giovedì 25 luglio 2019

Cappella aeroporto della Malpensa , Milano, Italia 1997-98, di Alessio Varisco



Cappella aeroporto della Malpensa , Milano, Italia 1997-98
di Alessio Varisco

 


La firma dell’architetto ticinese Mario Botta, in un edificio di culto, nell’ambito dell’Arcidiocesi milanese non è certamente un caso sporadico ed isolato. Mario Botta deve questa fortuna alla partecipazione dell’allora incaricato per la Costruzione Nuove Chiese, Mons. Peppino Arosio[1], che rimase colpito dalla sua presentazione che fece nell’aprile del 1987 a Fusio, in Svizzera, «quando illustrò con passione il progetto di ricostruzione della Chiesa di Mogno. Tra di noi si instaurò una sorta di feeling».
Quel sacerdote, mio parroco negli anni Ottanta, era convinto che la chiesa milanese dovesse accogliere una crescente ed urgente sfida: riavvicinarla ai grandi progettisti, e questi ultimi alla Chiesa, anche promuovendo percorsi culturali, liturgici e teologici, stimolando la creatività, dando nuovi impulsi con concorsi, svecchiando e sferzando gli stilemi “chiusi” e “persi” dell’architettura sacra. Questa frattura consumatasi nel post-Concilio doveva frenarsi, poiché non aveva fatto bene a nessuno, anzi.
Orbene bisogna far risalire, alla presenza nei confini della Diocesi di Milano dell’architetto ticinese all’anno 1990, e precisamente alla Chiesa di San Pietro Apostolo a Sartirana Briantea, a Merate, in provincia di Lecco, nella zona pastorale III di Lecco[2].
 
 

 
I motivi della progettazione di una cappella presso l’aeroporto internazionale Malpensa 2000 di Milano sono molteplici: anzitutto la necessità di dare allo scalo aereo uno spazio riservato al culto ed alla preghiera; in seconda istanza creare una testimonianza cristiana anche per gli operatori dell’aereoscalo visitato –oltre che dai numerosi fruitori del servizio aereo- da tantissimi addetti all'impianto che rendono possibile la circolazione aerea civile nello scalo milanese
Committente della costruzione della chiesa cattolica presso l’aereoporto è la società dei “Servizi aeroportuali di Milano-Linate”.
Il progetto dell’architetto ticinese per la cappella dell’Aereoporto di Malpensa è del 1997-1998. Lo studio di Botta ha ideato una chiesa -concepita dall’architetto come una figura autonoma, determinata da una “presenza fisica” foriera agli stili dell’intorno- strappata, in un certo senso, al grande sistema aeroportuale e raggiungibile al livello dell’imbarco per le partenze per mezzo di una pensilina che la unisce al ponte, già edificato, a 14 metri da terra.  
La pianta si presenta trilobata. La chiesa dall'esterno si presenta con una propria immagine inconsueta: un fiore di pietra; costituita da tre semi-cilindri, appoggiati attorno ad uno spazio centrale, che si innalzano sino a raggiungere un’altezza di circa  trenta metri da terra.
 
 
 
L' idea dell’architetto Botta è quella di mettere a disposizione, dei passeggeri e di tutti coloro che sono nello scalo aeroportuale, una sorta di oasi dello spirito. La chiesa è così pensata, razionalmente e con brillantissimo ingegno, come uno spazio "individuale" di silenzio, dove ciascuno si riappropria del “particolare” e del “trascendente”, ove l’azione taciuta è espressione della meditazione -che è raccoglimento interiore, autoanalisi e nel contempo ascesa mistica-.
La cappella bottiana è per il fedele uno “scoglio per la preghiera”, in una struttura frenetica –entro uno scalo aeroportuale-, programmata per le attività di transito che sono energiche ed insieme dinamiche, operose, laboriose che nel contempo richiedono prontezza di riflessi e una buona dose anche di spirito, di accettazione nel progresso e perciò di nostalgia del Divino.
La cappella progettata come una «presenza architettonica staccata –dice l’architetto Mario Botta- dalla aerostazione, afferma la propria autonomia rispetto ai servizi aeroportuali e si caratterizza per l'uso di un unico materiale ed una forte luce zenitale interna che modella gli spazi in modo da far sì che il visitatore possa sentirsi protagonista».
Non si può non pensare al “precedente” in territorio diocesano, all’impiego dei simboli, in particolare al cerchio nella sua evoluzione tridimensionale nell’ascesi di un cilindro, la “luce” mai banalmente gettata, ma “pensata”, ricreata, forgiata dalla matita dell’architetto, mai diretta, radiale, soffusa, a cascata, calibrata che crea uno spirito di raccoglimento e di giustizia interiore.
Lo spazio internamente è disposto attorno ad un triangolo centrale, dove si trovano i banchi. La percezione dello spazio si basa sulla dicotomica contrapposizione di pieni/vuoti, concavi/convessi, mediati dal segno minimale ed al tempo stesso perfetto del triangolo. Si elevano due semicilindri che risultano pervasi da una luce che scende dall'alto e rinvia alla elevazione dello spirito del fedele verso quella luce.
La sensazione molto intimistica, invoglia alla preghiera, dispone all’ascolto della Parola di Dio. In realtà appare –anche quest’architettura bottiana- l’ennesima riprova che l’architetto ticinese si cimenta in una sfida liminare sul detto/non detto ed estrapola –da un contesto banale e frenetico, una landa interminabile di ceck-in- una sua preghiera di pietra, una architettura sacra, una dimora celeste, la cosiddetta “Shekinah”, ovvero Casa di Dio, come viene descritta nelle Sacre Scritture e diremmo in ebraico antico.
Alla frettolosità confusa e convulsa, alla grave e greve folla vociante in attesa nelle varie sale, fra un ritardo, una partenza, l’incubo delle cancellazione, in questi giorni di gelo mai visto negli ultimi vent’anni, uno spazio del silenzio, del riposo della contemplazione, dell’introspezione. Qui veramente ci si ritrova in pace con sé.
Più guardo e studio Mario Botta e più mi accorgo di quanto sia attuale ed imprescindibile per chi, come me, vuole leggere un “segno tangibile” della mano di Dio nelle architetture.
 

 
Nella cappella di Malpensa si riconoscono due luoghi ben diversificati: uno quello atto alla celebrazione, potremmo dirlo "luogo della parola" ove rinveniamo l’ambone; un altro che richiama all’evento della Cena e l’anticipo della Croce "luogo del sacrificio" (con altare). Attorno a questi due spazi ben visibili altri semicircolari attraggono l’occhiata dell’utente aeroportuale verso il rivestimento vetrato, lassù più in alto, che riporta al cielo, mentre il modo di trattare le pareti, con corsi di pietra rossa, rafforza l'aspetto di ascensionalità (tipico di Botta che pare voler inviare a recuperare quel rapporto verso la verticalità perduta nell’appiattimento tanto citato in E. Marcuse “L’uomo a una dimensione”) di una muratura interrotta a livello di pavimento da una serie di aperture che richiamano scorci del piazzale sottostante.
A dispetto delle piccole dimensioni, la cappella dell'aerostazione vuole offrire una consapevolezza di spazialità. La chiesa di Malpensa vuol dare certezze, sul senso dell’uomo, della Fede, ed aiutare a vivere nel miglior modo possibile un momento di sosta nel gran correre della vita aeroportuale, un vero break dello spirito nella frenetica corsa della vita.
Lo spazio, le pietre, le trame e gli orditi delle texturizzazioni delle architetture bottiane, così ricche, lontane le une dalle altre, sempre originali, mai banali, eppure unite da un fil rouge che avvince e perfeziona un’incredibile “stupore” per le piccole cose, gli elementi naturali, i simboli e il dicotomico rapporto finito/infinito, uomo/divino, riescono sempre più, ad ogni nuova lettura a dichiararmi che l’uomo non può che –come diceva Mircea Elide- avere un’intima inquietudine ,una diuturna e animosa, «nostalgia delle origini».
Questo per me Mario Botta!
 


 

[1] Mons. Giuseppe Arosio divenne il responsabile dell’Ufficio Nuove Chiese della Arcidiocesi di Milano nel 1984 per volere dell’allora Arcivescovo Metropolita milanese, Carlo Maria Martini, che ricreò quest’ufficio. Il Cardinal Martini volle a dirigere l’Ufficio quel parroco che fondò, insieme al teologo monzese don Luigi Serenthà e tanti altri, la rivista parrocchiale dell’erigenda parrocchia di San Giuseppe Confessore in Monza “Cantiere”. Il ciclostile è stato un modo di fare la storia di una comunità e don Peppino, così lo chiamavamo noi parrocchiani monzesi, inventò uno stile nuovo, pionieristico (nell’oratorio di San Biagio, a fine anni Cinquanta don Giuseppe Arosio era quel prete che correva dietro un pallone con la “veste aperta” –quest’immagine è viva in chi lo conobbe in quegli anni lontani, ancora vivi nei ricordi di molti- e con pathos insegnava all’istituto tecnico un’educazione religiosa rivista dell’arte sacra, o meglio dell’architettura), di fare giornalismo, di fare Comunità, di aderire al sociale come in un cantiere, di vivere per gli altri e di saper spender parole per le molte fatiche compiute, per i progetti inattesi raggiunti… La chimera –a volte- si realizza ed io mi ricordo di lui che cavava dalle tasche pezzi di carta che riusciva ad animare in origami che mi facevano sorridere con cui all’asilo giocavo a fine anni Settanta, inizi Ottanta. Di lui ho sempre presente quella chiesa, una sorta di suo alter ego progettata dall’architetto zurighese Justus Dahinden in cui servii Messa più volte la notte di Natale ed in cui lui, a nome dell’Arcivescovo, mi cresimò.
[2] Alcuni dati fanno comprendere - rispetto la densità di popolazione del capoluogo milanese- l’evoluzione/sfida di un’architettura così ardita in un contesto in evoluzione ma ancora improntato a ritmi “agricoli” rispetto Milano: 33913 abitanti, divisi in 8 comuni, 10 parrocchie, 40 kmq, 848 abitanti per kmq…





Fonte :   scritti dell'artista prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio .
Prof. ALESSIO VARISCO
Designer - Magister Artium
Art Director Técne Art Studio

http://www.alessiovarisco.it







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