giovedì 25 luglio 2019

LA FIGURA DI GIOBBE , di Padre Felice Artuso



LA FIGURA DI GIOBBE
di Padre Felice Artuso 
 
                


 
La figura di Giobbe

Verso la prima metà del VI secolo avanti Cristo uno scrittore compone il libro di Giobbe, adottando la prosa e la poesia Nella prosa presenta Giobbe, che serve Dio con pazienza, mentre nella poesia lo tramuta in un uomo ostile e ribelle ai suoi amici. Ricava le sue argomentazioni da una molteplicità di fonti come le esperienze personali, l’insegnamento dei profeti, le asserzioni dei sapienti, le preghiere salmiche, le norme giuridiche, i detti orientali, i racconti parabolici dei rabbini e le concezioni teologiche delle scuole d’Israele. L’autore procede a giri concentrici con l’intento di spiegare la sofferenza degli innocenti e le fortune dei malvagi. Ricorre spesso alla forma letteraria del dibattimento processuale, nella quale intreccia le parole dell’accusa e della difesa, la denuncia dei giudici e l’asserzione di discolpa dell’imputato. Nei suoi ragionamenti evidenzia il comportamento di Dio, di Satana e dell'uomo. Dimostra che Dio ama l'uomo, gli elargisce ogni bene e libera il giusto da tutto ciò che lo angustia. Conclude il difficile e tragico componimento, conferendogli una lieta soluzione. Induce così il lettore ad effettuare un esame di coscienza sul suo comportamento e sulle sue aspettative. Gli offre anche consigli pratici sulla fedeltà a Dio e sul discernimento quotidiano.
Uno scrittore posteriore ha inserito nel libro di Giobbe delle aggiunte, per darvi più completezza. Ha così elevato il componimento ad un capolavoro letterario, psicologico, pedagogico e teologico. Molti intellettuali di ogni schieramento hanno analizzato il libro. Alcuni se ne sono compiaciuti. Altri lo hanno ridimensionato in qualche suo aspetto o lo hanno respinto in radice.
Sintetizziamo il contenuto di questo racconto immaginario, drammatico e profetico. Giobbe è un uomo laborioso e religioso, caritatevole ed ospitale, giusto e integro, stimato e riverito, ricco e potente. Pagano d’origine, si comporta come gli ebrei. Crede nell’unico Dio, che gli assicura felicità, tranquillità, buona reputazione e motivi di speranza. Abita ad Uz, zona non chiaramente identificata dalla Bibbia (Gn 36,28). Riesce con il suo lavoro a procurarsi campi e bestiame, servi e serve. Genera figli e figlie. Satana, principe degli orgogliosi e degli invidiosi, si presenta due volte davanti a Dio, chiedendogli il permesso di danneggiare Giobbe, per verificare se è irreprensibile ed integro. Ottenuta l’autorizzazione, lo aggredisce ripetutamente, privandolo dei campi, del bestiame, dei servi e dei figli. Lo rende persino lebbroso e impuro.
Per la perfidia di Satana Giobbe passa dalla ricchezza alla povertà, dalla salute alla malattia, dalla felicità alla sofferenza, dalla serenità all’angoscia, dai segni di onestà a quelli di infedeltà.. Sofferente, teme di essersi inimicato con Dio, senza trovare nella sua coscienza alcuna colpa. Consapevole che sta avvicinandosi alla temuta ora della morte, si pone in atteggiamento penitenziale: si lacera il mantello, si rade i cappelli, si prostra a terra e benedice Dio, dicendo: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore. In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto» (Gb 1,21-22).
Sua moglie si accorge subito che egli è piagato, putrido e disfatto. Avverte immediatamente il fetore e l’alito nauseante del marito. Rabbrividisce, indietreggia e lo oltraggia con estrema durezza. Gli ordina poi di riconoscersi peccatore e di prepararsi all’arrivo della morte. Uomo giusto, Giobbe non ascolta la moglie, che lo accusa di trasgressione. Risponde ai suoi ragionamenti, tacciandola di stoltezza, e la esorta ad accogliere la volontà divina nei lieti e nei tristi eventi: «Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male? In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra» (Gb 2,10).
Giobbe è costretto ad indossare un abito di sacco, allontanarsi dal villaggio, trascorrere le giornate nella piena solitudine e considerarsi uno scomunicato sia da Dio che dalla sua comunità. Angosciato dall’intollerabile sventura, maledice il giorno della sua nascita: «Perisca il giorno in cui nacqui» (Gb 3,3). Si augura quindi di entrare nell'oscurità della tomba, dove scomparirà la devastante lebbra e potrà riposare in pace: «Il mio spirito viene meno, i miei giorni si spengono; non c'è per me che la tomba» (Gb 17,1). Riesce a procurarsi un po' di sollievo, arrotolandosi in un immondezzaio e grattandosi con un coccio le piaghe che deformano il suo corpo. Può pertanto dire: «Ricoperta di vermi e di croste è la mia carne, raggrinzita è la mia pelle e si disfa» (Gb 7,5). «Sono diventato polvere e cenere. La mia pelle si è annerita, mi si attacca e le mie ossa bruciano dall'arsura» (Gb 30,19.31). «Inguaribile è la mia piaga» (Gb 34,6).
Elifaz, Bildad e Zofar abbandonano la loro famiglia, intraprendono un lungo viaggio e si recano dal supposto amico Giobbe, per consigliarlo, aiutarlo e confortarlo. Lo riconoscono con fatica, perché la purulenta malattia lo ha deturpato. Sedutisi accanto a lui, non gli parlano per un'intera settimana. Ascoltano solo i suoi gemiti, si stracciano le vesti, si cospargono di cenere, piangono e condividono le sue sofferenze. Terminati i sette giorni di penitenza, di afflizione e di lutto, cominciano a discutere uno ad uno. Tentano di apportare un chiarimento sull'origine delle sue sventure. Sentendosi superiori a lui nella dottrina e nell’esperienza, intraprendono un procedimento dialogale di tipo giudiziario. Inizialmente ragionano con un tono affabile, cortese, rispettoso e sapiente. Nelle riprese diventano sempre più intransigenti, collerici, veementi e spietati. Imputano a Giobbe di nascondere le colpe, che lo hanno rovinato. Si erano recati da lui per consolarlo, assumono ora un ruolo accusatorio e spietato. Attenendosi alla loro concezione teologica, affermano che egli si trova nella miseria, perché è un peccatore: «È l'uomo che genera le pene, come scintille volano in alto» (Gb 5,7); «Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui (Dio), li ha messi in balìa alla loro iniquità» (Gb 8,4). Il malvagio è «destinato in pasto agli avvoltoi, sa che egli si è preparata la rovina» (Gb 15,23). «Senza motivo hai angariato i tuoi fratelli e delle vesti hai spogliato gli ignudi. Non hai dato da bere all’assetato e all’affamato hai rifiutato il pane¼ Le vedove hai rimandato a mani vuote e le braccia degli orfani hai rotto» (Gb 22,6-9).
Sicuri di possedere la verità, insistono sulla peccaminosità di Giobbe ed aggiungono che Dio è stato indulgente con lui, infliggendogli un castigo più lieve del peso della colpa: «Volesse Dio parlare e manifestarti i segreti della sua sapienza¼ Allora sapresti che ti condona parte della tua colpa» (Gb 11,5.6). Invitano quindi Giobbe a riconoscere i suoi peccati e ad abbandonarsi alla misericordia divina. Dio allora lo riabiliterà, donandogli la salute e la felicità perduta: «Riconciliati con lui e tornerai felice» (Gb 22,21)..
Giobbe ascolta i superficiali ragionamenti e i maldestri consigli dei presunti amici, che gli affievoliscono la voce di Dio. Pazienta, soffre, tace e rifiuta le loro argomentazioni. Quando hanno finito di parlare, controbatte le loro asserzioni, basate sulla inscindibile correlazione tra delitto e castigo. Con affermazioni concise ed articolate riconosce che Dio guarda il comportamento quotidiano dell’uomo per poterlo illuminare (Gb 7,17-18). Ammette che egli punisce solitamente il colpevole. Ha l’impressione tuttavia che talora assegna la prosperità al malvagio e la sofferenza all'innocente (Gb 9,22). Respinge le offensive ed astratte argomentazioni degli amici, accusandoli di interpretare erroneamente la condotta di Dio e di irrigidirsi nelle loro teorie teologiche: «C'è sicurezza per chi provoca Dio. Vuol ridurre Dio in suo potere» (Gb 12,6); «Lungi da me che io vi dia ragione; fino alla morte non rinunzierò alla mia integrità» (Gb 27,5). Li taccia perciò di menzogna, d'impotenza e di insensibilità alle sventure altrui: «Voi siete rafforzatori di menzogne, siete tutti medici da nulla» (Gb 13,49). Estremamente convinto della propria innocenza, definisce i suoi obiettori dei fastidiosi ciarlatani. Afferma inoltre che essi, preoccupati nella difesa del libero agire di Dio, offendono, opprimono e affossano il giusto: «Spalancano la bocca contro di me, mi schiaffeggiano con insulto, insieme si alleano contro di me» (Gb 16,10). «Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattare senza pudore» (Gb 19.20).


2 La figura di Giobbe

Elihu, unico personaggio con un nome ebraico, ha seguito fin dall’inizio lo svolgimento della discussione, ma non è mai intervenuto. Reputa ora necessario parlare, per chiarire la controversia in corso. Si rivolge a Giobbe, lo chiama per nome e gli chiede di ascoltarlo. Attesta quindi che Dio gli ha procurato molteplici sofferenze, per guarirlo dalle colpe sconosciute e per insegnargli a vivere nell’umiltà (Gb 33,15-19). Giobbe non risponde ad Elihu. Preferisce tacere per non ripetere le asserzioni, proferite in precedenza. Si è già difeso a sufficienza.
Riconosce solo di essere un insipiente e un incapace di discernere le cause che lo fanno soffrire. Suppone tuttavia che sia stato Dio l’autore dei suoi enigmatici tormenti: «A me sono toccati mesi d'illusione e notti di dolore mi sono state assegnate. Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo. Lasciami, perché sono un soffio i miei giorni» (Gb 7,3.16). «Mi spavento per tutti i miei dolori; so bene che non mi dichiarerai innocente» (Gb 9,28). Confessa che si troverebbe in una situazione ancor più insopportabile, se Dio continuasse a tacere e lo abbandonasse nelle mani dei calunniatori: «Ho cucito un sacco sulla mia pelle e ho prostrato la fronte nella polvere» (Gb 16,15); «Tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti» (Gb 9,31).
Supplica poi Dio di spiegargli le cause della sventura e della malattia, che lo hanno associato ai peccatori: «Non condannarmi! Fammi sapere perché mi sei avversario. È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato. Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco» (Gb 10,2.3.9.20). «Fammi conoscere il mio misfatto e il mio peccato. Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?» (Gb 13,23.24). Incapace di deglutire, si sente schiacciato e annullato dal silenzio di Dio (Gb 7,19). Lo accusa quindi di essere un terrificante despota (Gb 16,11-14). Lo paragona perfino al felino che aggredisce e inghiotte la preda: «La sua collera mi dilania e mi perseguita; digrigna i denti contro di me» (Gb 16,9).
Prosegue tuttavia ad amare Dio e a confidare in lui, conoscitore di tutti i lati oscuri della vita. Si chiede poi fino a quando dovrà sopportare il male: «Di notte mi sento trafiggere le ossa e i dolori che mi rodono non mi danno riposo. Ti imploro, ma non mi rispondi, ti sto davanti, ma tu non badi a me» (Gb 30,17.20).
Distese le sue mani verso il cielo, chiede a Dio di liberarlo dall'orrore della morte, di ristabilirlo nella giustizia e di ripristinarlo nell’onore perduto: «Io grido a te, ma tu non mi rispondi. Insisto, ma tu non mi dai retta. Aspettavo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio» (Gb 30,20.26). Sconvolto e angosciato, gli domanda anche di accettare il “tau”, la firma in cui si dichiara innocente: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma. L’Onnipotente che mi risponda!» (Gb 31,35).
Dio, sovrano del creato e principale attore del dramma, ha taciuto in tutto il corso del lungo dibattito. Non si è schierato a favore dell’uno o dell’altro personaggio. Non ha approvato o disapprovato le argomentazioni di accusa e di dipesa. Non ha colpevolizzato né assolto qualcuno. Ha semplicemente preso un atteggiamento di distaccato e di indifferenza dalle loro roventi discussioni. Ora rompe il protratto e inquietante silenzio. Con due formidabili discorsi illustra il suo irreprensibile comportamento e invita Giobbe a non cercare in lui l’origine del male.
Nel primo eloquio biasima i giudizi infallibili e spietati dei nemici dello sventrato. Li accusa di non aver parlato bene di lui, creatore misericordioso e pietoso: «Non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb 42,7.8). Nel secondo discorso esorta il povero lebbroso a scoprire come egli agisce positivamente nelle meraviglie dell’universo. Mediante una serie di contro domande retoriche Dio insegna a Giobbe ad accettarlo nel suo impenetrabile mistero, a cercarlo con fede nei segni delle sue potenti azioni, a emendarsi dalle erronee opinioni che si è fatto su di lui, a desistere dalle lamentele e a non considerarlo più un violento. Egli, infatti, conserva e controlla tutto l’universo. Protegge anche la vita degli insidiosi e distruttivi predatori. Conosce le giuste ragioni del bene e del male, delle gioie e dei dolori. Ascolta le preghiere dell’afflitto e decide come soccorrerlo, senza sentirsi obbligato a dargliene una spiegazione. Potente, sapiente e benefico amico di tutte le creature, non ha infierito contro Giobbe. Ha deciso soltanto di metterlo alla prova, per costatare se egli si manteneva fedele a lui.
Udito l’eloquio di Dio, Giobbe ammette di aver esasperato il suo problema, pretendendo di racchiudere nella propria comprensione l’inesauribile mistero della vita. Ha parlato senza un attento discernimento sulla imperscrutabilità e indicibilità di Dio. Riconosce che la sofferenza non è una pura assurdità, né si può attribuire solamente all’azione di Dio la fortuna e la sventura, la prosperità e la miseria. Ammette che gli esiti del bene e del male hanno pure un’origine umana. Adesso sa che Dio rimane vicino a quelli che soffrono e si rivela a loro in modo parziale. Si pone quindi una mano sulla bocca, tronca la disputa e rimane in silenziosa adorazione: «Ecco, sono piccino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò» (Gb 40,4-5).
Sciolta la terribile crisi di fede, che lo ha tormentato fino a covare dei sentimenti di ribellione, Giobbe accetta Dio nella sua misteriosità e con una nuova cognizione guarda a quello che egli compie nella storia: «Comprendo che puoi tutto¼ Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio?» (Gb 42,2); «Io so che tu puoi tutto… Prima ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,2.5). Passa dalla concezione teorica di Dio giustiziere all’esperienza dell’infinita trascendenza, potenza e misericordia divina. Non contempla più Dio come fosse un capriccioso, vendicativo e omicida, ma come un vero padre, che ama la vita dei suoi figli, s’immerge nei loro problemi e li condivide. Riprende a credere in lui. Lo prega come vero amico. Attende di incontrarlo personalmente, di vederlo nella pienezza del suo essere e di goderne la paterna amicizia (Gb 19,25-27). Senza drammatizzare, affronta quindi i problemi e le angustie di ogni giorno.
Dio si compiace dell’ulteriore posizione assunta da Giobbe. Lo ristabilisce nella salute, gli restituisce il doppio di quanto possedeva in beni naturali e spirituali. Lo arricchisce di altri figli e figlie e gli concede una vita longeva. Gli ordina inoltre di riconciliarsi con quelli lo hanno umiliato e lo costituisce loro intercessore. Dispone, infatti, che essi portino a Giobbe degli animali da offrirglieli in sacrificio d’espiazione: «Prendete dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza» (Gb 42,8). Con la sua preghiera Giobbe sarà per tutti uno strumento di redenzione in modo simile a Mosè, Geremia, il Servo di Dio e qualche altro profeta. Morirà vecchio e sazio di esperienze, senza tuttavia aver ricevuto una risposta risolutiva sul problema del male, della morte e della retribuzione personale. Svelando il progetto salvifico di Dio, Gesù Cristo darà ai suoi discepoli una risposta comprensibile ed esauriente ai complessi problemi del male.


3 La figura di Giobbe

Giobbe simboleggia il popolo d’Israele fedele, che nel corso della sua storia nazionale conosce vicende d’incomprensione, denigrazione, esclusione, umiliazione, rivalutazione ed esaltazione. Rappresenta particolarmente quei malati, emarginati, sofferenti e studiosi di tutto il mondo che cercano la ragione sull’origine del male e non riescono a trovarla. Raffigura anche quei credenti che chiedono a Dio un chiarimento sulle loro sofferenze, ma a causa dei loro pregiudizi ideologici non comprendono la sua risposta. Personifica inoltre quelli che in un primo momento criticano Dio, accusandolo d’ingiustizia, d’impotenza e d’indifferenza. Tuttavia poi si ricredono e ammettono di essersi sbagliati. Riconoscono quindi che egli esercita un dominio legittimo, supremo, misterioso, compassionevole e benevolo su tutte le sue creature. Nei momenti di una grande tribolazione accettano i loro limiti, denunziano le angherie dei malvagi, pazientano, si abbandonano al progetto salvifico di Dio e ne attendono il compimento.
Giobbe anticipa per eccellenza Gesù Cristo innocente, maltrattato, sofferente, crocifisso, risorto e intercessore presso il Padre. Rappresenta tutto il suo misterioso percorso di umiliazione e di esaltazione, di discesa e di ascesa, di condizionamento e di glorificazione, di povertà e di arricchimento, di emarginazione e di rivalutazione. All’inizio della sua vita pubblica Satana lo scuote e sconvolte. Tenta di distoglierlo dalla missione salvifica, che il Padre gli ha affidato . Egli tuttavia lotta fino alla morte di croce contro le insinuazioni del suo avversario e riusce a prevalere su di lui. Accusato dagli uomini di essere un peccatore, si difende dicendo: «Chi di voi può convincermi di peccato?» (Gv 8,46). Denuncia poi la loro ipocrisia, affermando: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume» (Mt 23,27).
Di sua spontanea iniziativa insegna a tutti di cercare il Regno dei cieli e di riconoscere che Dio è buono, misericordioso e giusto, perché provvede alle loro necessità, li perdona e li introdurrà in una nuova vita . Indica anche a loro il percorso da compiere per superare gli ostacoli, che affliggono gli uomini. Precisa ai suoi discepoli che le malattie e le disgrazie non sono un castigo di Dio, ma un appello alla conversione (Gv 9,1-3; Lc 13,1-4). Predice anche a loro che soffrirà, morirà e risorgerà. All’arrivo della grande prova, si ritira nella solitudine del Getsemani, dove agonizza ed invoca il Padre, che lo liberi dall’opprimente angoscia (Lc 22,42). Il Padre non gli risponde subito. Resta apparentemente passivo alla sua supplica. Permette che egli si sacrifichi sul Golgota, sperimenti la follia della croce, gli renda la lode perfetta e ripari le iniquità di ogni uomo. Dà una risposta risolutiva alle invocazioni di Gesù, quando lo farà risorgere per una nuova vita. Lo dichiarerà allora innocente, lo costituirà intercessore universale e approverà il suo ruolo di salvatore universale.
La Chiesa antica considera il libro di Giobbe un annuncio della sofferenza di Gesù crocifisso e del suo ristabilito onore mediante la risurrezione. Ne abbiamo diverse testimonianze. San Zenone di Verona argomenta così: «Giobbe, per quanto è possibile comprendere, rappresenta l'immagine di Cristo… Giobbe fu detto giusto da Dio; Cristo è la giustizia… Giobbe fu chiamato veritiero; ma l'autentica verità è il Signore… Giobbe era ricco; e che c'è di più ricco del Signore? Il diavolo tentò Giobbe tre volte; ugualmente… si provò a tentare tre volte anche il Signore: Giobbe perdette i beni che possedeva; anche il Signore per amor nostro rinunciò ai suoi beni celesti. Il diavolo nel suo furore uccise i figli di Giobbe; anche il popolo fariseo impazzito uccise i profeti figli del Signore. Giobbe fu chiazzato di piaghe; anche il Signore, assumendo la carne fu contaminato dai peccati… Giobbe fu esortato a peccare dalla moglie; anche il Signore fu spinto dalla Sinagoga a imitare la corruzione degli anziani. Si narra che Giobbe fu insultato dai propri amici; anche il Signore fu insultato dai suoi sacerdoti… Giobbe siede sul letamaio…; anche il Signore visse su un letamaio… Giobbe riebbe ricchezze e salute; ma il Signore, risorgendo diede non soltanto la salute ma anche l'immortalità a chi crede in lui… Giobbe generò figli al posto di quelli perduti; anche il Signore … procreò come figli i santi Apostoli. Giobbe riposò felice nella pace; il Signore invece rimane benedetto eternamente prima dei secoli… e per tutti i secoli» .
Sant'Agostino ricorda ai fedeli: Gesù «rivelò la sua dottrina facendosi uomo, mostrò un esempio di pazienza sulla croce. C'insegnò sulla croce, che cosa dobbiamo giungere a sopportare; c'insegnò nella risurrezione, che cosa dobbiamo sperare. …Giobbe, poiché era stato umiliato, doveva essere stato esaltato. E così fece il Signore per dare un esempio agli uomini. … Conosciamo la pazienza di Giobbe, conosciamo la fine del Signore» . San Gregorio Magno scrive: «Il beato Giobbe, essendo figura della Chiesa, a volte parla con la voce del corpo, a volte invece con la voce del capo. E mentre parla delle membra di lei, si eleva immediatamente alle parole del capo» .
Il rapporto tra Giobbe e Gesù è evidenziato anche nell’arte antica. I cristiani dei primi secoli, infatti, raffigurano spesso Giobbe con sembianze giovanili e rassomiglianti a Gesù. Nella cattedrale medioevale di Chartres un artista rappresenta Gesù seduto sopra un mucchio di sterco. Testimonia che egli ha condiviso l’abbassamento, l’umiliazione, lo sconcerto e la sofferenza di Giobbe. Nello stesso periodo i cristiani riconoscono che Giobbe è un modello di prolungata pazienza. Considerano i grandi penitenti una viva immagine di Giobbe, giunto alla libertà passando attraverso la schiavitù dei condizionamenti umani. Ad esempio san Bonaventura ricorda che san Francesco d’Assisi dava ai suoi religiosi l’impressione di essere un altro Giobbe: «Ai frati sembrava di vedere in lui un altro Giobbe, nel quale, mentre cresceva la debolezza della carne, insieme aumentava anche la forza dello spirito» .
P. Luigi Chardon, maestro di vita spirituale, nel libro di meditazione sulla Passione del Signore, spiega l’agonia di Gesù nel Getsemani, mettendola in correlazione alle sofferenze di Giobbe. Il passionista, p. Giammaria di sant'Ignazio, al tribunale ecclesiastico dichiara che san Paolo della Croce gli aveva confidato di aver desiderato di configurarsi al Crocifisso ed era stato esaudito dal Signore, perché in un rapimento estatico egli aveva visto un angelo che gli porgeva una croce d'oro e una voce interiore gli diceva: «Ti voglio fare un altro Giobbe» . Santa Teresa di Lisieux, ammalata grave, non riusciva a tollerare gli acuti dolori. Sconvolta nel corpo e nell’anima come Giobbe, ricuperava la serenità, affidandosi alla bontà del Signore e attendendo di entrare nella diretta visione di Dio. Nel periodo quaresimale i bizantini meditano il libro di Giobbe, perché esso condanna quelli che con la loro perfidia aumentano le angustie agli afflitti, facilita inoltre la comprensione delle sofferenze di Cristo, della sua morte redentrice e della sua incessante intercessione per tutta l’umanità.



 
 
 
 


Fonte : scritti e appunti di Padre Felice Artuso (religioso Passionista)






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