Cappella aeroporto della Malpensa , Milano, Italia 1997-98
di Alessio Varisco
La firma dell’architetto
ticinese Mario Botta, in un edificio di culto, nell’ambito dell’Arcidiocesi
milanese non è certamente un caso sporadico ed isolato. Mario Botta deve
questa fortuna alla partecipazione dell’allora incaricato per la Costruzione
Nuove Chiese, Mons. Peppino Arosio[1],
che rimase colpito dalla sua presentazione che fece nell’aprile del 1987 a
Fusio, in Svizzera, «quando illustrò con passione
il progetto di ricostruzione della Chiesa di
Mogno. Tra di noi si
instaurò una sorta di feeling».
Quel sacerdote, mio
parroco negli anni Ottanta, era convinto che la chiesa milanese dovesse
accogliere una crescente ed urgente sfida: riavvicinarla ai grandi
progettisti, e questi ultimi alla Chiesa, anche promuovendo percorsi
culturali, liturgici e teologici, stimolando la creatività, dando nuovi
impulsi con concorsi, svecchiando e sferzando gli stilemi “chiusi” e “persi”
dell’architettura sacra. Questa frattura consumatasi nel post-Concilio doveva
frenarsi, poiché non aveva fatto bene a nessuno, anzi.
Orbene bisogna far
risalire, alla presenza nei confini della Diocesi di Milano dell’architetto
ticinese all’anno 1990, e precisamente alla Chiesa
di San Pietro Apostolo a Sartirana
Briantea, a Merate, in provincia di Lecco, nella
zona pastorale III di Lecco[2].
I motivi della
progettazione di una cappella presso l’aeroporto internazionale
Malpensa 2000 di Milano sono molteplici: anzitutto
la necessità di dare allo scalo aereo uno spazio riservato al culto ed alla
preghiera; in seconda istanza creare una
testimonianza cristiana anche per gli operatori dell’aereoscalo
visitato –oltre che dai numerosi fruitori del servizio aereo- da tantissimi
addetti all'impianto che rendono possibile la circolazione aerea civile nello
scalo milanese
Committente della
costruzione della chiesa cattolica presso l’aereoporto
è la società dei “Servizi aeroportuali di Milano-Linate”.
Il progetto
dell’architetto ticinese per la cappella dell’Aereoporto
di Malpensa è del
1997-1998. Lo studio di Botta ha ideato una chiesa -concepita dall’architetto
come una figura autonoma, determinata da una “presenza fisica” foriera agli
stili dell’intorno- strappata, in un certo senso, al
grande sistema aeroportuale e raggiungibile al livello dell’imbarco per
le partenze per mezzo di una pensilina che la unisce al ponte, già edificato,
a 14 metri da terra.
La pianta si presenta
trilobata. La chiesa dall'esterno si presenta con una propria immagine
inconsueta: un fiore di pietra; costituita da tre semi-cilindri, appoggiati
attorno ad uno spazio centrale, che si innalzano
sino a raggiungere un’altezza di circa trenta metri da terra.
L' idea dell’architetto
Botta è quella di mettere a disposizione, dei passeggeri e di tutti
coloro che sono nello scalo aeroportuale, una sorta
di oasi dello spirito. La chiesa è così pensata, razionalmente e con
brillantissimo ingegno, come uno spazio "individuale" di silenzio, dove
ciascuno si riappropria del “particolare” e del “trascendente”, ove l’azione
taciuta è espressione della meditazione -che è raccoglimento interiore,
autoanalisi e nel contempo ascesa mistica-.
La cappella bottiana è per
il fedele uno “scoglio per la preghiera”, in una struttura frenetica –entro
uno scalo aeroportuale-, programmata per le attività di transito che
sono energiche ed insieme dinamiche, operose,
laboriose che nel contempo richiedono prontezza di riflessi e una buona dose
anche di spirito, di accettazione nel progresso e perciò di nostalgia del
Divino.
La cappella progettata
come una «presenza architettonica staccata –dice l’architetto Mario Botta-
dalla aerostazione, afferma la propria autonomia
rispetto ai servizi aeroportuali e si caratterizza per l'uso di un unico
materiale ed una forte luce zenitale interna che modella gli spazi in modo da
far sì che il visitatore possa sentirsi protagonista».
Non si può non pensare al
“precedente” in territorio diocesano, all’impiego dei simboli, in particolare
al cerchio nella sua evoluzione
tridimensionale nell’ascesi di un cilindro, la “luce” mai
banalmente gettata, ma “pensata”, ricreata,
forgiata dalla matita dell’architetto, mai diretta, radiale, soffusa, a
cascata, calibrata che crea uno spirito di raccoglimento e di giustizia
interiore.
Lo spazio internamente è
disposto attorno ad un triangolo centrale, dove si trovano i banchi. La
percezione dello spazio si basa sulla dicotomica
contrapposizione di pieni/vuoti, concavi/convessi, mediati dal segno
minimale ed al tempo stesso perfetto del triangolo. Si elevano due
semicilindri che risultano pervasi da una luce che
scende dall'alto e rinvia alla elevazione dello spirito del fedele verso
quella luce.
La sensazione molto
intimistica, invoglia alla preghiera, dispone all’ascolto della Parola di Dio.
In realtà appare –anche quest’architettura bottiana- l’ennesima riprova che
l’architetto ticinese si cimenta in una sfida liminare
sul detto/non detto ed
estrapola –da un contesto banale e frenetico, una
landa interminabile di ceck-in- una sua preghiera
di pietra, una architettura sacra, una dimora celeste, la cosiddetta “Shekinah”,
ovvero Casa di Dio, come viene descritta nelle Sacre Scritture e diremmo in
ebraico antico.
Alla
frettolosità confusa e convulsa, alla grave e greve folla vociante
in attesa nelle varie sale, fra un ritardo, una
partenza, l’incubo delle cancellazione, in questi giorni di gelo mai visto
negli ultimi vent’anni, uno spazio del silenzio,
del riposo della contemplazione, dell’introspezione. Qui veramente ci si
ritrova in pace con sé.
Più guardo e studio Mario
Botta e più mi accorgo di quanto sia attuale ed
imprescindibile per chi, come me, vuole leggere un “segno tangibile” della
mano di Dio nelle architetture.
Nella cappella di
Malpensa si riconoscono due luoghi ben
diversificati: uno quello atto alla celebrazione,
potremmo dirlo "luogo della parola"
ove rinveniamo l’ambone; un altro che richiama all’evento della Cena e
l’anticipo della Croce "luogo del
sacrificio" (con altare). Attorno a questi due spazi ben visibili
altri semicircolari attraggono l’occhiata dell’utente aeroportuale verso il
rivestimento vetrato, lassù più in alto, che riporta al
cielo, mentre il modo di trattare
le pareti, con corsi di pietra rossa, rafforza l'aspetto
di ascensionalità (tipico di Botta che pare
voler inviare a recuperare quel rapporto verso la verticalità perduta
nell’appiattimento tanto citato in E. Marcuse
“L’uomo a una dimensione”) di una muratura interrotta a livello di pavimento
da una serie di aperture che richiamano scorci del piazzale sottostante.
A dispetto delle piccole
dimensioni, la cappella dell'aerostazione vuole offrire una consapevolezza di
spazialità. La chiesa di Malpensa vuol dare
certezze, sul senso dell’uomo, della Fede, ed aiutare a vivere nel miglior
modo possibile un momento di sosta nel gran correre della vita aeroportuale,
un vero break dello spirito nella frenetica corsa della vita.
Lo spazio, le pietre, le
trame e gli orditi delle texturizzazioni delle
architetture bottiane, così ricche, lontane le une
dalle altre, sempre originali, mai banali, eppure unite da un
fil rouge che avvince
e perfeziona un’incredibile “stupore” per le piccole cose, gli elementi
naturali, i simboli e il dicotomico rapporto finito/infinito, uomo/divino,
riescono sempre più, ad ogni nuova lettura a dichiararmi che l’uomo non può
che –come diceva Mircea Elide- avere un’intima
inquietudine ,una diuturna e animosa, «nostalgia
delle origini».
Questo per me Mario Botta!
[1]
Mons. Giuseppe Arosio divenne il responsabile dell’Ufficio Nuove Chiese
della Arcidiocesi di Milano nel 1984 per volere
dell’allora Arcivescovo Metropolita milanese, Carlo Maria Martini, che
ricreò quest’ufficio. Il Cardinal Martini volle a dirigere l’Ufficio quel
parroco che fondò, insieme al teologo monzese don Luigi Serenthà e tanti
altri, la rivista parrocchiale dell’erigenda parrocchia di San Giuseppe
Confessore in Monza “Cantiere”. Il ciclostile è
stato un modo di fare la storia di una comunità e don Peppino, così lo
chiamavamo noi parrocchiani monzesi, inventò uno stile nuovo, pionieristico
(nell’oratorio di San Biagio, a fine anni Cinquanta don Giuseppe Arosio era
quel prete che correva dietro un pallone con la “veste aperta” –quest’immagine
è viva in chi lo conobbe in quegli anni lontani, ancora vivi nei ricordi di
molti- e con pathos insegnava all’istituto tecnico un’educazione religiosa
rivista dell’arte sacra, o meglio dell’architettura), di fare giornalismo,
di fare Comunità, di aderire al sociale come in un cantiere, di vivere per
gli altri e di saper spender parole per le molte fatiche compiute, per i
progetti inattesi raggiunti… La chimera –a volte- si realizza ed io mi
ricordo di lui che cavava dalle tasche pezzi di carta che riusciva ad
animare in origami che mi facevano sorridere con
cui all’asilo giocavo a fine anni Settanta, inizi Ottanta. Di lui ho sempre
presente quella chiesa, una sorta di suo
alter ego progettata
dall’architetto zurighese
Justus Dahinden in cui
servii Messa più volte la notte di Natale ed in
cui lui, a nome dell’Arcivescovo, mi cresimò.
[2]
Alcuni dati fanno
comprendere - rispetto la densità di popolazione del capoluogo milanese-
l’evoluzione/sfida di un’architettura così ardita in un
contesto in evoluzione ma ancora improntato a ritmi “agricoli”
rispetto Milano: 33913 abitanti, divisi in 8 comuni, 10 parrocchie, 40 kmq,
848 abitanti per kmq…
Fonte : scritti dell'artista prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio .
Prof. ALESSIO VARISCO
Designer - Magister Artium
Art Director Técne Art Studio
http://www.alessiovarisco.it
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