STORIA DI
UNA CHIAMATA
(5°-6°-7°-8° Capitolo)
di Rosarita De Martino
5°
Capitolo
(prima parte)
“Io sono qui soltanto per cantare il Tuo canto
nel Tuo meraviglioso universo;
dammi il mio piccolo posto”
Tagore
E’ una
ventilata mattinata settembrina dell’ 80. Il caldo acuto è già passato ed io mi
guardo dentro: sono serena perché ho smesso l’aria cupa di “affossatrice della
speranza” ed ora (dopo l’incontro con Francesco ad Assisi) non sono più disposta
a “piangermi addosso” bensì ho ripreso a lottare per ricercare qui, a Catania,
una comunità.
Certo
sarà diversa dalla mia prima speciale comunità catanese nata lì a Lentini, tra i
verdeggianti filari di pere, impreziosita dalle “nostre” Messe celebrate fra i
campi a contatto diretto con la natura!
Ora sono
pronta a ripartire perché ho portato via da Assisi il bastone … della speranza.
Lo so, dovrò attraversare, ancora una volta, “deserti di città”, “oceani
d’indifferenza” per vivere la mia unica, personale, ineliminabile chiamata,
quella della comunità intesa come “luogo privilegiato” della presenza dello
Spirito, anzi della Trinità.
<<…
Neppure
Tu ami restare solo
Sei un
Dio di compagnia,
un
Dio-comunità, un Dio-insieme,
un Dio
Trinità.
Ho
chiaro perché tutte le anime
entrano
in terra innamorate.
Ho
chiaro perché l’insieme è medicina,
la
solitudine veleno
perché
l’uomo solo è in cattiva compagnia,
perché
la gioia è a portata di cuore,
non a
portata di mente.
Ho
chiarito perché gli uomini risorgono
quando
smettono di stare accanto
e si
mettono insieme.
Solo
insieme si parla,
solo
insieme si canta,
solo
insieme si ride,
solo
insieme si ama,
solo
insieme si è felici.
Ho
chiaro tutto.
L’inferno è tenere le porte chiuse.
La
felicità è spalancare le persiane.
(Anonimo)
Mi trovo
ora già in via Etnea alla ricerca dei francescani e d’altronde, tempo fa,
passando per la strada li ho visti uscire dalla chiesa di via Sangiuliano;
convinta ci vado, giro l’angolo, salgo la scalinata, infilo la porta. L’ambiente
è in penombra, mi trovo dentro una chiesa antica, ornata di belle pitture, ora
mi avvio verso l’altare centrale, dove troneggia il tabernacolo; improvvisamente
di fronte al coro di legno antico, un affresco attrae la mia attenzione: vi è
raffigurato il profeta Elia che sosta sotto il ginepro e aspetta la morte,
perché è troppo stanco e deluso, ma ecco, invece , un Angelo del Signore che gli
porta una succulenta focaccia e dell’acqua pura per ristorarlo e per fargli
continuare “Il progetto di Dio”.
Mi piace
questo dipinto, mi è simpatico questo profeta “sconsolato”, ma il tema non mi
sembra francescano. Ma lo è, invece, il vecchio monaco che improvvisamente
spunta dalla porticina laterale ed io lo guardo attenta: ha i capelli bianchi,
gli occhi vivaci di un colore tra l’azzurro e il violetto ed uno strano giovane
sorriso che lo illumina.
Mi alzo e
mi avvicino attratta dalla sua personalità ma, osservando il suo abito, noto
qualcosa di diverso dai sai indossati dai francescani d’Assisi!
Sollecito
e premuroso mi regala un sorriso e mi fa cenno di seguirlo in fondo alla chiesa
dove si trova “la stanzetta per i dialoghi”.
“Come ti chiami?”
chiede. “Rosarita”
rispondo pronta. Rifaccio il cammino dell’entrata e in un
altare laterale (che prima non avevo notato) vedo la statua di una suora e sotto
c’è scritto <<S. Teresa d’Avila>>. Ma Avila è una città della Spagna e che cosa
c’entra con i francescani? Mah! Padre Ignazio (così si chiama) nota la mia
perplessità e mi dice:“Rosarita,
noi siamo carmelitani!”
Mi sono appena seduta e di
scatto mi alzo:“Mi scusi, padre, io cercavo i
francescani” dico
convinta, pensando al viaggio ad Assisi e lui subito, con decisione giovanile,
mi afferra il braccio e, facendo una dolce pressione, mi invita a sedermi di
nuovo e poi, rimproverandomi amabilmente, dice:“Rosarita
, ma tu hai il fuoco del vulcano dentro di te, ti prego stai calma, io, invece,
sono veneto e le mie reazioni sono lente ed equilibrate. Stai tranquilla ti
dico, se il Signore ti ha mandato da noi carmelitani, proprio qui troverai il
tuo posto e la tua pace. Proprio in questo periodo il mio giovane confratello P.
Vincenzo che, come te ha il vulcano nel cuore, sta dando vita ad una prossima
comunità, ora parlane con lui”
propone.
Mi
guarda, si alza ed io speranzosa lo seguo, perché la parola “comunità” mi vive
dentro, è qualcosa di profondo, quasi d’innato per me: il modo unico per
poter testimoniare l’Amore di Cristo al mondo!
Entro in
sagrestia (vi trovo dei mobili identici a quelli del coro) scendo poi una rampa
di scale e mi ritrovo nei locali della chiesa.
Ma che
confusione di oggetti: tubetti di colori, pennelli, matite, forbici, cartoncini,
lettere disegnate e ritagliate a caratteri cubitali e, in fondo, c’è un altro
monaco, giovane, con ricci capelli neri, porta occhiali cerchiati di tartaruga,
è
bassino, ha un viso rotondo che ispira simpatia. Anche lui meravigliato e
imbarazzato per tutto il disordine circostante, mi osserva, ma io non lo guardo
subito perché, in un angolo, un robusto cartellone con la scritta appena
abbozzata a matita attrae la mia attenzione:
“Se sei alla ricerca
di qualcosa di nuovo che dia valore e significato alla tua vita “Sta
nascendo una comunità di fede per te!”
“Grazie
Gesù sei proprio di parola, perché in modo imprevedibile, mi hai dato la
risposta che mi avevi promesso ad Assisi per bocca del fraticello”.
Il
problema è che io esprimo questo “grazie” ad alta voce e P. Vincenzo
(così si
chiama) mi guarda in modo interrogativo, ma subito sembra capire e con fraterno
sorriso commenta: “Alleluia al Signore”.
Già
parliamo lo stesso linguaggio appena balbettato perché scoperto da poco, poi via
via lo vivrò in piena adesione con tutta la carica esplosiva che mi
caratterizza. Comincio a frequentare la chiesa di S. Teresa per la celebrazione
Eucaristica.
Stasera è
veramente ordinato e accogliente il nostro saloncino, P. Vincenzo mi ha invitato
per il primo incontro; le sedie, disposte a semicerchio, sono solo dieci, la
chitarra è al posto d’onore, vicino c’è la Bibbia!
Entro e
mi ritrovo unica “sorella” fra quattro fratelli: P. Vincenzo, Salvo, Aurelio,
Pippo, Corrado.
Ma che
dolce ragazzetto è Corrado! “Faremo
un bel cammino di fede insieme”
penso dentro di me.
Ecco lui
stringe la mia mano e mi sorride con i suoi limpidi, luminosi e profondi occhi
azzurro-verde, mentre recitiamo in coro il Padre Nostro.
Il canto,
che P. Vincenzo intona con la sua bella voce, mi colpisce profondamente:
<<Siam
le catene nessuno ci scioglie, siamo le lacrime nessuno ci asciuga, siamo le
tenebre nessuno ci ama … Maranathà maranathà>>.
L’invocazione allo Spirito è insistente, ritmata con canti che mi coinvolgono
liberando tutte le tensioni inconsce che ancora mi turbano dentro e (stupore
nuovo!) anche il mio corpo partecipa alla preghiera, anzi vi si abbandona, così
rifiorisce di giovinezza, di speranza e di fede.
“Tu
sei la mia libertà
solo in
Te potrò sperare
ho
fiducia in Te Signore.
La mia
vita cambierà.
La
Parola arriverà fino ad ogni
estremità …”
Così sia,
così sia, martella il mio cuore e comprendo che ho bisogno di farmi
“ricostruire” dal Signore, ho bisogno ancora di lasciare le mie idee
preconcette, il mio “stile” di vita ordinato e metodico, ho bisogno di accettare
me stessa e la mia “forte emotività” che non deve essere più repressa bensì’
“incanalata”, vissuta quotidianamente godendo della comprensione dei fratelli di
oggi. La mia personalità è tuttora caratterizzata dal “divario” esistente tra la
mia età cronologica (sono già arrivata ai 40 anni) e la mia età mentale (sono
ferma ai miei 20 anni)…
Ora mi
sento libera di esprimere la mia “ingenua fede” e il mio “entusiasmo giovanile”
e nessuno mostra perplessità, mi accettano come sono!
Certo la
mia comunità è solo agli inizi, infatti sta nascendo pian piano con me e vi
posso “immettere” il mio contributo esistenziale.
Mentre
sto ordinando nella nostra sede dei libri, da uno di essi cade un foglietto
ripiegato, lo apro, scritto in una leggera carta velina con caratteri piccoli,
tipici di una vecchia macchina da scrivere, leggo:
Un
viandante
aveva
un’anfora chiusa
nel
dargliela gli avevano detto:
“Vi è
racchiuso un tesoro”.
Passavano i giorni, i mesi,
passavano gli anni: uguali,
monotoni, duri.
Non uno
sprazzo di luce gli allieta
il
cammino, non un tepore d’affetto
lo
riscaldava lungo il sentiero.
Teneva
il tesoro racchiuso,
temeva,
guardingo andava soltanto.
Ma che
gli valse averlo senza conoscerlo,
senza
metterlo in uso,
senza
donarlo a qualcuno?
Morì il
triste viandante con l’anfora accanto.
Noi
tutti siamo viandanti con un’anfora chiusa.
Apriamola: dentro c’è un talento prezioso.
E’
grande? E’ piccino? Che importa:
è un
talento, se trafficato produce, crea
qualcosa
di nuovo, quello che soltanto noi
al mondo
possiamo donare!
Oh, sì,
ecco ho trovato anch’io il mio piccolo, unico, prezioso talento: la donazione
alla chiesa, al mondo nell’ambito immenso di una comunità dove circola l’amore
reciproco!
Ma ora è
più ricca la nostra comunità, sono venuti: Nando, Nino, Carmelo, Antonella,
Francesca, Gina e, alla fine, Nunzio, medico impegnato nel volontariato.
Ora, in
ginocchio con il cuore, mi trovo nella nostra accogliente cappella e
meraviglia e pace grande dentro di me, pian piano riesco a concentrarmi. Tutti i
rumori delle case vicine e perfino l’abbaiare di un cane lentamente si smorzano,
poi spariscono del tutto: sento solo il ritmo del mio respiro leggero e soave e
ti contemplo in me. Già riesco a “gustare” la tua Santa Presenza e mi basta, la
mia tipica inquietudine si è come placata nel mare sereno della preghiera.
Respiro la pace, godo del silenzio divino che regna in questa “nostra cappella”
e il mio corpo riposa al
sicuro e sereno nei rustici
francescani cuscini di juta. Il mio sguardo è assente, si perde nella lucentezza
di un rilucente prato verde! Che gioia dentro di me! Ma da quanto tempo son qui?
Ora il sole prepotente riesce a penetrare nella stanzetta superando la
protezione della pesante tenda di velluto verde e così capisco che è tardi e lo
sguardo rapido al mio orologio me lo conferma: è passato da un po’ mezzogiorno!
Chi mi aprirà la porta d’uscita? Svelta prendo la borsetta e il quaderno, scendo
le prime scale, continuo, scendo anche la seconda rampa di scale e mi ritrovo
nei nostri locali; dalla stanzetta attigua alla segreteria si affaccia Pippo, io
lo saluto premurosa: “Hai
le chiavi per aprire la porta d’uscita?
chiedo incerta
“Sì, certo”
risponde “Ma da dove vieni? Io stamattina non ti ho visto
passare, ho lavorato poco e male, perché sono stato disturbato dai rumori
provenienti dalle case, specie dall’abbaiare del cane vicino a noi”.
Rispondo
“Io stamattina sono stata in cappella un bel po’ di tempo, ma ho goduto di “un
divino silenzio”, solo all’inizio ho sentito qualcosa mi pare, anche l’abbaiare
di un cane”.
Ma che
bello! La nostra cappella è veramente “il deserto nella città”. Pippo mi guarda
interdetto poi si avvicina e mi abbraccia, congratulandosi con me per la mia
”speciale capacità di sapermi isolare dal mondo circostante”.
Scendiamo
insieme le scale d’uscita, ma presto in via Etnea ci separiamo, abbiamo da
raggiungere punti opposti della città per ritornare nelle nostre case.
Cammino
attenta, devo riportare salva a casa mia “la pianticella” tenera della gioia: è
delicata, ha un colore verde chiaro ed ha delle foglioline che sembrano di carta
velina, deve essere curata ogni giorno: innaffiata con l’acqua della speranza e
con la luce rilucente della … preghiera.
Il fiore
azzurro della gioia è ancora vivo dentro di me ora che, sul finire dell’Ottobre
dell’81, mi ritrovo a scuola, non più con i miei alunni di quinta classe, bensì
con i piccoli di prima elementare.
Il mio
motto è ancora “ricominciare con entusiasmo” e strano, più passa il tempo più mi
sento realizzata, impegnata nella mia “missione di maestra”.
La scuola
è per me una seconda “chiamata”, una seconda vocazione e vi porto dentro la
carica esplosiva della mia “personalità” che vive anche il lavoro <<con animo
perturbato e commosso>> come dice Vico, e lo posso fare pienamente perché sono
ancora maestra unica. Che bellezza! Che grazia! Voglio offrire anche ai nuovi
bambini la possibilità di apprendere in … modo gioioso, ricreando quel clima di
serenità e d’intesa reciproca che caratterizza il mio “insegnamento”. Li guardo
ora uno per uno. Ma come sono belli questi nuovi bambini nei loro lindi colorati
grembiulini e con i loro limpidi occhioni dove si riflette la luce del cielo!
Di colpo
con la memoria del cuore, che ho molto sviluppata, rivedo i miei alunni di
quinta, non più alti e cresciuti come li ho lasciati negli ultimi giorni di
giugno, bensì piccoli, graziosi, belli, incerti come erano quando, per la prima
volta, nella loro prima classe prendevano in mano la matita per … scrivere.
Oggi
frequentano la scuola media fisicamente, ma io, stranamente risento dentro di me
le loro voci, le loro squillanti risate infantili, le loro domande, i loro
“perché”. Ripeto a me stessa che tutti, proprio tutti, i piccoli di oggi devono
avere la possibilità di esprimere le loro potenzialità, il mio compito è quello
di essere una guida presente, sollecita, attenta! A me tocca solo intrecciare
con ciascuno un rapporto personale, instaurare quella <<corrispondenza d’amorosi
sensi>> di foscoliana memoria. E’ davvero “fascinoso” e “affascinante” l’intesa
che ad ogni anno scolastico riesco a creare! Posso farlo, so farlo! Mi viene
naturale comunicare con i bambini, li amo e loro ricambiano di cuore!
E la
mattina tutti mi corrono incontro, felici di salutarmi appena scendo dalla
macchina e in coro, cinguettano “Maestra, maestra Rosarita!”
Ora è il
momento della ricreazione, sono in classe, recitiamo insieme la preghiera e poi
si può apparecchiare! Tutti hanno una pulita, colorata tovaglietta, la bottiglia
dell’acqua e via, possiamo consumare “lo spuntino”.
Anche sul
mio tavolo c’è una colorata tovaglietta e ora gusto con piacere una matura
banana.
Ma ecco
che Orazio ha già consumato il suo spuntino, titubante si avvicina, mi guarda
perplesso con i suoi grandi verdi occhi lucenti e chiede:
“Tu
sei una maestra o sei una bambina?” “Perché?”
domando meravigliata. “Ecco
mangi la banana come fanno le scimmie, non prendi il caffè, non fumi, non leggi
il giornale!”
Rido di
cuore e lo rassicuro sulla mia identità di “maestra” aggiungendo che il giornale
lo leggo a casa mia la sera, il caffè non mi piace, il fumo mi fa male.
Orazio si
sente rassicurato e per affermare il mio ruolo di “adulta” lo scelgo come mio
segretario per distribuire i foglietti speciali del disegno individuale, così
quando i compagnetti finiranno lui potrà ritirare gli elaborati. Orazio mi
abbraccia forte alzandosi sulla punta dei piedini ed io gli faccio notare che
sono molto più alta di lui.
<<se non vi
farete come bambini non entrerete
nel regno dei
cieli>>
“O
Signore, ti prego, fammi conservare nel tempo “la freschezza” di questi
momenti!” – penso e prego dentro di me.
Oggi
stranamente mi sento una “bambina” in mezzo a loro!
Ho
permesso agli alunni di darmi del tu e mi sembra molto personale questo nostro
rapporto fatto di rispetto, amicizia, collaborazione.
Il
gruppo-classe, in ordinato, sereno silenzio, ha già ripreso a lavorare.
Ognuno
prova ad esprimere le proprie emozioni con un disegno personale, per completare
il grande cartellone dal titolo <<L’amicizia>>
che servirà per la prossima drammatizzazione con la presenza
dei genitori che seguono con interesse e simpatia la vita scolastica.
Passeggio
tra i banchi e … guardo il disegno ben fatto di Agatella (bambina con problemi)
e chiedo sorridendo: “L’hai
fatto tu?”.
Sta zitta e subito Fiorella, sua compagna di banco, mi dice:
“Maestra, tu hai detto che dobbiamo fare un
disegno sull’amicizia, Agatella stava per piangere e allora prima ho fatto il
suo disegno (per amicizia) ora faccio il mio, non preoccuparti, il mio non sarà
uguale al suo!”.
Mi
controllo a fatica, ho una voglia matta di abbracciarla, ma mi limito a dir
piano: “Va bene”.
Ora Agatella, più
tranquilla, sta colorando tutto il suo disegno di uno strano colore: rosso fuoco
il viso del pupazzo, il corpo e perfino i capelli … perché il disegno è “suo” e
l’ha interpretato così … Ma forse è il rosso colore dell’Amore che lei ha
sperimentato nel gesto della compagna? Chissà??
Sono
contenta un mondo, Agatella ha già trovato un aiuto reale oltre al mio e
diventerà “brava”.
Evviva la
scuola dove la legge è l’Amore, non più le rigide caselle delle istituzioni!
Evviva la libertà dell’insegnamento, evviva il rapporto magico che può nascere
solo in una classe dove regna la libertà, il valore supremo della persona umana:
ognuno dà in rapporto alle proprie possibilità raggiungendo il massimo grado
d’impegno. Che meraviglia una scuola così! Che fortuna per una maestra il poter
donare il meglio di sè, che fortuna per i bambini vivere in questo ambiente di
gioiosa operatività!
* * * * * * *
Finalmente una radiosa giornata domenicale del Luglio 1981, mi ritrovo a vivere
un’esperienza di fraternità con riflessione, deserto, pranzo comune e infine la
Celebrazione Eucaristica pomeridiana!
Ma prima
di iniziare la giornata comune do uno sguardo alla casa che ci ospita qui a
Monte Carmelo, vicino Lentini.
Siamo in
piena campagna: intorno alla casa alberi secolari disposti a semicerchio
proteggono “la clausura” dei monaci, custodiscono e rendono sacra la loro vita
spesa fra la preghiera e il lavoro dei campi. Passeggiando osservo i lunghi,
bassi filari di … pomodori verdi e rossi e altri filari ancora, ma non più pere,
bensì rilucenti e violette melanzane e più in là, un po’ più giù dalle serre di
ortaggi, fanno capolino lunghe e lucenti le zucche verdi e lisce che si
espandono in lunghezza occhieggiando appena fra le verdi grandi foglie ricoperte
da una tenera peluria protettiva.
Mi viene
in mente una preghiera dal titolo “Chi è il mio Dio?” e quasi senza accorgermene
la ripeto a fior di labbra, mi è stata regalata da un’amica, ed immersa in
questa natura sfolgorante, la faccio mia.
Chi è il
mio Dio?
Il mio
Dio è il Dio che pianse alla morte di Lazzaro,
il mio
Dio è il soffio dolce del vento
sui
capelli baciati dal sole,
il mio
Dio è nel primo sorriso di un bimbo
che
tutto guarda con dolcissimo stupore,
il mio
Dio è l’alba che ogni giorno nasce per te e per me,
il mio
Dio è l’aurora, è il tramonto
che ogni
giorno muore,
per
risorgere poi in una nuova alba,
il mio
Dio è la luce,
il mio
Dio è il buio,
il mio
Dio è anche dolore,
il mio
Dio cinguetta con i passeri nel cielo,
il mio
Dio profuma come un fiore sulla neve
o su un
prato,
il mio
Dio è acqua limpida che disseta e dona la vita,
il mio
Dio è la speranza che domani sarà con me,
il mio
Dio è la forza che mi sostiene, mi è accanto
e che a
volte mi porta in braccio,
il mio
Dio mi osserva, vede la mia goffaggine,
le mie
cadute, i miei errori.
Ma il
mio Dio mi ama come solo un folle può amare,
il mio
Dio è l’Amore che non potrà mancarmi mai.
Concita Sambataro
lo vivo e
lo respiro sensibilmente ancora immersa in questo piccolo grande spazio della
creazione.
Ho appena
finito di fare il primo giro esplorativo e mi ritrovo davanti al saloncino
vuoto. Le sedie sono già disposte a semicerchio e, strano, sul tavolo, oltre ad
alcune Bibbie ci sono diversi foglietti che formano un mucchietto, ne tiro via
uno e lo guardo: <<Il Signore per più di un anno ti ha fatto camminare con
l’aiuto dei fratelli (la tua comunità), ora devi impegnarti tu di persona per
aiutare i nuovi fratelli che il Signore vorrà mandarci>>.
Istintivamente, a voce alta, rispondo: <<Sì, lo farò volentieri, devo restituire
ad altri fratelli la gioia che tu, Signore, mi hai donato>>.
Stavolta
sono proprio fortunata perché il saloncino è vuoto, solo un passero curioso,
appoggiato al grande albero che si intravede dalla finestra aperta, ha ascoltato
il mio proposito e cinguetta il suo allegro “cip” di … approvazione.
Mi
avvicino all’ingresso del salone e cerco i miei fratelli: P. Vincenzo e Pippo
sono vicino alla macchina e stanno trasportando il microfono e la chitarra, più
in là Aurelio ha già in mano i libretti dei canti. Più lontano si intravedono
Nando, Francesca, Nino, Antonio, ma … dove si trova Corrado? Non è venuto oggi?
Ci
avviamo tutti verso l’entrata del saloncino; mentre girata sto per entrare, mi
sento passare una mano davanti agli occhi e una voce nota mi chiede: <<Chi
sono?>> rispondo sicura:
<<Corrado>> e girandomi di scatto lo abbraccio forte.
mani e fiumi
benedite il Signore,
uccelli
dell’aria benedite il Signore
recitiamo
con le lodi mattutine.
Le vicine
colline sembrano rispondere alla lode mostrando lo sfolgorio dei loro colori
giallo e verde, anche il mare in vicina lontananza offre il suo “sorriso”
espresso dall’incresparsi delle onde e infine gli uccelli uniscono il loro canto
al nostro e, guarda un po’, riescono ad essere intonati!
Noi tutti
lodiamo il Signore e lo vediamo visibile nel volto dei fratelli. Certo non posso
guardare il mio volto, ma vedo il riflesso della mia gioia in quello di Corrado.
Con il
salmista ripeto
com’e’ dolce
e soave che i fratelli stiano insieme
Aurelio
con la sua bella dizione, prende il foglietto che gli porge P. Vincenzo e legge:
<<Signore
tutti noi siamo dei chiamati convocati dal Tuo Amore fatto carne, La nostra vita
cristiana è dunque una vocazione che ha come motivo qualificante l’Amore Tuo per
noi. L’Amore è il modo in cui Tu ci chiami, ma tutto ciò non basta, occorre
capire a che cosa siamo chiamati e per che cosa siamo
interpellati.>>
(Sussulto: ma io lo so! Lo so già!)
<<Ogni vocazione infatti implica
un’azione, una dinamica, un compito. Fa’, o Signore, che la Tua chiamata
provochi in noi una risposta totale e decisiva, fa’ che sappiamo ascoltarti e
fa’ che possiamo scoprire qual è il nostro posto nel Tuo disegno>>.
(A. Pronzato)
Nel
totale silenzio P. Vincenzo ci esorta:<<Buon
deserto a tutti. Ci rivedremo tra due ore!>>
Esco,
nessuno disturba la mia “riflessione”. Mi incammino fra gli ampi spazi della
campagna di Monte Carmelo, trovo un sentiero appena accennato, vi entro decisa e
alla fine arrivo vicino ad una rupe lavica circondata da ciuffetti di erbe e da
fiorellini di campo: <<Dio
mia rupe, mia potente salvezza!>>
prego poi volgo lo sguardo
intorno, ecco laggiù lontano il mare infinito sembra toccare il cielo infinito.
<<Padre nostro>>
mormoro
<<che sei sulla terra>>,
Padre mio, ti ringrazio di questa “sosta” che mi hai regalato in modo gratuito
e poi mi è sembrato “congeniale” il passo offerto alla mia riflessione
personale. Ho riconosciuto lo stile provocatorio, incisivo e fraterno di A.
Pronzato, che è da sempre il mio preferito.
Signore
ti lodo perché con ciascuno di noi usi “una speciale tattica” per incontrarci
nelle nostre strade.
Alla
donna samaritana hai chiesto dell’acqua per estinguere la tua sete di uomo e poi
hai donato a lei <
l’acqua di vita eterna>,
a Zaccheo che ti aspettava
curioso sul sicomoro solo per vederti passare, tu hai chiesto ospitalità e il
povero usuraio con uno slancio di conversione sincera afferma:
<signore se ho
defraudato qualcuno ne restituirò il quadruplo>.
Che grossa fortuna per i poveretti “defraudati” da Zaccheo!
Su, ti
ascolto <<Hai qualcosa da proporre anche a me?>>.
Riprendo a passeggiare nella bella campagna e improvvisamente
un alto, grande pergolato appare alla mia vista. Che bello! Ho capito mi hai
sempre “parlato” attraverso gli alberi: la prima volta mi hai aspettato sul lago
vicino agli alberi secolari di Gambarie, poi mi hai aspettato a Lentini tra i
filari di pere e ora mia stai aspettando presso le viti di Monte Carmelo.
<<Fa’, o Signore, che io non mi
distacchi mai da Te mia “vite” mia “vita”>>
Com’è
dolce il venticello che mi accarezza complice di tanta pace! Sento dei passi
svelti, tutti stanno per ritornare per “condividere” con i fratelli, le
riflessioni del deserto.
* * * * * * *
Inizia a
Settembre ’81 il nuovo anno sociale. Il mio cartellone speciale <Sta nascendo
una comunità di fede per te> fa bella mostra di sè all’ingresso della chiesa
e via via ben presto intere famiglie vengono da noi coinvolte dalle nostre
speciali Messe animate da canti corali e da testimonianze singole e fra esse non
manca la mia.
Ora fra
noi arrivano Pina e Antonio che, quale docente universitario, arricchisce di
fede e di cultura teologica i nostri incontri comuni. L’affinità elettiva che,
ricca e spontanea, nasce fra noi tre è profonda e duratura e diventa una bella
amicizia personale.
Ecco
“l’amicizia” è il “dono” nuovo che scopro e vivo nell’ambito di questa
comunità.
E’ una
bella sera, infatti, per la prima volta in tutta la mia vita, usciamo per
divertirci insieme ed andiamo al Luna Park.
Nando,
Nino, Antonella, Aurelio camminano sicuri verso la ruota panoramica, ma io mi
sento indecisa. Nando e Nino si voltano, mi danno la mano, mi rassicurano e, non
so come, mi ritrovo seduta sulla ruota panoramica; per prudenza (ma in realtà
per un’istintiva infantile paura) mi metto al centro e ai lati ho due
“fratelli” . La paura va via pian piano, vivo intensamente la nuova, strana
esperienza che avrei dovuto fare da ragazza, no ora, ma Nando mi sussurra:<<Lo
spirito non ha età, divertiti!>>.
Ardita tiro la leva e andiamo
ancora più in alto <<Volare
oh, oh, cantare oh, oh, oh>>
e mi sento tanto vicina alle
stelle. Provo una sensazione di libertà e gusto in pienezza questo “momento”
grazie alla disponibilità dei miei fratelli che godono nel vedermi così
<<elettrizzata,
come un’adolescente!>>.
Il
nuovo anno si conclude con una giornata comune a Monte
Carmelo e stavolta siamo in molti, le giovani famiglie sono ricche di figli e i
bambini corrono, saltano, giocano, ridono nella bella campagna sicula.
Particolarmente festoso è il nostro domenicale Banchetto Eucaristico con tre
sacerdoti concelebranti, con l’animazione musicale, con il momento di
testimonianze di vita per confermare <<le meraviglie operate dal Signore Gesù>>.
E la Parola di Paolo risuona ancora dentro di me:
<<e se avessi il dono
della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la
pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità non
sono nulla …. la carità e’ paziente, e’ benigna la carità, non e’ invidiosa, la
carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo
interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode
dell’ingiustizia, ma si compiace della verità, tutto copre, tutto crede, tutto
sopporta>> (1 Cor. 13,11).
La carità diventa il tema
dominante dei nostri incontri con l’attenzione agli ultimi: ai poveri di salute,
ai poveri di speranza e specialmente ai più poveri dei poveri: i poveri di Dio.
* * * * * * *
(seconda parte)
IL CONVEGNO
DI RIMINI
Oggi,
nell’aprile dell’82, mi sto preparando per vivere una nuova, unica esperienza di
fede: il Convegno del Rinnovamento nello Spirito che si terrà a Rimini. A
Catania si formerà un treno speciale riservato per tutti i partecipanti della
Sicilia. Che bello! Sono già sul treno ed ho con me i fratelli della prima
ora: P. Vincenzo, Pippo, Aurelio, Salvo e Corrado.
Come sempre è molto emozionante per me la traversata dello Stretto e al rientro
resto sempre affacciata al finestrino del corridoio, ma Corrado premuroso si
avvicina: “Rorò”
esordisce (è il diminutivo che usa in certi momenti, a me
piace molto, perché mi fa sentire giovane come lui che ancora non ha compiuto
vent’anni) “Stai
attenta, facendo così ti stancherai e non potrai assaporare i sacri momenti del
nostro convegno di Rimini, su presto vieni a sederti al mio posto, è vicino
all’altro finestrino”.
Sorridendo convinta accetto il suo “velato ordine”.
A
Bologna il treno si ferma per la coincidenza e abbiamo quasi tre ore libere a
nostra disposizione.
E’ una città medievale, m’ispira molto, sto contemplando le due
artistiche torri della “Garisenda” e degli “Asinelli” e Pippo propone: “Dai, lasciamo qua Rosarita, la
passiamo a prendere al nostro ritorno”.
Tutti ridiamo, quindi si riparte <<Signori in carrozza!>>.
Il treno riprende la sua corsa e noi ci muoviamo per fare una
visita di cortesia ai fratelli del vagone accanto. Il nutrito gruppo di Palermo
è guidato da P. Mario: è deciso questo monaco con una chierica vigorosa e con i
pochi capelli rimasti tenacemente attaccati alla sua testa. Gli occhi,
indagatori e penetranti, pare siano avvezzi a leggere dentro i cuori degli
uomini.
A vederlo così, a prima vista, mi dà l’impressione di un uomo
“severo”, “deciso”, mi sembra un antico profeta biblico. Anche lui sembra
scrutarmi con interesse, ma si limita a mormorare un formale <<Benvenuta
fra noi, Rosarita>>. Mi
allontano, lo guardo perplessa e mi dico:<<Questo monaco avrà un ruolo nella mia vita>>
e questo
pensiero è
“strano”.
Il treno continua la sua corsa, noi siamo già ritornati nel
nostro scompartimento e mi chiedo: “Dove sono i miei bagagli?”,
Corrado si è assunto il compito di
sistemarli e trascinarli via insieme al suo leggero borsone.
L’autobus
all’uscita della stazione ci aspetta per portarci nel nostro albergo. Nella mia
stanzetta a due posti viene Antonietta, proveniente da Paternò; la simpatia è
istintiva e reciproca. Ora è mattina presto, l’autobus ci viene a prendere per
portarci alla sala del convegno.
Ben presto
arriviamo in uno slargo immenso riservato ai pullman che portano i pellegrini
della Calabria e della Sicilia; non si riesce neppure a vedere l’asfalto perché
l’enorme parcheggio è pieno di centinaia di pullman colorati con cartelli con su
scritto il nome del luogo di provenienza e il numero di codice del posto
assegnato ad ognuno.
<<Ma che nordica organizzazione!>>
mi dico.
Scendiamo ed ora verso di noi
arrivano due biondi, nordici ragazzi in divisa: camicia azzurra, pantaloni blu e
una vistosa fascia bianca al braccio con la scritta <<Servizio
d’ordine>>.
Noi scendiamo
e siamo già incolonnati in fila indiana; ad ognuno di noi viene consegnata una
colorata busta, subito apro la mia e vi trovo una targhetta autoadesiva da
riempire, il codice del nostro pullman, l’indirizzo e il nome dell’albergo, il
libretto dei canti ed un grazioso cappellino giallo, che subito indosso per
difendermi dal “caldo” sole.
I due biondi
atletici ragazzi chiedono chi è il nostro capogruppo e subito Pippo si fa
avanti, anche lui riceve il nostro materiale, ma il suo cappellino è rosso e
stavolta ha il ruolo di guida. Siamo meno di un centinaio contando i fratelli di
Paternò, di Siracusa e di Messina, che si sono uniti a noi, perché quelli di
Palermo hanno un pullman a parte.
In
questa folla immensa temo di … smarrirmi, ma Corrado sollecito afferra la mia
mano e mi dice: “Tu
sai parlare la nostra lingua, l’italiano? Coraggio allora siamo tutti tranquilli”.
Aspettiamo il nostro turno per poter entrare nel settore a noi assegnato mentre
l’altoparlante invita tutti i medici presenti ad avvicinarsi alle ambulanze, che
sono già disposte in una lunghissima fila nella corsia laterale. Ma ecco alla
destra, dal lato esterno del mio cordone, un medico riconoscibile dalla fascia
della Croce Rossa, si avvicina sempre più, lo guardo e lo riconosco, ma anche
lui mi riconosce, si avvicina svelto, alza il cordone, entra, mi abbraccia e,
mostrando una sincera meraviglia, dice: “Rosarita, complimenti! Ti trovo
proprio in forma, sei diventata anche più giovane di me: come mai?”
Sorrido fra me e con la
mano gli indico il posto di P. Vincenzo e poi aggiungo: “Nunzio, stai facendo volontariato?
Ma così non potrai vivere la nostra forte
esperienza di preghiera”. “Servire i fratelli sofferenti è preghiera!”
afferma
convinto.
Eh sì
– penso –
la
carità è la chiave speciale del nostro impegno cristiano.
Camminiamo in
ordine, ben inquadrati e guardiamo le frecce per terra, che indicano il percorso
da fare per raggiungere la nostra postazione numero sette. Vedo che tutto è
rigorosamente organizzato, alcuni giovani del servizio d’ordine favoriscono il
fluire della folla nei vari settori stabiliti. Ecco sono arrivata, mi siedo al
mio posto numerato e mi guardo in giro, Finalmente!
Il salone è un
immenso ottagono in cemento armato con sedici colonne portanti. quotidianamente
è una delle sedi della fiera campionaria, ora è stato adattato per il nostro
Convegno.
Sul grande
podio infatti è sistemato già il palco per l’ orchestra che animerà gli incontri
e tutti i cantori sono in “divisa”. Accanto all’orchestra un enorme tavolo
rivestito con bianche, merlettate tovaglie, ornato di fiori rossi e di
candelabri fa da “altare”. Nei lunghissimi circolari scalini, che sembrano
formare un anfiteatro, via via prendono posto due rappresentanti per ogni gruppo
presente.
Improvvisamente il chiacchierio iniziale si smorza ed una voce calda e potente
così dice: “Benvenuti
fratelli, c’è posto per tutti, vi prego rispettate l’ordine, occupate i posti
che corrispondono al vostro numero e lo spazio del vostro settore”.
Ora il
canto corale, amplificato dai potenti altoparlanti si estende in tutto l’enorme
locale:
“Io ho
una gioia nel cuore, gioia nel cuore e dentro me … Tu hai una gioia nel cuore e
dentro te … apri le braccia e loda il tuo Signor!”
E cento,
mille, diecimila braccia nere e bianche si innalzano al cielo, ondeggiano, si
uniscono al ritmo del canto e … mi sembra di vedere ora solo otto fiori con
petali multicolore, che lentamente si aprono e si chiudono, e che hanno come
stelo dei verdeggianti bastoni appoggiati nel calmo fiume della preghiera di
lode!
Come separata
dalla parte materiale di me, felice e libera, canto e anche le mie braccia
naturalmente si alzano e si abbassano seguendo il ritmo comunitario.
E divento
anche una testimone oculare di <<miracolo>> perché gli uomini, che tre giorni fa
sono entrati in questa “fiera campionaria” hanno prodotto profitto, potere,
denaro, noi oggi, invece, nello stresso luogo stiamo facendo qualcosa di
“sacro”, stiamo producendo preghiera e a vicenda ci regaliamo gioia e speranza
estensibile al mondo intero che vive, lavora, soffre fuori da questo posto, E il
coro scandisce:
Vieni, Santo Spirito
manda a noi dal cielo un raggio
della Tua luce.
Vieni, Padre dei poveri,
vieni, datore dei doni, vieni,
luce dei cuori.
Consolatore perfetto:
ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo.
Nella fatica riposo,
nella calura riparo, nel pianto
conforto.
O luce beatissima,
invadi nell’intimo il cuore dei
tuoi fedeli.
Senza la Tua forza
nulla è nell’uomo, nulla senza
colpa.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina,
piega ciò che è rigido
scalda ciò che è gelido
drizza ciò che è sviato.
Dona ai tuoi fedeli, che solo
in Te
confidano, i tuoi santi doni.
Dopo l’invocazione più di
duecento sacerdoti salgono sull’altare immenso, degradante in scalinate. E’
significativa la prima parte della liturgia penitenziale, chi vuole può ricevere
il sacramento della confessione parlando con il primo fratello sacerdote che
incontra nell’area del proprio settore. Che modo “carismatico” per riconciliarsi
con Dio e con i fratelli! Usavano questo modo anche le comunità d’origine??
Mi metto in fila indiana in
attesa del mio turno. Una voce calda e chiara proclama:
“Vi
aspergerò con acqua pura e sarete purificati. io vi purificherò da tutte le
vostre sozzure e da tutti i vostri idoli. vi darò un cuore nuovo, metterò dentro
di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore
di carne. porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei
statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. abiterete nella
terra che diedi ai vostri padri. voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro
Dio” (Ez; 36,25-29)
Mi trovo
davanti un fratello sacerdote nero, riccioluto, alto. <<Salvatore>> leggo sulla
targhetta bianca che spicca sulla camicia nera come la sua pelle. Mi sento come
protetta da un sorriso bianco, bianchissimo, gioioso, luminoso che dal suo
vivace volto si spande tutto intorno e arriva dritto al mio cuore e poi sento la
nota nenia infantile che dolcemente dice: “Rosarita,
benvenuta a questo sacramento della gioia. Lo sai, Gesù ti ama e ti accetta così
come sei” e poi mi ..abbraccia
ed io affascinata dalla voce e dal suo bianco e limpido sorriso, ricambio il suo
abbraccio e inizio a parlare. Alla fine la sua larga mano nera è inondata di
bianca luce quando si alza decisa nel gesto sacerdotale del perdono. Ma tu,
Signore, pensavi anche a questi momenti quando lì in Palestina ai tuoi apostoli
dicevi:
<<
Tutto
quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli?>>.
E provo ancora
una strana sensazione liberatoria, perché il suo sorriso stranamente mi fa
pensare ad un altro giovane catanese che, non ancora prete, lì a S. Antonio nel
1979 mi regalò il suo, P. Andrea.
Entrambi i
sorrisi sono qualcosa di fantastico e di rassicurante, ecco hanno in comune
l’azzurro verde della … gratuità. Piano ritorno al mio posto e l’enorme sala è
illuminata dalla grazia di questi incontri di
Grazia.
Fratelli e sorelle abbracciati ad altri fratelli sacerdoti ricevono così
il sacramento! E i tanti vescovi presenti tranquilli distribuiscono anche loro
benedizioni e … sorrisi.
Improvvisamente mi rivedo nel ’70 a S. Antonio, vedo davanti a me il vecchio
altolocato prelato romano che oggi amabilmente mi dice: “Ti trovi bene qua, vero? Ora puoi
muovere le braccia come vuoi, “lo stile” stavolta te lo permette, vero?”.
Ma è solo una
mia impressione interiore! Lui è già in Cielo, è certo più libero di esprimersi!
Osservo
la folla festosa, ma silenziosa e compunta, poi guardo le colonne di ferrato
cemento. Anche loro sembrano “stupite” perché appena tre giorni fa hanno udito
ben diverse e febbrili trattative commerciali, ora invece guardano attonite
gratuite trattative di pace, di perdono, di misericordia. Ah, se ci fosse
presente il mio dotto vecchio professore di religione del magistrale di Locri
direbbe: “Alt!
Il sacramento non è valido. Amministrato così è nullo sia per la materia, sia
per la forma! Che tempi! Che Chiesa! La chiesa è caduta in basso, si è fermata a
dar peso all’emotività di una folla esaltata!”.
Ma non c’è il
mio “dotto” professore del magistrale che io, già ragazzetta, per istinto
contrastavo pur non avendo basi teologiche.
Ma così si
respira lo Spirito Santo, tutto il mondo è presente come una nuova Pentecoste!
Quanti pensieri frullano dentro di me mentre libera, leggera e felice ritorno
al mio posto e sprofondo in preghiera, circondata da un sottofondo musicale. Mi
sento sfiorare i capelli da una carezza delicata: è Corrado, lo guardo
sorridendo. Anche lui ha gustato “sacri momenti” d’incontro col Signore! Ma è la
terra che è già salita al cielo o è il cielo che è sceso sulla terra?
Questo dubbio
mi resterà fino alla fine del Convegno, fino al mio ritorno a Catania. E’ vero
gustare e vivere dei momenti forti di preghiera è una delle esperienze più
complete che un uomo possa fare perché è simile all’innamoramento, ma lo supera
la preghiera; essa, infatti, è un anelito universale perché non si ama solo
l’altro oggetto dell’innamoramento, ma si può amare contemporaneamente l’albero
che si intravede dalla finestra, il fratello che sta aprendo la tenda pesante di
una delle uscite, la sorella sconosciuta che sta aspettando, stanca, un
bicchiere d’acqua al posto di ristoro, il bimbo nero che dorme placido fra le
braccia della sua giovane “mamma bianca”, il volto ancora giovane e splendente
di una esile donna bionda che sorride serena pur essendo inchiodata su una sedia
a rotelle, l’autista che esausto aspetta fuori al sole il nostro rientro in
albergo!
<<L’Amore
scopre in tutto il mistero di Dio in ogni volto umano, ma anche in ogni granello
di polvere, in ogni filo d’erba>>. (Anselm
– Grun)
* * * * * * *
Stiamo vivendo la prima serata con
la S. Messa che è dedicata ai fidanzati e alle famiglie. Ora, alla fine della
Messa, arrivano da tutti i settori genitori con bimbi neonati o più grandicelli,
c’è un cicaleccio delizioso e un mare multicolore di “piccoli” che salgono
sull’altare e, stavolta, anche i giovani del servizio d’ordine sono più
tolleranti.
E scroscia l’applauso, mi guardo
le mani ; sono rosse come il fuoco dell’Etna!
L’indomani mattina partiamo presto
dal nostro albergo così arriviamo puntuali alla sala del Convegno.
E’ sempre ricca di emozioni e
di ammonimenti vari la nostra mattinata comunitaria perché
<<lo spirito santo e’ presente nella preghiera
dei fratelli>>
(At. 4,23-30).
Ora
questa colonna di cemento armato che sostiene tonnellate di peso e dove io,
alzata, mi appoggio, può essere “impregnata” di preghiera, ora “trasuda”
preghiera. E non riesco neanche a meravigliarmi per il mormorio che via via sale
dai primi posti della destra dove una sorella immobilizzata da anni, costretta
sulla sedia a rotelle, improvvisamente si alza, muove i primi passi stentati, si
avvicina al microfono e nell’assoluto silenzio di tutta l’assemblea, con voce
stonata intona: “Alleluia! Gloria a Dio!”
Gloria! Gloria! – intona il coro.
Sul nostro
pullman, nel ritorno all’albergo nessuno parla, qualcuno delicatamente recita il
Rosario.
Anche il
nostro pranzo, gustoso ed abbondante, viene consumato in silenzio, silenzio di …
adorazione.
* * * * * * *
Nel
pomeriggio torniamo nella sala dei Convegni, stasera la S. Messa è dedicata ai
sofferenti e alcuni salgono sull’altare per ringraziare il Signore per la
disponibilità ‹
dei loro
fratelli sani che sono il loro “bastone” e i testimoni dell’Amore di Dio per
loro ›.
E’ arrivato
l’ultimo giorno del Convegno, stavolta la Messa sarà celebrata di mattina perché
in tarda serata dobbiamo ripartire per le nostre “sedi”.
L’altare è
tutto ricoperto di fiori gialli e bianchi e la S. Messa è dedicata a tutti i
consacrati di ogni ordine e grado, sia quelli che sono inseriti nelle tante
Istituzioni ufficiali della Chiesa, sia quelli che vivono in modo personale il
loro impegno in comunità.
Ricordo
che P. Vincenzo a pranzo mi aveva esortato: “Rosarita presentati all’altare
domani, io sarò fra i sacerdoti concelebranti. Sali fra i tanti fratelli e
sorelle sconosciuti, questa è una ‹ conferma › per la tua vocazione”.
Mentre uomini , donne,
ragazzi, suore responsabili delle pastorali e laici saliamo sull’altare, il coro
ripete: <<nessuno ti
chiamerà più abbandonata né la tua terra sarà detta devastata ma tu sarai
chiamata “mio compiacimento” e la tua terra “sposata”. come gioisce lo sposo
per la sposa così per te gioirà il tuo dio>>
“Che
bello!” mi dico
“La mia strana chiamata è visibile in
uno spazio di Chiesa e oggi è quello di S. Teresa a Catania”.
* * * * * * *
E’ l’ultimo giorno di permanenza a
Rimini, usciamo, ci incontriamo con altri gruppi di Genova e di Torino e i
ragazzi con le chitarre improvvisano un concerto e P. Vincenzo mette fuori il
meglio della sua bella voce.
Sul grande piazzale le
biciclette a due posti, i
tandem, fanno
bella mostra di sè, io guardo incuriosita i ragazzi che pedalano insieme ed ecco
P. Vincenzo svelto ne affitta uno, si ferma, mi guarda e sorridendo mi invita:
<<Svelta,
sali su >>. Io lo
guardo incerta, poi alla men peggio riesco a salire, sistemandomi sul sellino e
lui, generoso, pedala anche per me, infatti io non sono mai andata in
bicicletta, neanche da bambina.
Così mi
diverto un mondo e Pippo, vedendomi, è più divertito di me, così mi scatta una
foto.
Nel dondolio ritmato del
treno, rannicchiata nella mia cuccetta “rivivo” le tante sensazioni provate, ma
non riesco a fermarle sulla carta nella profondità del loro valore esistenziale.
* * * * * * *
(terza parte)
LA MORTE DI MIO
PADRE
Inaspettatamente la notte del 26 Novembre dell’82 un tremendo dolore si abbatte
sulla mia casa e sulla mia vita: papà sta male.
Mia sorella,
subito lucida e razionale, chiama l’ambulanza e insieme alla mamma accompagnano
mio padre all’ospedale, mentre io resto sola a casa per fare il necessario
collegamento.
Sento tutto il
peso della situazione, è notte dentro di me, è ancora notte, sposto la tenda,
guardo fuori e vedo la luna che impassibile manda la sua luce fredda sulla
terra, mentre tutte le famiglie del mio vicinato dormono tranquille, ma non io.
Mi sento
inquieta e mi accorgo di essere molto legata a mio padre, la sua presenza mi
comunica un senso di sicurezza esistenziale. Io gli somiglio molto, sia nel
temperamento irruento e passionale, ma fortemente volitivo, sia fisicamente ed
ho una buona vena poetica che spesso trasforma la prosa del quotidiano in
poesia. Mio padre ha avuto una buona formazione letteraria e i suoi poeti
preferiti sono: Foscolo e Alfieri e spesso il motto del poeta astigiano affiora
sulle labbra: “Volli,
sempre volli, fortissimamente volli”.
Mi
avvicino alla libreria, prendo la Bibbia, l’appoggio sul tavolinetto accanto al
telefono e l’apro; in un foglio interno c’è una piegatura, vi getto un rapido
sguardo, ma ecco suona il telefono: è mia sorella: “Papà
si è ripreso, ma io e la mamma passiamo qua la nottata, tu cerca di riposare un
po’. Fatti coraggio!”.
Ma io non riesco affatto a riposarmi, tuttavia cerco di farmi coraggio
nell’unico modo che conosco: pregando. Prendo la Bibbia e leggo così nel foglio
spiegazzato:
sentendo avvicinarsi il giorno della sua morte, Davide fece
queste raccomandazioni al figlio Salomone: io me ne vado per la strada di ogni
uomo sulla terra. Tu sii forte e mostrati uomo. Osserva la legge del Signore tuo
Dio procedendo nelle sue vie.
(1Re 2,1-2).
Che cosa
significa questo messaggio biblico? <<Mio padre non guarirà, non
tornerà a casa con me?>>.
Reagisco
dandomi una spiegazione razionale: certo, il foglio sporgente dal bordo, perché
spiegazzato, ha influenzato la mia mano nell’aprire la Bibbia. Vedo la luce
della lampada sempre più fioca, perché le lacrime silenziose scendono dai miei
occhi, non cerco neanche di asciugarle, il tempo lentamente passa e vivo tutta
l’angoscia del momento anche perché sono sola e la solitudine mi pesa stanotte.
<<Signore
anche tu eri solo nell’angosciante salita al Calvario>>
penso.
Ma ora non
sono più nella mia stanzetta, bensì sono su una grande barca con molta gente
sconosciuta attorno a me. Ma che strani costumi ottocenteschi indossano! Sto
facendo una traversata su un fiume sconfinato.
Attorno a me
la gente è tranquilla, parla, ride e i bambini indossano vestitini alla
marinara. Ma che faccio io sulla barca vestita in abiti moderni? Ma un secondo
dubbio mi assale, perché la gente attorno a me finge di non vedermi mentre io li
vedo e li sento parlottolare? E poi io sono giovane con i lisci capelli al
vento, ora in lontananza vedo un gruppo di uomini in divisa militare e al centro
ne intravedo uno e resto subito colpita dal suo modo familiare di tenere il
cappello in mano, mostrando i suoi ondulati neri, folti capelli. Cerco di
avvicinarmi in mezzo alla folla anonima, ora lo vedo (ancora in lontananza) che
sta indossando il cappello d’ordinanza sulla sua attillata, splendida divisa
militare già adornata di stellette.
Ma
questo giovane uomo con la virile, volitiva mascella quadrata ha qualcosa di
familiare, corro più svelta verso di lui e lo chiamo sicura a voce alta:
“Papà,
papà”.
Ma
improvvisamente non lo vedo più, dove si è nascosto?
Tuttavia
continuo ad avvertire dentro di me la sua cara presenza e il barcone continua la
sua corsa sul fiume e io continuo a cercare, ma la “visione” sparisce. I remi
della barca toccano qualcosa di duro, forse un masso? E sento un forte rumore,
sussulto, mi sveglio, sono a casa mia sulla sedia sdraio e ai miei piedi, a
terra, vedo il grosso libro della Bibbia e la lampada ancora accesa. Ecco ho
sognato, ho solo sognato! Guardo fuori, è giorno, c’è il sole, mi scuoto, mi
alzo, vado in cucina per bere e sento girare la chiave nella toppa: è mia
sorella. Le corro incontro, è avvilita, mi abbraccia e dice: “La situazione è un po’ migliorata, la
mamma è voluta restare con papà. All’ospedale c’è una disorganizzazione
terribile: papà è rimasto tutta la notte in astanteria. In cardiologia non c’è
posto. Dove lo metteranno?”.
La malattia di
mio padre è particolare, perché è caratterizzata da improvvisi, lunghi
miglioramenti e da altrettanto improvvise e rapide ricadute, dovute al suo cuore
che ha molto lavorato, ha amato noi e, in modo del tutto speciale mia madre,
alla quale tuttora lo lega un amore profondo, tenero e appassionato.
Nei mesi
passati all’ospedale pian piano, altre alla presenza continua di mia madre e di
mia sorella, mio padre si è abituato alla presenza di alcuni miei fratelli della
comunità di S. Teresa: Alfredo, Angelo, Gianfranco, che si alternano al suo
capezzale, portando conforto anche agli altri malati.
In un
freddo pomeriggio di Gennaio dell’83 riesco a vivere da sola (mia madre e mia
sorella sono rimaste a casa) un momento speciale con mio padre che trovo in gran
forma. “Rosarita”
– esordisce - “tu
sola sai che sto per lasciarvi”
-
sussulto, non se ne accorge e continua
– “tu sai anche che ti voglio bene, sono orgoglioso
di te, perché tu hai un buon lavoro che ti piace, so che i bambini a scuola ti
vogliono bene, gli amici che frequentano la comunità di S. Teresa (sono
riuscita a trasmettere anche a lui il concetto di comunità)
sono bravi ragazzi, impegnati nella chiesa come te. Lo so e lo capisco, non hai
voluto sposarti perché tu non sei disponibile per la vita matrimoniale. Tu hai
rifiutato quella “magnifica possibilità” che io, tu e la mamma conosciamo bene.
Lo sai, tua madre per questo tuo “ostinato, strano rifiuto” ha molto sofferto e
purtroppo continua a soffrire perché lei guarda al nostro matrimonio che è così
ben riuscito. Tu continua a fare bene il tuo “dovere”.
Dopo le
ultime parole che riguardano “il mio dovere” mio padre mi sembra stanco, tace ed
io, in silenzio sacro, metto la mia mano nella sua lievemente, ma la nostra
intesa è “totale”; lui, infatti, capisce il messaggio e stringe (con la forza di
sempre) la mia mano che è molto simile alla sua ed io, stavolta,
miracolosamente, riesco a trattenere dentro il mio cuore amare lacrime e vane
parole. E in questo momento straziante, che sento prelude ad un addio
definitivo, riascolto dentro di me l’esortazione di Davide al figlio Salomone:
“tu
sii forte e mostrati uomo e osserva la legge del Signore”.
Ma stavolta
(contrariamente al mio solito) riesco a non fare traboccare fuori tutta la mia
“angoscia” e mi permetto perfino di scherzare con mio padre e di fare bei
progetti per il suo ritorno a casa!
Rasserenata
penso anche alla grazia che il Signore ha dato a mio padre di potermi parlare in
piena lucidità mentale e alla grazia che ha dato a me di potere conservare
tuttora nel mio cuore il suo messaggio d’amore per me, sua figlia!
All’alba del
14 Febbraio una sensazione angosciosa e inspiegabile mi assale, mi vesto in
fretta, corro all’impazzata all’ospedale, arrivo trafelata, appena in tempo per
vederlo morire …
E mi ritrovo
una forza “strana”, non mia (viene dall’alto?) che mi permette di svolgere con
lucidità le varie incombenze: riesco a portare mio padre a casa, avverto amici e
parenti, organizzo i funerali nella bella chiesa di S. Luigi, vicino casa mia.
Sostengo,
conforto, rimprovero mia sorella e mia madre, accasciate dall’improvviso,
inatteso dolore.
La chiesa è
gremita all’inverosimile di amici e parenti: in prima linea tutto il Magistrale
con il preside e tutti, proprio tutti, i colleghi di mia sorella; vicino a me
c’è solo qualche collega della mia scuola, ma è presente tutta la mia numerosa e
calorosa comunità di S. Teresa, con padre Vincenzo in testa. Io sono fredda e
lucida e nei primi momenti vivo l’esperienza dolorosa con fortezza d’animo, con
una sorta di autocontrollo speciale, ma anche strano per la mia natura emotiva
ed istintiva!
La Messa è
partecipata, quattro carabinieri danno il picchetto d’onore e la nostra bella
bandiera sventola e alla fine della Messa tutti i presenti applaudono a lungo
nel saluto finale.
E’ un momento
solenne, sacro. In abiti neri, seguendo la bara, mi vedo “orfana” e mi lascio
quasi trascinare da Alfredo, mio fratello in Cristo!
Il viale è
pieno di gente sconosciuta e tutti gli uomini fanno il saluto militare alla
bandiera, che è simbolo della patria che mio padre ha servito per circa 50 anni,
sempre fedelmente e mi sento fiera di lui e di me che sono sua figlia! Queste
sensazioni mitigano lo strazio del distacco.
Guardando la bandiera risento la voce calda del mio professore d’italiano, che
con partecipazione leggeva gli scritti inediti di G. Mazzini: <<Chi
può negare Dio davanti alla morte di una persona cara è grandemente colpevole o
grandemente infelice>>.
<<O
Signore proprio ora dal profondo del mio cuore ti invoco, dammi forza, fa’ che
io non sia né “infelice” né “colpevole” per avere dimenticato la tua presenza
anche in questo momento della mia vita. Amen>>
* * * * * * *
Una mattina,
sul finire del mese di Aprile dell’83 (dopo tre mesi dalla scomparsa di mio
padre) con il cuore nero, con la faccia smunta e pallida, con il passo
trascinato, ricoperta dalla camicetta nera con le lunghe maniche nere, mi
preparo a salire la seconda rampa di scale per andare da sola nella “mia”
cappella a S. Teresa.
Stavolta ho
veramente bisogno di riflettere per ricostruire me stessa, perché, dopo la forza
interiore e la decisione mostrata nei primi momenti di emergenza, sono crollata
e mi sono lasciata, in buon ritardo sulla norma, travolgere dall’angoscia.
Sto scoprendo,
con un senso di sgomento, che non ho normali reazioni emotive istintive e
primarie, bensì sono soggetta a periodi di “incubazione di dolore” che poi
esplode fuori dopo lunghi tempi.
Qualcuno dei
miei fratelli mi ha messo questo dubbio che, in certi momenti, non riesco a
capire. Oggi, nel divino silenzio della cappella, analizzerò insieme al Signore
questo problema.
Mi trovo quasi
sulla soglia del lungo corridoio, sto per avvicinarmi ma ecco che di fronte a me
trovo padre Mario, il monaco che ho intravisto a Rimini nel convegno del
Rinnovamento nello Spirito e che da poco è venuto a Catania.
Per una
reazione istintiva io cerco subito di tornare indietro, voglio evitare
l’incontro diretto con lui, ma purtroppo mi ha già visto e allora a fatica
mormoro: “Buongiorno
padre Mario”. Si ferma,
mi scruta dentro con i suoi acuti occhi indagatori e poi sorridendo mormora:
“La
tua non è una faccia da buongiorno”
e così dicendo si avvicina ancora, allunga il braccio e mi
tira un sonoro ceffone. Lo guardo allibita, poi, fragile come sono in quel
momento, scoppio in un pianto dirotto e mi giro verso le scale per tornare a
casa, ma non riesco neanche a fare il primo passo perché P. Mario appoggia il
suo braccio forte sul mio e con espressione commossa, che non gli conoscevo, mi
fa: “Rosarita, su piangi, ti fa bene,
fermati, non scappare, vieni in cappella con me stamattina. Il Signore ci ha
fatto incontrare perché vuole dirti qualcosa”.
Dubbiosa
mi lascio trascinare in cappella, ritrovo il mio cuscino di juta, ora lui si
siede sul panchetto accanto a me e mormora dolcemente: “Figlia
(sussulto!) lo capisci che tu non sei sola,
“orfana”, come ancora credi, tu hai il Signore con te, ti prego, ora lascia
riposare in pace tuo padre, che ti vuole rivedere “serena” e “attiva” come ti ha
lasciata quaggiù”.
Le lacrime che avevo inghiottito
ritornano copiose a scendere sul mio viso sparuto e scivolano come perle sul mio
nero vestito, apro la borsa e cerco i fazzolettini, ma p. Mario, sollecito mi
precede, tira fuori dalla tasca della sua tonaca il suo ripiegato, bianco
fazzolettone e con la sua manona, piano e delicatamente, mi asciuga il viso, mi
accarezza i capelli, poi sempre piano inizia a parlarmi di pace, di
pazienza, di amore e, alla fine, prende la Bibbia e trova il salmo adatto per me
e sorridendo lievemente mi esorta a ripetere insieme a lui: <<mi
opprimevano tristezza e angoscia, ero preso dai lacci degli inferi, ma ho
invocato il nome del Signore ed egli mi ha risposto, mi ha tratto in salvo il
Signore>> (Salmo 114)
Da quel
momento riprendo quota ed inizio con lui un cammino di fede, certo breve come
tempo, ma intenso come qualità.
Provo una
sensazione speciale, ecco ho un nuovo padre, non è il mio della carne, ma il mio
dello Spirito.
Il nostro
dialogo è intenso, è fatto di momenti di preghiera comune, di verifica, di
ascolto comune e di silenziosa adorazione eucaristica, secondo lo stile del
Rinnovamento nello Spirito.
Inizia a
S. Teresa una nuova realtà: si preparano gli incontri vocazionali per i “novizi”
che guardano al carisma carmelitano e immancabilmente ci vado anch’io, in fondo
sono ancora in ricerca <<perché la mia speciale vocazione può
alimentare e sostenere quella dei ragazzi>>
suggerisce P. Mario. <<Giusto>>
penso <<proprio giusto!>>.
E tanti
ragazzi vivono questa profonda esperienza: Santo, Renato, Gianfranco, Angelo.
E ogni volta
che vado a Monte Carmelo il mio pergolato sembra rinverdire! Ora mi trovo ancora
nella mia cappella, sono seduta ancora sul mio cuscino di juta e P. Mario è
seduto sul suo panchetto: stiamo vivendo un ultimo momento di preghiera comune
prima del suo ritorno a Palermo.
Ma ora il
mio essere è più radicato nel Signore e il distacco dal mio padre spirituale è meno
amaro, ci sentiremo spesso e potremo rivederci in qualche momento comune, così
spera il mio cuore di “figlia”.
* * * * * * *
Nei primi di
Agosto dell’84 mi trovo, per la prima volta nella mia vita, all’aeroporto in
partenza per Lourdes con il mio padre spirituale, P. Mario. Che bellezza! Che
grazia!
Tanta attesa
ed ora eccomi sull’aereo in volo verso Lourdes. Ti vedo Signore, contemplo il
cielo, opera della tua mano, la terra, baciata dal mare, diventa sempre più
lontana, piccola, evanescente sfuma nello spazio infinito. Ogni nube è diversa e
il vento dà loro la forma che vuole! E tu? Pensa, o Signore, non sei riuscito
ancora a darmi la forma che vuoi, perché io ho resistito e ancora Ti resisto
stupidamente! Perdonami Signore!
Le nubi
passano, variano, brillano, ma quanti nuvoloni grigi sono passati nella mia
vita, o Signore, e lo ricordo con una preghiera-poesia che prendo in prestito
dalla mia amica Concita.
Calda neve
… Chi ha teso la mano di noi due,
Tu per farmi salire,
oppure io per farmi innalzare?
Dove sei Signore a lungo atteso?!
Sei opaco in me, tutto tace.
Il silenzio si libra sui miei
passi
e come canto senza suono, Tu sei
in me.
Eppure mi circondi, sei presente.
Ti ho scelto? O sei Tu che mi hai
preteso?
Non lo so ancora,
sei entrato nella mia vita e
l’hai stravolta,
senza darmi la possibilità di
capire
ed ora aspetto …
Aspetto che la neve smetta di
cadere.
Concita Sambataro
Mi scuoto,
sento su di me il Tuo alito di vita, queste nubi sembrano fiocchi di neve
candida e calda. Ti lodo per il cielo, per il mare azzurro, per i monti
innevati, ti lodo per tutte le creature animate e inanimate.
Ti lodo mentre
l’aereo vola e il mio cuore, ora immerso nel Tuo, non teme alcun male!
Intravedo ora
una striscia scura giù: è la dolce terra di Francia! La penna non sta dietro ai
tanti eterei pensieri e non sta dietro al grazie che ti sussurro così, faccia a
faccia: Tu sei nello splendore variopinto del creato, io, in questi atomi di
materia che costituiscono il mio essere su cui hai alitato il Tuo soffio di vita
e mi sento una piccolissima parte del Tuo universo! Mille anni per Te sono come
un giorno solo e un giorno solo come mille anni.
Ecco Ti
abbraccio, o Amore Santo, rispondi, Ti prego, ai nuovi problemi che mi porto
dentro. “Sei
entrato nella mia vita e l’hai stravolta”
è vero, quale angoscia mi stringe il cuore dalla quale Tu non
puoi liberarmi?
Piccola e
indifesa mi affido a Te. Liberami dal male oscuro e nascosto che vive nel mio
cuore, da quello insidioso che c’è nel mio corpo, dai ricordi inutili del
passato, che spesso diventano vuoti bagagli di nostalgia, liberami dai perché
che turbano il mio presente, anche nella vita della chiesa. Tu che guidi
l’universo puoi farlo, o potente, o Amore Santo!
Ecco non posso
più scrivere, l’aereo comincia a ondeggiare, quanto verde splendente, quanta
speranza, quanta luce!
Dopo l’arrivo
e la prima sistemazione in albergo, tutti in gruppo con le targhette appuntate
sui nostri vestiti estivi, andiamo a piedi verso il Santuario, che già in
lontananza appare: immenso, luccicante di lucette a spillo, lontane e
intermittenti.
Le stradine
sono caratteristiche, mi sembra di essere a Taormina, i negozietti che espongono
oggetti vari sono ben forniti, ma P, Mario, solerte, ci invita a non fermarci
per poter partecipare alla processione Eucaristica.
Ecco siamo
arrivati, cerchiamo di immetterci in questa immensa folla proveniente da tutto
il mondo conosciuto.
Ma ora, dentro
questa “fiumara Umana” noto giovani corpi macilenti, mutilati, offesi, di
fratelli e sorelle di tutte le età, perfino bambini inchiodati, con strani
invisibili “bulloni della gioia” alle terribili sedie a rotelle.
Questo immenso
fiume di dolore ha una caratteristica sconvolgente per me: è un dolore pudico,
silenzioso, accettato con infinita pazienza, persino con gioia, oserei dire!
Mi sento
sconvolta da tanto eroismo e piano mi avvicino a P. Mario e lo guardo
interrogativamente, comprende, mi prende per mano e mormora: “Rosarita,
il segreto della gioia è accettare la volontà del Signore, poi bisogna
“dimenticarsi” e camminare. Ho voluto che tu venissi a Lourdes con me per dare
una svolta alla tua fede, anzi al tuo modo ci credere”.
Ora cammino in
fila, sono più calma e, strano, sono io che ricevo sorrisi e timidi cenni di
saluto da qualcuno che può muovere solo le dita. L’immensa fiumara a stento
comincia a muoversi negli immensi spazi sacri di Lourdes, perché abbiamo
lasciato alle spalle la città turistica colma di alberghi, ristoranti e negozi.
“Ave Maria,
piena di grazia” ripete il primo gruppo della lunga fila, e in lontananza il
gruppo finale fa eco recitando la “Santa Maria”. E la Madre di Dio unisce, in un
unico coro devoto, questo mare di pellegrini, pochi, e di sofferenti, quasi
tutti.
L’indomani
mattina sento prepotente il bisogno di “isolarmi”: sono troppe, varie e profonde
le sensazioni che mi invadono, dentro ho bisogno di luce, di pace, di gioia, di
dialogo.
Ho con me la
targhetta con il nome del nostro albergo e con gli orari di rientro stabiliti.
Calco
sulla testa il mio colorato cappellino, sistemo bene lo zainetto, metto gli
occhiali da sole e piano svicolo dal mio gruppo; qualcuno mi chiama, ma P. Mario
suggerisce: “Lasciate
stare Rosarita, ha bisogno di ritrovarsi, perché si era smarrita”.
Ora
svelta mi immergo in questa folla “dolorante”, cammino, mi fermo, prego, sento
come un lieve gorgoglio d’acqua, ecco è il fiume che, irruento, libero, scorre
verso il suo mare. <<O Signore fa che la mia vita scorra libera,
limpida, feconda di bene e fa che fluisca sempre verso di Te, sicuro porto
dell’anima mia! Ecco il mio arido cuore Ti ascolta, ora il mio spirito risposa
in Te, anche il mio stanco corpo, al calore benefico della Tua presenza, si
sente rifiorire!”.
E sono davanti
alla grotta, rispetto il religioso silenzio e mi fermo per un po’ anch’io in
preghiera. Fra alcuni minuti ci sarà la Messa nella Basilica di S. Pio X, mi
avvio.
L’interrogativo che mi pongo è profondo, un’intera umanità sofferente e
dolorante si aggira in questo luogo sacro e il vero stupendo miracolo è la
serenità stampata sul volto dei fratelli sofferenti, l’accettazione di
situazioni assurde con “naturalezza e speranza”.
Qui c’è
la pace, quella che “il
mondo irride, ma che rapir non può”
(Inni Sacri; A. Manzoni).
Ora alla lettura del Vangelo con
gli occhi dello spirito vedo e sento Pietro implorare <<Signore
comanda che io venga a Te sulle acque>>.
E lo vedo sicuro scendere dalla barca e camminare per un attimo tranquillo sulle
acque, ma il vento sibila e Pietro ha paura e anche io ne ho ancora tanta. Ma
lui ha l’umiltà di chiedere il soccorso. <<salvami>>
implora e anche io Te lo ripeto:
“Salvami
da tutte le mie paure, dalla mia stupida ansietà e fammi vivere alla luce del
Tuo Amore>>.
(1984)
Rosarita di Gesù
Gesù di Rosarita
**********************************************************
6°
Capitolo
Sei mio,
vivo di Te gran Dio,
confusa a TE,
col mio,
offro il tuo stesso amore.
A. MANZONI,
Inni Sacri inediti
<<Fammi
vivere, o Signore, fammi “rivivere” alla luce del tuo Amore>>.
Così pregavo
tornando da Lourdes e quella “speciale” sensazione di pace mi è rimasta
dentro per tanto tempo ancora, fino ad oggi, Ottobre del 1984, mentre sono
ritornata a scuola con i miei “piccoli”.
Un bel
giorno Clara afferma convinta: “Maestra, quest’anno sei più bella
quando preghi con noi!”
Ridendo
dico: “Clara,
non lo vedi? Io sono sempre bella!”. “No”
risponde caparbia “Sei bella solo quando preghi,
poi no!”.
Mi chiedo
dubbiosa, allora la preghiera ha il potere di rendere belli?! La bellezza
interiore si riflette anche sui nostri volti? Così pare se i piccoli ne
percepiscono qualche segno!…
Ora i bambini
stanno osservando il grande colorato cartellone murale della linea del tempo
dell’epoca romana.
Fiorella come
sempre si premura di indicare ad Agatella i personaggi e le figure. Poi,
interpretando con facilità il linguaggio stentato della compagna, riferisce che
i vestiti dei bimbi romani non sono come i nostri, quelli sono più belli!
Osservo ora
Agatella: ha gli occhioni chiari e i ricci folti capelli a stento trattenuti da
due lunghe trecce bionde e dal colorato cerchietto. E’ bella , molto bella!
Peccato che il suo linguaggio sia ancora stentato!
Rifletto e
penso che Agatella ora ha sia il mio sostegno, sia quello dei compagni, perché
tutti insieme facciamo un’ideale “cordata”. I ragazzi superdotati hanno tempo e
spazio per approfondire il sapere, i bambini normodotati procedono sicuri, sotto
la mia guida, attenta alle varie possibilità didattiche. Ma già l’eco lontano di
qualche rivista scolastica di ispirazione “rivoluzionaria” arriva fin dentro la
mia scuola!
I millantatori
profeti del progressismo promettono che è finito il tempo “dell’oscurantismo
scolastico” e ben presto sparirà la figura del “maestro unico”, bollato con il
marchio infame di “tuttologo”. Finalmente ci saranno i saperi specializzati,
evviva ci saranno maestri specializzati, ma specializzati in che cosa?
Certamente
nella metodica stesura di tabelle, schemi, per arrivare ai saperi specializzati
e così avremo l’alunno perfetto, l’alunno ideale, dicono!!
Rido dentro di
me e guardo i miei alunni che già sono “ideali”, “speciali” e in più sono veri e
reali!
Che fortuna
per loro, che fortuna! Hanno ancora la possibilità di essere affidati ad un
“maestro unico” che diventa non un vuoto “tuttologo”, bensì una figura di sicuro
riferimento!”
Certo,
l’insegnante deve amare il suo lavoro e i suoi alunni, deve essere “Maestro”
secondo l’affermazione categorica del nostro filosofo idealista Lombardo Radice.
Guardo i
componenti del gruppo-classe, e li accetto nella loro diversità fisica,
intellettiva, emotiva, ma uguali nelle possibilità offerte loro dalla scuola,
tramite la mia mediazione psicologica, didattica, umana.
Gli alunni ora
sono riuniti a piccoli gruppi e stanno colorando i diversi fogli che formeranno
il cartellone murale, lasciando lo spazio libero per inserire brevi poesie
spontanee inventate da loro per il prossimo Natale.
Anche
Agatella ha fatto un sua poesia dialettale fra l’approvazione dei compagni:
“Bambineddu
nicu e beddu…”
Si sente
bussare lieve alla porta, è la bidella: “Maestra per favore scenda giù
un momento, un giovane insiste nel volerla vedere”.
“Bimbetti,
mi raccomando” dico
dubbiosa.
“Maestra
non preoccuparti, staremo buoni come se ci fossi tu, e poi io aiuterò Agatella”
sottolinea Fiorella.
“Che
collaborazione, che magnifica intesa tra loro e me, sembriamo proprio una
comunità” penso fiera
di loro e di me.
Scendo
le scale, mi ritrovo nell’atrio e vedo un bel giovane, ha i capelli biondo scuro
riccioluti, vivaci occhi castano chiaro con pagliuzze verdi, ma conserva ancora
la sua tipica espressione birichina in viso. Mi guarda e mi dice: “Maestra,
chi sono?”
“Francesco
R.” rispondo subito e lui meravigliato, ma
contento di essere stato riconosciuto dice: “Qualche volta sono passato davanti
alla scuola, ma oggi proprio non ho resistito alla voglia di vederla e di
abbracciarla”.
Sorrido
di cuore: “Anche
se nel tempo ho avuto moltissimi alunni voi siete tutti miei “figli” lo sai, nel
mio cuore conservo uno spazio speciale per ognuno di voi anche se ormai siete
diventati tanti!”.
“La
trovo bene” mi dice “proprio bene, sembra che il tempo per
lei non sia passato, io ho compiuto diciotto anni e già lavoro, ma mi dica
ricorda ancora le mie monellerie?”
“Ricordo
solo il tuo primo giorno di scuola e il tuo modo ostinato di stare abbracciato
al tuo zainetto, senza volerlo aprire. La tua mamma tentava di convincerti, ma
tu, ostinato e imbronciato resistevi, anzi, lo stringevi con più forza ed io ti
guardavo in silenzio e ti sorridevo e tu, alla fine del tuo lungo silenzio, hai
alzato gli occhioni e mi hai sorriso; così abbiamo fatto amicizia e mi pare che
si sia mantenuta oltre la scuola, perché oggi tu sei qua. Ti ringrazio perché
oggi sei venuto a rivedermi e ti faccio gli auguri per il lavoro e per la vita!”
E così dicendo
mi sollevo un po’ sulla punta dei piedi per abbracciarlo forte.
Rientro in
classe, i miei nuovi alunni sono intenti a disegnare in silenzio, qualcuno alza
gli occhi e mi guarda.
Orazio e
Fiorella (due gemelli) si avvicinano al mio tavolo e piano mi chiedono: “
Che cosa ti è successo? Stai piangendo?”
“No”
dico “
sono
solo commossa, perché è venuto a trovarmi Francesco R., che ora già lavora”.
“Anche
noi, io e mio fratello Orazio, vedrai, verremo a trovarti e ti porteremo le
nostre pagelle”
sottolinea Fiorella.
E’ qualcosa di
magnifico, di unico, il rapporto che io ho “creato” con tutti i miei alunni,
rapporto fatto di comprensione, di affetto e di stima reciproca, scambio
culturale ed esperienziale e, come ben diceva il presidente del concorso
magistrale, ho saputo portare a scuola la carica del mio entusiasmo,
coinvolgendo piccoli e … grandi.
Ho intrecciato
con i genitori dei miei alunni un “costruttivo dialogo” e infatti ho tempo da
“regalare” anche a loro che, all’uscita mi aspettano e spesso mi confidano le
loro problematiche, perché mi stimano e mi considerano una loro “amica”.
“Maestra,
(che bello per me sentire questo appellativo!)
lei lo
sa, abbiamo già due figli grandicelli, ora ne aspetto improvvisamente un … terzo
e vorrei …”.
Non
ascolto, la interrompo subito, non voglio ascoltare la parola orrenda e mi
affretto a consolarla: “Sua
figlia Anna è intelligente e bella, coraggio regali al nascituro la possibilità
di vivere, vedrà il Signore l’aiuterà! Del resto, siamo già ai primi di
Dicembre, in clima di attesa del Natale, così il prossimo anno potremo dire che
in via Lazio è nato un bimbo, anzi è venuto al mondo un nuovo Gesù, perché ogni
bimbo che nasce è una speranza per il mondo!”.
E così dicendo
provo una sensazione nuova di pace e abbraccio forte la signora Maria, che
ricambia commossa.
Che strano,
penso, si chiama veramente così! Un brivido mi percorre la schiena! Non parlo
invece e continuo a sorridere e i bimbi già sciamano nell’ampio cortile della
scuola.
Ma già, è
ampia anche la mia aula, adornata con lunghe e robuste tende che la mamma di
Corrado, sarta rifinita, ha cucito e il papà di Sebi, munito di fil di ferro,
trapano e metro, ha sistemato nelle due larghe finestre.
Non basta, la
nostra aula è la più ricca di tutta la scuola, perché il papà di Orazio
(falegname provetto) ha ristrutturato (nel suo giorno libero) la vecchia
sgangherata cattedra, arricchendola di due cassetti nuovi. Anche l’armadio, che
in prima aveva una sola mensola, adesso ne ha di nuove, così i bambini sono più
contenti di lasciare a scuola i loro quadernoni colorati.
Tutti i
genitori, fin dalla seconda classe, hanno fatto a gara per migliorare l’aspetto
dell’aula e sulla cattedra ci sono ogni giorno dei centrini colorati e sulla mia
sedia spoglia ora troneggia un cuscino.
Siamo ancora
“una famiglia”, una grossa famiglia, pare, e stiamo proprio bene insieme, perché
tuttora vivono nella società i valori sani dell’amicizia, o meglio della
solidarietà e l’insegnante gode di stima e di fiducia massima.
E arriva la
prima festa di Natale, quella scolastica, vissuta con largo anticipo sulla
liturgia.
I ragazzi
sfilano davanti ad una specie di capanna vuota dove c’è solo la stella; gli
angeli, i pastori e Giuseppe sono gli stessi bambini, che indossano i costumi
preparati dalle loro mamme, mentre i tre papà presenti usano la telecamera e
scattano tantissime foto.
“Alleluia,
Alleluia, è nato il sovrano Bambino, la notte che già fu sì buia risplende di un
astro divino” così
l’angelo (che è Bruno) declama e Maria (Amalia) furtivamente esce da sotto il
manto azzurro il piccolo Gesù (il suo bambolotto!) ma la commozione è sincera e
non manca la mia fra le altre.
Ora sul
tavolo troneggia il vaso con le rosse stelle di Natale “Così
noi saremo lì presenti a casa tua, perché tu hai soltanto la mamma e sei sola!”
dicono i bambini inteneriti dalla mia presunta solitudine?!
Ma io penso
che andrò alla Messa di mezzanotte a S. Teresa e già ne pregusto la dolcezza con
la preghiera regalatami da Concita:
E nasci
ancora
Vorrei lodarti Signore
nei giorni di festa,
cantare il tuo nome,
fra gli uomini senza sorriso,
ogni giorno scrutarti, vegliarti,
adorarti.
O Dio che nasci ancora,
e il mondo tace,
custodisci per sempre in me
un amore grande e semplice,
che possa non stancarsi nel
cammino,
ma accrescersi e portare nuovi
frutti,
e concedimi, se vuoi,
Signore della vita,
di scorgere il Tuo viso nei miei
fratelli
e di servirti ed amarti sempre
come nel primo giorno
in cui ci siamo detti
“Sì”
(Concita Sambataro)
In questo
clima natalizio che già mi avvolge e mi inebria, ripenso per un attimo al mio
primo Natale di bambina, lassù nel mio paesello montano, a Canolo, e quello fu
il primo “sì”, no il “nostro” sì …
Con
questi pensieri scendo le scale della scuola e vado verso la mia macchina
posteggiata nel cortile. Apro lo sportello e, oltre al vaso di stelle di Natale,
che le mamme avevano già sistemato, vi trovo una bella tovaglia e curiosa, la
tiro un poco, cade un colorato cartoncino “Sorpresa!
Sorpresa! La tovaglia è un regalino di noi mamme, perché anche noi come i nostri
figli le vogliamo bene”…
Stavolta mi
sorprendo e mi commuovo davvero!
Sono
seduta nella mia stanzetta, sto cercando dei libri, quando il suono del
telefono mi fa trasalire. “Ciao, sono Gina,
ricorda, domani devi venire, abbiamo fatto l’ultima prova per i nostri mantelli
bianchi, che tutti noi della fraternità indosseremo la notte di Natale. Ti
aspettiamo, ciao, statti bene!”
“E
che?!” dico “Tutti mi aspettano? Anche io aspetto
con fresca, infantile impazienza la nascita del Bambinello Gesù!”.
Finalmente
arriva la Notte Santa e felice mi ritrovo nella bella, monumentale, antica
chiesa di Santa Teresa; sono, no, siamo tutti noi quindici riuniti nel salone. I
mantelli bianchi, appesi in ordine, con il nome scritto, sono pronti. Io mi
accingo a prendere il mio, ci riesco infatti, ma non so chiudere il gancio
perché le mani mi tremano e Gina, premurosa, interviene e sistema ogni cosa.
Ora siamo
tutti pronti e usciamo dal salone in fila indiana per andare a sederci nel coro.
Meno male che fra i fratelli io sono messa al centro, perché da sola non so dove
sarei andata a finire!
P:
Vincenzo ci aspetta nel coro e ci accoglie uno per uno: “Benvenuta
Rosarita. Auguri!”. Io
ricambio e finalmente mi siedo accanto ai fratelli.
Dentro di me
sbocciano pensieri di pace. contemplo il bianco dei mantelli che sono un
simbolo visibile della fraternità alimentata dalla preghiera carmelitana di
“timbro” contemplativo.
Ora le note
festose del Gloria inondano la grande chiesa e si diffondono nell’aria.
La gioia
dell’attesa mi inonda e così mi ritorna al cuore un Natale lontano, in Calabria,
un Natale speciale della mia infanzia che ha dato il via a tutta la mia storia,
alla mia stessa chiamata.
Ecco il
Bambinello che appare lassù sull’altare, ma io bambina non riesco a vederlo,
attorno a me la ressa è grande, cerco di alzarmi sulla punta dei piedini, ma non
sono la sola ad avere tale idea, perché Erminia, Annamaria e Noretta, le mie
compagne di quinta classe, cercano di fare la stessa cosa, nella piccola grande
chiesa di Canolo, lì in Calabria, che profuma di … campagna ed io avida ne
respiro la fragranza in questa stupenda Notte Santa.
Mi ritrovo
rossa, sia per il caldo, sia per la gioia; ho appoggiato sulla sedia l’elegante
cappottino e guardo e riguardo nel taschino ricamato del mio vestitino rosso per
cercare il mio biglietto “G 68” che credo vincerà e lo trovo trionfante.
Mia madre è
seduta al suo posto, calma e bella nella sua imponenza, sembra una matrona
romana con la sua folta e ancora bionda treccia che, sulla sua testa forma una
corona rilucente.
Indossa, con
eleganza, la sua pelliccia d’Astrakan e sul davanti si intravede la verde
camicetta di seta che incornicia ed esalta il suo naturale colorito roseo;
sull’ovale delicato del viso spiccano due vivaci occhi di un azzurro chiaro e
dai lobi scendono e brillano orecchini d’oro di fine fattura.
Sorridente, ma
silenziosa, seduta accanto a lei c’è mia sorella Rinuccia, che indossa un
bellissimo cappottino rosa con colorati e originali bottoncini a forma di
ciliegia.
Ha riccioluti
capelli d’oro, ben pettinati, e due occhioni di un chiaro colore azzurro come il
mare, no, come quelli di mia madre a cui tanto somiglia, sia a livello di
fisico, sia a livello intellettivo. Misteriosa, ma reale è la speciale intesa
che esiste già tra loro due.
Continuo a
sentire un odore dolce, che sa d’infanzia, che sa di vita! E’ proprio l’odore
del latte, perché, proprio accanto a me, le belle, giovani contadine offrono ai
loro poppanti il turgido seno e i piccoli avidi succhiano la bianca, dolce
bevanda.
Li guardo e li
vedo così strettamente fasciati con lunghissime fasce di cotone (per crescere
con le gambe dritte, dicevano!), per l’occasione festiva sfoggiano delle bianche
cuffiette di fine seta, ornate con bordi e nastrini rossi per tenere lontano il
“malocchio”.
Alla
sinistra dell’altare le tante “zie”, prima madri di innumerevoli figli, ora
nonne di floridi nipoti, indossano gli antichi costumi della Locride (di greca
memoria) che sottolineano i sani valori della civiltà contadina che ha come
unica ricchezza “il
frutto del ventre: i figli”.
Le donne
anziane indossano, su ampie colorate gonne i verdoni “
Ippuni
”, che sono camicette cucite e
ricamate con lunghe strette piegoline verticali rialzate, che stringendosi poi
nella vita sottolineano i loro seni prosperosi.
Ora la
voce del “nostro” arciprete ripete: “Chi di voi piccoli o grandi ha il
numero “G 68” si faccia avanti, il Bambinello stasera vuole andare a casa sua!”.
Subito
mi alzo di scatto, per la fretta butto a terra sedia e cappottino, ma Nunziella,
la mia catechista, sorride, mi rassicura ed io corro verso l’altare sventolando
il biglietto vincente e gridando, col mio tono alto di voce: “Ho
vinto, ho vinto, ho il biglietto, evviva, evviva, Gesù vuole stare con me!”.
Stella e
Maria (le mie amiche grandi) cercano di trattenere un poco questa mia corsa, ma
non ci riescono, perché “ho
ali al cuore e ai piedi”.
Arrivo
trafelata e l’arciprete, che ben mi conosce, mi dice: “Rosarita
quest’anno il Bambino Gesù è voluto venire con te, a casa tua, cerca di fargli
buona compagnia e così crescerete insieme!”.
Non
capisco proprio: “Oh
bella! come può crescere una statuetta di cera?!” .
Ora poso le
mie labbra di bimba sul visino di cera che stranamente si riscalda, e quasi si
colora, non dico niente, ammiro la bella camiciola di seta, che la mia
catechista Nunziella, rubando le ore al sonno, ha pazientemente ricamato.
Fragoroso e scrosciante è l’applauso, Teresa ripete: “Sì, quest’anno il Bambino Gesù è
andato a stare con la figlia grande del Maresciallo!”.
Già, il
maresciallo, mio padre, ora lo cerco con lo sguardo indagatore e lo trovo: è lì
con la sua nera bella uniforme, che sottolinea ed esalta la sua bruna virile
bellezza.
Ci somigliamo
tanto, specie nel temperamento astratto e poetico e nella fede negli ideali.
Vedendomi correre trafelata verso l’altare, mi avvolge con il suo caldo sguardo
protettivo, perché fra me e lui esiste una
“corrispondenza
d’amorosi sensi”
di foscoliana memoria. Anch’io lo rassicuro usando il nostro speciale linguaggio
degli occhi, perché so che non posso abbracciarlo quando è in servizio.
Ora non
respiro più l’odore benefico della campagna, bensì quello acuto dell’incenso,
mentre una calda voce intona:
“Tu
scendi dalle stelle o Re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo. O
Bambino mio divino io ti vedo qui a tremar…”
“Ma
perché tremi?” mi
chiedo dubbiosa “hai freddo o Bambinello?
Aspetta un momento ti ricopro subito”.
Sono già
al mio posto. e cerco il mio cappottino di bimba, guardo e mi accorgo che è
scivolato sulla spalliera. Ora ne tiro svelta un lembo che mi sembra più chiaro,
quasi bianco e meravigliata sento una fresca voce femminile:
“Rosarita
mi dici perché tiri il mio mantello? Forse sei scomoda?”.
Così mi parla
Francesca, la mia sorella di cammino di Santa Teresa, la guardo stupita e mi
ritrovo con tutti i fratelli della fraternità, non sono più una bambina bensì
una donna che ha saputo conservare nel tempo la freschezza dell’infanzia ormai
lontanissima, nello spazio e nel tempo, ma attuale nel cuore.
Aurelio mi fa
cenno di mettermi in fila, perché ci avviamo per ricevere la comunione.
Eucaristia =
Corpo reale di Cristo
Comunità =
Corpo reale di Cristo
Così dicevamo
ai nostri campi di lavoro a Lentini.
“Ho
per parlarti piccole parole,
hai per sedurmi abissi di silenzio”
Come recita la
poesia donatami da Tea...
Rosarita di Gesù
Gesù di Rosarita **********************************************************
7°
Capitolo
"La fede è facile, non
credere sarebbe impossibile,
la
carità è facile, non amare sarebbe impossibile.
Ma sperare è la cosa più difficile."
A. Pronzato
Nell’ 84
continua con serenità e sicurezza il mio impegno di maestra, e la scuola riempie
ancora buona parte della mia giornata e della mia vita.
Eppure già
comincia ad affacciarsi all’orizzonte del mio spirito un certo disagio interiore
dapprima lieve, incerto ancora, ma sempre più continuo e pungente.
Mi fermo, mi
guardo dentro e vedo che dal lontano ’80 la comunità di S. Teresa si è molto
ampliata ed è diventata un gruppo di famiglie con una tematica e una
problematica profonda ma lontana, lontana dal mio personale iter spirituale.
Ecco mi manca uno specchio con cui confrontarmi mi mancano i ritiri spirituali
di Monte Carmelo animati da P. Mario (che ho rivisto per breve tempo nel viaggio
di Lourdes) e ha dato una svolta alla mia visione dell’accettazione del dolore:
i sofferenti, infatti, erano inchiodati alle terribili sedie a rotelle con i
bulloni della “GIOIA”. Ma ora P. Mario è lontano, mi manca la sua presenza
amica, paterna e rassicurante.
E oggi
nel caldo giugno dell ’85 la scuola è finita e con essa l’impegno continuo e
totalizzante dell’insegnante. Ora uno squillo insistente mi distrae dai miei
pensieri, ma chi suona alla porta? Ma no, è solo il telefono che continua a
squillare ed io, con voluta lentezza, mi alzo e subito la fresca voce di Maria
C. annuncia: «Come
stai? la sai già la buona notizia? Tutti noi abbiamo bisogno di un confronto
comunitario, di una pausa di respiro e così abbiamo deciso di andare in Toscana
nella casa di accoglienza dei padri Carmelitani a Campiglione. Sto scrivendo
l’elenco dei partecipanti e so che verrai, tanto nel mese di agosto, sei in
ferie! Dimenticavo di dirti che verrà anche Renato, il nostro futuro sacerdote!
Insieme a P. Vincenzo ti aspettiamo
sabato per il nostro incontro settimanale per definire il programma estivo. CIAO
TI ABBRACCIO».
Poso il
ricevitore del telefono e ripenso a Renato, ma certo, è il giovane ragazzo dai
riccioluti capelli neri, dagli occhi vividi e dalle mani di artista, ha
modellato infatti un Cristo di fine fattura da un informe blocco di creta.
Questa
inattesa notizia solleva il mio spirito e guardo interessata il mio voluminoso
diario che andrà in valigia insieme al tris di penne colorate.
E Agosto
arriva caldo di sole, ma fresco di nuovi progetti, di nuove speranze, il cuore
vola e il treno sbuffa nella stazione di Catania oh! pof, pof che bello! .E’ il
treno scattante come la vita! E il cuore canta e Antonella ride divertita perché
non riesce ad entrare nella sua cuccetta con il suo enorme pancione, mentre il
marito Aurelio la guarda preoccupato e Gianni avanza un sospetto « Come mai?
Sono due gemelli? »
Ora il treno è
già arrivato a Messina, ma è ancora buio e non riuscirò a intravedere i monti
del mio paesello situato in terra calabra , che io con amaro dolore, ho lasciato
nel 1962 per venire a Catania.
Rientro,
delusa mi sdraio, la manovra è finita, il rullio cessa e diventa un gradito
dondolio e pian piano gli occhi si chiudono e comincia il sogno.
Improvvisamente non è più sera, è giorno, anzi è uno splendido giorno di
primavera e nel sole, Lisa, in grembiule nero e collettino di fine merletto,
canta con intonata voce:
«Ah Lazzarella
comme sì a me mi piaci sempre cchiù…ti sta sempre più stritta a camicetta a
fiori blu…».
La guardo in
silenzio sacro, ma la sorpresa non è finita, anzi! Dietro di lei con la sua
tipica espressione sognante, con la cartella di cuoio zeppa di libri e
d’appunti, con il nero grembiule, il collettino bianco e in più un colorato
cinturino verde, avanza una ragazza che ha spalmata sul volto la crema della
gioia.
Mi vedo e mi
riconosco; sono io: sono felice, sono nell’Istituto magistrale di Locri, non ho
ancora 18 anni!
Sono partita,
come ogni giorno, dal mio paesello, alle sei del mattino e con me ci sono:
Noretta, Erminia, Emilio e Vanni.
Ora
piano Lisa brunetta e simpatica mi si accosta e salendo le scale, continua a
dedicarmi sottovoce il mio canto preferito: «Nel
blu dipinto di blu, felice di stare lassù, con te».
Siamo già
arrivate nella nostra spaziosa aula, la III C che dà sul giardinetto. Alzo la
mano per salutare Rosetta alla quale sono ideologicamente molto legata e quando
facciamo le nostre ripetizioni o gare di italiano e filosofia lei si gira di
botto e le sue deliziose trecce, legate con nastri di seta colorata, le danno
un’aria sognante proprio da bambina. Pasqualina detta da noi “Lina” ha già
aperto il suo quadernone (vi si può notare la sua grafia, piccola e metodica)
ordinato e non mancano schemi e formule matematiche, materia in cui lei eccelle!
Nell’angolo
vicino alla grande finestra che dà sul giardinetto, c’è seduta Marianna e i
lunghi boccoli neri lucenti formano come una corona sul suo collo di cigno e poi
si appoggiano sul suo seno turgido e prosperoso insieme.
Ma non
riesco a guardare e salutare le altre ragazze perché il bidello annuncia:
«
Sta
entrando il professore di italiano
». Tutte noi, in un unico scatto, ci
alziamo in silenzio e lui sorridente ci fa segno di sederci e poi con alta
competenza inizia a leggere i Sepolcri. Ascolto.
«…
e l’arca
di Colui che nuovo OLIMPO, alzò in Roma a’ Celesti, e di chi vide sotto l’etereo
padiglione rotarsi più mondi e il Sole irradiarli immoto…».
E spazio beata nel mondo della poesia a me congeniale, ma ecco che ad un tratto
vicino al professore ora volteggiano ( usciti da dove?!) due strani personaggi e
attenta guardo. Il primo è quasi vecchio ma possente ancora e infatti sostiene
con vigorose braccia, una grandissima costruzione quasi cilindrica, finemente
lavorata e con un improvviso tuffo al cuore la riconosco: è la cupola di SAN
PIETRO e insieme riconosco lui, il grande scultore: MICHELANGELO! Ma non
distinguo bene la foggia dei suoi vestiti perché è ricoperto da una fine,
impalpabile polvere di marmo. Il secondo personaggio non è meno strano del
primo, infatti indossa una casacca nera e ha un’ enorme colletto inamidato.
Ha un
viso crucciato, tiene in mano un bastone di ferro! Ma no guardo meglio è un
cannocchiale e sento che mormora fra i denti “Eppur si muove!”
Purtroppo la chiesa non ha saputo riconoscere la grande
teoria della terra che gira intorno al sole e così GALILEO è ancora deluso e io
con lui! Ma Mirella, con i bianchi occhiali che le danno un’aria di
professoressa, non si è accorta di niente e tranquilla prende appunti, qui
seduta accanto a me. Sto zitta per ora e la bella, calda voce del professore
Ferraro continua a declamare nel silenzio generale:
« Te beata gridai, per le felici auree pregne di vita e pe’ lavacri che da’ suoi
gioghi a te versa Appennino.
E tu per
prima Firenze, udivi il Carme, che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco >>.
Dalla
finestra spalancata della classe arriva a me il richiamo acuto della campagna,
unito all’odore tipico della giovinezza. Il sole è tiepido qui fuori, la brezza
scompiglia i miei lisci capelli e d’incanto scende verso di me, un uccello
colorato e si ferma ai miei piedi. Sicura e lieta lo guardo e aumenta dentro di
me il bisogno di volare, ma certo per lungo tempo sono stata un’aquila e mi
credevo un pollo!. D’istinto slancio le mani verso l’uccello che sembra capire
il mio desiderio e mi viene incontro, ecco non ha paura di me e neppure io provo
paura; allungo le mani e riesco ad accarezzare con tenerezza una parte delle sue
infinite ali. «
Come sono morbide, sembra di toccare un cuscino di
seta!
». Con sicurezza
aspetto che si posi qui accanto a me e con nuova, improvvisa disinvoltura lo
cavalco e volo in alto e Firenze appare nello splendore dei suoi palazzi, delle
sue piazze! Dalla piazza di San Lorenzo arriva in alto fino a me, il brusio, no
il vocio, del mercato e nelle lunghe ceste
fanno mostra di sé le tenere verdure, i frutti
carnosi, doni della fertile campagna fiorentina!
Dalla parte
opposta in ordinata fila, i numerosi turisti stanno per rendere omaggio alle
cappelle dei ‘Medici ove si possono ammirare ancora opere famose e dove anche
Michelangelo lasciò l’orma del suo genio.
E il mio
viaggio continua ed ora l’uccello, in volo radente, si avvicina sempre di più a
Ponte Vecchio, infine plana verso terra e io tranquilla salto giù leggera,
felice, serena. Ora l’uccello apre e chiude i grandi occhi più volte in segno di
saluto ed io ricambio con i miei occhi ora più grandi e luminosi per la gioia.
Sento uno sciabordio, un rumore d’acqua pare e il fiume placido scorre:
« Ma è l’Arno!»
ripeto incantata a me stessa.
D’un lampo il
sole tramonta, ed ecco lo guardo attonita c’è buio mi pare, ma no le stelle, in
manto d’argento, appaiono chiare e sbarazzine brillano e sembrano vicine vicine.
La luna manda riflessi argentati e il paesaggio tutto sembra irreale, proprio
come quello di un sogno! dico fra me.
Ora
percepisco sempre più un rumore, ma no, è un fischio lungo e acuto che turba il
silenzio solenne del paesaggio serale. D’istinto mi proteggo, porto le mani alle
orecchie ed ecco mi ritrovo sul treno e qualcuno dice: «
Abbiamo
da un po’ superato Napoli».
Il sole filtra
attraverso il finestrino, mi stiracchio, sorrido fra me perché è rinata la
speranza; mi ritrovo fra i fratelli del Rinnovamento di S.Teresa.
Nel treno c’è
un fervore di vita, si scambiano i saluti e tutta la carrozza è in festa: siamo
tanti proprio tanti e non mancano i bambini delle nuove giovani famiglie.
Maria,
già alzata, mi augura il buongiorno e premurosa, con due thèrmos in mano,
chiede: « Caffè o The? »
e aprendo il suo borsone ne tira fuori tovagliolini e
bicchieri colorati. Inizio a sorseggiare il mio the e Renato si avvicina lesto,
e mi porge in silenzio il pacco con i miei biscotti preferiti -conosce bene i
miei gusti – pare.
E corre ,corre
il nostro treno, divora e supera ponti, paesi, campagne, entra nelle buie
gallerie e ben presto ne sbuca fuori vittorioso, contento pare.
Si avvicina
ora la campagna del LAZIO che appare in tutta la sua magnificenza di verde, di
frutteti, di greggi opulenti.
Laggiù, la
città eterna, Roma si intravede e d’incanto con la memoria del cuore mi ritrovo
in mezzo ad una folla festosa e canterina, ma certo, tutti noi fratelli del
Rinnovamento nello Spirito, oggi siamo convenuti qui in piazza S. Pietro per il
nostro raduno nazionale del maggio dell’ 80.
Saremo
ricevuti dal Papa nella sala Nervi, siamo già incolonnati e stiamo per entrare.
P. VINCENZO, con il cappellino rosso, apre la nostra fila, Pippo ci guida con
gli occhi attenti, io mi trovo vicino a Renato che indossa il saio carmelitano e
mi tiene per mano in segno di fraternità. Dietro di noi seguono: Gianni, Maria,
Nello, Giovanna, Aurelio, Francesca, Nando e Nino, Rosamaria e Giovanni. Eccoci
siamo dentro, ma che fatica per arrivarci! Prendiamo posto nelle sedie numerate,
ma siamo capitati male, ci troviamo alla fine della sala e il Papa passerà
soltanto nelle prime file dove ci sono i sofferenti – dicono!
Ma io, come
sempre, fervida di idee e nel pieno vigore fisico e mentale, escogito un mio
sistema per vedere Giovanni Paolo II.
Faccio un
lieve segno a Pippo che cerca di fermarmi, ma invano, perché mettendo « ali al
cuore e ali al piede » svicolo nel corridoio laterale e arrivo proprio sotto la
prima fila.
Mi fermo
emozionata e delusa perché ci sono le transenne, alte per giunta. Sbircio con
interesse il volontario del servizio d’ordine e noto che è biondo, di nordica
natura e d’istinto dico: «
Su fratello aiutami a saltate oltre le
transenne, ho bisogno di vedere il Papa da vicino, fammi sedere accanto ai
sofferenti in questa fila riservata
». Ma non gli dò il tempo di riflettere, mi alzo sulle punte
dei piedi e con forza mi appoggio alle sue atletiche spalle e infine con un
felice acrobatico salto in lungo, mi ritrovo nel gruppo dei sofferenti
sconosciuti. Noto che alcuni sono già seduti sulle sedie a rotelle altri stanno
per farlo assistiti dai loro accompagnatori. Un anziano sacerdote, sostenuto dal
suo bastone, ha assistito in silenzio alla scena e non ha criticato il mio
ardire, anzi, con giovani occhi limpidi e voce imperiosa mi ordina: «Svelta
mettiti su questa sedia dietro di me attenta sta per arrivare qui la guardia
svizzera, non ti fare scoprire!»
Evviva, faccio
appena in tempo, perché il cuore ora mi martella forte. Ho paura, ho paura che
qualcuno mi mandi via dal posto a fatica conquistato. La guardia svizzera avanza
in un turbinio di giallo e di rosso, avanza, ma sospetta qualcosa? O forse ha
visto la scena? Ma no, passa oltre ignara!
Ora assumo
un’aria smarrita, giro la mano, la metto con il palmo in su e ritiro le dita,
sembra storta e malandata e forse è diventata proprio così! Ora dal lieve
mormorio capisco che il Papa sta per passare, eccolo! Bianco vestito, giovane!
Ha per ciascuno di noi un sorriso e una carezza. Si avvicina, si ferma dubbioso,
mi guarda stupito, forse ha capito qualcosa? E poi, e poi mi guarda ancora e
tuttavia mi regala una carezza! poi passa oltre. Subito il mio essere è come
percorso da una sensazione bella, bella assai!
In rapidi
cerchi di gioia penso al Tevere e al fiume, che abbraccia il mare, affido tutte
le mie certezze di fede!
Ma dove sono
ora? E perché sento che i miei piedi hanno un appoggio instabile? Ma che cosa è
questo rullio continuo? Incerta cerco Renato, ma è qui, affacciato all’altro
finestrino del treno e in silenzio mi avvicino e gli stringo forte la mano
perché devo trasmettere “l’elettricità” emotiva che mi è ancora rimasta dopo la
carezza del Papa!
Si gira,
mi guarda sorridendo, ricambia forte la stretta e, meraviglia dice:
«Lo so avvicinandoti a Roma stai ancora
pensando alla carezza del Papa? Ma è passato tanto tempo dal nostro convegno
dell’80!».
Stavolta
la gioia e la sorpresa mi provocano un nodo alla gola e pacatamente alle mie
labbra affiora la lode: «Alleluia
al Signore»
dico, Renato in spontanea preghiera ripete piano
«Amen !»
E il
treno corre, fatica ancora, lascia la costa, si dirige verso l’interno
e in tutta la nostra carrozza il mormorio aumenta
perché si devono prendere i bagagli per scendere a Firenze, che in lontananza si
intravede. Guardo preoccupata la mia gonfia valigia e par mi dica:
« Così, così strapiena come
farai a trascinarmi?»
Gianni,
dopo aver sceso la sua e quella della moglie Maria, mi dice premuroso: «
Tranquilla Rosarita, la tiro giù io! »
«
Meno male che ha le ruote»
penso fra me. Ma ecco che Renato si offre di trascinare la
mia valigia e il suo leggero bagaglio. Nei due vagoni precedenti i bambini
parlano eccitati e ognuno trasporta il suo giocattolo preferito.
Scendiamo tutti dal treno, ogni famiglia controlla i bagagli, ma fra tutte la
più rigonfia è la mia valigia e la guardo perplessa! Ora Padre Vincenzo fa la
conta:
«
Bene siamo tutti presenti, mi raccomando date un occhio ai bambini, a Firenze
prenderemo l’autobus per Campiglione, passando per piazzale della Signoria.
»
Ora tutti
insieme, come piccolo gregge, ci incamminiamo. Ai miei occhi estatici appare la
Cattedrale impreziosita da marmi bianchi, rossi e verdi, splendido esempio
dell’architettura gotica fiorentina. In alto spicca il Campanile di Giotto di
lato il Battistero con la porta del Paradiso. E poi e poi, c’è la cupola del
Brunelleschi, che io conoscevo solo dai libri di scuola. Mi fermo e contemplo in
silenzio sacro. Brunelleschi, amico dell’astronomo Toscanelli, dopo i suoi
profondi studi matematici e le osservazioni attente agli antichi edifici
specialmente al Pantheon di Roma, eresse la prima cupola senza le usuali
impalcature.
Ma la
mia contemplazione è rotta dall’arrivo eccitato di Nello che, da esperto
muratore, mi chiede allibito:
«
Rosarita, ma Brunelleschi come ha fatto a portare lassù in alto nella
cupola tutti quei mattoni rossi?»
E non ottenendo alcuna risposta da me continua:
« Ma è un genio, è bravo assai, assai!»
Urge
camminare pare, ma Nello si gira ancora una volta indietro e lo sento mormorare:
« Ma come ha fatto? Certo
era il capo dei muratori! »
e poi guarda veramente ammirato la bravura manuale
dell’artista che ha lasciato a noi e al mondo un’opera eterna e duratura.
Ora ci
scambiamo con Renato uno sguardo complice e corriamo entrambi giovani, verso il
piazzale della Signoria che si intravede in vicina-lontananza!
Domina la
piazza il trecentesco Palazzo Vecchio dall’ardita torre merlata. Sulla destra si
trova il Palazzo degli Uffizi e la loggia della Signoria, altro notevole esempio
dell’architettura gotica fiorentina. Ma fra tutte le statue che impreziosiscono
la piazza vedo, nella pura maestosità del marmo bianco e nella stupenda nudità,
il Davide di Michelangelo , che mostra la forza morale e fisica del guerriero
vincente. L’occhio riesce a incamerare tanto splendore e provo una “goduria” che
ha il sapore metafisico dell’eternità. Ma non sono la sola “a gustare” il
piacere estetico, incrocio lo sguardo eloquente di Renato, ma nessuna inutile
parola turba l’istante eterno di grazia che stiamo vivendo attraverso l’arte.
Sono ora
sull’autobus, stiamo andando a Campiglione e la campagna toscana appare ricca e
verdeggiante. Troverò ancora una volta una risposta ai miei perché nuovi e
vecchi?
Arriviamo, e
la casa, simile a un robusto merlato castello medievale, ci accoglie immersa fra
alti, amici alberi.
Avrò del tempo
per interrogarmi, per confrontarmi con i fratelli, per pregare, penso. Tutti ci
avviamo verso il grande salone antico che già è aperto, entriamo in frotta.
Renato depone la mia grande valigia e subito io, fingendo di cercare qualcosa,
mi allontano, ho intravisto infatti una finestra e guardo fuori. Quanti alberi,
ma come è rassicurante il profumo del bosco che arriva fin qui! Socchiudo gli
occhi inebriata e davanti alla memoria del cuore sfilano altri alberi: quelli
secolari di Gambarie del ’68, ora ecco i filari di pere di Vizzini dei campi
di lavoro! Già i campi di lavoro del ’70!
Ma chi parla?
Chi ride con giovane voce nota? È un esile ragazza e sembra che canti! Ma come
osa? Tutti dicono che è stonata, ma sembra invece intonata alla sua persona la
certezza di vivere in una comunità di fede.
Eccola la
Rosarita di allora serena dialoga con il folto giovane gruppo di fratelli lungo
i filari e P. Antonio è la loro guida. Comunità parola sempre cara innervata in
tutto il mio essere! Tuttora ricerco tale “dono” riflesso sbiadito della
prima comunitá:
LA TRINITÁ
ADORAZIONE 10 AGOSTO 1985
…. Gesù,
piccolo grande amore, sì eccomi sono qui nella tua piccola chiesetta con la
finestra antica spalancata su questo splendido cielo toscano, su questa natura
feconda e verdeggiante. Sono sola con te; voglio essere sola non c’è nessuno
accanto a me nonostante l’intera comunità di S.Teresa. Sì mi sto fermando, sono
qui accanto a te che stai velato e presente nella piccola Ostia bianca, voglio
ancora cercarti, ritrovarti, scoprirti. Rivelati a me nello splendore della Tua
luce, nell’orma che tu DIO-PADRE hai dato al creato, nella grande piccolezza del
Tuo mistero Eucaristico.
Ora parla o
Diletto, in questo divino e armonioso silenzio, il mio arido e inquieto cuore Ti
ascolta.
Saprò
riconoscere la Tua voce fra le “tante voci” che si inseguono nella mia mente e
nel mio cuore assetato di pace e d’amore.
Ma chi
risponde a questo mio grido profondo e muto?
« Dolce sentire come nel mio cuore ora umilmente sta nascendo amore… »
Ma chi canta così dolcemente, chi prega così profondamente?
Ma sì, dalla vicina cappella giunge al mio cuore il canto dei ragazzi di Pisa,
guidati dai Gesuiti.
È un eco
lontano della loro Messa? Ma no, della mia Messa di Lentini..
Sì, un altro
cielo io intravedo, un’altra natura: è il campo di lavoro del 1972, ecco sento
realmente la voce di Aurora , capelli al vento, eccola!
Canta, prega,
contempla, eccola è lì, splendida di giovinezza e di fede la vedo « ridere
felice!»
Ed io
all’apparire della vecchiaia ( segni nel cuore o nel corpo?) posso ritornare
alla mia gioventù « nascere ancora, rinascere come Nicodemo? »
Per me è
ancora possibile? Te lo chiedo su questo tramonto di giornata, in quest’ora di
deserto: in questo momento di rinnovata e angosciante solitudine. Vedi? Sono
stanca dentro: ho attraversato strade lunghe, sentieri stretti, strade vuote,
strade vuote di te, strade troppo affollate e mi sono perduta nell’anonimato, io
soffrivo, ma nessuno mi ha potuto sostenere, nessuno!
Anche la voce
pacata di P. Mario è diminuita, non posso sentirla più, è ritornato nella sua
comunità di Palermo. Non ho neppure un padre! Mi è rimasto solo un lumicino: il
faro interiore della mia coscienza che mi esorta, mi condanna, mi porta “fuori
di me”. Forse anche Tu parli ancora, ma sono sorda, non Ti sento più. Fermati!
Fermati!
Ma rispondi
perché non Ti sei fermato ad aspettarmi sulla Tua e sulla mia strada? Perché?
Perché?
Perché vai
così di fretta e mi precedi correndo? Corri, corri troppo Gesù, fermati un
attimo, fermati, per farmi respirare, ti chiedo solo una pausa di respiro.
Dammi una
grazia, un dono Tuo, dopo sì lunga sofferenza: fammi rinascere in acqua e
spirito. Lo puoi sono sempre una tua figlia, lo ricordi? Fammi respirare un
attimo in Te. Ecco danni tremendi sono avvenuti pian piano dentro di me, oggi
sono stanca, vuota, arida, angosciata.
Sanami dentro,
purifica il mio cuore, inebriami del tuo amore.
Al mio ritorno
a Catania fammi trovare una casa di preghiera. Aspetto!
CIAO.
Eccoci abbiamo
lasciato Campiglione, siamo già a Firenze, ma è quasi buio e posso dare alla
città bella solo un rapido sguardo perché il treno per il ritorno ci aspetta,
impaziente, pare. Saliamo e P. Vincenzo attento e premuroso, controlla tutti,
poi con responsabilità paterna, si ferma vagone per vagone, regala carezze ai
bambini e ringrazia tutti per la collaborazione ricevuta.
Ma in verità
tutti noi abbiamo molto collaborato a rinforzare solo la sua pazienza!
Ora P.
Vincenzo arriva vicino a me, mi guarda intensamente, mi sorride, ma non dice
niente e io non rispondo alla sua muta interrogazione, fingo di non capire e lui
va via, prosegue il suo giro augurando un buon viaggio a tutti!
E mi
ritrovo già sdraiata nella cuccetta sopra quella di Renato, guardo la luna e
attraverso il finestrino socchiuso, la vedo apparire, poi nascondersi fra le
nuvole, riapparire di nuovo e penso che i poeti seicenteschi hanno offeso in
modo plateale la luna definendola
« la gran frittata »
mentre a scuola, il mio professore di musica, rifacendosi
alla Norma di Bellini la chiamava
« la
Casta diva ».
Già, il
mio professore di musica, lo rivedo di botto: è bassino, di età indefinibile,
con pesanti occhiali di tartaruga, con i folti capelli già abbastanza brizzolati
e ora lo vedo e lo ascolto, mentre, suonando il violino, intona con calda voce,
una canzone di sua invenzione:
« Chimera nei sogni miei mi appari tu, bella ti vedo ancor come in quel dì
sempre nei sogni miei con te vivrò è stato un sogno che non scorderò…»
E tutte noi
ragazze diciottenni voliamo leggere sull’ali della musica!
L’incanto si
rompe presto perché suona la campana della scuola e tutte, usciamo in ordinata
fila e sui grembiuli neri e i collettini bianchi merlettati, le cartelle
colorate fanno un piacevole contrasto.
Ricerco con lo
sguardo Noretta, Erminia, Emilio, Annamaria li chiamo e insieme ci avviamo verso
via G. Mazzini per prendere il nostro autobus che ci riporterà paziente ai
nostri monti, baciati dalla fiumara! E tutto canta di gioia dentro di me!
E l’auto corre
come il mio cuore, abbiamo già lasciato la marina e sta per apparire in
lontananza la fertile campagna calabrese ed ecco già si intravede “la fiumara”
con i suoi ciottoli a forma di confetti. Poso lo sguardo sull’acqua che, anche
da lontano , appare limpidissima ed ecco vedo una bimba di circa nove anni che
indossa un lindo vestitino guarnito da due enormi tasche.
Ma che fa? –
mi chiedo –
Ecco saltella
sicura da un lato all’altro su delle pietre levigate e scivolose, verdeggianti
di erba, ma non ha paura, non cade, anzi!
La guardo con
più attenzione e mi sembra proprio di conoscerla e d’altronde, accanto a lei,
con le belle, giovani gambe tuffate interamente dentro “la fiumara”, Teresa, la
domestica della caserma, sbatte vigorosamente le ruvide lenzuola dopo averle
strofinate con il nostro casalingo sapone ricco di grassi, soda, erbe
selvatiche, antica ricetta delle donne della Locride!
Ma
ancora più meraviglia desta in me la bimba: è accaldata dalla gioia perché,
guardando l’acqua poco profonda, ha trovato un pesciolino guizzante. Ma non lo
prende si accontenta di raccogliere e mettere in tasca, ancora bagnati, i bei
sassolini colorati con striature d’oro e ogni volta che ne prende uno lancia
piccoli gridolini di gioia! E immerge sempre più i bei piedini nell’acqua
frizzante e fredda del fiume. Provo un brivido, pur essendo sull’auto e
premurosa la chiamo « Rosarita, Rosarituccia » ma non mi vede, neppure mi
sente immersa nel trasparente fiume dell’infanzia. E Teresa (ancora molto
giovane ) la guarda complice ma non la rimprovera e poi a mia madre dirà solo:
« A Signurì, ha fattu a brava ».
Ma a un certo punto una brusca frenata mi scuote e un confuso scalpiccio arriva
a me, il papà di Erminia il nostro autista dice:
« Su
presto scendete tutti, devo cambiare una ruota! »
scendiamo in
ordine e Noretta passandomi accanto mormora:
<<Troveremo la pasta scotta
a casa! >>
Già la mia
casa, la mia casa sui monti!
Mio padre,
ancora nel suo ufficio di maresciallo, si affaccia sul lungo balcone per vedere
l’autobus che sbuffando in salita, sta per arrivare.
Mia madre ha
già steso sul lungo tavolo la tovaglia fiorata e accaldata sta per scodellare il
mio piatto preferito: gli spaghetti alla Norma. Mia sorella Rinuccia sembra
sfogliare un libro, ma i suoi azzurri occhi si rispecchiano in quelli limpidi di
mia madre!
***************************************************
8°
Capitolo
"...Ascolto Dio nella musica del silenzio
che poi diventa
canzone nell’ascolto
dei fratelli..."
Anonimo
Dalla lunga balconata la
luce del sole si rifrange nella mia stanza e mi abbaglia. Giro lo sguardo, in
vicina lontananza l’Etna brilla di splendore nella sua “eterna bellezza”.
Il mio lungo tavolo è
pieno di ritagli, di libri, di colori, di foglietti bianchi, del barattolo di
colla: ecco sembra proprio una bottega di falegname solo che la mia stanza è
piena di trucioli di carta, in questa serena mattinata settembrina dell’ 85.
La confusione è normale,
sto preparando le schede per i miei alunni perché fra alcuni giorni ci
rivedremo.
Che bello! Che bello -mi
dico- e ho ancora, dentro di me le loro argentine voci che chiamano: “Maestra
,maestra, Rosarita!”. Prendo , o meglio,
tiro fuori dal mucchio alcuni foglietti bianchi, apro il cassetto per cercare il
pennarello ed ecco, una busta rigonfia fa capolino ed io incuriosita, la prendo
in mano e ne controllo il contenuto: sono le letterine che i bambini mi hanno
scritto lo scorso giugno: “Sei
bellissima. Sembri una principessa quando sale le scale”. “Ti voglio un mare di
bene”. “La maestra Rosarita rende dolce la mia vita”.
Sorrido fra me, certo a presto miei cari alunni. A presto! Ma, mentre cerco di
riordinare i bigliettini, il telefono squilla con suono insistente. Mi alzo
facendo volare a terra alcuni foglietti e sollevo la cornetta, riconosco subito
la voce di Margherita: “Ciao,
come stai? Che cosa stai facendo? Lavori per la scuola vero?” Ascolta, ieri ho
saputo che domenica 22 settembre, padre Egidio celebrerà la sua prima
Messa..
Io passerò a
prenderti! Ti prego fatti trovare pronta! Sono certa che verrai. Ciao!”
“Oh
questa è bella”, dico fra me, “lei
è certa ma io no e poi chi è P. Egidio ”
Ma certo! Ora ricordo. E’ il giovane, splendido ragazzo che ho conosciuto a S.
Vito mentre riordinavo i libri della biblioteca nel lontano ‘79! Conservo ancora
nel cuore il colore dei suoi occhi di cielo e il suo sorriso luminoso e
comunicativo. Ora ho deciso, ci andrò ne sono convinta! Comincio a riordinare il
tavolo della mia stanzetta e i ritagli di carta sparsi ovunque, presto diventano
palline che io,con accurata flemma, tiro nel cestino: ecco ho fatto goal!
Penso al tempo che è
passato ricco di imprevisti e a quello che verrà con un pizzico di curiosità, e
sul mio volto aleggia uno strano sorriso.
Mi sveglio presto
stamattina ricomincia la scuola e la lunga cartella è già pronta: le schede
sono già numerate.
Oggi i ragazzi mi
aspettano ed io non vedo l’ora di riabbracciarli uno per uno! Saranno più alti!
Sono arrivati ormai in terza classe. Scendo in fretta le scale, la macchina è
pronta, salgo, guido con la solita prudenza , ma il cuore vola!
Parcheggio nell’ampio
cortile ,ho appena il tempo di spegnere il motore e i ragazzi, più mattinieri di
me, sono già arrivati, tutti insieme corrono venendomi incontro, dai vari punti
del cortile, mi ritrovo come stretta in un magico cerchio, quello unico della
nostra “amicizia” mentre laggiù, vicino la scala, alcune colleghe guardano la
scena con aria di disapprovazione e forse di invidia perchè il loro sguardo è
cupo e la loro critica arriva fino a me: “Ma
guarda un po’, così Rosarita offusca la nostra “professionalità”.
Ora suona la campana dell’ entrata, subito si ricompone la fila, saliamo le
scale in assoluto silenzio e Nello apre la porta della classe. I cartelloni, già
sistemati, con qualche giorno di anticipo, attirano la simpatia dei ragazzi.
Sebastiano, Rossella, Serenella, Amalia, Anna, Sebi ,Salvo, Giuseppe, Francesco,
Bruno, Antonio, Cristina, Angela, Maria, Rosanna, Gianfranco ,Antonella,
Alessandro, Giusi guardano ammirati, mentre Francesca e Patrizia tirano le
tende colorate e così si vede dall’alto l’ampio cortile. Ora iniziamo la
giornata scolastica e Antonella intona: “Acqua siamo noi, dall’antica sorgente
veniamo, fiumi siamo noi se i torrenti si danno la mano.” Ora inizia la
distribuzione delle schede consegnate da Rossella e osservo con soddisfazione
che le penne scivolano sulle risposte esatte.
Evviva la scuola dove si
lavora con gioia, dove si apprende con interesse!
Esiste, esiste ancora oggi
e io ne sono orgogliosa!
Ed ecco è finalmente
arrivata la fatidica domenica del 22 settembre dell’85 ed io, già pronta per
uscire, mi guardo allo specchio, sto proprio bene sono elegante, sicura di me
mi affretto a scendere le scale perchè Margherita ha già suonato al citofono e
mi aspetta in macchina.
Ci salutiamo, Margherita
guida sicura nel traffico cittadino già intenso!
Molta strada ci aspetta
perché stiamo per andare verso il mare della scogliera , che io, pur abitando a
Catania da anni, ancora sconosco. Siamo arrivate e il panorama mi incanta, il
mare azzurro laggiù ride nell’ estate settembrina. Scendo dalla macchina e,
proprio vicino all’insenatura naturale, dondolano lievi due barche ormeggiate a
riva.
Con l’attenzione del cuore
intravedo due personaggi ma le loro figure appaiono come sfocate, eteree quasi,
eppure, con un tuffo al cuore, mi sembra di sentire una voce nota proprio la sua
quella del Maestro.
In rapita contemplazione
ascolto, i personaggi: sono Gesù e Pietro e per ben tre volte si ripete l’eterna
domanda “Simone
di Giovanni mi vuoi bene più di costoro?”
e dopo le tre risposte affermative di Pietro ecco il comando “Pasci
le mie pecorelle”.
Margherita si gira mi
vede ferma si avvicina e dice: “Ma
è veramente la prima volta che vedi il mare della nostra città ? Via, non ti
lasciare incantare, svelta, seguimi, fra poco comincerà la messa.”
In assorto silenzio la guardo e cammino dietro di lei e arriviamo fin sotto i
gradini della chiesa antica. Conservo ancora nel cuore l’azzurro del mare e lo
ritrovo nella volta della chiesa antica e in fondo, dietro il bianco candore
dell’altare, troneggia la statua della Madonna .
Un meraviglioso canto dà
inizio alla processione dei sacerdoti che si avviano verso l’altare, entrando
dalla porta centrale.
Con l’attenzione del cuore
ricerco padre Antonio, ma il tempo insolente ha lasciato su di lui qualche
segno: i folti, lisci capelli sono ora brizzolati e sul viso volitivo si nota
qualche ruga. E pure in mezzo alla folla il suo sguardo profondo incrocia il
mio, ecco ci siamo ritrovati nella pace di Cristo dopo sì lungo distacco, dopo
sette anni di lontananza.
Il sacerdote che chiude la
fila è padre Egidio e tutta la sua persona sprigiona gioia: il giovane volto è
illuminato dal sorriso. Arrivati all’altare padre Antonio lo presenta e, con
fine intuito dice: “Grazie
al sacerdozio, questo giovane può diventare padre di suo padre e di sua madre”.
Scroscia l’applauso e le mie mani si arrossano e di slancio penso: “Non
può essere padre anche per me?”
Certo umanamente parlando
mi può essere solo figlio! L’idea improvvisa comincia a farsi strada dentro di
me! Vivo la messa con una particolare partecipazione e mi sento piena di
speranza, so di ritrovare le mie radici, tra la folla, infatti, intravedo alcuni
fratelli dei tempi delle pere, ma non mi muovo dal mio posto, attendo in
silenzio.
Ora un raggio di sole
perforando la lunga vetrata, mi porta via con sé, ma certo sono giovane ,il
vento lieve della pineta di Gambarie mi accarezza ed estatica contemplo la
strana cattedrale che ha per volta il cielo e per colonne i pini secolari nel
giorno della mia chiamata: 25 aprile del ‘68!
Arriva fino a me la calda,
chiara voce di padre Antonio: “Siamo
venuti qua da mille posti diversi perché Gesù vuole dialogare con ciascuno di
noi, vuole colmare il vuoto dei nostri cuori che sono assetati d’amore perché il
Signore vuole farsi conoscere da noi quale egli è: Dio-Amore, Dio-comunità”
. Le parole di vita penetrano in ogni fibra del mio essere che sfiora le
vette della pura contemplazione.
Ma la frescura dei pini è
diminuita, l’aria è calda, il cielo libero è scomparso, resta solo un bagliore
di bianco e le colonne della cattedrale stavolta sono di marmo e mi ritrovo
nella chiesa ma la voce che arriva a me è diversa, è quella di padre Egidio che
dice: “Canto
il mio grazie perchè tutto ciò che ho, tutto ciò che vivo, tutto ciò che sento,
lo vedo unicamente come un dono, un dono fatto nell’amore perchè nella Trinità
trovo la mia autentica fonte.
Mi sento avvolto
dalla paternità del Padre, dalla fraternità del
Figlio,
dalla sponsalità dello Spirito.”
E anche io mi sento ricca
di pace, certo i due messaggi sono diversi sia per il tempo, sia per il luogo,
ma hanno in comune il linguaggio dell’ amore quello del vangelo. L’amore di Dio
arriva a noi attraverso la comunità. Essa è per me lo spazio unico
dell’appartenenza a Xsto, al di sopra di formule giuridiche, è il luogo
privilegiato dello Spirito, è l’unica testimonianza possibile per gli uomini di
oggi! Ed io mi sento già “innervata” nella comunità ricercata e oggi
“ritrovata”. L’Amore -dono, l’Amore-servizio, è ancora la molla interiore che
mi dà vita, nonostante le delusioni è la mia stella cometa che mi guida per le
vie del mondo e della chiesa.
Il talento che Dio mi ha
dato è quello di sapere scoprire la sua presenza nel vissuto quotidiano,
nell’incontro coi fratelli e proprio ora, mentre la folla si mette in fila, per
salutare il novello sacerdote, Paola dolcemente si gira mi riconosce e mi
regala una perla di sorriso.
Ora una calda voce di
cronista cosi prega:
Ora
per finire portiamo sull’altare le tue mani Egidio. Esse sono ormai il seno
materno in cui viene generata l’ Eucaristia. Da oggi le tue mani sono le mani
del Padre:
si
aprono per accogliere e accarezzare,
si
chiudono per custodire e proteggere
si
alzano per benedire e perdonare,-
si
posano sulle nostre mani
per
incoraggiare e confortare.
le tue
mani sono le mani del Figlio:
stringono le nostre mani,
stringono le nostre ansie e i nostri dolori,
stringono le nostre aspirazioni e le nostre gioie,
stringono il Dio fatto pane per noi;
le tue
mani lo alzeranno e lo daranno a tutti.
le tue
mani sono le mani dello Spirito:
sono
le sorgenti della grazia divina,
sono
il ristoro per i pellegrini,
la
frescura per gli inariditi
il
vigore per gli impauriti,
la
speranza per gli sfiduciati,
le tue
mani sono le sorgenti che dissetano.
Offriamo le tue mani sull’altare,
perché
nel Dio Uno e Trino benedicano questo pane e questo vino
e lo
distribuiscano a tutti
e Dio
sia tutto in tutti.
apri
le tue mani sull’altare
e
innalza al cielo la tua e la nostra storia,
perché
sei sacerdote per sempre
a
gloria del Dio uno e trino:Padre,Figlio e Spirito Santo.
Ora io per ultima
mi avvicino per baciare le mani consacrate di padre Egidio e così mi ritrovo
di fronte a lui che mi riconosce e premuroso mi dice: “Grazie,
Rosarita, per la tua presenza”. Lo guardo
interrogativo e il suo sorriso mi illumina l’anima.
Mi meraviglio tanto,
ricorda ancora il mio nome dal lontano ‘79?
Mi trattengo sulle scale
armeggiando dentro la borsa ma non mi serve niente, è solo un ingenuo modo per
fermarmi un attimo per gettare un ultimo sguardo alle barche!
Eccole ci sono ancora,
ma non vedo né Gesù, né Pietro ma nella lieve brezza marina capto una voce
misteriosa, quella che io ho già percepito a Gambarie nel ‘68 e che ora
ritorna più chiara dentro di me: “Amatevi
l’ un l’altro come io vi ho amato da questo vi riconosceranno come miei”.
In una splendida mattinata
di ottobre riparto, stavolta da sola,verso la chiesa.
Guardo il mare ancora
tremolante di azzurro, rivedo l’insenatura naturale, le barche ora sono tre,
ma non sento nessuna voce.
Salgo le scale, entro e
rivedo i due colori di Santa Maria della Scala: l’azzurro e il bianco ecco la
messa sta per iniziare, il celebrante è padre Egidio e lo vedo salire verso
l’altare.
“Nel
nome del Padre, del Figlio,e dello Spirito santo”dice
e il mio cuore ha un sussulto di santa “gioia”, sto riprendendo quota perché
rivive dentro di me la “lama di luce di “Gambarie” insieme alla pace gustata
ad Assisi nella “Porziuncola”
Alla fine della messa mi
avvicino e chiedo: “Posso
parlarti padre Egidio?”
Sorridendo mi indica la
stanza dei colloqui ed entra per primo.
Da quel momento inizia la
sua direzione spirituale e già, dal primo momento, lo sento padre, fratello,
amico e come tale lo avrò accanto nei momenti di stanchezza, di dubbio, di
paura, che illuminandosi di fede,rendono gioiosa la mia vita e quella di coloro
che mi stanno accanto.
Ora, con trepido stupore
mi accorgo, che sto rifacendo dei passi per un mio ritorno alle origini, ai
tempi delle pere.
Un nuovo verbo appare
nella mia vita : “ricominciare” e lo coniugo con l’entusiasmo tipico che
mi caratterizza e un nuovo luogo appare: il convento di Savoca dove si respira
un’aria salubre, quella francescana che mi è proprio congeniale e mi ricorda
Assisi.
Il paese sorge su una
roccia( quella della fede? ) e nelle strette viuzze si sparge intorno alla
casa l’odore del pane appena sfornato e oggi, nel pane ritrovo un sapore nuovo ,
quello della fraternità, che si è ricostruita intorno alla lunga tavolata nella
grande terrazza del convento mentre il cielo, sopra di noi, manda una pioggia di
stelle,nella calura dell’ Agosto dell’ 86.
E il mio cuore canta in
pace la sua gioia.
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CONTINUA AL 9° Capitolo ...
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