viene Gesù. Che facciamo?
"A te Signore, elevo l'anima mia, Dio mio in te confido; che io non sia confuso" (Sl 24,1).
Fissiamo lo sguardo su Gesù, lo accogliamo nella nostra vita, nella nostra interiorità.
Importante è creare silenzio in noi, silenzio di intimità, silenzio di ascolto della Parola, silenzio per il Signore.
"Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie" (Is 63, 16).
Pratichiamo, dunque, la giustizia, in noi e attorno a noi. Camminiamo sulle vie del Signore, con rettitudine, con amore. Il cambiamento inizia in noi, dentro di noi. Da noi, non dagli altri.
Il Signore ci concede "tutti i doni, quelli della Parola e quelli della scienza" (1Cor 1, 3): ma i doni vengono dal Signore non sono nostri.
Il Vangelo di Marco di questa prima domenica di Avvento ci richiama continuamente con questi termini: state attenti, vegliate, vigilate.
Rientrare in noi, custodire la Parola, fare silenzio.
Si ricomincia l'Avvento con animo lieto, vigilanti, con buona volontà.
Si parte con entusiasmo, ordunque!
Concedici, Signore la perseveranza, la fedeltà, la costanza.
Da Te ogni dono di grazia, di sapienza, di scienza per vigilare, per amare, per ascoltare, per servire.
Tu vieni, vieni sempre, e ci prendi per mano, ci conduci, ci porti a Te.
Tu ci metti a custodire la casa in attesa del tuo ritorno: che non ci si addormenti in questa attesa perchè Tu torni, tu vieni, vieni sempre.
Donaci uno sguardo di fede, uno sguardo lungimirante per vedere lontano, per leggere la storia, questa storia che viviamo, con Te presente.


APPROFONDENDO IL SIGNIFICATO DELL'AVVENTO

Tempo di grazia, tempo di luce, tempo di risveglio... Dio nasce in un profondo silenzio. Il mese di novembre, mese in cui abbiamo ricordato i nostri defunti,  si chiude con la prima domenica di Avvento. Entriamo nel mese che sancisce l'inizio dell'anno liturgico.
Avvento significa attesa, ma anche silenzio, interiorità, intimità. Vorremmo che l'attesa, in silenzio e preghiera, fosse condivisa con Maria, madre di Gesù,  per ripensare a tutta la storia della salvezza che proprio in Gesù trova compimento. Gesù il Verbo, la Parola del Padre che diventa uomo in tutto tranne che nel peccato.
Attendere amorevolmente in preghiera il Natale del Signore perché l'amore del Padre si manifesta attraverso il Figlio Suo Unigenito, e Figlio di Maria Vergine.
Dicembre è il mese che ci lascia estasiati davanti allo spettacolo della neve che riveste di splendida veste monti, alberi, tetti delle case. Splendore di bellezza è la natura così rivestita e, a prescindere dal freddo, tanta pura bellezza ci fa gioire, di più, ci riscalda il cuore con sentimenti nuovi.
Non lasciamo raffreddare i cuori in questo mese, ascoltiamo il silenzio ovattato del soffice cadere della neve lenta e pur tuttavia frettolosa e, nell'attesa del grande avvenimento, nella natura potremmo rinvenire simboli di quel che accadrà nella "notte di luce", del 24/25 dicembre.
Il Verbo di Dio verrà nel silenzio... verrà in fretta perché l'Amore vuole subito manifestarsi.
Ecco, proprio come la neve silenziosa e frettolosa. L'amore nasce nel silenzio ma in tutta fretta. Troppi secoli, infatti, erano passati dalla caduta di Adamo ed Eva e la nascita del Salvatore. L'Amore aveva davvero atteso troppo!
E finalmente contempleremo l'Amore, la tenerezza di un Dio fatto bambino, fatto uomo come noi.
Se ci saremo ben preparati nel silenzio, nella preghiera, Gesù ci abbraccerà, di colmerà l'anima dei suoi doni, primo fra tutti la pace, poi la gioia e ancora l'amore.
Abbracciàti a Gesù sarà più leggero vivere, e abbracciati a Lui impareremo l'arte più difficile: amare non a parole ma fattivamente e con tenerezza.
Gesù ci farà dono di ciò che oggi manca: i valori. Ma il dono dei doni è sentire: "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama".

 
L'AVVENTO E MARIA

Siamo alla prima Domenica di Avvento e si può dire che ci troviamo anche all'inizio della preparazione alla novena dell'Immacolata. Riflettiamo insieme: Dio scende fino a noi, soltanto per Amore.
Che faremo noi? Ciò che possiamo e dobbiamo fare, è questo:
vivere nella gioia che il Signore viene a salvarci e sforzarci di convertirci dal profondo del cuore.
La conversione la dimostriamo in un unico modo: amando Dio e i fratelli. Amare vuol dire: perdonarci e perdonare.
Talora non perdoniamo a noi stessi di essere come siamo e allora diventa difficile perdonare agli altri: manca la pace nel nostro cuore, manca l'accettazione dei nostri limiti.
Come possiamo accettare gli altri? L'amore scaturisce da un cuore in pace con se stesso, in armonia con se stesso: facciamo unità dentro di noi e faremo unità con gli altri.
L'Avvento ci porta ad approfondire la conoscenza di Gesù per vedere se siamo o no sua trasparenza. Gesù, infatti, è trasparenza del Padre.
Cerchiamo di essere trasparenza del Figlio obbediente al Padre in profonda umiltà.
Come si apre l'anno liturgico e si conclude. Con la celebrazione della Solennità di Cristo Re abbiamo chiuso l'anno liturgico, ora con l'Avvento riapriamo l'anno liturgico.
E' come se dicessimo: una vita nasce, una vita muore. In questo alternarsi è racchiusa la nostra vita e in questo alternarsi dobbiamo realizzare la nostra salvezza.
Il Signore ci dà l'opportunità per realizzarla se ci poniamo con docile disponibilità all'ascolto dello Spirito.
L'anno liturgico ci facilita un cammino costante, scandito dalla Parola, dal tempo di Dio.
L'Avvento è una prima tappa, la prima opportunità offertaci dal Signore per riflettere sul mistero dell'Incarnazione, che celebreremo solennemente il 24 e il 25 dicembre.
Il Cristo, nostro Signore, si è incarnato nel seno della Vergine Maria, per salvare l'uomo, per salvarci tutti, riscattarci dal peccato originale, dalla morte antica.
Salvare l'uomo prendendo un corpo di carne come il nostro e sperimentando con esso quanto l'uomo sperimenta di sentimenti, di dolore, di gioia, di debolezza, di fame e di sete, di sofferenza, di fatica e di insuccesso.
L'Avvento è un momento davvero favorevole per far memoria di quanto il Signore ha compiuto di meraviglie per l'uomo, per noi.
E' questa una contemplazione che deve portarci al rendimento di grazie a Dio.
Guardiamo Maria, la Stella, e andiamo insieme ai pastori all'incontro inafferrabile di Colui che nella Notte del tempo nasce nel nostro tempo, luce senza fine.
La sua venuta ci doni la pace, l'amore, la concordia e la fraternità.per non rallegrarci da soli.
Prepariamoci insieme al Natale del Figlio di Dio, con l'amore, con la preghiera, con la carità fraterna.
Guardiamo Maria e impariamo da Lei a essere uomini e donne di fede, di silenzio, di preghiera, di ascolto della Parola di Dio. Con l'augurio, così, di vivere una meravigliosa festa di Maria e un fruttuoso Avvento.




Fonte :  www.monasterocarpineto.it  , sito del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano.
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Monache Carmelitane tel. e fax 06 97.19.458
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email: monastero@monasterocarpineto.it







RIFLESSIONI SUL MISTERO DELLA PENTECOSTE, a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano



RIFLESSIONI SUL MISTERO DELLA PENTECOSTE
a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano
               




"...Lo Spirito del Signore ha riempito l'universo,
Egli che tutto unisce,
conosce ogni linguaggio. Alleluia."
(Sap 1, 7)

O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e continua oggi, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione.

"Mentre il giorno di pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un rombo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi" (At 2, 1-4).
Cinquanta giorni dopo la Pasqua (questo è il significato del termine Pentecoste) gli apostoli, riuniti nel cenacolo, ricevettero il dono dello Spirito Santo. Un altro segno delle meraviglie che il Signore opera continuamente.

Facciamo nostra la preghiera della grande mistica carmelitana S. Maria Maddalena de' Pazzi (1566-1607):

"...O Spirito Santo, tu che sei la fonte di ogni purezza, brezza che feconda le vergini, ti desidero nel profondo del mio cuore.
Sono consapevole, anche se non quanto dovrei realmente, di non essere in grado di riceverti, in alcun modo. Ma, dal momento che tu sei capace di preparare ogni cuore ad  accoglierti, vieni in me: ti desidero più di qualsiasi altra cosa. Ti invoco, nel nome di Gesù Cristo e del suo sacrificio d'Amore. Vieni in mio soccorso o Santo Spirito, che io possa amarti e pregarti per sempre, senza mai stancarmi.
Prego tutti voi, o spiriti beati e anime gloriose. Vi prego di intercedere per me presso il Signore, affinché lo Spirito Santo faccia di me la sua dimora e, nelle mie sorelle, trovi degna accoglienza.
Vieni Spirito Santo, conforto dell'animo, cibo delle nostre anime.
Ti prego di scendere in noi, di svuotarmi del mio io. Deponi in me tutto ciò che è tuo.
Non ti chiedo, o Spirito, di scendere solo in me, ma anche in tutti coloro che ti invocano, in coloro che ti desiderano e pregano. Vieni per coloro che ti amano.
Vieni, o Spirito Santo, fonte di ogni casto pensiero, centro di ogni benevolenza e purezza.
Ti prego di venire nel mio cuore e brucia in me tutto ciò che resiste al tuo Amore.
Vieni, o Spirito Santo, tu che sei sempre al fianco del Padre e dello Sposo.
Scendi e trova dimora nelle tue spose".


Il giorno della Pentecoste gli apostoli, riuniti nel cenacolo, ricevettero il dono dello Spirito Santo, da allora e prima di allora noi assistiamo alle meraviglie del Signore che opera continuamente.
"O Fuoco consumatore, Spirito di amore, scendi sopra di me, affinché si faccia nella mia anima come Un'incarnazione del Verbo ed io sia per lui un'aggiunta d'umanità nella quale Egli rinnovi tutto il suo mistero"

(Elevazione) beata Elisabetta della Trinità.

O Spirito Santo,
vieni in noi nella Pentecoste quotidiana che il Signore ci prepara nella mensa della Parola e del Suo Corpo e Sangue;
vieni in noi e trasformaci continuamente in apostoli fedeli e coraggiosi del tuo regno;
vieni in noi e opera meraviglie di amore;
vieni in noi e facci essere, insieme con il Padre e con il Figlio, quella comunione di amore che si perpetua
continuamente per tutta l'Eternità. Amen.

Parlare dello Spirito Santo, non è facile.

Si può tentare qualche cosa solo con l'aiuto dello stesso Spirito. Le nostre parole infatti sono inadeguate per esprimere  questo "Fuoco", questo "Amore" che ci riempie "ma è lo Spirito stesso che intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili" (Rm 8, 26), che noi non comprendiamo.
Lo Spirito Santo viene in noi continuamente perché siamo sua dimora, ci rende abitabili, ci porta il Figlio con il Padre. Lo Spirito Santo crea in noi quella comunione di amore che regna tra il Padre e il Figlio. Ci rende aperti e disponibili ai fratelli. Lo Spirito Santo è il nostro "maestro interiore" ed esercita questa funzione sempre, anche quando noi non vogliamo ascoltare.
Lo Spirito Santo ci spinge alla preghiera, è la guida, è il regista e noi parliamo al Padre e al Figlio con le parole da Lui suggerite. Lo Spirito Santo ci allena alle prove della vita, ci rende forti e costanti.
San Paolo ci dice: "Camminate secondo lo Spirito" e "il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5, 16; 22).
In un altro passo dice ancora:"Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo secondo lo Spirito" (Gal 5, 25).

"Non vi lascerò orfani" (Gv 14, 18). Così dice Gesù ai suoi discepoli prima di salire al cielo dopo la sua risurrezione. Lo ripete ad ogni cristiano, ad ogni figlio della luce. Gesù per rendere testimonianza al Padre è morto sulla croce. Per rendere testimonianza a Gesù i discepoli dovranno soffrire, subire persecuzioni e, talora, la morte.
Il cristiano deve percorrere la stessa via di Gesù. Egli dice: "se qualcuno vuol venire dietro a me...prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16, 24). Egli parla di una croce reale che esige, talvolta, una forza eroica: "vi scacceranno dalle sinagoghe, anzi viene l'ora in cui chi vi ucciderà penserà di rendere omaggio a Dio" (Gv 16, 2).
La vera testimonianza a Cristo si dà quando l'esser cristiani ci costa. Il vero amore a Cristo si rivela nelle difficoltà, nelle fatiche, nelle persecuzioni, ecc. Quanti Sacerdoti e cristiani servono il Signore della gloria in catene e...fino al sangue? Ora, dove si attinge tale forza capace di testimoniare l'amore a Gesù e la fedeltà a Lui fino al sangue? "Non vi lascerò orfani" (Gv 14, 18), Egli promette il Paraclito. Il Paraclito è lo Spirito Santo che manderà dal cielo ai suoi discepoli. I discepoli si riunirono con Maria nel cenacolo ed erano assidui e concordi nella preghiera in attesa dello Spirito promesso loro da Gesù. La Chiesa, ogni cristiano,
sono in attesa di speranza. Essi possiedono già lo Spirito di luce, di forza, di santità per dare testimonianza della presenza di Gesù risorto. La Chiesa maestra di verità e Madre di ogni figlio di Dio rigenerato nella
grazia attende con fiducia la nuova Pentecoste, perché Dio mediante lo Spirito, rinnovi la faccia della terra.

La Chiesa -e la Chiesa siamo noi!- prega ed implora i doni dello Spirito facendosi forte della promessa di Gesù: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga in eterno con voi" (Gv 14,16).
Lo Spirito non è altro che la carità-amore di cui vive la Chiesa, di cui vive ogni figlio di Dio e della Chiesa.
Chi vive la carità attira dentro di sé l'Amore del Padre e del Figlio. Gesù ce lo dice chiaramente: "Se nel fare la tua offerta nell'altare ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì la tua offerta...e va prima a riconciliarti con il tuo fratello" (Mt 5, 23-24).
Per avere lo Spirito dobbiamo aprire il cuore alla carità sincera verso i fratelli, verso il prossimo. La carità, infatti, è l'espressione più vera dell'amore verso Dio.
Come  la Chiesa dobbiamo sperare, pregare, amare. La speranza si ravviva nella preghiera fatta in comune.
Nella Liturgia eucaristica ci sentiamo tutti fratelli e i nostri cuori si infiammano di amore per Gesù e i fratelli.
È pure nella celebrazione eucaristica che Gesù rinnova la preghiera al Padre per implorare sulla Chiesa il dono dello Spirito Santo nella nuova Pentecoste. Lo Spirito scende e opera nel cuore di chi vive la vita
cristiana e gli fa capire la sua vocazione divina alla salvezza.

Tutti sappiamo in che cosa consiste l'"avvenimento" della Pentecoste; conosciamo il racconto apostolico che, annualmente, viene letto cinquanta giorni dopo la Pasqua, nelle nostre assemblee domenicali. Ma forse non tutti sappiamo come la Pentecoste sia un avvenimento attuale, nel senso che viene reso attuale, cioè si attualizza, si compie, avviene ogni volta che "due o più persone si riuniscono assieme nel nome del Signore".
Rileggiamo attentamente il passo.

Sono quattro i "passaggi" da prendere seriamente in considerazione.

1) il Tempo : c'è sempre un tempo privilegiato, "un'ora della salvezza", "un momento favorevole" nella vita di ciascuno di noi in cui il Signore passa, ci si manifesta, ci si rivela. Bisogna essere attenti, riflessivi, saperlo cogliere, vedere. Però, prima occorre porsi in atteggiamento  di ricerca, occorre desiderarlo, ricercarlo "con tutto il cuore, la mente e le proprie forze". Cioè solo a chi cerca Dio con tutto se stesso,
cioè sinceramente, il Signore si manifesterà.

2) Indispensabile è il secondo "passaggio" in questa nostra comune ricerca: il Luogo, cioè la circostanza.
La circostanza richiesta dal Vangelo per trovare il Signore, è quella di non essere mai soli. Rileggiamo le varie apparizioni di Gesù ai suoi discepoli o gli stessi episodi in cui si narra dei momenti di "intimità" che
Gesù passava con i suoi: Egli "in privato spiegava loro tutto", ma spiegava tutto a tutti. Oggi come allora,
e come ogni domenica, noi siamo insieme per ascoltare la Parola di Dio, la vera luce che illumina ogni uomo e che non può essere nascosta sotto il tavolo, ma che viene posta in alto, davanti a tutti noi, sull'Altare perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa, cioè a noi che ci troviamo insieme in Chiesa,
che è la Casa di Dio e quindi casa nostra. C'è dunque un "momento favorevole" pregno e pregnante di speranza, quella che il Signore ci si manifesti, che è quello che ci vede particolarmente riuniti insieme in una comune ricerca. Ogni nostra Messa diviene un incontro: incontro con il Signore e tra di noi. E l'incontro si fa attesa:"è bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore" (Lam 3, 26). Il nostro cuore deve essere il luogo dell'incontro, desiderato e atteso: qui tutto deve essere silenzio; una silenziosa attesa e una certa
speranza. Anche la speranza gioca un ruolo importante nel nostro cuore, infatti, "mentre il giorno di Pentecoste stava per finire" e, forse, mai nessuno di coloro che stavano insieme si sarebbe aspettato
qualcosa, noi, forti della loro esperienza e "cementate" dall'Amore che ci unisce, attendiamo in silenzio la novità della salvezza.

3) Il terzo "passaggio", cioè la Modalità con cui si manifesta tale salvezza da parte del Signore, è unica e irrepetibile ma decisamente personale. Lo Spirito del Signore pervade l'universo e riempie tutte le cose:"riempì tutta la casa dove si trovavano", ma indubbiamente ricolmò ogni cuore del suo Amore. E questo suo Amore ciascuno lo percepisce, lo sperimenta, lo vive, in maniera tutta sua, in modo personale.

4) Eccoci giunti al quarto "passaggio": la Trasformazione. C'è chi coglie la manifestazione del Signore con fervore, "come un rombo, un vento gagliardo", chi invece, nella calma del proprio carattere, "come  un vento leggero, una brezza soave", ma rimane certo che lo Spirito è per tutti per tutti, il "vento" soffia.

Ora l'accoglienza che è apertura allo spirito, comporta una necessaria trasformazione. Chi permette allo Spirito di posarsi su di lui, cioè nel proprio cuore gli chiede la forza di cambiare perché gli domanda una trasformazione, un rinnovamento di vita.
Lo Spirito, Colui che rinnova tutte le cose, farà nuovi anche noi, se glielo permettiamo.
E ciascuno cambierà come può perché ad ognuno è data una manifestazione particolare dello Spirito, secondo le  proprie capacità, per il bene comune. Ciascuno di noi, infatti, ha la propria capacità di assimilazione. Dunque, solo così la nostra sarà una Pentecoste permanente: se soprattutto nelle nostre assemblee domenicali, sapremo cogliere il momento del Signore e ci lasceremo trasformare nella nostra vita quotidiana.
In definitiva dobbiamo imparare ad amare il Signore e il luogo in cui Egli dimora: la Chiesa; e, la nostra Chiesa, come la nostra casa, il luogo che ci vede riuniti insieme per ascoltare il Signore di tutti.






Fonte :  www.monasterocarpineto.it  , sito del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano.
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PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO, a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano




PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO
a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano

                       
 
Il 2 febbraio la Liturgia ci fa festeggiare la “Presentazione del Signore al Tempio”.
L’origine della festa è orientale e celebra l’incontro del Signore con il vecchio Simeone. Da qui prende il nome greco di “Ipapante” (incontro). Il vecchio Simeone e la profetessa Anna riconoscono nel Bambino Gesù l’atteso Messia. Tale festa, quindi, deve essere inclusa nella serie di avvenimenti che manifestano il Signore come Messia. Nel corso del tempo si è messa in risalto la purificazione di Maria e il riscatto del primogenito dopo quaranta giorni dalla nascita. Da Gerusalemme questa festa si diffuse poi in tutto l’Oriente, fino a Roma.
Oggi questa festa, che ha subito diversi cambiamenti e adattamenti nei vari secoli e nelle varie culture, è da considerarsi come un “cammino verso Cristo”, come il vecchio Simeone e Anna che Gli andarono “incontro”.
In questi ultimi anni, dopo il Concilio Vaticano II, si è cominciato ad abbinare la Presentazione del Signore al Tempio con la festa dei religiosi/e, della loro consacrazione o rinnovazione dei voti. Nello stesso giorno, poi si è soliti ricordare anche la Giornata della Vita. Si direbbe che sono degli accostamenti “forzati”, ma non è così. La vita è un dono: essere presentati al Signore nel Battesimo ci introduce nella Chiesa di Cristo; la scoperta della propria vocazione porta all’adesione a Lui e alla sua sequela, qualsiasi sia la strada.
Questa festa è essenzialmente cristologica e si collega sempre alla vita consacrata e alla correlata e conseguente dimensione mariologica. Che significato ha l’evento della Presentazione al tempio per Maria? Non è stata tanto una “purificazione” della puerpera, come si diceva una volta (la candelora era chiamata la “purificazione di Maria”): l’elemento centrale del brano evangelico è, infatti, il bambino (mentre il rito di purificazione non prevedeva di portare il bambino al tempio).
Nella Marialis Cultus, si legge: “Nell’episodio della presentazione di Gesù al tempio, la Chiesa, guidata dallo Spirito, ha scorto, al di là dell’adempimento delle leggi riguardanti l’offerta del primogenito (cfr. Es 13,11-16) e la purificazione della madre (cfr. Lv 12,6-8), un mistero salvifico, relativo appunto alla storia della salvezza: ha rilevato, cioè, la continuità dell’offerta fondamentale che il Verbo incarnato fece al Padre, entrando nel mondo (cfr. Eb 10,5-7) […]. Ma la Chiesa stessa, soprattutto a partire dai secoli del medioevo, ha intuito nel cuore della Vergine che porta il Figlio a Gerusalemme per presentarlo al Signore, una volontà oblativa, che superava il senso ordinario del rito” (n. 20).
È questa dimensione oblativa che si deve cogliere come messaggio della festa odierna per le persone consacrate: la strada dell’abbandono radicale di tutto e del dono totale di sé a Dio come il Tutto della propria vita.
La profezia dei voti religiosi consiste nel dire con “fatti di vangelo” che la vita è bella, e non solo quella dell’al di là; la vita è bella già qui, se però è condotta con “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Non è vero che la gioia si compra con l’euro! Non è vero che la povertà fa godere di meno; piuttosto fa godere di più perché mi distacca dalla frenesia e dall’ingordigia: è l’ingordigia che sciupa le cose e le guasta. Non è vero che la castità ti fa amare di meno, semmai ti fa amare di più, perché sana in radice la tua voglia malsana di possedere e di usare l’altro. Non è vero che l’obbedienza mi rende più dipendente, mi rende anzi più libero, perché mi fa ottenere la libertà più preziosa e più rara, non quella dagli altri, ma quella dal proprio io per gli altri. Non una “esclusiva” per privilegiati, ma una scelta “diversa”. La “valenza” spirituale ed umana dei voti, poi, non assurge ad una importanza di tipo “elitario” (quasi che chi non li emette non possa essere un “buon cristiano”); al contrario, essa esclude la “selezione” mentre manifesta e propone una semplice diversità di scelta. “Non voi avete scelto Me, ma Io ho scelto voi” (Gv 15, 16); chi emette i voti, dunque, sceglie Cristo e sceglie ciò che il Signore ha scelto per lui.
Un'altra considerazione consiste in ciò che viene offerto, promesso, presentato, “votato”, come Gesù al Tempio nella festa odierna. Non si tratta di promettere “qualcosa” a Qualcuno; si tratta, meglio, di offrire “qualcuno” a “Qualcun Altro”: si tratta di votare sé stessi al Signore, di “darsi”, di “svuotarsi” di sé, di “regalarsi”, di donarsi a Chi si è donato a noi per primo insegnandoci a “restituirci”: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1), e Cristo è l’offerente per eccellenza, il dono per eccellenza al Padre per la nostra salvezza. Il culto vero, quello spirituale, è “vivente”. Il Signore vuole noi stessi per Sé e vuole Se stesso per noi: “Mentre Dio non ha bisogno di nulla, l'uomo ha bisogno della comunione con Dio”, si dice.
In una società “spersonalizzante” come la nostra la professione dei tre voti è una testimonianza che riconduce, ogni uomo e donna, a guardarsi dentro, a chiedersi quali siano i veri valori che sia lecito, giusto, consentito conseguire... anche lottando, soffrendo, sapendo rinunciare, cioè imparando ad amare. Votarsi a Dio, ossia riconoscere che tutto Gli appartiene e volerglielo restituire con amore e fiducia, non è “sadismo”, e non costituisce una rinuncia come generalmente si pensa.
È anche qui indubbio che quando si sceglie qualcosa o qualcuno si “rinuncia” automaticamente ad altre cose e ad altre persone; così avviene (o dovrebbe avvenire) anche nell'ambito del matrimonio e per qualsiasi altra vocazione; e così accade anche per coloro che hanno scelto il Cristo perché da Lui sono stati scelti. Ma con una differenza sostanziale: chi sceglie Cristo sceglie i fratelli, il mondo intero, la Chiesa tutta e diviene padre-madre spirituale di ogni uomo; ecco perché il Signore rassicura nel Vangelo l'uomo “calcolatore” (Pietro!) che domanda preoccupato: “Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito. Ed Egli risponde: In verità vi dico, non c'é nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà” (Lc 18, 28-30). Il consacrato è la persona “innamorata” di Dio: nella sua libertà ha riconosciuto l'Amore del Signore e non può fare a meno di seguirLo; vuole restituire, sente la necessità di “darsi”. Vuole amare. Solo chi ama è felice; questo il Signore lo sa bene, Lui che ci creati non perché abbia bisogno di noi, ma perché è Amore e, come tale, ha “necessità” di “riversarsi” sull'altro. L'Amore, per Sua natura, è diffusivo; e Dio, il nostro Dio Uno e Trino, in questa donazione reciproca che crea Amore increato, genera Amore... Egli vuole insegnarci a fare altrettanto; vuole, in una parola, donarci il “gusto” vero della vita, delle cose, vuole farci vedere dove e cosa sia la vera felicità. Dice l’Apostolo: “Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4, 18). E continua: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”, (1Cor 13, 13.
Ecco, dunque, la “medicina”! Il Signore apre la via ed il cuore alla libertà, offre la vera felicità, ci suggerisce il modo di evitare tante preoccupazioni inutili che ci “appesantiscono” il cammino, ci concede un sonno sereno e una pace interiore costante dopo aver fatto il nostro dovere, ci dona la gioia di vivere ma, soprattutto, ci fa comprendere il vero senso della vita che è Lui, l'Amore e, perciò, quello di amare.
 
 
 




Fonte :  www.monasterocarpineto.it  , sito ufficiale del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano.

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AVVENTO : le antifone "O" precedono il Natale come attesa del Messia , a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano



AVVENTO : le antifone "O" precedono il Natale come attesa del Messia
a cura del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano
    



     
Introduzione all'Avvento del Signore Nostro Gesù Cristo

Ci apprestiamo a vivere l’Avvento: Avvento come attesa, attesa di Colui che viene, e Colui che viene è il Signore. Attraverso le IV domeniche di Avvento la liturgia ci prepara a questo incontro.
Come sappiamo le letture del Vangelo delle quattro Domeniche d’Avvento “hanno una loro caratteristica propria:
- si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica),
- a Giovanni Battista (II e III domenica);
- agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica)” (Avvento, Dizionario di Mariologia).
Le letture dell’Antico Testamento, tratte soprattutto dal libro di Isaia, sono le profezie sul Messia e sul tempo messianico. Le letture dell’Apostolo contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo tempo.
Infine le ferie dal 17 al 24 dicembre sono ordinate ad una più immediata preparazione al Natale del Signore. Questo è lo schema di ogni anno.
Vediamo da vicino le 4 domeniche di Avvento.
Nella prima domenica:  “attendiamo vigilanti la venuta del Signore”. Questo anno mettiamo la nostra attenzione al Salmo responsoriale della Domenica, magari ripetendolo durante la settimana e pregandolo.
Nella prima domenica troviamo il Salmo 79: Signore, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi. Questo Salmo ci parla dell’afflizione per l’esilio. Il Signore viene invocato come pastore di Israele, come guardiano della vigna. E’ una invocazione accorata al Signore perché ci sia vicino e perché possa tenerci vicini.
Nella seconda domenica: possiamo pensare a Giovanni Battista che ci invita a “preparare la via al Signore che viene”.
Nella seconda domenica troviamo il Salmo 84, che è quello più usato in Avvento: Mostraci Signore la tua misericordia e donaci la tua salvezza. Questo Salmo ci parla della misericordia di Dio verso Israele. Troviamo diversi motivi: il ringraziamento, la richiesta di salvezza per chi lo teme, la benevolenza del Signore che si manifesta con amore e verità, giustizia e pace.
Dopo la seconda domenica di Avvento troviamo la solennità di Maria Immacolata, che ci ricorda la docilità alla voce del Signore, la prontezza nell‘ascoltare la sua Parola, la fedeltà al progetto di Dio nel “sì“, la perseveranza fino ai piedi della Croce, nell‘ora della prova. .
Nella terza domenica, detta “Gaudete“: è sempre Giovanni Battista che ci addita il Messia vicino.  Quindi l’invito ad aprire il cuore al Messia vicino.
Nella terza domenica ci accompagna il Magnificat: La mia anima esulta nel mio Dio. 
Nella quarta domenica: Maria nell’imminente parto ci ricorda che la promessa si sta adempiendo.
In questa domenica abbiamo il Salmo 88: “Canterò per sempre l’amore del Signore”. Questo salmo è una celebrazione dell’amore del Signore, di generazione in generazione, nonostante le infedeltà della casa di Davide.
Durante l’avvento, durante la liturgia di ogni giorno, vengono proposti questi e altri Salmi: il 23, il 24, il 71, il 121, oltre ai cantici di Anna, Magnificat e Benedictus. Sono un invito a pregare con la Parola di Dio, che si fa nostro nutrimento, nostro cibo quotidiano.
Il tempo di Avvento, che ogni anno ci fa iniziare l’anno liturgico -concluso con la solennità di Cristo Re dell‘universo e la XXXIV settimana del tempo ordinario-, è una preparazione alla venuta del Signore. Siamo invitati ad una preghiera personale e comunitaria, ad impegni piccoli ma portati avanti con fedeltà e spirito di servizio. In famiglia -come già si fa- oltre alla preparazione con la corona di Avvento, si può recitare alla domenica il Salmo indicato, prendere un punto in comune per tutta la settimana.


LE ANTIFONE  " O " 

PRECEDONO IL NATALE  COME ATTESA DEL MESSIA


 


Le antifone «O» che caratterizzano i giorni immediatamente precedenti il Natale portano in sé l’attesa del Messia, quale poteva essere presso gli Ebrei dell’Antico Testamento, quale deve essere presso i cristiani di tutti i tempi. L’attesa raggiunge il suo vertice nella persona di Maria. Le liturgie di tutte le chiese del mondo cattolico hanno voluto ricordare ciò, concedendo in tempo di Avvento uno spazio rilevante alla persona di Maria.
Nell’attuale liturgia romana di Avvento Maria è presente dappertutto, con una presenza discreta. Si pensi al mistero dell’Annunciazione, ricordato in tutto l’Avvento, talvolta in maniera drammatica, a porne in evidenza la determinante importanza per il piano della salvezza. Dicono i testi della liturgia, lo affermano i Padri e gli scrittori della Chiesa, da Ireneo ad Agostino, a Bernardo, a Isacco della Stella, che Maria in Avvento è la madre della speranza, e diviene la speranza della Chiesa e di ognuno che ad essa appartiene. Si può affermare che l’Avvento, da un punto di vista liturgico, è la stagione più mariana dell’anno, ancor più dello stesso mese di maggio, che la devozione popolare d’occidente ha dedicato alla Madre del Signore da tempi lontani.
C’è stato un tempo, in cui fra le antifone «O», rivolte al Messia venturo, aveva trovato posto un’antifona indirizzata alla Vergine. Il testo esprimeva, nella sua prima parte, la meraviglia del cristiano dinanzi al mistero, unico nella storia dell’umanità, della maternità verginale. Nella seconda parte, l’antifona riportava la spiegazione che la Vergine stessa dava del mistero: «O Vergine delle vergini, come potrà avvenire questo? Nessuna altra donna è mai stata simile a te, né mai lo potrà essere in futuro! – Figlie di Gerusalemme, perché vi meravigliate di me? Quello che voi vedete è un mistero divino»*.
L’antifona era nella liturgia dell’«Attesa del parto della Beata Vergine Maria» che si celebrava nella Spagna visigotica il 18 dicembre, otto giorni prima del Natale. I padri del Concilio di Toledo del 656 avevano voluto tale festa, seguita da una ottava. Erano persuasi che la dignità di questa celebrazione non dovesse essere inferiore a quella del Natale: «La festa della Madre non è niente altro che l’Incarnazione del Verbo», dicevano i padri conciliari.
La sua festa prese poi la denominazione di «Nostra Signore delle O» o «Festa dell’O» a motivo dell’inizio dell’antifona sopracitata: «O Vergine delle vergini…». Durante l’ottava, di buon mattino si celebrava una messa solenne alla quale si facevano assistere tutte le donne incinte, qualunque fosse il loro rango: primo, per venerare la divina maternità di Maria; in secondo luogo, per averne il soccorso nei travagli del parto.
La festa, vera celebrazione della vita, ebbe grande diffusione nell’impero carolingio.
A Milano, già da tempo, si celebrava la memoria di Santa Maria nella sesta ed ultima domenica di Avvento. La celebrazione dava all’ultima settimana di Avvento nel rito ambrosiano la denominazione di settimana «dell’attesa».
Maria ci apre il segreto della stagione liturgica, che è l’Avvento: per lei fu tempo privilegiato, in cui «attese e portò in grembo con ineffabile amore» il Figlio; per noi è tempo provvidenziale, di cui servirci per preparare, in attesa vigilante, l’entrata del Cristo nei nostri cuori.
Breve è il tempo: bisogna approfittare, ammonisce la liturgia, mentre disegna, in questi giorni, un itinerario cronologico verso la festa: «Ecco, stanno per compiersi tutte le cose che sono state dette dall’angelo intorno alla Vergine Maria». Ecco, dunque, il primo annuncio: il Signore sta per venire. Egli, il figlio della Vergine, toglierà il giogo della nostra schiavitù, rendendoci donne e uomini liberi. La nostra attesa si fa speranza, si fa preghiera: «Oppressi a lungo sotto il giogo del peccato, aspettiamo, Padre, la nostra redenzione: la nuova nascita del tuo unico Figlio ci liberi dalla schiavitù antica».


17 dicembre

O Sapienza,
che esci dalla bocca dell’Altissimo,
ti estendi ai confini del mondo,
e tutto disponi con soavità e con forza:
vieni, insegnaci la via della saggezza.


Il primo appellativo con cui nelle ultime ferie di Avvento ci si rivolge al Verbo Figlio di Dio, è quello di Sapienza. Dal titolo si sviluppa la preghiera: «O Sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo, ti estendi ai confini del mondo, e tutto disponi con soavità e con forza: vieni, e insegnaci la via della saggezza».
Nel Nuovo Testamento sapienza si identifica con Cristo, Figlio e Parola di Dio.
Gli scritti apostolici non temono di attribuire al Cristo quegli attributi che l’Antico Testamento riservava alla Sapienza.
In Paolo, il Cristo è chiamato «sapienza di Dio» (1 Cor 1, 24-30): egli stesso è sapienza e, al contempo, fa conoscere agli uomini la sapienza di Dio. E Giovanni nei suoi scritti annota chiaramente che il Figlio è la Sapienza del Padre, come è la sua Parola.
Gesù, Sapienza di Dio, promette ai suoi il dono della sapienza: «vi darò una sapienza a cui i vostri avversari non potranno controbattere» (Lc 21, 15).
Chi lo accetta nella vita ed entra in comunione con lui, gode i frutti della sapienza divina ed entra nell’intimità di Dio.
L’antifona, intessuta di testi presi dall’Antico Testamento, ricorda che la Sapienza fu presente a Dio, quando egli creava il mondo e lo ordinava. Gli è presente ora, mentre lo conserva e lo rinnova continuamente.
Uscita dalla bocca di Dio, come una Parola, la Sapienza è un soffio della potenza divina, una effusione della gloria dell’Onnipotente, uno specchio dell’attività di Dio, un riflesso della luce eterna, una immagine della sua eccellenza.
Nel corso della storia della salvezza, la Sapienza sarà inviata da Dio in mezzo ad Israele, per abitare con gli uomini, per assicurare ad essi la salvezza e dirigerne la storia facendola camminare su vie provvidenziali.
La Sapienza che tutto dispone con soavità e con forza, perché senza far violenza alla libertà arriva immancabilmente al fine stabilito, è invocata, perché venga ad insegnare agli uomini chi è Dio, chi è l’uomo, il senso della vita, il significato della storia e del destino umano.
Nella luce della Sapienza divina, l’uomo troverà la capacità di comportarsi con prudenza nella vita. Gli sarà sufficiente tenere gli occhi fissi su Colui «che è forza e Sapienza di Dio» (1Cor 1, 24).


18 dicembre

O Signore, guida della casa di Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto,
e sul monte Sinai gli hai dato la legge:
vieni a liberarci con braccio potente.


Poche parole, tolte dalla Bibbia e legate insieme nel giro di un’antifona, riassumono una storia antica e ne introducono una che non può non esserci. L’antifona così si esprime: «O Signore, guida della casa di Israele, che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto, e sul monte Sinai gli hai dato la legge: vieni a liberarci con braccio potente».
Per l’accenno fatto alla storia di Mosè e alla liberazione del popolo di Israele sembra che l’antifona voglia rendere più attuale il clima della redenzione che non quello del Natale.
Dio è apparso nel deserto a Mosè, e da lui si è fatto riconoscere nel segno del roveto ardente dell’Oreb. Dio si rivela sul monte Sinai come il grande legislatore. E come il popolo avvertiva questa presenza di Dio! Egli era in mezzo al suo popolo e abitava nella tenda del convegno, Dio era con il suo popolo pronto a sostenerlo con la sua mano e a difenderlo con il suo braccio.
A lui si rivolge la preghiera: «vieni» perché si manifesta ancora. Il segno che Dio darà della sua presenza sarà quello del Verbo fatto carne. Egli verrà a liberare il suo popolo dalla schiavitù del peccato e del maligno. Stenderà la sua mano, ma non per colpire, quanto piuttosto perché essa gli venga inchiodata sulla croce: «Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce…» (Preghiera Eucaristica III). Così è la liberazione che avviene nella pienezza dei tempi. Essa inizia a Betlemme e si conclude al Calvario.
Il testo su cui oggi si prega ci pone a contatto con il mistero di un Dio che non teme di intervenire nella storia degli uomini, per riunirli e per salvarli. Anche nel corso dell’Avvento abbiamo orientato le nostre preghiere secondo questa direttrice e abbiamo invocato: «Risveglia la tua potenza e vieni…». Ma avevamo la certezza che il Dio forte sarebbe venuto a liberarci non in potenza, bensì in umiltà. Questa è la sua apparizione più bella. A Natale, la voce dell’apostolo Paolo ce ne darà l’annunzio: «… si sono manifestati la bontà di Dio, Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini…» (Tt 3, 4).
In tale maniera Dio ama manifestare la forza del suo braccio e della sua mano.


19 dicembre

O Radice di Iesse,
che ti innalzi come segno per i popoli:
tacciono davanti a te i re della terra,
e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci, non tardare.


L’immagine di una radice domina il tema dell’antifona per il 19 dicembre: «O Radice di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli: tacciono davanti a te i re della terra, e le nazioni ti invocano: vieni a liberarci, non tardare».
Quale è il pensiero della Chiesa quando si rivolge al Cristo venturo con tale appellativo? Forse si trova la scia alla comprensione di questo simbolo, pensando a ciò che di meraviglioso porta in sé una radice. Essa vive nascosta nel suolo della terra, è senza bellezza e non ha forme regolari. Tuttavia è la parte più essenziale per la vita e la sopravvivenza di una pianta. La radice contiene in sé la crescita della pianta: in essa c’è la vita, per mezzo della quale le piante, nella loro maggioranza, possono rinnovarsi. Se la radice si ammala o muore, la pianta non può sopravvivere.
Il simbolismo biblico della radice non prescinde da tutto ciò.
Nell’antifona citata, «radice» vuol significare una generazione o discendenza. Il profeta Isaia, a cui si ispira il testo liturgico, aveva predetto: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11, 1). Quando questo personaggio apparirà nella famiglia di Iesse riunirà tutti gli eletti da tutte le nazioni e aprirà una strada di salvezza per tutte le nazioni.
Nell’atmosfera prenatalizia in cui il testo liturgico è usato, il germoglio è da intendersi come Cristo: egli è radicato nel popolo di Israele, è legato ad una genealogia umana, che Dio ha predestinato alla storia della salvezza, nonostante ci fossero in essa anelli di miseria e di peccato.
Nell’albero genealogico del Cristo, tracciato dall’evangelista Matteo, sono di fatto presentate ragguardevoli personalità di peccatori. Ciò significa che nulla di umano è estraneo a quel nostro Dio, che si innesta nel tronco dell’umanità.
Un giorno egli diventerà «vessillo per tutti i popoli». Il testo, che si ispira ancora a Isaia, risveglia nello spirito la parola del Cristo: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me. Questo diceva [Gesù] per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12, 32). La croce è il punto vertice della storia del mondo e della vita di ogni uomo, ed è mistero che spegne la parola sulle labbra dei re, dei potenti e dei sapienti della terra («davanti a lui si chiuderanno la bocca» Is 52, 15), incapaci di capire il mistero del suo annientamento («radice in terra arida» Is 53, 2) e della sua glorificazione. Solo coloro che sono «radicati e incorporati in Cristo» (Col 2, 7), «radicati e fondati nella sua carità» (Ef 3, 17) saranno beati nel contemplare il mistero di Betlemme e del Calvario e ascoltandone le risonanze nell’intimo dello spirito.
L’antifona si chiude con un invito al Cristo: «Vieni a salvarci» e con un grido che va a unirsi all’aspettativa di cui il Cristo stesso è stato oggetto nel succedersi di intere generazioni: «Non tardare!». Il Cristo, dall’ultima pagina del libro dell’Apocalisse, non lascia mai mancare la sua risposta: «Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino».
Così egli si definisce, nell’ora in cui spunta una nuova vita, quella eterna, che fiorirà per tutti gli eletti da lui: il Bambino di Betlemme, il Crocifisso e il Risorto del Calvario.


20 dicembre

O Chiave di Davide,
scettro della casa d’Israele,
che apri, e nessuno può chiudere,
chiudi, e nessuno può aprire:
vieni, libera l’uomo prigioniero,
che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte.


Mentre attendiamo la venuta del Cristo a Natale, lo salutiamo: «O Chiave di Davide e scettro della casa di Israele». Già l’angelo Gabriele portando a Maria la notizia del disegno di Dio su di lei, le aveva parlato di un Figlio, che lei avrebbe avuto: «Sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre nella casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33). Anche Gesù più tardi in diatriba con i suoi oppositori, farà loro riconoscere che il Cristo è figlio di Davide e che questi lo riconosce Signore.
Quando, in questi giorni di preparazione di Natale, noi ci rivolgiamo a Cristo con l’appellativo: «O Chiave di Davide, scettro della casa di Israele», riconosciamo in lui il Signore da cui derivano tutte le signorie e i poteri. La chiave racchiude in sé un simbolismo, proprio all’antichità pagana e biblica, di potere, di amministrazione, di responsabilità. La consegna delle chiavi, dopo la presa di una città, equivaleva al riconoscimento che il vincitore era padrone di tutto. A un ministro della casa reale erano date le chiavi della casa, come segno della sua investitura e del suo ufficio. Poiché tali chiavi erano piuttosto grosse e non potevano essere portate in tasca, come noi siamo abituati a fare, esse venivano poste sulle spalle del designato. Di là deriva il nostro modo di dire: porre una responsabilità sulle spalle di qualcuno.
Sulle spalle del pio Eliacim venne messa, per ordine di Dio, la chiave del potere che era stato tolto a Sebnà, poco amante di Dio (cfr Is 22, 20-25). Dio ne dà spiegazione: «Porrò sulle sue spalle le chiavi della casa di Davide; se egli apre nessuno chiuderà, se egli chiude, nessuno aprirà».
Eliacim è immagine del Messia. Cristo stesso riprende per sé il titolo e la funzione di cui sopra, parlando, nell’Apocalisse, alla chiesa di Filadelfia: «Così parla il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3, 7).
La casa di Davide è indicatrice della Chiesa e del regno dei cieli. Solo il Salvatore ha il diritto di introdurre le anime nello stesso regno. Egli porta sulle spalle il simbolo di tale potere, datogli dal Padre: la croce. Essa è la chiave, per mezzo della quale il Cristo apre il cielo.
Ma l’uso dell’immagine della chiave nei giorni dell’Avvento, vuole ricordare che il Cristo, già con la sua venuta, è la chiave che apre il carcere del peccato, a coloro che vi si trovano, vittime di questa miseria. La prospettiva è aperta dall’allusione che il testo dell’antifona («Vieni, e libera l’uomo prigioniero») fa alla profezia di Isaia: «Io, il Signore, ti ho destinato… perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri» (Is 42, 7).
Il Cristo non viene per condannare, ma viene solo per liberare coloro che «giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte» (cfr Lc 1, 79). I due termini sono sufficienti a richiamare lo squallore del carcere, così ben conosciuto nell’antichità. E oggi? Quante catene tengono prigioniero l’uomo contemporaneo! Il Cristo, che incarnandosi si è fatto «prigioniero» della nostra carne, restituisce la libertà a tutto ciò che lui ha reso libero per grazia, risolleva tutti alla dignità di uomini redenti.


21 dicembre

O Astro che sorgi,
splendore della luce eterna, sole di giustizia;
vieni, illumina chi giace nelle tenebre
e nell’ombra di morte.


Nel linguaggio biblico l’Oriente è quella parte del mondo da cui ogni giorno arriva agli uomini la luce, il calore, la vita. Questa concezione appare già nel racconto biblico della creazione dell’uomo: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato…» (Gen 2, 8). L’origine di ogni essere è nel paradiso, «in Oriente».
Il cristianesimo fin dagli inizi fu consapevole di tale simbolismo e frequentemente si aprì ad esso. Nel Battesimo, al momento in cui il catecumeno faceva la sua rinuncia a satana, alle sue opere e seduzioni, doveva voltarsi verso l’occidente, considerato come la regione delle tenebre. Per giurare la sua fedeltà a Cristo, sole di salvezza, si rivolgeva invece verso oriente. Era l’inizio simbolico della via della salvezza, che il battezzato intraprendeva per staccarsi dalla rovina e dalla morte e procedere verso la risurrezione, la vita, la luce.
Il medesimo simbolismo diede origine all’uso di fare la preghiera voltandosi verso oriente, perché, spiegava Origene, uno che ha ricevuto il nome di Cristo, diviene figlio dell’oriente e lì deve dirigere i suoi desideri.
Tale concetto è il motivo per il quale le chiese sono «orientate», cioè con l’abside verso oriente. Anche i morti sono stati seppelliti con la faccia ad Oriente. Di lì, un giorno, ritornerà il Signore per l’ultimo giudizio.
Non c’è da stupirsi pertanto che il tema del Cristo «Oriente – Astro che sorge» sia compenetrato con tutta la liturgia, specialmente con quella della Pasqua e del Natale, con la liturgia delle Ore, per la quale basterà citare l’inno ambrosiano: «Splendore della gloria paterna…».
La preghiera al Cristo, invocato, in questa giornata, come aurora che sorge, si arricchisce di due altri appellativi: Cristo è «splendore di luce eterna e sole di giustizia».
La luce è sempre stata considerata come attributo della divinità: «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1 Gv 1, 5). Dio «è avvolto di luce come di un manto» (Sal 103, 2). «Egli abita una luce inaccessibile» (1 Tim 6, 16). Quando il Messia nascerà, afferma Isaia, il popolo che cammina nelle tenebre vedrà una grande luce, su coloro che abitano in terra tenebrosa una luce rifulgerà (cfr Is 9, 1). A quaranta giorni dalla sua nascita, il Salvatore, è riconosciuto da Simeone nel tempio come «luce che illumina le genti» (Lc 2, 32). Egli «è la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 2, 32). Cristo stesso potrà un giorno assicurare: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12). Avviene ciò durante l’esistenza di un cristiano. Come la luce del sole dà a tutte le cose di questo mondo il loro giusto contorno e permette di vederle e di goderle, così fa il Cristo «sole di giustizia» (Mal 3, 20)
per tutte le situazioni della vita, e le trasforma in occasione di bene.
Al Cristo «aurora che sorge, splendore della luce eterna, sole di giustizia» oggi si indirizza la supplica: «Vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte» (cfr Lc 1, 79).
Con il padre di Giovanni il Battista, Zaccaria, il primo che ha parlato così nel suo cantico, si riconosce che noi, con il nostro mondo, siamo tanto poveri di luce divina.
A Natale «il sole di giustizia verrà a visitarci dall’alto» (cfr Lc 1, 78) e non si farà schermo alla sua luce perché arrivi a ogni uomo: i misteri del Natale, così, continueranno a portarci luce, vita, gioia.


22 dicembre

O Re delle genti,
atteso da tutte le nazioni,
pietra angolare
che riunisci i popoli in uno,
vieni,
e salva l’uomo che hai formato dalla terra.


La preghiera, che la liturgia mette sulle labbra per questo giorno, crea intorno al trono del Re-Messia un grande movimento di popoli e accenna a desideri che sono stati formulati nel corso dei secoli, nell’aspettativa sempre viva di un Salvatore: «O Re delle genti, atteso da tutte le nazioni…».
Nel mondo pagano, la figura del re apparteneva alla sfera del divino. Egli era ritenuto un’incarnazione della divinità, era portatore di particolari privilegi; tutti i suoi atti erano ritenuti divini, a lui doveva essere attribuito un culto. Per un giudeo, le cose erano diverse: il posto di Dio non poteva essere usurpato da nessun uomo, anche se re. Dio è il vertice e la sua pozione è ben determinata. Il Signore è il nostro giudice, nostro legislatore, re: egli ci salverà, dice varie volte la Scrittura.
Quando Israele, in un certo momento della sua storia, vuole avere un re, questi resta sottomesso, come tutti gli altri uomini, alle esigenze della Legge e dell’Alleanza con Dio. Con Davide, la sua situazione di fronte a Dio viene precisata. Davide riceve da Dio la promessa che il suo regno sarà stabile. Il re viene chiamato, dopo la sua intronizzazione, figlio di Dio: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2, 7).
Il disegno di Dio abbozzato nelle profezie si realizzerà nella pienezza dei tempo. Ad essi si riferisce il profeta Isaia quando annunzia la nascita del re, che porterà al popolo di Dio gioia, vittoria, pace e giustizia. Le promesse proposte dai profeti definiranno il ruolo di Gesù, creatore del regno. Di esso parla l’angelo Gabriele a Maria: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33). La ricerca dei magi a Betlemme e l’offerta dei doni sono un riferimento simbolico al regno del Cristo. Durante la vita pubblica, molte voci acclameranno al Cristo discendente di Davide e nella giornata delle Palme diverranno un coro esaltante la sua regalità. Anche nell’Apocalisse inni celesti affermeranno: «Il regno del mondo appartiene al Signore nostro e al suo Cristo: egli regnerà nei secoli dei secoli» (Ap 11, 15).
Questa è la storia da leggersi dietro l’appellativo «Re delle genti…». A Natale noi adoreremo il Cristo Re, nato per noi. Mentre lo si riconosce tale, si prega e si lavora perché il «suo regno venga», si dilati e si consolidi.
La prima terra di conquista sarà il nostro cuore: che esso non gli sia solo dimora, ma gli sia regno. Il re che viene farà intorno a sé unità. Simbolo di essa è la pietra fondamentale o pietra d’angolo, cioè quella prima pietra da cui nasce una costruzione, e che la tiene insieme. Questa pietra è stata guardata nella tradizione giudeo-cristiana come un’immagine del Messia e della sua missione. Isaia riporta la parola di Dio: «Ecco, io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata; chi crede, non vacillerà» (Is 28, 16). A tale profezia si riferisce Pietro, quando ricorda ai membri del Sinedrio che Gesù è «la pietra che, scartata dai voi costruttori, è diventata testata d’angolo» (At 4, 11). Poiché il Cristo è la pietra fondamentale, Pietro trae le conclusioni: è necessario stringersi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, per essere impiegati come pietre vive per la costruzione di un ed
ificio spirituale… (cfr 1 Pt 4, 5). Cristo stesso aveva applicato a se stesso questo passaggio di Isaia quando, raccontata la parabola dei vignaioli perfidi, l’aveva conclusa severamente: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra, che i costruttori hanno scartato, è diventata testata d’angolo? Dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile ai nostri occhi”. Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare…» (Mt 21, 42-43).
Gli scritti apostolici ritorneranno su questi testi, non solo per dimostrare con essi la messianicità del Cristo, ma per indicare che non si può essere neutrali di fronte al Cristo stesso. O lo si fa entrare come pietra fondamentale delle nostre costruzioni oppure diviene egli come pietra in cui inciampano coloro che in lui non credono. Paolo scrivendo agli efesini vede possibile che tutti facciano crescere «in Cristo, pietra angolare, ogni costruzione ben ordinata, per essere tempio santo del Signore» (Ef 2, 20-21).
L’antifona ricca delle immagini di un regno aperto a tutti, e nel quale tutti si trovano riuniti, grazie al Cristo, si chiude con una invocazione che richiama lo sguardo del Messia sulla fragilità dell’uomo, che Dio creatore ha modellato sulla terra a sua immagine. Perduta la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo si incontra nel mistero dell’Incarnazione con la benignità e la misericordia di Dio, che lo innalzano alla dignità d’origine.
Quando ci si inginocchia dinanzi al presepio, ci si rialza con la fronte recinta di corona regale. Ce la ridona colui che ha voluto condividere la nostra natura umana.


23 dicembre

O Emmanuele,
nostro re e legislatore,
speranza e salvezza dei popoli:
vieni a salvarci,
o Signore nostro Dio.


«O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio». Così si prega con l’antifona assegnata per la giornata odierna. Si ha subito l’impressione che l’orazione riprenda alcuni temi che sostenevano già l’antifona di ieri: la regalità del Cristo, l’attesa di lui da parte di tutte le nazioni, lui, fonte di salvezza. Ma gli appellativi con cui oggi ci si rivolge al Messia, sono più vicini e familiari a noi. Si parla di un Dio, che sta per entrare nella famiglia degli uomini e vi rimarrà come l’Emmanuele, cioè Dio con noi. Il nome Emmanuele riporta alla profezia di Isaia, circa la nascita liberatrice di un bambino, della famiglia di Davide, nel momento in cui essa si trova in pericolo estremo e circa il prodigio della partenogenesi cioè della maternità verginale di una donna.
Il Nuovo Testamento, e tutta la tradizione cattolica, vedranno realizzata la profezia in Maria e in Cristo «Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (Is 9, 5). Dal giorno in cui la parola profetica divenne realtà storica e «il Verbo si fece carne e abitò in mezzo a noi» (Gv 1, 14), la conoscenza di Dio, nell’esplicita determinazione del Verbo-Uomo e della Vergine-Madre si sparse nel mondo e gli adoratori del solo Dio furono, nella maggioranza, gli adoratori del Dio fatto uomo e del Bimbo, figlio della Vergine.
Sulla base di genealogie, tutti constatarono che questo Bimbo era discendente della casa di Davide. Il suo nome non era Emanuele, ma Gesù. Ma egli era realmente il Salvatore e il «Dio con noi» (Mt 1, 23). Crebbe nel nascondimento fino al giorno in cui apparve come luce per tutti, ma specialmente per i semplici e i poveri, che accoglievano con animo aperto il regno di Dio. Ad essi, in particolare, quell’Uomo facilitava il collegamento con Dio. Ad essi era assicurata la gioia che Dio visitava il suo popolo e che non lasciava mancare a nessuno il suo aiuto. Chi credeva in Gesù, il Cristo, sperimentava che in lui si realizzava il contenuto e l’importanza del nome Emmanuele, che i profeti avevano affidato ai secoli dell’attesa. Diveniva allora facile accostare a questo appellativo gli altri nomi, che il profeta aveva previsto come proprio del Bambino nato.
A dire la prudenza e la sapienza dell’Emmanuele lo avevano chiamato «Consigliere ammirabile»: Cristo si sarebbe manifestato tale nella sua dottrina, fonte di serenità. Un altro titolo, quello di «Dio potente», proclamava la divinità del Bambino. Il chiamarlo «Padre per sempre» metteva in evidenza l’amore che avrebbe legato, per sempre, il re nato e i suoi sudditi. La qualifica di «Principe della pace» gli era data perché l’Emanuele promulgava la pace tra Dio e l’uomo.
«Dio con noi»: tale è il Cristo nella vita della Chiesa e degli individui fino alla fine dei secoli. Egli stesso ne ha dato certezza: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Allora lo si vedrà nello splendore della sua regalità e della sua giustizia, come speranza dei popoli e loro salvatore. In quel giorno troveremo sicuramente Colui, che abbiamo cercato come nostra salvezza in tutti i momenti della vita. Uno è quello con cui si chiude oggi la nostra preghiera: «Vieni a salvarci, o Signore nostro Dio».


24 dicembre

Quando sorgerà il sole,
vedrete il Re dei re:
come lo sposo dalla stanza nuziale
egli viene dal Padre.


Signore nostro Dio! Quando la paura ci prende, non lasciarci disperare! Quando siamo delusi, non lasciarci diventare amari! Quando siamo caduti, non lasciarci a terra! Quando non comprendiamo più niente e siamo allo stremo delle forze, non lasciarci perire! No, facci sentire la tua presenza e il tuo amore che hai promesso ai cuori umili e spezzati che hanno timore della tua Parola.
È verso tutti gli uomini che è venuto il tuo Figlio diletto, verso uomini abbandonati: poiché lo siamo tutti, egli è nato in una stalla e morto sulla croce. Signore, dèstaci tutti e tienici svegli per riconoscerlo e confessarlo.
Pensiamo a tutta l’oscurità e a tutte le sofferenze di questo nostro tempo, agli errori e ai numerosi malintesi con i quali ci tormentiamo gli uni gli altri, a tutti i pesi che tante persone devono portare senza conoscere consolazione, a tutti i gravi pericoli che minacciano il mondo senza che si sappia come affrontarli. Pensiamo ai malati, agli alienati, ai poveri, agli esiliati, agli oppressi, alle vittime dell’ingiustizia, ai bambini che non hanno genitori o che non hanno dei buoni genitori.
Pensiamo a tutti quelli che sono chiamati a servire, nella misura in cui gli uomini possono farlo: alle autorità del nostro paese e di tutti i paesi; ai giudici e ai funzionari, agli insegnanti e agli educatori, agli scrittori e ai giornalisti, ai medici e agli infermieri, ai ministri della tua Parola, che Ti servono, vicini e lontani.
Pensiamo a loro pregandoTi di far brillare su di loro e su di noi la luce di Natale, di renderla ancora più brillante di quanto sia avvenuto fino ad oggi, affinché vi trovino – e noi con loro – il soccorso di cui hanno bisogno. Ti domandiamo tutto questo nel nome del Salvatore, nel quale ci hai già esauditi e vuoi continuare ad esaudirci. Amen.





Carissimi/e,
Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce” (Is 9,1).
Forse le nostre tenebre si stanno diradando. Viviamo infatti in un momento di “tenebre” che toccano tutti da vicino:
la situazione sociale, l’instabilità politica, la mancanza di lavoro, il problema dell’istruzione.
Sono queste le tenebre del momento che Cristo con la sua luce viene a rischiarare.
Oggi è nato per noi un Salvatore”, ci fa cantare il Salmo Responsoriale nella Notte Santa.
Ma abbiamo bisogno di un Salvatore in mezzo a tutta questa confusione regnante, in mezzo a questo relativismo in cui si vive?
Sì, abbiamo bisogno del Salvatore, di Gesù. 
            “Mentre un profondo silenzio avvolgeva ogni cosa, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola Onnipotente dal cielo si lanciò in mezzo a quella terra” (Sap 18, 15).
Questo brano che troviamo pure come introito di una Messa:  “Dum medium silentium”…questo silenzio avvolge le nostre persone e le nostre storie per ricapitolare tutto in Cristo.
Natale ci ricorda che “tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio”, come dice il Salmo responsoriale della Messa del Giorno. L’abbiamo veduta e udita, l’abbiamo toccata con mano, l’abbiamo contemplata, come dice Giovanni per essere in comunione con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo (1Gv 1, 1-4).
            E’ questa la nostra gioia, è questo il nostro Natale. Auguri a tutti/e in comunione di preghiera.

 
sr Maria Noemi di san Giovanni Ap. ed Ev. O.Carm. e Sorelle

 

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___O___        "Dominus est!" 
   \/|\/         (Gv 21, 7)
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Fonte :  www.monasterocarpineto.it  , sito ufficiale del Monastero Carmelo Sant'Anna a Carpineto Romano.

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