LE STIMMATE DEL SIGNORE,
SEGNI D'UMILIAZIONE E DI GLORIA
di Padre Felice Artuso
Risorgendo dai morti, Gesù conserva le piaghe della
crocifissione, segno del suo illimitato amore per l’umanità, della sua vittoria
contro la potenza del male. Nelle prime apparizioni mostra ai discepoli le
ferite dei chiodi e della lancia (Gv 20,20). Li invita a guardarle, a toccarle e
a sciogliere i loro dubbi sull’evento pasquale: «Guardate le mie mani e i miei
piedi: sono proprio io. Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa
come vedete che io ho» (Lc 24,40). Osservando le cicatrici della dolorosa
crocifissione, i discepoli mutano lo stato d’animo, passano subito dalla
tristezza alla gioia, dall’incredulità alla fede. Comunicano poi a Tommaso,
assente alla prima apparizione, di aver visto il Risorto con le impronte
gloriose della crocifissione (Gv 20,25).
Autonomo nei ragionamenti (Gv 11,16) e poco incline alle fantasticherie, Tommaso
non crede alla testimonianza dei discepoli. Teme che banalizzino un serio
evento. Forse pensa che, se Gesù è davvero risorto, non può conservare nel
fisico le tracce della sua vergognosa crocifissione. Per uscire dai suoi dubbi,
rivendica l’esigenza di poter avere lo stesso contatto visibile e tattile degli
altri discepoli: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il
dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv
20,25).
Il Signore conosce i pensieri e le aspirazioni dei suoi discepoli. Sa che
Tommaso ha assunto un atteggiamento critico, paziente e positivo. Accondiscende
al suo legittimo desiderio di ricevere da lui un indizio sensibile, chiaro,
sicuro e definitivo sull’inaudito avvenimento. In una successiva apparizione si
pone in mezzo a loro, si rivolge a Tommaso, gli comanda di compiere l’ambita
verifica e lo invita a credere che è passato ad una nuova esistenza: «Metti qua
il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato;
e non essere più incredulo ma credente!» (Gv 20,27).
Tommaso vede le piaghe luminose, testimoni del mistero dell’incarnazione, della
passione, della crocifissione e della morte di Gesù. Costata che egli non è un
fantasma, bensì una persona con una nuova corporeità. Non sente più il bisogno
di introdurre la mano negli squarci del Signore. Si pente probabilmente d’aver
preteso dai lui dei segni esterni. Scioglie i dubbi e colmo di gioia, emette
questa solenne professione di fede: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Confessa
che Gesù è il Risorto ed è Dio. Prima lo venerava semplicemente come uomo, ora
lo venera nella sua identità gloriosa e divina. Apostolo docile alla verità,
diventa un coraggioso testimone di Gesù, umiliato, crocifisso, sepolto e
risorto. Si impegna a trasmettere la sua fede in lui e gode una grande
reputazione nelle prime comunità cristiane. Nella risposta a Tommaso Gesù
proclama beati coloro che, senza averlo mai visto, hanno già creduto
nell’annuncio pasquale dei suoi discepoli (Gv 20,29).
L’evangelista Giovanni sa che la predicazione apostolica suscita dei ragionevoli
problemi. Tuttavia fa intendere che esistono fondati elementi per credervi.
Termina pertanto il racconto evangelico, asserendo di aver descritto solo alcuni
segni del Signore, per confermare i suoi lettori nella stessa professione di
fede dell’apostolo Tommaso e per renderli partecipi della filiazione divina:
«Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati
scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è
il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv
20,30-31). Chi si impegna ad ascoltare l’annuncio evangelico e vi aderisce,
supera le incertezze personali, scioglie i suoi dubbi e matura nella fede.
Lo stesso evangelista all’inizio della sua prima lettera attesta di aver udito,
visto, contemplato e toccato il Verbo della vita (1 Gv 1,1-2). Agganciandosi
alla sua testimonianza, sant’Ignazio d’Antiochia scrive che i discepoli di Gesù
hanno veramente incontrato il Risorto, lo hanno toccato e hanno trasmesso la
loro fede in lui: «Sono convinto e credo che dopo la risurrezione egli era nella
carne. Quando andò da quelli che erano intorno a Pietro disse: “Prendete,
toccatemi e vedete che non sono un demone senza corpo”. E subito lo toccarono e
credettero al contatto della sua carne e del suo sangue» .
La testimonianza di sant’Ignazio convinse i Padri della Chiesa che Tommaso toccò
realmente le ferite del Signore. Pertanto Cromazio di Aquileia attesta: «Tommaso
ha toccato le mani del Signore per riconoscervi le ferite dei chiodi; ha toccato
anche il costato del Signore per verificare nella ferita palpabile l’identità
del corpo, affinché i nemici della fede non potessero sostenere che Cristo non è
risuscitato dai morti nella medesima carne» . Sant’Agostino a sua volta
commenta: Tommaso «vedeva e toccava l’uomo, ma confessava Dio che non vedeva né
toccava» . I teologi della Scolastica mantengono più o meno la stessa
convinzione dei Padri. La liturgia bizantina dichiara beato Tommaso, perché fu
ritenuto degno di vedere il Signore e di toccare la piaga del suo costato.
Nelle icone liturgiche gli artisti orientali raffigurano il Risorto con le
stimmate gloriose e lo chiamano “ho Numthìos” (lo Sposo). Imitando questo stile,
Mathis Grünewald dipinge il Signore che ascende al cielo in un’aureola
sfolgorante e ostenta le impronte della crocifissione. Alcuni artisti
occidentali rappresentano Gesù che nell’irresistibile luce alza il braccio,
scopre la ferita del costato e invita Tommaso a distendere la mano e ad infilare
un dito nella sua piaga.
Il Caravaggio va oltre i dettagli dell’evangelista Giovanni. Raffigura Gesù che
con la mano destra allarga la veste, mentre con la sinistra stringe
l’avambraccio di Tommaso e l’accompagna verso l’apertura del suo fianco.
L’apostolo, meravigliato, aggrotta la fronte, conficca il suo indice all’interno
della ferita, prende un contatto fisico con Gesù e ne verifica la reale
presenza, mentre due discepoli osservano con attenzione lo svolgimento della
meticolosa scena.
Altri artisti ispirano le loro rappresentazioni del Risorto sui racconti dei
mistici. Ritraggono il Signore che irradia dalle ferite un’intensa luce. Nella
cappella Sistina Michelangelo Buonarotti conferisce a Gesù, giudice universale,
una corporatura robusta e gli pone le ferite della crocifissione, perché alla
fine dei tempi apparirà a tutti con i segni della sua passione e morte.
I Padri della Chiesa presentano anche delle riflessioni sulle stimmate del
Signore, collegabili con la ricorrenza domenicale della Misericordia divina.
Commentando il vangelo di Giovanni, san Cirillo d’Alessandria scrive: «Considera
come, scoprendo il fianco del corpo, e mostrando il posto dei chiodi, mostri
chiaramente che è lo stesso tempio che era stato sulla croce, e che era
risuscitato il corpo che portava» . Sant’Ambrogio di Milano nel commento al
vangelo di Luca asserisce che Gesù: «preferì portare su in Cielo le ferite
sofferte per noi e non volle cancellare, per far vedere a Dio Padre quanto gli
era costata la liberazione. In tale aspetto il Padre lo colloca alla sua destra,
abbracciando i trofei della nostra salvezza, in tale aspetto la corona delle sue
cicatrici ci ha mostrato lassù i martiri» . Sant’Agostino in un discorso sul
vangelo di Giovanni 21,12 afferma che Gesù, asceso al cielo, conserva le ferite
della crocifissione, perché un giorno le possano vedere coloro che lo hanno
trafitto e si rendano realmente conto del male commesso: i discepoli «come lo
videro salire? Con la medesima carne che essi avevano toccato e parlato, in cui
avevano perfino verificato, toccandole, le ferite… Verrà nella forma di uomo; la
vedranno anche gli empi, la vedranno quelli che saranno alla sua destra e la
vedranno anche i separati alla sua sinistra… Se vedranno colui che hanno
trafitto, vuol dire che vedranno il corpo stesso che hanno trafitto con la
lancia» . San Leone insegna che il Signore conserva le ferite, per togliere la
durezza dei suoi discepoli, per educarli a credere nella risurrezione corporea e
per infiammarli d’amore: «Certamente i segni dei chiodi e della lancia erano
conservati per sanare le ferite dei cuori credenti, perché ritenessero non con
fede esitante, ma con fortissima convinzione che quella natura, la quale giacque
nel sepolcro, si sarebbe assisa nel trono di Dio Padre» .
San Beda il Venerabile sintetizza l’insegnamento dei Padri in queste quattro
motivazioni: «Anzitutto perché i discepoli, che vedevano, potessero riconoscere
con evidenza che non era uno spirito senza un corpo quello che vedevano, ma
piuttosto un corpo spirituale, e perciò predicassero di lui e la certa speranza
della futura risurrezione di tutti gli uomini; in secondo luogo perché lo stesso
Signore e Dio, Gesù Cristo, che come uomo intercede per noi presso il Padre,
mostrando le cicatrici delle sue ferite gli possa dimostrare eternamente quanto
grande sia stato il suo travaglio per la salvezza degli uomini…; in terzo luogo
perché tutti gli eletti, ottenuta l’eterna beatitudine, a vedere nel loro Dio e
Signore i segni della passione, non smettano mai di ringraziarlo, riconoscendo
di vivere in grazia della sua morte…; da ultimo perché anche i reprobi vedano
nel giorno del giudizio i segni della sua passione» .
I martiri dei primi secoli portavano nel proprio corpo le stimmate di Gesù
Cristo. Affrontavano il martirio con una certezza incrollabile. Speravano che le
loro membra ferite e dilaniate divenissero gloriose. Uno di loro, Gordio, disse,
infatti, ai suoi carnefici: «Quanto più accrescete i tormenti, tanto più grande
mi procurerete il premio. Questi sono i patti fra noi (cristiani) e il Signore:
in cambio di lividure e gonfiori sul corpo, rifulgeremo nella risurrezione
avvolti di luce» .
Il positivismo odierno suscita l’esigenza di vedere e di toccare, per credere.
Molte persone credono nel Vangelo solo se roviniamo le nostre mani per eliminare
i difetti fisici, le malattie e le ingiustizie sociali. Le piaghe, formatesi nel
nostro fisico per i molteplici servizi, ci procurano sofferenze, ma nella
risurrezione dei giusti si cicatrizzeranno, brilleranno nel nostro corpo e
saranno per noi un pegno di gloria.
Fonte : scritti e
appunti di Padre Felice Artuso (religioso Passionista)
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