ARTE CRISTIANA DELLE ORIGINI
a cura di Maria Cristina Ricciardo
Catacomba Santi Marcellino e
Pietro, Roma
Particolare del Cristo in trono tra Pietro e Paolo, IV - V secolo
Particolare del Cristo in trono tra Pietro e Paolo, IV - V secolo
Dopo la morte di Cristo, prima gli Apostoli e poi i loro discepoli, proseguendo la predicazione cristiana intensivamente, allargano il numero dei proseliti. Si vengono così formando le varie "chiese" (ecclèsia in latino, in greco ecclesìa, da eccaléo, "io chiamo", e perciò "assemblea"), primi nuclei cristiani di differente estrazione e cultura a seconda delle varie regioni.
Nella capitale il cristianesimo penetra intorno alla metà del I secolo, come è testimoniato da una lettera di San Paolo alla ecclesia di Roma, e si è esteso in seguito alla predicazione dello stesso Paolo e di Pietro. La presenza e la morte per martirio a Roma dei due "principi degli apostoli" giustifica la romanità del cristianesimo che, pure, ha origini orientali.
Le persecuzioni cessarono quando, essendo diventata la religione cristiana patrimonio comune di grandi masse, l’imperatore Costantino, per calcolo politico, prima concede la libertà al culto cristiano (editto di Milano, 313), poi, poco prima della morte (337), si converte e, soprattutto, quando, con Teodosio (380), il cristianesimo diventa religione di stato e si assume quindi, a sua volta, il compito di santificare l’imperatore.
Questa premessa è necessaria per comprendere perché, per avere un’arte cristiana che, in qualche modo, si distingua nelle sue caratteristiche fondamentali da quella romana, bisognerà giungere agli inizi del IV secolo, con l’editto di Costantino, e perché, per avere un’arte cristiana che elabori un linguaggio simbolico autonomo e maturo, bisognerà giungere al V-VI secolo. Poiché l’arte è espressione della società di un determinato periodo storico, per avere un’arte cristiana è necessario che in essa si riconosca la maggioranza della collettività, non soltanto una piccola parte di essa. Ciò potrà accadere quando i primi nuclei cristiani si saranno ingranditi talmente da assorbire larga parte dei cittadini dell’impero, della cui universalità, anche dopo la sua caduta (476), il cristianesimo sarà l’erede.
L'ARTE CRISTIANA
Per arte cristiana noi dobbiamo intendere un’arte che, non tanto nei temi trattati, quanto nel modo di trattarli, rispecchi le esigenze della spiritualità cristiana.
L’arte romana esprime l’ideologia imperiale di unità, di conquista, di supremazia della capitale sulla periferia, mediante grandi spazi dilatati, ma accentrati; esprime la concretezza di un popolo che si sa organizzare militarmente e civilmente, mediante il senso pesante della massa e il realismo; ne documenta le vittorie con il rilievo storico.
L’arte cristiana deve esprimere invece il senso trascendente del divino, deve definire ciò che è infinito, rendere visibile l’invisibile. Il prodotto dell’operazione artistica (architettura, scultura o pittura) è davanti ai nostri occhi, è concreto; ma, attraverso esso, il cristianesimo vuole significare l’astratto.
E’ un problema che si erano posti anche gli artisti greci, i quali l’avevano risolto rendendo la divinità in forme umane idealizzate, come, del resto, ci è spiegato dallo scrittore pagano Dione Crisòstomo il quale, fra il I e il II secolo, quando già è iniziata la penetrazione cristiana, dice: "Nessuno scultore o pittore potrebbe riprodurre la sapienza o l’intelligenza in se stesse, perché mai sono stati ammessi a vedere qualcosa di simile [….] Perciò abbiamo fatto ricorso al corpo, nel quale riconosciamo con certezza la presenza dello spirito. Per mancanza di un modello assegniamo al dio forma umana come vaso di sapienza e di ragione".
A questa affermazione aggiunge una frase particolarmente importante per la concezione artistica cristiana: "noi cercheremo di esprimere, con la materia visibile e sensibile, l’essere invisibile e irraggiungibile per mezzo di un simbolo".
Tutta l’arte cristiana infatti dovrà essere letta attraverso il simbolo: ogni oggetto rappresentato avrà un significato astratto. L’arte paleocristiana non narra, non espone storie con un senso logico e cronologico; espone idee che devono essere capite contemplando un’immagine. Quando rappresenta Cristo o la Madonna o un santo, non vuole riprodurne le fattezze reali, umane, ma esprimere il significato che esse assumono per i fedeli. Non dimentichiamo che il cristianesimo assomma in sé la Chiesa di origine ebraica e quella di origine ellenistico-romana. Ogni nuovo cristiano porta con sé la sua cultura: mentre greci e romani danno aspetto umano ai concetti astratti e alle forze della natura gli ebrei, obbedendo alla legge mosaica, vietano la rappresentazione dell’immagine divina sotto qualsiasi aspetto, nel timore che la venerazione di essa possa trasformarsi in adorazione dell’oggetto materiale e quindi in idolatria.
Si tratta di giungere a una conciliazione fra due tradizioni diverse, quella conciliazione che, sul piano religioso, ha sostenuto lo stesso Gesù negando agli ebrei la condizione privilegiata di popolo eletto e che Paolo ha convalidato affermando l’uguaglianza di fronte a Dio fra circoncisi e non circoncisi.
La conciliazione sul piano artistico si trova, appunto, dando alle cose rappresentate un significato simbolico e permettendo così alla Chiesa romana di conferire alle immagini, oltre al significato ideologico, anche una funzione didattica, in quanto esse, attraendo lo sguardo, costringono il fedele a seguire un discorso visualizzato che penetra nel suo inconscio con molta maggior efficacia delle parole.
DOCUMENTI
1. Sulla comprensione del divino attraverso le immagini:
"Se noi facessimo un’immagine del Dio invisibile, saremmo certamente in errore [...]. Ma noi non facciamo questo. Non sbagliamo se facciamo l’immagine del Dio incarnato, apparso sulla terra e nella carne, che, nella sua bontà ineffabile, è vissuto con gli uomini ed ha assunto la natura, lo spessore, la forma ed il colore della carne [...]. Un tempo Dio, non avendo corpo né forma, non si poteva rappresentare in alcun modo. Ma poiché ora è apparso nella carne ed è vissuto fra gli uomini, posso rappresentare ciò che di lui è visibile. Non venero la materia, ma il creatore della materia".
(SAN GIOVANNI DAMASCENO, VII-VIII secolo a.C., Adversos eos qui sacras imagines abiciunt, Pg. 94, 1320, 1245)
"Tramite un volto visibile il nostro spirito sarà trasportato, per attrazione spirituale, verso la maestà invisibile della divinità".
(ADRIANO II, Lettera all’imperatrice Irene e all’imperatore Costantino VI, VIII secolo)
"Noi deliberiamo, con ogni cura e diligenza, che - come la preziosa e vivificante Croce - le venerande e sante immagini - in pittura, o in mosaico o in qualsiasi altra materia -vengano esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle strade, si tratti dell’immagine del Signore Dio Salvatore nostro Gesù Cristo, o della Santa Madre di Dio, o degli angeli degni di onore, o di tutti i santi e pii uomini. Infatti quanto più esse vengono viste nelle immagini, tanto più coloro che le guardano sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare loro rispetto e venerazione. Non si tratta certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di adorazione, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all’immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi vangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, come era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto".
(Concilium Nicaeum Il, VIII secolo, PG 136, 24-34)
2. Sulla tradizione biblica aniconica:
"Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra. Non farete accanto a me dei d’argento o d’oro".
(Dio a Mosè sul Sinai, Esodo, 20, 3-4, 23)
3. Contro le immagini esteriori fabbricate con la materia e a favore delle immagini sacre che vivono dentro di noi:
"Celso dichiara che noi "rifuggiamo dall’innalzare altari e statue e templi", dacché ritiene che questa "è la convenzione di una società segreta e misteriosa". Ed egli non riesce a scorgere che per noi lo spirito di ciascuno degli uomini giusti è l’altare, da cui si innalzano veracemente ed intelligentemente incensi dal soave odore, preghiere cioè sgorganti da una pura coscienza.
Le statue e le offerte votive, che convengono a Dio, non sono le opere fatte da volgari artigiani, ma quelle manifestate e plasmate dentro di noi dal Verbo di Dio.
[…] Le statue di Fidia, di Policleto e dei loro simili […] sono senz’anima e si distruggono col tempo, mentre queste dimorano nell’anima immortale tanto a lungo, quanto l’anima razionale desidera che rimangano in essa.
(ORIGENE, 185-253, ConTh Celso, VIII, 17-20; da B. Patera)
4. Sulla funzione didattica delle immagini:
"Venite in mio aiuto, voi, illustri pittori di grandi gesta. Contemplate con la vostra arte l’immagine perfetta di questo condottiero [il martire Barlaam]. Illustrate con i colori della pittura il martire vittorioso che io ho descritto con poco splendore".
(SAN BASILIO, IV secolo, Omelie, XVII, 3)
"Tutto ciò l’artista lo fa vedere con l’arte dei colori, come in un libro che avesse una lingua. Poiché il disegno muto sa parlare sui muri ove si distende e rende i più grandi servigi".
(SAN GREGORIO di Nissa, IV secolo, Elogio del martire Teodoro, PG 46, 757)
"Riempi il santo tempio da una parte e dall’altra di storie dell’Antico e del Nuovo Testamento di mano di un ottimo pittore, di maniera che coloro che non conoscono le lettere e non possono leggere le sacre scritture, contemplando le pitture, acquistino memoria della virtù di coloro che hanno servito nobilmente il vero Dio".
(NILO DI ANCIRA, IV-V secolo, Lettere, LX)
"Ci è giunta notizia che, infiammato da zelo sconsiderato, avresti distrutto, con la scusa che non si devono adorare, le immagini dei santi. E per quanto abbiamo lodato il tuo divieto di adorarle, in verità biasimiamo che tu le abbia infrante. Una cosa è infatti adorare una pittura, un’altra è apprendere, attraverso il soggetto della stessa pittura, ciò che si deve adorare. Infatti, ciò che la scrittura mostra a coloro che sanno leggere, la pittura lo mostra agli ignoranti che la guardano, poiché in essa anche gli ignoranti possono vedere ciò cui devono aspirare, e in essa possono leggere anche coloro che non conoscono le lettere. Cosicché, particolarmente per il popolo, la pittura serve da lezione".
(SAN GREGORIO MAGNO, VI secolo, Epistulae, XI, 13, A Sereno, vescovo di Marsiglia).
LA CHIESA E LE IMMAGINI
L’atteggiamento restrittivo o addirittura negativo della Chiesa verso l’arte non deve ritenersi assoluto e perenne, al pari dell’avversione giudaica ad ogni sorta d’immagine. Certo il pericolo dell’idolatria, da cui nacque l’avversione alle immagini dichiarata da taluni, fu avvertito e vivacemente combattuto: l’atteggiamento avverso, anche nei riguardi degli artisti, di molti scrittori ecclesiastici come Tertulliano, Cipriano, Ireneo, Clemente Alessandrino, Aristide, Giustino, Taziano, Atenagora, Origene, ecc. fu ispirato dalla preoccupazione di non perpetuare le divinità e le immagini impure dei pagani.
La lotta all’idolatria contava già una lunga serie di episodi drammatici anche nella storia del popolo giudaico: superstizione e magia costituirono il sottofondo delle più antiche religioni orientali, da cui dovette difendersi il popolo eletto. La proibizione tuttavia riguardò in maniera precisa solo le immagini di Jahvé e solo progressivamente l’avversione si generalizzò a tutte le immagini, senza peraltro essere accolta dalle comunità della diaspora, come prova appunto la decorazione della sinagoga di Dura Europos.
La domus di Dura Europos consiste in una piccola casa a un piano con un cortile, sul quale si affacciano alcune stanze: una sala che può contenere cinquanta-sessanta persone, nella quale era collocata la cattedra del vescovo, una seconda grande la metà, forse destinata ai catecumeni. Una di tali stanze aveva il soffitto decorato di stelle e una vasca sormontata da una volta a botte ugualmente decorata di stelle, mentre nella lunetta era il Buon Pastore con il gregge; su una parete restano tracce di una composizione con tre donne con una face che si avviano verso la casa.L’aula di culto di Dura non ebbe però decorazione figurata: certo nell’aula cultuale un’immagine figurata poteva risvegliare le tendenze dello spirito popolare all’idolatria e quindi fu più tenace l’opposizione a ornare le pareti di una chiesa che non un ipogeo o anche un battistero, dove scene e simboli figurati ebbero sempre il compito di illustrare al neofita, anche illetterato, i mezzi sacramentali della rigenerazione dell’anima.
LE CATACOMBE
I luoghi di culto dove si espresse il linguaggio simbolico paleocristiano furono dunque prima le catacombe e in seguito i battisteri e le basiliche.
In un primo tempo i cristiani erano tumulati in sepolcri pagani e solo più tardi, a partire dal II secolo, ebbero necropoli loro proprie, perché quelle pagane erano sacre agli dei e i cristiani usarono fin dall’inizio l’inumazione invece dell’incinerazione. La sepoltura avveniva fuori dalle città, quasi sempre ai margini delle vie consolari entro un raggio di tre miglia dalle cinta muraria. Nei primi due secoli i cimiteri cristiani avevano usufruito della tutela delle leggi funerarie e perciò la loro gestione avveniva in un clima per lo più pacifico. Ma nel 257, con le persecuzioni di Valeriano, furono vietate le pratiche funerarie e le visite alle tombe. Nel IV secolo, le catacombe persero il loro carattere di sepoltura e divennero luoghi di venerazione e solo più tardi furono del tutto abbandonate.
Le catacombe si presentano come una rete sotterranea di corridoi di varia larghezza e di tracciato irregolare. La direttrice verticale e orizzontale fu condizionata dal terreno e posta a conveniente distanza da falde freatiche e con banchi di tufo. Mediante una scala discendente di 7-8 metri, si poteva accedere ai cimiteri sotterranei e procedere orizzontalmente lungo la direttrice delle gallerie, che prendeva il nome di ambulacrum. Le pareti delle gallerie erano occupate da loculi, vani rettangolari chiusi con una lastra di marmo o da tegole, sulle quale erano tracciati nomi e parole dal significato nuovo, come vivas, "che tu possa vivere". Poi c’erano i cubicula, camere a pianta varia, che potevano contenere più sepolcri. Nei cubicula si trovavano spesso gli arcosolia, una forma più nobile di tomba, costituita da un’urna chiusa, solium, sormontata da un arco scavato nel tufo o costruito in muratura. Spesso si potevano trovare aperture imbutiformi, che raggiungendo la superficie erano in grado di far passare luce e aria.
Catacomba di San Callisto,
galleria
Cubicolo dell'Ipogeo di Via
Compagni, Roma
Nella lunetta dell'arcosolio la figurazione della Tellus
Nella lunetta dell'arcosolio la figurazione della Tellus
Catacomba di Callisto, III
secolo
Oltre al comune carattere di domus sia la necropoli pagana che il cimitero cristiano dimostrano l’esistenza di una corrente artistica popolareggiante.
Tra la fine del II e l’inizio del III, quando cioè si formano i nuclei iniziali dei cimiteri sotterranei, gli artefici che sanno tradurre in linguaggio cristiano i temi biblici e le scene rituali hanno personalità diverse; la scelta dei soggetti non è uniforme e soprattutto non è narrativa, poiché si fissa solo su taluni capi saldi concettuali, suggeriti probabilmente dal committente. In ogni caso, mediante elementi chiave sia generici (il pallio, il rotolo) sia appartenenti a singoli personaggi e scene (colomba di Noè, acqua del battesimo) si raggiunse lo scopo di far comprendere il senso dell’episodio o la ragione di una figura isolata anche agli analfabeti e a coloro che apprendevano non dalla diretta lettura dei testi sacri, ma dalla catechesi, cioè dall’istruzione prebattesimale, dal commento di vari passi, dalla lettura delle omelie.
IL LINGUAGGIO SIMBOLICO
All’inizio del III secolo Clemente d’Alessandria dà precetti sull’abbigliamento femminile e sugli anelli, sui quali raccomanda di incidere una colomba, un pesce, una nave, un’ancora, un pescatore. Si capisce che non si è ancora formato un repertorio figurato, ma anche che i cristiani, come tutti gli antichi, ebbero grande amore per l’immagine simbolica. Nessuna frase verbale può rendere la sostanza di un dogma o il mistero di un sacramento: il simbolo, invece, ha la capacità, la concisione e la duttilità per assumere il senso di un intero discorso, cogliere la sostanza delle cose, farsi intendere dall’osservatore e, soprattutto, fissarsi nella mente ripetendo lo stesso messaggio ogni volta che, come un moderno slogan, cade sotto gli occhi di chi lo sa interpretare.
La gran parte dei simboli non furono, nella loro espressione grafica, creazione dei cristiani. Portati da culture diverse, ma diffusi ovunque per il loro valore universale, essi persistettero nell’arte cristiana talvolta con lo stesso significato, oppure si arricchirono di contenuto nuovo mediante complementi che prima non avevano. Alcuni di essi, infine, come i cristogrammi, si diffusero talmente tra il popolo minuto da assumere significati lontani da quello originario, specie nelle sopravvivenze di superstizioni.
Insieme agli ideogrammi compare il pesce, già presente in tradizioni preromane sia in scene di genere e insegne che con significati cabalistici e religiosi. Le lettere del termine greco compongono le iniziali di una frase (Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore) che un anonimo autore greco del II secolo pose in acrostico per 34 versi di un poemetto a carattere escatologico. Tertulliano identifica il pesce direttamente con Cristo in un passo del suo De baptismo.
Varianti comuni sono il pastore, ora imberbe ora barbato, a volte calvo, che munge, vigila con il bastone rustico, carezza il cane: queste alludono indirettamente al Cristo e più all'ambiente paradisiaco in cui sarà accolta l'anima. L'asino selvatico e il maiale, simboli demoniaci, sono tenuti lontani dal bastone del pastore. Raramente compare Orfeo tra le pecore o con la siringa, come pacificatore di anime e domatore di uomini: la possibile confusione con la divinità pagana non permise una grande diffusione. |
Catacomba di Pretestato, Roma.
Pastore che allontana un asino e un maiale dal gregge.
Pastore che allontana un asino e un maiale dal gregge.
Il più antico simbolo cristiano dell’anima è l’orante, per lo più figura femminile adulta, ma anche maschile o adolescente. Già presso i pagani la figura expansibus manibus, che personificava la pietas, indicava colui che prega o invoca soccorso; notando però accanto a lei gli alberi del paradiso, o le casse e i volumi segno della dottrina o gli apostoli acclamanti, dobbiamo dedurre che nel cristianesimo essa allude alla salvezza avvenuta. Del resto in seguito anche la Vergine e i santi presero lo stesso atteggiamento di preghiera che è comunicazione con Dio.
"Cubicolo della Velatio", catacombe di Priscilla a
Roma.
Donna velata orante.
La caducità terrena, la brevità della vita, il disfacimento fisico angustiarono sempre l’uomo. Il cristianesimo capovolge questa disperante prospettiva aprendo il cielo a una vita immortale e a una divina felicità per coloro che avessero fatto della vita un’attesa obbediente alle leggi del Signore. La mutata atmosfera si riflette nella metamorfosi di immagini pagane che, pur serbando il loro senso generico, si colorano di fiducia e di serenità. Così le stagioni perdono il carico amaro di ineluttabilità del destino della vita terrena per divenire simbolo dell’eternità della vita oltre la morte, del superamento dell’autunno e dell’inverno per la primavera e l’estate del soggiorno celeste. Così la fenice, col nimbo raggiato e a volte lambita dalle fiamme, risorgendo dalle sue ceneri, allude alla resurrezione dei morti; ne parlano Clemente e Tertulliano, che nel De anima, come pure Agostino nel De civitate dei, descrivono il pavone dalla carne incorruttibile che, secondo la credenza degli antichi, riassumendo in primavera lo splendore dei suoi colori, rievoca l’immortalità dell’uomo e la resurrezione.
Nella decorazione pittorica e scultorea del III secolo è preminente l’intento simbolico di esprimere in particolare due idee: la potenza soterica di Dio e il dono della vera dottrina. Le figure bibliche, Noè, Isacco, Lot, Mosè, Daniele, sono paradigmi dell’opera divina. Anche Giona, ricordato come colui che per primo portò il messaggio di salvazione ai gentili, è simbolo dell’intervento di Dio sulla terra.
Dopo la pace religiosa un’atmosfera trionfale pervade le comunità. La Chiesa dei martiri, non più al bando come fattore di eversione, diventa il nerbo dell’impero e i suoi vescovi dignitari dello Stato; il vescovo di Roma assume privilegi imperiali, quali la genuflessione, il bacio al piede, l’anello. L’arte, anch’essa pervasa da uno spirito nuovo che avvicina il regno di Dio al potere imperiale, l’aula di culto alla reggia del sovrano, non si limita più ai concetti escatologici del Salvatore e dell’anima salvata, alla celebrazione della dottrina e del Docente, all’esaltazione della vera filosofia e del Filosofo divino: nuove scene irrompono nella decorazione degli edifici di culto, nel repertorio dei sarcofagi e sulle pareti delle catacombe; temi antichi si evolvono, assumendo spesso dimensioni e solennità consone allo sviluppo del pensiero teologico. Già verso il 300 il Maestro compare giovane e bello come in un’aula di corte tra i suoi apostoli, dignitari regali.
Da quel momento l’iconografia si sforza di celebrare le tappe della vittoria del re divino, raffigurando i fatti storici che ne preannunciarono l’avvento nel Vecchio Testamento, i miracoli che furono gli argomenti della sua discendenza dal Padre, gli atti di misericordia che testimoniarono la sua giustizia e benevolenza, gli episodi della passione che contrassegnarono il trionfo, la croce, come evocazione del Golgota e trofeo di gloria dell’imperator e, infine, il Cristo custode della legge e legislatore nella corte celeste sul trono del suo magistero, collocato sulla volta del cielo e sul globo terrestre, cui acclamano o rendono omaggio gli apostoli con le mani velate, tra i quali Pietro e Paolo assumono il posto di corifei, e i defunti genuflessi ai suoi piedi.
In questa tematica glorificante il linguaggio simbolico si frammenta, perde a volte lo stretto nesso logico tra scena e scena che traspariva dai contesti del III secolo. Non mancano, beninteso, in questo periodo, opere di raffinata esecuzione e di coerente contesto allegorico, come ad esempio il sarcofago di Giunio Basso al Vaticano, ma in altre l’intento decorativo con le sue rigide leggi di ritmo e di rapporti tra spazio e volumi prevale sull’organicità dei nessi simbolici.
Sarcofago di Giunio Basso,
Vaticano, IV secolo
Tra il IV e V secolo comincia a farsi strada la convinzione che il regno di Dio non è di questo mondo; per conseguenza l'arte si stacca progressivamente dalle corrente popolare da cui era scaturita, per ancorarsi a spazi senza limiti e a racconti ormai privi d'ogni nozione di tempo. Allora il linguaggio simbolico assume un carattere particolare e complesso, sempre più lontano da quello del popolo, sovraccarico di apporti teologici aggiuntisi al sostrato della tradizione apocalittica. Lungo la strada percorsa dai semplici e più antichi paradigmi fino all'immissione di scene relative al culto dei martiri e della Vergine, il simbolismo si fa via via artificioso ed elaborato, perdendo molto della carica emotiva e dell'efficacia che aveva alle sue origini.
Se tra il IV e il V secolo si assiste, come si è detto, al progressivo abbandono delle catacombe, è in questo stesso periodo che sorgono i due principali edifici del culto cristiano, il Battistero e la Basilica che, nelle piante, negli alzati e soprattutto nella decorazione, continuano, ampliandola e rinnovandola, la tradizione del linguaggio simbolico.
Fonte :
http://www.cortonagiovani.it/progettididattici/simboli/prima.htm
Il linguaggio
simbolico nell'arte cristiana . Dalle origini al VI secolo .
Progetto a.s. 2002-2003
Coordinatore Prof.ssa Maria Cristina Ricciardo
Coordinatore Prof.ssa Maria Cristina Ricciardo
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