Abramo, di cui
non possediamo reperti storici, cresce in un ambiente sicuramente
idolatra. Divenuto adulto, Dio si rivela a lui tramite i segni della
natura ed altri interventi. Ad un certo momento gli ordina di
distaccarsi dalla pratiche idolatre, di lasciare il paese natale e di
emigrare verso una terra che gli indicherà. In compenso gli promette di
accompagnarlo, di proteggerlo e di benedirlo (Gn 12,1-3).
Abramo, che già aveva esperimentato uno spostamento territoriale (Gn
11,31), ascolta Dio, che gli parla. Crede che egli è giusto, veritiero e
distinto dagli dèi conosciuti. Allettato dalle promesse divine, accetta
la singolare elezione, lo sradicamento dalla patria e l’imbarazzo di
insediarsi su terre, abitate da stranieri. Assieme alla moglie Sara e il
nipote Lot, interrompe i legami parentali, parte per una nuova località.
Inizia la tipica vita dei nomadi sempre a contatto con le precarietà
degli spostamenti e le insidie degli forestieri. Inaugura il tempo degli
esecutori della volontà di Dio e dei mutamenti di vita. Estraneo ai
tentativi di evasione dalle proprie insoddisfazioni, si dirige verso una
zona sconosciuta e pericolosa (Gn 11,30). Percorre lunghe valli, arriva
in Canaan, zona fertile e popolosa. Qui Dio si rivela ancora a lui e gli
promette che darà ai suoi discendenti la terra dei cananei (Gn 12,4-7).
Giunto nell’arida terra del Negheb, Abramo si sposta qua e là con il suo
gregge. Trovandovi uno scarso pascolo, scende provvisoriamente in
Egitto, dove avvia buone e rassicuranti relazioni con gli egiziani (Gn
12,10-20). Ritornato nel Canaan, si garantisce l’incolumità,
incrementando degli ottimi rapporti con la gente locale. Assegna poi a
Lot, nipote prepotente, la terra più feconda e gli concede una completa
autonomia (Gn 13,1-13). Non avendo figli, adotta Eliezer di Damasco e,
benché straniero, lo costituisce suo erede (Gn 15,2).
Dio si rivela nuovamente al nostro patriarca nella fede. Gli giura che
diverrà padre di popoli innumerevoli, prosperi e potenti (Gn 15,3-13).
Abramo gli crede. Si prostra davanti a lui. Ride ed esulta, pensando al
giorno in cui si realizzerà la promessa divina (Gn 17,3.17; Gv 8,56).
Per quindici anni ne attende il compimento. Spazientito, stabilisce che
l’erede della promessa sia Ismaele, nato dalla schiava Agar (Gn 16,15).
Dio respinge la soluzione di Abramo, che ripudia il ragazzo, per
annullare le intollerabili gelosie di Sara (Gn 21,14). Fedele alla
parola data, gli assicura che la vecchia moglie, donna piuttosto
superficiale nella fede, genererà un figlio allo scadere di un anno (Gn
18,1-14). Nella nascita di Isacco, il figlio del riso (Gn 17,17; 18,13)
Abramo costata che Dio non gli ha mentito (Gn 21,1-7). Gioisce, mentre
osserva che Isacco cresce e si irrobustisce. Immagina di aver risolto i
problemi personali e di poter vivere tranquillo. Dio invece sorprende
ancora il patriarca: gli ordina di andare nel territorio di Moria, di
salire su un'altura e di immolargli Isacco, il garante della
discendenza.
Abramo non ne comprende la ragione. Dilaniato interiormente, non si
ribella, non si lamenta, né si dispera. Nel totale silenzio continua a
credere in Dio, quale protettore e diffusore della vita. Prepara
l’occorrente per partire ed eseguire l’ordine ricevuto. Prima dell’alba
si alza, spacca la legna per l’olocausto, sella l’asino e chiede a due
giovani servi come anche ad Isacco di accompagnarlo. Cammina con loro
per tre giorni e giunge ai piedi del monte Moria, dove i cananei offrono
agli dèi i loro sacrifici. Avvicinatosi alla zona sacra, che Dio gli ha
indicato per immolare Isacco, Abramo dispone che i servi si fermino,
mentre lui e il figlio continuano a salire da soli, portando la legna ed
il necessario per il sacrificio.
Isacco, ragazzo intelligente, avverte l’inquietudine di papà. Intuita la
causa del suo tormento interiore, ne attende una conferma con la
semplice domanda: «Padre mio, ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è
l’agnello per l’olocausto?» (Gn 22,7). Abramo evita di assillare il
figlio e gli dà una risposta evasiva, che diventerà profetica: «Dio
stesso provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gn 22,8). Vorrebbe tornare
indietro o cambiare direzione. Prosegue tuttavia il cammino, confidando
in Dio, che gli ha promesso di benedirlo. Arrivato sulla cima del monte
Moria, persevera a credere in lui, «capace di far risorgere anche dai
morti» (Eb 11,17). Qui erige un altare di legna, mentre Isacco si
convince che suo padre lo sacrifica a Dio, dopo averlo immolato nel
cuore. Non si oppone alla sua decisione, né tenta di sfuggirgli.
Acconsente bensì che compia gli atti tipici dell’ufficio sacerdotale.
Lascia che Abramo lo leghi, lo ponga sull'altare e si appresti a
sferrargli la coltellata micidiale. Contrario ai consueti riti dei
sacrifici umani, diffusi in tutti i continenti, Dio invia un angelo a
trattenere la mano di Abramo ed a spiegargli il senso della prova: «Non
stendere la mano contro il ragazzo e non farli alcun male! Ora so che tu
temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio» (Gn
22,12). Abramo obbedisce all’ordine del messaggero celeste. Slega
Isacco, che libero dai vincoli può scendere dall’altare.
Dio interviene ancora: comanda ad Abramo di immolargli un ariete,
impigliatosi con le corna in un cespuglio. Compiuto il sacrificio
sostitutivo, rinnova a lui le promesse: «Giuro per me stesso, perché tu
hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio,
io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua
discendenza» (Gn 22,16-17). Abramo ritorna quindi nella sua tenda
consapevole che Dio aborrisce ogni tipo di sacrificio umano, mentre
gradisce la lode, il ringraziamento, l’obbedienza filiale e il
riconoscimento dei suoi diritti. Per ricordare quest’ultima e sublime
rivelazione, chiama il Moria: Dio vede (Gn 22,14).
I profeti, aperti alla rivelazione divina, condannano la barbara e
criminale consuetudine di offrire olocausti umani alle divinità.
Raccomandano al popolo di relativizzare i sacrifici rituali e di dare
più importanza ai sacrifici interiori come la fedeltà all’alleanza,
unico modo per ottenere da Dio il perdono sulle loro empietà .
I giudei reputano che il sacrificio di Abramo e la legatura di Isacco
sono un prototipo delle sofferenze del popolo d’Israele e degli
olocausti nel tempio. In un racconto targumico, traduzione in aramaico
dall'ebraico con aggiunte interpretative ed esplicative, ricordano
l’episodio del sacrificio di Abramo ed Isacco, nel quale accentuano la
loro concorde e meritoria determinazione. Infatti, il Targun originale,
conservato nella Biblioteca Vaticana, amplia così il testo biblico:
«Isacco prese la parola e disse ad Abramo suo padre: Padre mio, legami
bene, in modo che io non ti impedisca e che la tua offerta non sia resa
invalida. L’uno immola e l’altro è immolato. Colui che immola non
rifiuta e colui che è immolato presenta la gola» .
Il Libro dei Giubilei, scritto un secolo prima di Gesù Cristo, attesta
che nel tempio di Gerusalemme i giudei commemorano il sacrificio di
Abramo e di Isacco nel giorno di Pasqua, dei Tabernacoli e di Capodanno.
Identificano il monte Moria, situato nella zona di Bersabea, con
l’altura di Gerusalemme, dove il re Salomone aveva eretto il tempio,
dove si offrivano a Dio i sacrifici (2 Cr 3,1).
Gesù dà un’interpretazione tipologica al racconto, che abbiamo evocato.
Cosciente di essere il nuovo Isacco, asserisce che Abramo attese il suo
giorno, lo vide e se ne rallegrò (Gv 8,56). I primi cristiani nella
celebrazione eucaristica ravvisano in Abramo, uomo di fede incrollabile,
il Padre celeste, che invia nel mondo il suo Figlio diletto (Mc 12,6),
lo accompagna amorosamente sull’altare della croce, partecipa in modo
attivo e silenzioso alla sua sofferenza, lo lascia morire, perfeziona
l'alleanza sinaitica e benedice tutte le genti, accogliendole nella
gloria celeste (Rm 8,32; Eb 11,17-19). Considerano che Isacco, erede
delle promesse divine, è figura di Gesù, l’unico Figlio del Padre, che
sale a Gerusalemme sul dorso di un asino (Mc 11,7), porta il legno della
croce sul Calvario (Mc 15,33-34; 16,1.6), si immola, risorge, inizia una
nuova vita, procura ai figli spirituali di Abramo un’ampia discendenza e
dona a tutti la gloria eterna (Ebr 9,14; Gal 3,16). Un affresco nella
catacomba di Priscilla a Roma (secolo III) illustra bene questa
interpretazione tipologica: tratteggia Isacco che, accompagnato da
Abramo, porta un fascio di legna e sale su un monte.
I Padri della Chiesa confermano e sviluppano il senso tipologico del
racconto biblico. Lo pseudo Barnaba osserva, infatti, che Gesù ha
sofferto la morte di croce, perché «si compisse la figura manifestatasi
in Isacco offerto sopra l’altare» . Origene commenta: «Per il fatto che
Isacco si porta lui stesso la legna per l’olocausto è figura del Cristo
che si portò lui stesso la croce; e tuttavia portare la legna per
l’olocausto è compito del sacerdote; diviene così vittima e sacerdote» .
Sant’Agostino scrive: «Come il Signore portò la sua croce, così Isacco
portò da sé al luogo del sacrificio la legna sulla quale doveva essere
immolato» ; «Il Padre diede in sacrificio il Figlio, il Figlio diede in
sacrificio se stesso. Questa passione fu inflitta ad uno solo, ma fu
compiuta da tutti e due. Come la nascita, così la passione di Cristo non
la compì né il Padre senza il Figlio né il Figlio senza il Padre» .
Qualche altro Padre della Chiesa vede nella legatura sacrificale
d'Isacco l’anticipo di Cristo, che s'immola nel sacramento della messa
per farci uscire dalle nostre avarizie, liberarci dalle fragilità,
inserirci nell’alleanza, aiutarci a crescere nell’amore, fortificarci
nella fede e disporci alla gloria eterna. Nelle chiesa antiche e moderne
si possono ammirare parecchie raffigurazioni di Abramo che sta colpendo
Isacco, immobile su un altare di legna o di pietra.
Il cammino di Isacco verso il Moria è anche figura del nostro percorso
di fede. Siamo tutti protesi verso una meta oscura per non averla mai
visitata. Perciò non dimentichiamo che sperimentiamo le sensazioni di
dolore e di preoccupazione, già conosciute da Abramo, da Isacco e
soprattutto da Gesù Cristo.
Nessun commento:
Posta un commento