giovedì 25 luglio 2019

LA PAZIENZA E LA PREGHIERA DI MOSE', di Padre Felice Artuso



LA PAZIENZA E LA PREGHIERA DI MOSE'
di Padre Felice Artuso 
                           
 
 
Il faraone teme che la crescita degli ebrei costituisca un’insidia al suo potere dispotico. Progetta quindi di ridurre il loro numero, obbligandoli ai lavori forzati e prescrivendo alle levatrici di uccidere tutti i neonati di sesso maschile (Es 1,1-22). Le levatrici e le donne, timorate di Dio, non adottano la prescrizione del faraone. Ricorrono a molteplici inventive per salvare i loro neonati. Una donna della tribù di Levi partorisce Mosè e lo tiene nascosto per tre mesi. Interviene Maria, che prende il fratellino, lo posa in un canestro e lo abbandona alla corrente del Nilo con la speranza che qualcuno lo soccorra (Es 6,20). La figlia del faraone vede il bambino, che galleggia sul corso del fiume. Spinta dall’impulso materno, lo coglie, lo porta nella reggia, lo adotta e incarica i maestri di corte di fornirgli l’educazione, riservata ai principi..
Mosè, che significa tratto fuori dalle acque, cresce nell’agiatezza. Diventa un giovane colto, scaltro, deciso, amato e stimato. Pensa, ragiona e progetta il proprio futuro, basandolo sulla sua raffinata formazione (Es 2,1-10). Visita di frequente i suoi fratelli ebrei, costata la loro servitù e decide di liberarli dalle sofferenze. Avendo notato che un sorvegliante egiziano colpisce irragionevolmente un ebreo, applica la legge della vendetta.. Si avvicina all’aggressore, lo uccide e lo occulta il suo cadavere nella sabbia (Es 2,11-12). Il giorno seguente rimprovera un ebreo litigioso, ma costui si giustifica, accusandolo d’aver commesso un omicidio (Es 2,13-14). Mosè intuisce che i suoi fratelli lo pedinano, lo invidiano e lo odiano. Teme che lo arrestino e lo consegnino al faraone. Si pone al sicuro, fuggendo nel territorio di Madian, zona del golfo di Aqaba, occupata dai nomadi. Qui Dio sorprende Mosè, che sperimenta il massimo isolamento e la totale povertà. Ordina infatti a lui di ritornare in Egitto, di liberare il popolo oppresso e di condurlo nel deserto, dove potrà rendergli culto. Mosè obbedisce al Dio dei padri, che gli ha parlato. Si scontra tuttavia con il faraone, che lo sfida, lo minaccia, lo caccia via e lo insegue, senza riuscire a prenderlo.
Gli ebrei cantano vittoria, quando giungono con Mosè nel deserto. Ringraziano Dio di averli liberati (Es 15,1ss). Incapaci di sopportare le angustie del cammino, smorzano presto il primitivo entusiasmo. Considerano la libertà acquisita un sogno utopistico, inaridiscono i loro cuori e si abbandonano alla mormorazione contro Dio e contro Mosè (Es 14,1-14). Non negano che Dio li ha liberati, ma dubitano che egli li accompagni negli spostamenti e provveda alle loro necessità. Pervasi da una cecità interiore, pensano che egli si comporti come le divinità straniere, insensibili e indifferenti alle sofferenze umane . Dominati da un’insana cupidigia, si rammaricano d’aver abbandonato l’Egitto, dove potevano almeno saziarsi di cibo sostanzioso. Si chiedono anche se: «il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). Pretendono che egli intervenga nuovamente e assicuri a loro una completa salvezza. Esigono accedere alla svelta nella terra del Canaan, senza esporsi a fatiche e incertezze.
Dubitano che Mosè sia il principale trasmettitore ed esecutore della volontà di Dio (Nm 12,1-2). Sottovalutano il suo parlare affettuoso e carismatico (Es 6,9). Immaginano che egli sia un orgoglioso e sventato condottiero (Es 14,11-12; Nm 11,4-8). Pervasi da un forte risentimento, rifiutano di procedere verso la terra promessa, considerata molto pericolosa dai primi esploratori (Nm 13, 25-33; 16,1-3). Si ribellano apertamente a lui, quando si diffondono le epidemie mortali (Es 32,1-6.21-24). Alcuni gruppi tentano di lapidarlo (Es 18,13-27; Nm 14,10). Tramano perfino di eleggersi una guida, che li accompagni in Egitto e li inserisca nuovamente nelle strutture di questa grande nazione (Nm 14,1-4; 21,5).
Mosè non cede alle molteplici pretese, incomprensioni, contestazioni, ribellioni, paure e minacce di morte. Cerca di rasserenare i profughi, di calmarli e di convincerli sulle ragioni dei disagi, per ottenere il possesso dei beni superiori alle previsioni. Difende il libero agire di Dio e raccomanda di affidarsi a lui, loro alleato. Esclude con sdegno i maggiori rivoltosi dalle assemblee liturgiche, indisposti ad accogliere il peso della legge divina, che tutela la libertà, l’intesa, l’ordine e l’elevazione interiore. Grida ad ognuno di sottomettersi agli ordini di Dio, di mantenere un rapporto più vitale con lui e di servirlo con gratitudine (Es 15,26; Nm 16,1ss). Si rivolge così ai più ostili: «Come posso io da solo portare il vostro peso, il vostro carico e le vostre liti?» (Dt 1,12). Elimina la tensione e l’angoscia, prendendo frequenti contatti con Dio, nei quali rivendica i diritti del popolo sofferente. In un momento di scoraggiamento ricorda a Dio di non essere lui il generatore di questo popolo ostile. Implora quindi Dio di esimerlo dal pesante incarico di guida e di portavoce: «Perché hai trattato così male il tuo servo?… L'ho forse concepito io questo popolo? O l'ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: portatelo al grembo, come la balia porta il bambino lattante?» (Nm 11,12).
Mentre prega con insistenza, Mosè avverte che Dio lo incoraggia a proseguire la missione di testimone inascoltato. Pertanto difende e guida il popolo caparbio, presuntuoso e sofferente. Gli infonde misericordia, sostegno, sicurezza e speranza. Lo esorta ad accogliere l’alleanza divina e scrive le regole giuridiche, atte a mantenerlo nella libertà e nel rispetto dei diritti vicendevoli (Dt 25,1-3). Sancita l’alleanza con Dio educa il popolo ad osservarla anche nei momenti calamitosi: «Mosè disse al popolo: Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore vi sia sempre presente e non pecchiate» (Es 20,20). Il popolo promette fedeltà a Dio, ma si mostra sleale in assenza di Mosè. Infrange infatti i vincoli dell'alleanza, forgiandosi un idolo, simile al bue Apis, venerato in Egitto (Es 32,1-6).
Sceso dal monte, Mosè si adira, vedendo la grave defezione. Frantuma subito l'idolo, scagliandogli le tavole dell'alleanza (Es 32,15-24). Risale quindi sulla cima del monte e supplica Dio di avere pietà del suo popolo (Dt 9,18). Eleva a Dio una preghiera, che ha una straordinaria grandezza spirituale. Gli chiede appunto di perdonare il peccato del popolo e, se gli fosse impossibile di punire solo lui, radiandolo dal libro della vita: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d'oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato. E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). Dio accoglie la supplica di Mosè: perdona la grave offesa del popolo, rinnova l'alleanza infranta e continua ad accompagnare i prevaricatori (Es 34,10).
Nella defezione di Baal Peor Mosè vorrebbe impiccare i capi apostati (Nm 25,4), ma ha imparato ad essere paziente e misericordioso (Es 32,30-34). Si mostra particolarmente benevolo verso Maria e Aronne che, dominati da una cocciuta invidia, lo disprezzano e lo umiliano. Per Maria, affetta dalla lebbra, implora la guarigione con questa semplice invocazione: «Guariscila, Dio!» (Nm 12,13). Attento ai bisogni di ognuno, affida ad alcuni anziani la responsabilità di risolvere i problemi quotidiani (Nm 11,24-30). Incarica i sacerdoti di compiere il servizio cultuale (Nm 15,1ss), di adattare la Legge di Dio alle esigenze delle comunità locali (Dt 17,8-12), di porre il rotolo della Scrittura accanto all'arca dell'alleanza (Dt 31,24-26) e di prestare ascolto a tutto quello che vi è scritto (Dt 32,45-47). «Istruito in tutta la sapienza degli Egiziani, si mostra potente nelle parole e nelle opere» (At 7,22).
Mosè non è certo un uomo perfetto. Sbaglia quando immagina di poter operare prodigi e di risolvere i problemi del popolo in aperta rivolta (Nm 20,9-11). Ha tuttavia la virtù di lasciarsi educare e guidare dalla presenza dell’Onnipotente. Arriva perciò alla perfezione personale (Eb 11,24-29). Diviene il più docile, il più umile, il più fedele degli uomini (Nm 12,1-3) e il migliore modello di sapienza (Dt 32,2). Molto anziano si ritira sulla montagna del Nebo, che si erge di fronte alla terra promessa. Dalla cima del monte contempla con mestizia il territorio verdeggiante, che le tribù d'Israele stanno per occupare (Dt 34,1-4). Promette ai suoi intimi collaboratori che Dio invierà ai loro discendenti un profeta, che avrà le sue stesse doti, meriterà il pieno ascolto, beneficerà tutti e li libererà dalle loro oppressioni: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15).
Mosè muore senza avere la gioia di introdurre il popolo nella terra promessa. Il suo spirito accede nella patria dei giusti, mentre il suo corpo è sepolto in un luogo sconosciuto (Dt 34,5-10; Gv 5,28-29).
Egli scompare dalla scena di questo mondo, riconoscendo che soltanto Dio merita di essere ascoltato, servito ed esaltato. Lascia ai posteri, che lo ricordano (Sir 45,1-2) una grande eredità spirituale ed un esempio di dedizione mistica. Insegna agli uomini a cercare Dio e ad essere sempre docili alla sua Parola (Dt 32,45-47). Condottiero, legislatore, giudice, mistico, sacerdote, intercessore, profeta e primo scrittore biblico, è nella coscienza dei giudei il servo più fedele a Dio e «il più infelice di tutti i mortali» . Costituisce per loro il modello migliore nel servizio agli uomini, nella costruzione di un mondo più giusto e nell’avanzamento sulla via della santità. Nelle celebrazioni liturgiche ricordano che fu un servo attivo, sofferente e vittorioso (Dt 3,24; 34,5.10-12). Attendono quindi che Dio mandi a loro un profeta con caratteristiche simili a quelle di Mosè.
Gesù si riferisce sovente alla persona e al ruolo svolto da Mosè. Verbo di Dio incarnato, rende presente la trascendenza di Dio nel mondo. Supera l’autorità e la missione profetica di Mosè. Servo e pastore del popolo, compie segni prodigiosi. Illumina con il suo insegnamento coloro che vivono nelle tenebre mortali (Mt 4,12-16). Legittima, completa e perfeziona la Legge divina, rivelandone il senso recondito (Gv 7,15-16). Libera l’umanità dalle funeste schiavitù, e la guida verso il traguardo della redenzione eterna (Gv 1,17; 10,11; Eb 3,1-6). Gli increduli mormorano contro il suo insegnamento e lo abbandonano (Gv 6,41.61.66). Nell’Orto degli Ulivi prova angoscia mortale, pensando alla durezza e alla violenza degli uomini. Condannato a morte, sale sul monte Calvario, si lascia crocifiggere, effonde il suo sangue, muore nella solitudine ed espia i peccati. Risorto, entra nella vita celeste con le cicatrici del suo passaggio, inaugura la nuova ed eterna alleanza, invia i discepoli, che ha preparato, ad ammaestrare e unificare tutte le nazioni nella professione dell’unica fede (Mt 28,19), mentre egli intercede per loro, espleta una funzione di mediazione (Gal 3,19; Eb 8,6), li sazia con il pane eucaristico e li prepara ad entrare nel banchetto celeste. I discepoli riconoscono quindi che egli è la guida, il legislatore, il profeta, il giudice, il sacerdote, il rinnovatore dell’alleanza, il salvatore, il restauratore e il perfezionatore di tutte le cose (At 3,22; 7,37, Dt 18.15). Si sentono realmente sollecitati da lui ad evitare le defezioni degli antichi ebrei (1 Cor 10,6-11).
I Padri della Chiesa tracciano tanti parallelismi tra Mosè e Gesù Cristo, tra la notte dell’Esodo e quella pasquale, tra la Legge del Sinai e quella delle Beatitudini. Riportiamo soltanto questa testimonianza dello pseudo Barnaba: «Mosè rappresenta la figura di Gesù perché egli doveva patire e proprio quello che credevano morto sulla croce avrebbe dato la vita»; «Mosè da servo aveva ricevuta la legge, il Signore stesso invece la diede a noi, al popolo erede, avendo sofferto per noi» . Nei primi secoli i pellegrini cristiani salgono sulla cima del monte Nebo, vi sostano e commemorano le imprese, gli insegnamenti, le sofferenze, le solitudini e la morte di Mosè. Collegando il suo percorso a quello di Gesù, rafforzano la fede nella costante assistenza di Dio. Nei secoli seguenti edificano sul Nebo una basilica con battistero e mosaici simbolici. Accanto ad essa erigono anche un monastero di cui rimangono dei preziosi resti.



 
 
 
 


Fonte : scritti e appunti di Padre Felice Artuso (religioso Passionista)









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