DIO FRA QUEI MONTI
Memorie di un escursionista a colloquio col Mistero tra luci e suoni
di Alessio Varisco
Nella foto Mons. Giovanni Merlini
«Potrei iniziare scrivendo
così: “Lo conosco da molti anni… prima era parroco, poi ebbi la fortuna di
poterlo incontrare in Duomo, quale penitenziere presso l’altare delle spoglie
mortali del Beato Cardinal Ildefonso Schuster,
Arcivescovo di Milano. È un uomo eccezionale, prima che un pastore di Cristo,
dalla battuta veloce e dallo spirito fermo, tipico del montanaro. La prima
volta che andai a casa sua rimasi stupito dai tanti ricordi della montagna, che
porta con sé: scarponi, ticozza,
la pipa e tante stelle alpine, fotografie immense delle sue cime anche in
cucina, confortevole, che richiama il Trentino e l’Alto Adige…” Ma sarebbe
una descrizione prosastica, ripetitiva e noiosa che non si
addice alle sue peculiarità!
Gi.M.,
questo lo pseudonimo di un sacerdote ambrosiano ora membro del capitolo
metropolitano della Cattedrale di Milano, è –come peraltro il sottoscritto- un
patito della montagna. Dalla sua passione ha tratto degli “spaccati” con molti
suoi scatti.
La montagna come luogo della spiritualità,
della riflessione, della pace interiore.
La montagna come soggetto per l’arte e la
letteratura.
La montagna come
esperienza di
Theo-phania e perciò rimando ai monti santi di Dio.
L’obiettivo di Gi.M.
pare cogliere le undici sante montagne della
Bibbia. Le sue vedute compongono -in uno splendido lavoro- le
riflessioni, per immagini, di un uomo alla ricerca della Verità, mai pago dei
traguardi raggiunti, il cui occhio si trasfigura sino all’inverosimile
percezione delle sensazioni più calediscopiche.
E parrebbe tutta la poetica del nostro
Autore una sorta di sfida interiore a voler
raggiungere Dio, quasi a toccarlo, ad entrarne in contatto, a sentirne la voce,
ad ergersi per esserne più degno... Un cammino, il suo, ed una purificazione
diuturna, con quella macchina alla ricerca di croci sulle nostre Alpi a
rivelarci la passione per le piccole cose.
Alcune delle immagini di Monsignor Giovanni
Merlini sono la rappresentazione ideale di certe situazioni di luce “misterica”,
quasi rivelazioni dell’Ineffabile. L’Assoluto compone i telai degli scatti delle
sue diapositive e si ferma nella transitorietà di un filo spinato, in una
bellissima foglia, nel giglio martagone, in cime
innevatissime ed accecanti, in una barca silente sulla battigia, in un
tramonto metropolitano della periferia milanese.
Sembrano montagne incantate, quasi irreali,
come solo la Natura sa celarsi per rivelarci il suo legame intimo col Creatore.
Catene alpine simili a quelle polari che celano anche
bibliche visioni: quali il Calvario o il Monte degli ulivi, il
Tabor o il Sinai, l'Ararat, il
Nebo o l'Hermon. E tutti evocano quasi
la loro privilegiatezza; le immagini di
Gi.M. colgono, e ne mettono in luce, la funzione del
“monte” quale luogo ove avviene l'incontro tra l'uomo ed il suo Dio.
Le riprese sembrano voler
sottolineare quel “timore e tremore”, di
kierkegaardiana memoria, che ci richiama alla nostra “finitudine” dinanzi
al creato, mirabile opera che richiama il Creatore. Gli scatti di Mons. Merlini
ci aprono scenari suggestivi e drammatici che ci
riconducono alla “Teodicea”. Della
theologia naturalis
Gi.M. pone in luce le vette che, similmente a certe
colline (penso a certe colline moreniche, della mia Brianza come
Montevecchia), si evidenziano tanto grandiose quanto
più sono isolate in vaste lande, si sono impregnate di un simbolismo negativo e
idolatrico anche nella Bibbia.
Ma nell’ambito della simbolica, così anche per
l’emulsione fotografia che gioca sull’equilibrio alchemico
di acidi e metalli, agli elementi negativi (che verranno tolti di torno
dal giudizio divino, per contro si pensi al negativo fotografico) fanno però
riscontro i monti santi come quello, illustre, delle Beatitudini.
E
quando guardo le sue foto penso anche al regalo di una rete da pesca che lui,
non ancora prete, usava col il suo papà sul fiume Adda e non riesco a non
associare queste parole «Addio, monti sorgenti dall’acque,
ed elevati al cielo, cime inuguali, note a chi è
cresciuto tra voi e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto
de’ suoi più familiari...». la rete stupenda è un
simbolo struggente anche della sua missionarietà espressa nella
vocazionalità del sacerdozio. E l’addio ai monti del
Lecchese di Alessandro
Manzoni, dai “Promessi sposi” accompagna come un fil-rouge
le sue immagini acquatiche, la sua indubbia capacità di saper catalizzare delle
espressioni di altri lessici attraverso il foro stenopeico.
Il mezzo espressivo di
Gi.M. richiama sovente la montagna che in tutte le religioni assume la
valenza di simbolo della trascendenza.
Il monte è la cima, è immaginata sempre in alto. A
pensarci bene essa è semplicemente
quell’oltre, al di
là del quale tutto ciò che è creato appare limitato, quell’infinito
immagine –o meglio “eikon”- dell’eterno. E dalla
testa, della "stazione eretta" dell’uomo che ha all’apice la parte più nobile,
gli scatti di Gi.M. ci chiamano all’esperienza
dell’Assoluto.
Ma la religiosità della visione di Mons.
Merlini non è data solo dal suo essere sacerdote, è soprattutto data a queste
sue “immagini” dal taglio con cui il soggetto vivente la
naturalità che lo circonda. Ecco la verticalità dei monti. Guglie e vette si
spingono nei cieli, svettano, e sono fasciate da nubi come da un rivestimento di
mistero. Il monte è meta-fora del simbolo del divino
E tutta la vita di quest’uomo si assimila alla
ricerca ancestrale di migliaia di miliardi di altre
persone che, fin dalle più remote forme di vita, hanno ricercato nella montagna
Dio. Ed in architettura viene assunto a modello di
tempio, si pensi alla ziqqurrat
mesopotamica che ne delinea la mole di una montagna sacra: i vari gradoni
simboleggiano l’ascesa alla sommità in cima alla quale risiede casa della
divinità, un tempietto, praticabile solo dai sacerdoti.
Chissà quante volte Gi.M.
nelle sue escursioni avrà pensato, in parallelo, ad altri monti, santi, , dal
Fujiyama giapponese al Safôn
dei cananei, dal Sion ebraico all’Olimpo greco.
Forse in qualche sua foto ricordava un passo
veterotestamentario che, in uno dei titoli più arcaici di Dio nella
Bibbia, designa YHWH "Il Dio della montagna",
El-Shaddaj in ebraico antico.
Ma forse Gi.M. avrà
letto la “La montagna incantata” testo del 1924 di Thomas
Mann (1924), che viene ambientato nel sanatorio
svizzero di Davos, che narra in una sorta di
“parabola della contemporaneità” la storia di una crisi personale ed epocale.
Certamente non si intende qui tentare di indicare un
profilo generale del valore simbolico che ricopre il monte. Parlare di monti in
fotografia non è semplice, come neppure in pittura, perché si può finire col
banalizzare le "alture", che in antico ebraico si chiamano
bamôt, che nella Bibbia
sono meticolosamente denunciate quali sedi di antichi
santuari cananei, legati ai culti della fertilità,
ma in certe circostanze anche luoghi di culto israelitico. I passi biblici in
cui si condannano questi colli sono certamente centinaia, partendo dallo stesso
Salomone che attribuì un santuario al dio dei Moabiti
Camosh
ed un altro per il dio degli Ammoniti
Milcom
«sul monte che è di fronte a Gerusalemme» (1Re 11,7), preso a modello poi dai
suoi successori e dai sovrani del regno settentrionale di
Samaria. Perciò come ogni “symbolon”,
anche la montagna, può rivelare od illustrare un simbolismo negativo ed
idolatrico. Ma la montagna di
Gi.M. è più neutra, anzi legata al monte Santo per antonomasia, il Sion.
E
dalle sue immagini si ode una sorta di Te Deum che
richiama il “canto delle ascensioni" del Salmo 121 (120): «Sollevò gli occhi
verso i massicci: da dove arriverà il mio soccorso? Il mio sostegno è dal
Signore che ha creato cielo e terra».
L’obiettivo fotografico si fa ad un tempo
orante, leva il suo sguardo
implorante "verso i monti" e sembra pronunciare una domanda: «Da quale luogo
giungerà il mio soccorso?». La risposta del Salmista è netta: «Il mio aiuto è
dal Signore», il Creatore della terra e del cielo, Egli è la vera sorgente
di ogni dono di vita. Non è questa la sede per dire
che molti esegeti pensano che in questa scenetta -a prima
vista banale- ci sia proprio un rinvio pungente alle "alture"
idolatriche. L’orante
sarebbe tentato di indirizzare il suo appello, muovendo anche i suoi piedi,
verso gli edifici sacri dei colli cananei ove si
levano in alto pali sacri e steli -inconfutabili
segni del dio Bahal- il dio della prolificità e
della produttività. Ma non sarà certo lui a offrire
l’aiuto atteso, bensì il Dio promesso, quello che guidò Abramo fuori dalla sua
terra, sino alla Promessa, passando per tanti scenari montuosi.
«Audiutorum
nostrum in nomine Domini qui fecit
caelum et
terram» è nella liturgia cattolica e
richiama l’antica professione di fede "jahvistica"
di impronta liturgica; vi è un rientro, quasi a
rispedire il lettore, non espressamente, all’altro monte santo, l’unico vero per
Israele, il Sion, «altura magnifica, letizia di tutta la terra..., capitale del
gran Re» (Salmo 48,3). Quante belle vette che Gi.M.
richiama con la sua Leika e rimanda certamente agli
occhi anche di chi incredulo riesce ad afferrare il vero significato della
profondità che sta nella semplicità, caratteristica peculiare della “natura”. Ma
i suoi scatti, quei fili spinati del Carso, segni e
fiacche dei due conflitti mondiali, in particolare del primo, ci richiamano ad
altri versetti, da un’altro lato -su un’altra sponda,
i monti negativi verranno rasi al suolo dal Giudizio di Dio sulla storia, alla
fine dei tempi, quando ancora si rivelerà il Figlio per portare universalmente
la Giustizia- si oppongono ai monti santi.
E
le vette divengono più simboliche che meri rilievi topografici realizzati
fotograficamente. Monsignor Merlini si figura, ad
ogni scatto, il “Monte delle Beatitudini”, che è fatto coincidere in una
collinetta che sta sopra al lago di Tiberiade oggi sede di un noto santuario
cristiano, eretto nel 1937.
Nei suoi scatti in verità trovo parte del
discorso di Matteo che è ambientato proprio su di un’altura (si veda
Mt 5,1), leggibile anche nel tracciato lucano in
Lc 6,17, e collegato a un
“luogo piano”. E le sue foto della memoria fissano la
qualità “programmatica” del cristiano, della bellezza, facendo una fumettazione
della "Magna Charta del cristianesimo" del discorso
mateano. Gi.M. ci
presenta -senza quell’apparato esegetico che è più
del biblista- in maniera “reale” ciò che ci viene
esibito da Matteo. Anche in Gi.M. quella sua montagna
è molto più simbolica che storico-geografica. Come l’evangelista intende, in
realtà, richiamare il Sinai della rivelazione mosaica;
e i suoi scatti con immediatezza sono una citazione di un Gesù che
è diventato così la Torah
vivente. In quei crocicchi alpini segnati dai crocefissi lignei finemente
intagliati da abili mani richiamano a quella prima legge di Mosè, non
abolita, ma portata a termine proprio sino alle
estreme conseguenze, la crocifissione, e perciò
radicalizzata. Sono “poesie visive”, liriche della gratuità di un Dio
fattosi carne per salvare il mondo concedendosi per l’espiazione dei peccati.
Tutte queste foto sono esaltazione della possibilità
affidataci che sta proprio nel raggiungere la "pienezza. Il “Discorso della
Montagna”, che si apre dai capitoli 5-7 di Matteo, ci fa entrare in
media res nell’ambito della
circostanza programmatica della storia dell’umanità.
Mons. Merlini fa un’omelia profonda con le sue immagini, così ricche e brillanti
di quello splendore incredibile che solo chi ha scoperto le Beatitudini può
comunicare.
Lo scrittore francese
François Mauriac dice: «Chi non lo ha mai
letto non è in grado di sapere che cosa sia il
cristianesimo». E le Beatitudini con cui il discorso
si apre (5,3-10) sono forse la pagina più alta e impressionante di Matteo.
Dalle paradossali otto sentenze solenni
vengono proclamati “makàrioi”,
cioè beati,
paghi, gioiosi, quelli che la storia
considera infelici e
sconfitti. Alla nona beatitudine
«Beati voi quando vi
oltraggeranno...» è un’appendice,
possiamo dire ciò perché differisce stilisticamente, dell’evangelista destinata
a chiarire la precedente, l’ottava beatitudine. È chiara la proposta
cristica: si ha “gioia” non possedendo, accumulando,
compiendo imprese di successo, ma adottando un
comportamento radicale di distribuzione, di donazione gratuita, e di
allontanamento, come si evince dalla prima e dalla quinta beatitudine «Beati i
poveri di spirito... Beati i puri di cuore...». E
queste rendono corresponsabili lo "spirito" e il "cuore" che nel lessico biblico
non significano intimità o
spiritualità insipida,
all'opposto opzione che si radica nella profondità
della coscienza e si ramifica in tutto l’essere e l’agire del fedele.
Le sue foto ci spiegano proprio
questo quando con semplicità guardano ad altro, di
meno nobile delle montagne e delle croci descrivendo un quotidiano che non è mai
banale, è solo umano, forse troppo umano. Mi rendono felice sfogliarle e pensare
all’insegnamento del Maestro che esige da noi cristiani una tensione totale e
assoluta, a volte un apprensione a restare desti, e
non una sequenza di atti religiosi e caritativi: «Siate perfetti come
perfetto è il Padre vostro celeste» (5,48).
E di questa paternità
Gi.M., oltre ad avermi fatto omaggio della sua
rete da pesca, mi ha certamente cullato con quelle sue immagini, seppure diverse
così evocanti un Te Deum che è il suo essere
cristiano prima e sacerdote poi… E ringrazio il Signore di avermelo fatto
conoscere.
Dovrei descrivere maggiormente gli stili
fotografici, ma di Mons. Merlini trovo solo da
imparare, e per tecnica, e per umanità, e per freschezza nel trattare ogni
argomento.
In realtà l’obiettivo fotografico diviene una
protesi di un occhio, non fisico, spirituale. Sembra, a tratti, che i suoi
soggetti e le sue immagini si trasfigurino nei colori
delle Scritture. Penso che la sua esperienza mistica l’abbia vissuta pienamente
con il confronto continuo: Parola/natura. E dinanzi alla
magnificenza del creato, uno sguardo purificato e sempre “fresco” al Creatore.
Avrebbe potuto scrivere queste stesse fotografie, e
forse il suo cuore lo fa, quando riesce a descrivere quasi il rumore, o per
contro la totale assenza nel silenzio, che richiama ad altre esperienze. Forse
Gi.M. ha sempre scritto, puntando la visuale sul
Vangelo, ed ha cantato la sua lode con sguardo puro; quella “freschezza” di cui
parla è la sua immediatezza che sa distruggere ogni
sclerocardia e credo sia proprio un dono dell’Altissimo. Questa
rilassatezza, quest’esperienza
meta-phisyca gli deriva dall’esercizio della Lectio
Divina, certamente, ma anche, e soprattutto, dal suo cuore.
Tornando alle sue beatitudini per immagini
procedo nella mia breve analisi esegetica delle sue opere. Le successive
"antitesi" (5,21-48)
si muovono sulla
medesima linea. «La relazione tra le due parti – così scrive lo studioso David
Daube- dello schema, "Avete udito che fu detto agli
antichi... ma io vi dico...", non è di puro
contrasto. Il secondo elemento dell’antitesi vuole rivelare il senso profondo
racchiuso nel primo, anziché sopprimerlo». Le foto sono
esaltazione di Gesù. Mons. Merlini con i suoi scatti ci aiuta a comprendere gli
antichi, seppur validi, precetti biblici, ne respinge un’esposizione riduttiva o
alla lettera, anzi ne sfoggia la potenza radicale qualora
essa sia assunto nel suo significato profondo, nella sua spiritualità
autentica. Gi.M. ci dice anche che per tutti noi
cristiani non può essere sufficiente la mera osservanza del precetto
decalogico
"Non uccidere!",
ma ciascuno di noi è chiamato a doversi impegnare per cancellare ogni "voglia",
in senso forte di progetto, macchinazione, decisione: si può, difatti, anche
essere adulteri anche senza arrivare, forse per motivi visibili, ad operarlo
davvero ma solo mettendolo in atto con il cuore, con le vagli e con una
progettazione coerente e cosciente di tradimento. Il matrimonio è concepito da
Gesù come manifestazione di volontà di dono
globale -Mons.
Merlini ha invece sperimentato l’ordinazione sacerdotale, sposo della Chiesa-
nello spirito iniziale del piano di lavoro divino rinvenibile nel secondo
capitolo di Genesi, ed è per questo che egli esclude il ripudio. Il giuramento
appariva la forma più eminente di attestazione della
verità e quindi era intoccabile, come suggeriva il comandamento
decalogico «Non pronunziare falsa testimonianza».
Gesù va oltre e richiede, nello spirito profondo del comando biblico, la
schiettezza leale e costante, soprattutto illimitata anche nel tempo.
Osservo una foto di
Gi.M., è una scultura di Messina, un cavallo,
una cera persa, mi appare evanescente e sfuggevole ed al contempo così evocante
il Giudizio di Dio sulla storia come in Apocalisse 19,11. Guardo altre
fotografie. Nell’ambito biblico bisogna rileggere la storia delle popolazioni
pre-Alleanza in cui imperversava un’unica legge
consuetudinaria, quella detta del “taglione” dell’«occhio per occhio, dente per
dente», che di fatto prevedeva una sorta di
giustizia distributiva alla quale
Gesù sostituisce la logica del perdono.
Quei colori, quelle suggestioni mi richiamano l’Amore
di Dio, la Misericordia del Padre, l’abbraccio consolatore, l’esperienza della
risurrezione, il suo donarsi quotidiano nella
fractio
panis -memoriale eucaristico-,
in
certi scatti domina la visione non già delle cose, ma delle persone. Si evince
da certe architetture, da molte strutture di sue immagini l’amore per il
prossimo. Si capisce quanto quest’uomo, fotografo e sacerdote, voglia superare
la propria stessa tradizione, gli schemi consueti per giungere all’essenza delle
cose e dei rapporti. Giovanni Merlini non resta ormeggiato al proprio orizzonte
razziale o socio-culturale, si priva di ogni riserva,
condizionamenti e confini per ingrandirsi, com’è nella sua natura, a tutti, pure
ai avversari, come gli deriva dal suo maestro... Il monte simbolico di Matteo
svela il reale significato delle montagne
sacre, come lo era il reale Sinai.
I suoi scatti richiamano un segno
dell’infinito, della completezza, della tensione verso il divino a cui siamo
chiamati. Ed il monte di Gi.M.
è lo stesso percorso da Cristo. Forse ne segue i passi e ci addita un percorso…
ce lo rende partecipe in quei suoi scatti. Mons.
Merlini segue le orme di Gesù. Come Lui si leva sul nuovo Sinai delle
Beatitudini e ne diviene un “Mosissimus
Moses”, vale a dire un
Mosè estremo nella pienezza della rivelazione
divina.
Ed
anche a noi fa capire che basta seguire la via tracciata per essere nuovamente
un Israele veritiero e semplice che sa ascoltare la Parola e compierla con
“pienezza”.
«Non pensate che io sia venuto ad abolire la
Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per portare a pienezza». Si
noti il verbo greco utilizzato,
pleroum:
indicante non tanto il "compiersi" quanto il fiorire della totalità e della
pienezza assoluta.
Delle sue opere solo la traccia per seguire i
passi, come una danza, tracciata dal Padre e ripercorsa dal Figlio,
ritradottaci da questo suo
servo dei nostri giorni.
Prof.
Alessio Varisco
Designer
Magister
artium
Art
director Técne Art Studio
Fonte : scritti dell'artista prof. ALESSIO VARISCO , Designer - Magister Artium , Art Director Técne Art Studio
http://www.alessiovarisco.it
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