LA LITURGIA “FORMA” LA COMUNITÀ
a cura della Diocesi di Mantova
Vescovo Marco Busca
«La liturgia è scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, luogo educativo e rivelativo in cui la fede prende forma e viene trasmessa» (CEI, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, n.39)
Finché Cristo sia formato in voi
Diocesi di Mantova - Biennio Form-attivo 2023-2025
FORMATI ALLA LITURGIA PER ESSERE FORMATI DALLA LITURGIA
Papa Francesco nella lettera apostolica Desiderio desideravi (DD) ha posto all’attenzione della Chiesa universale il tema urgente della formazione liturgica. Afferma che, senza formazione liturgica, le riforme nel rito e nel testo non aiutano molto.
Delinea due aspetti: «la formazione alla Liturgia e la formazione dalla Liturgia. Il primo è funzionale al secondo che è essenziale» (n. 34). È la liturgia che imprime la forma “cristiana” perché fa incontrare con Cristo che comunica a noi le sue relazioni personali: filiale con il Padre, fraterna con ogni uomo e donna, sacerdotale con il cosmo.
Fondamentale è cogliere la liturgia cristiana non come culto esteriore programmato secondo le regole di un cerimoniale, ma come l’incontro con il mistero di Cristo che si manifesta nel suo corpo ecclesiale mediante un agire rituale coerente con la nostra costituzione corporea (corpo fisico, cosmico, sociale) e con la logica dell’incarnazione che Dio ha assunto per incontrarci e rendere accessibile all’uomo la sua vita divina:
La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo (DD n. 19).
Se la liturgia, e specialmente i sacramenti, sono le porte di accesso al mondo di Dio, occorre all’uomo fare i passi per avvicinarsi con consapevolezza e libertà al dono divino che gli è offerto. Dunque, essere iniziati alla liturgia è l’azione formativa che attiva nei celebranti il desiderio relazionale, la conoscenza dei significati, la competenza dei linguaggi per entrare in comunione con Dio (cfr. DD n. 31.40.47).
Non è un caso se all’interno del cammino sinodale della Chiesa italiana, la Sintesi nazionale della fase diocesana ci consegni come: di fronte a “liturgie smorte” o ridotte a spettacolo, si avverte l’esigenza di ridare alla liturgia sobrietà e decoro per riscoprirne tutta la bellezza e viverla come mistagogia, educazione all’incontro con il mistero della salvezza che tocca in profondità le nostre vite, e come azione di tutto il Popolo di Dio. In tal senso risulta urgente un aggiornamento del registro linguistico e gestuale.
La forma della liturgia dipende ancora troppo dai ministri? Gli “attori” della liturgia (chi la presiede, chi interviene per il canto, la proclamazione, il servizio liturgico…) incidono certamente sulla forma delle nostre liturgie e loro per primi vanno formati in modo da assumere nel rito “forme” consone alla “sacramentalità” ovvero funzionali all’apparire del Signore di cui sono segno e strumento ciascuno secondo l’indole del ministero ricevuto. Liturgie mute e sciatte e altre che sembrano spettacoli televisivi ci interrogano riguardo a un celebrare “a regola d’arte” che sia epifania della Chiesa, corpo di Cristo. Anche a motivo del clima culturale, negli ultimi decenni, la liturgia si è sovraccaricata di “espressionismo” più che di espressione, più di pressione a partecipare che di partecipazione collaborativa per condurre al cuore del mistero che si celebra.
La liturgia può trasformarsi in un luogo di espressione “senza limiti” delle nostre emozioni, sentimenti, gusti personali, inserendo artificiosamente aggiunte inopportune: interventi, segni, canti che possono opacizzare piuttosto che rivelare il mistero di Dio che vuole farsi vicino. «Ma siamo noi che dobbiamo dire al mistero come rivelarsi, siamo noi che dobbiamo “trasformare” la liturgia, oppure dobbiamo lasciarle spazio, lasciarci trasfigurare dal Cristo in essa presente? Non siamo noi gli autori della liturgia, ne siamo forse gli “attori”, ma non i protagonisti» (E. Massimi).
Lo scopo di una formazione alla liturgia è quello di ricordare che la liturgia è un’azione simbolico rituale, composta di una molteplicità di linguaggi verbali e non verbali (prossemico, temporale, personale e sociale, musicale, tattile, ottico, iconico, olfattivo, gustativo, cinetico…).
La liturgia non è in primis una spiegazione, ma un’azione: corporea, sensoriale, integrale, comunitaria, simbolica. Suo scopo non è portarci davanti a un concetto su Dio, ma portarci alla sua presenza e metterci in comunione1. La formazione alla liturgia si propone di educare ai diversi linguaggi del rito. Dice in proposito Sacrosanctum Concilium al n. 34: I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni. La liturgia, infatti, anche se in una chiesa modesta, con patena, calice e vesti semplici, con i canti ordinari, può essere ben celebrata, se ogni elemento è ordinato in modo dignitoso e armonico.
Concentrarci nel prossimo anno sulla formazione liturgica non significa individuare un tema dell’anno, ma dare più attenzione a una delle costanti della pedagogia ecclesiale che è formare all’arte del celebrare: Il celebrare con arte consiste, anzitutto, nel mettere in buon ordine gli elementi visibili, udibili, toccabili, gustabili, odorabili che costituiscono la celebrazione e permettono all’invisibile della fede e della grazia di essere manifestato. L’arte del celebrare consisterà nel mettere in buon ordine gli spostamenti, gli atteggiamenti e le posture, le parole e i gesti, le letture e i canti; e ancora nella capacità di intervenire nei tempi e negli spazi adeguati, nel tono giusto della comunicazione, in una buona coerenza con ciò che precede e ciò che segue, in una buona corrispondenza tra ciò che viene fatto e ciò che viene detto2.
Non pensiamo che questi accorgimenti per il funzionamento ordinato e armonico del rito siano qualcosa di estetico o formale; nella liturgia tutto – anche i particolari – sono importanti: imprimono e esprimono “forme”.
Anzitutto, perché nel rito cristiano c’è l’azione diretta del Cristo pasquale che opera attraverso il suo Spirito, ma anche perché il rito è un agire performativo (fa ciò che dice) e perciò trasformativo dei soggetti celebranti3. «La liturgia è un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti»4.
La “nobile bellezza” (SC 122) non è solo un’esigenza estetica di armonia; risponde al carattere epifanico della liturgia che manifesta la Chiesa come esperienza di pace e di carità (1Cor 13-14). Scrivendo alla comunità di Corinto a proposito della liturgia, Paolo invita a fare tutto «con ordine e moderazione» (1Cor 14,26), «per l’edificazione della Chiesa», non facendo nulla fuori dello schema della carità, con spirito e intelligenza, perché «il nostro non è un Dio di disordine, ma di pace» (1Cor 14,33).
Nella liturgia l’ordine non è formale: è, anzitutto, ordine ecclesiale della carità e della comunione. Coordinare i linguaggi del rito è fondamentale non per il risultato scenico (“una bella Messa”) ma per l’efficacia simbolica. «Là dove un elemento non è coordinato, per eccesso o per difetto, quello che doveva essere una via, una finestra aperta verso il Mistero, di più: un modo di darsi dello stesso Mistero, diventa un bisticcio, un motivo di distrazione» (P. Tomatis).
Strumenti sulla pastorale liturgica in generale
Francesco, Lettera ap. Desiderio desideravi sulla formazione liturgica del Popolo di Dio, Roma 29 giugno 2022.
Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, nn. 38-42.
Centro di Pastorale liturgica Francese, Ars celebrandi, Qiqajon, Bose 2008.
A.M. Valli, “Animare” la liturgia? No, grazie. Meglio servirla, http://www.aldomariavalli.it/, 2017/05/07.
S. Maggiani, Competenze per celebrare o per fare teatro?, in « Rivista liturgica » 78(1986) 56-73.
COS’È LA LITURGIA CRISTIANA
Il culto rituale e il culto esistenziale
Un sintomo che viene sovente percepito è quello della distanza tra il rito e la vita. Una scollatura imputata a un linguaggio e a una simbologia arcaici, fuori sincrono rispetto alla cultura attuale, specie quella giovanile. Il problema riguarderebbe perciò l’apparato rituale, ritenuto difettoso. Nell’indicare tale criticità è però necessario interrogarsi previamente sulla terminologia, chiedendosi quale sia la “vita” a cui si fa riferimento: la quotidianità, l’umanità, il concreto? Ma è proprio questa “realtà” della vita umana ad essere chiamata a trasfigurarsi come “vita in Cristo” e comunione con Dio, che costituiscono la “realtà più reale”, il nucleo più autentico della vita umana che la liturgia plasma e trasforma.
Dobbiamo anche precisare cosa si intende quando parliamo di “rito”. Spesso, infatti, lo riduciamo a mera “cerimonia sacra”, mentre la tradizione della Chiesa ha visto nella leitourgia la comunicazione del dono della vita nuova che viene dalla Pasqua di Gesù.
La liturgia cristiana, nella sua fisiologia, comporta la continuità dei due momenti rituale ed esistenziale. Il rito cristiano supera sempre sé stesso e sporge sull’etica della comunità cioè genera la sua comunione, la diaconia, la testimonianza.
Il problema percepito della distanza e dell’alienazione della liturgia dalla vita, quindi, non risiede tanto nella liturgia cristiana, quanto nella sua manipolazione secondo un vecchio schema religioso, che ne fa una realtà sacra separata dalla vita umana: «La liturgia è confinata nel tempio, ma oltre il suo spazio sacro non ha impatto, non ha potere. Tutte le altre attività ecclesiali - in una parrocchia, in una diocesi, in una Chiesa locale - sono sempre più basate su presupposti e logiche puramente secolari, come lo sono le varie “filosofie di vita” adottate da chi si professa cristiano»5.
Come impostare una formazione della mentalità liturgica in grado di superare la dissociazione rito ed etica? Andare a Messa o fare del bene?
Nel cenacolo, come si dice solitamente, Gesù ha istituito l’Eucaristia. È più completo affermare che ha istituito la Chiesa (rappresentata dagli apostoli) come suo corpo, e a tale scopo (per formarla e edificarla) ha istituito una duplice memoria della sua Pasqua: la memoria del Pane vivo (Gv 6) e la memoria della lavanda dei piedi (Gv 13) indisgiungibili e affidate alla sinergia degli apostoli quali ministri della memoria ecclesiale di Gesù nei suoi segni.
Anche nell’arte cristiana le raffigurazioni del cenacolo non dissociano mai i due piani del rito e del servizio. La liturgia dà vita alla vita cristiana: permette di attingere alla carità filiale di Gesù che si offre al disegno redentore del Padre in nostro favore per poi servire i fratelli con la carità del Maestro. L’amore può essere comandato (“lavatevi i piedi gli uni gli altri”) solo perché prima è donato (“prendete questo è il mio corpo”, “vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi”).
Un testo paradigmatico della novità del culto cristiano è il celebre passo di Romani 12,1-2: 1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Culto “spirituale” è il culto logico (dal greco logikèn) che significa un culto secondo il Logos incarnato, conforme al culto filiale che Gesù ha reso al Padre nella sua condizione corporea, condividendo con Lui ogni istante e ogni espressione della sua umanità completamente dedicata all’opera per cui il Padre lo ha mandato (Gv 4,34).
La forma del culto di Gesù è una forma autenticamente umana (a differenza dei culti primitivi). L’offerta del suo corpo è il culto vero, autentico, logico, degno di Dio e dell’uomo. Il testo paolino insiste sulla unitarietà antropologica del culto cristiano. Il vero culto chiede l’unità tra corpo e ragione, tra corpo e mente, tra corpo e spirito. Il termine ‘corpo’ non è da intendersi soltanto nel suo aspetto fisiologico o carnale. Corpo è tutta la persona umana colta nella sua condizione storica di vulnerabilità e di relazionalità con sé stessa, gli altri, il cosmo.
Il cristiano rende il culto (filiale) a Dio Padre con tutto ciò che è: con le sue qualità virtuose, ma anche con i suoi limiti e fragilità; con tutte le sue relazioni e dentro tutte le sue relazioni; con la sua mente, le sue parole, tutti i suoi desideri e intenzioni profonde; in ogni sua azione custodisce la memoria di essere figlio e tutto si trasforma in adorazione del Padre in spirito e verità (Gv 4,23-24).
I riti sono le mediazioni dell’incontro della Santa Trinità con l’umanità
Indugiamo un po’ su questi passaggi “fondamentali” che servono a riformulare il nostro “immaginario” sulla liturgia. Anche per chi va abitualmente a Messa fa bene riflettere sulle profondità del rito per evitare il ritualismo, il formalismo, il sacramentalismo spesso additati come i sintomi di una liturgia patologica. A questo punto ci è più chiara la portata reale del simbolismo liturgico che, purtroppo, ci appartiene poco6. Simbolo (synballo) è l’unione di due mondi, distinti ma non separati, quello di Dio e quello dell’uomo, il tempo e l’eternità che nella liturgia comunicano.
Una celebre risposta alla domanda su cosa sia la liturgia cristiana, va proprio in questa direzione: «è il cielo sulla terra»; in altre parole, è la comunicazione della vita del Signore Gesù morto e risorto che fa irruzione, qui e ora, dove i discepoli si radunano per celebrare la sua memoria ed entrare in comunione con lui.
Dunque, i problemi iniziano quando la liturgia è de-simbolizzata: tutto si appiattisce sulla superficie delle “cose” che si fanno nel rito (azioni e parole) e non si fa il passaggio dal livello sensibile a quello profondo del rito in cui, attraverso la mediazione dei segni, accade l’incontro della Santa Trinità con le persone umane radunate dalla comune fede in Gesù e dalla sete della comunione con il Padre.
La liturgia non è una cosa, ma un incontro di persone, la celebrazione è l’espressione di una relazione vissuta concretamente: la nostra relazione con Dio e con gli altri in Cristo attraverso lo Spirito. Lo Spirito Santo, quindi, è colui che rende possibile il culto cristiano. […] La liturgia cristiana, quindi, è un’icona vivente, composta fondamentalmente da persone, non da segni. È immagine peculiare, in quanto essa è umana, dinamica. Le sue componenti fondamentali sono persone e non cose, perché noi siamo parte costitutiva di essa. Non è qualcosa fuori di noi che noi contempliamo7.
Questo è il messaggio fondamentale dell’Icona della Trinità di Andrej Rublëv (1422, Galleria Tret’jakov di Mosca). Vi è dipinta la santa comunione delle tre persone divine che, dal loro interno (gli sguardi degli angeli), straripa nel dono del Figlio raffigurato al centro, tra il Padre e lo Spirito, come contenuto in un grande Calice a cui corrisponde la piccola coppa posta sulla mensa contenente l’agnello eucaristico.
Il sacrificio pasquale di Gesù offerto dal Padre all’umanità, grazie all’azione dello Spirito che ne continua la memoria, non è chiuso in un punto della storia ma è accessibile a tutte le generazioni.
L’uomo/umanità è il quarto commensale invitato al banchetto nuziale dell’Agnello. La comunione con la Santa Trinità è resa possibile nell’Eucaristia. I riti non sono segni vuoti che evocano Gesù alla maniera della commemorazione di un personaggio storico assente. La risurrezione non ha fatto evaporare Gesù fuori dalla storia. I riti cristiani (che sono una memoria e un simbolo “reali”) annullano le distanze e sono la mediazione che permette al Risorto di essere contemporaneo a tutti gli spazi e a tutti i tempi dell’uomo, facendosi presente nella liturgia con la sua offerta pasquale che rimane (per sempre e per tutti) la porta di accesso per il passaggio nell’eternità.
Al numero 7 della costituzione sulla Liturgia, si legge: «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche…È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza».
La liturgia interessa tutta la vita della Chiesa
Sempre nel documento conciliare Sacrosanctum Concilium (n. 10) viene riconosciuta la centralità della Liturgia in quanto è culmine e fonte di tutta l’azione ecclesiale: La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù [...]. Dalla liturgia, dunque, particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa (cfr. anche DD n. 37).
Una concezione riduttiva della liturgia cristiana che la interpreta come una sacra cerimonia a fianco della vita “reale” fatta di azioni concrete di carità e profezia della giustizia, non solo ha fatto perdere la centralità della celebrazione del mistero di Cristo, ma ha anche frammentato l’unitarietà della vita cristiana suddividendola in compartimenti stagni chiusi in sé stessi, percepiti come autosufficienti e autonomi rispetto al culto. Col risultato, ad esempio, di costruire un catechismo scolastico centrato sulle nozioni religiose e avulso dall’esperienza rituale.
Parimenti, dell’azione caritativa si sono sviluppati gli aspetti organizzativi mentre è andato sfumando il suo carattere saramentale: la carità di Cristo attinta all’altare fruttifica nel servizio reso al povero che è icona sacramentale di Gesù.
Alla scuola della liturgia recuperiamo una visione organica della vita cristiana in cui ogni attività è leitourghía, cioè manifestazione dell’unico corpo di Cristo che confessa la fede, prega, adora, annuncia, testimonia, serve, istruisce, consola, accompagna, educa, benedice, lavora… e tutto compie nel nome di Gesù e nell’epiclesi dello Spirito. Rimane insuperabile l’affermazione di Ireneo di Lione che vede nell’Eucaristia la «coppa della sintesi»8.
Come avremo modo di vedere, nella liturgia si compendia tutto: la creazione, la storia, il disegno di una costruzione sociale nuova, la chiesa domestica, il lavoro e l’economia, l’azione per la giustizia.
Nell’impostazione dei Tavoli insistiamo parecchio sulla “visione comune” dalla quale dipendono la concezione della Chiesa, l’azione pastorale, la strutturazione dei ruoli e degli organismi. Forse in modo inaspettato, ci viene detto che è a partire dalla liturgia (in quanto manifesta la Chiesa come sacramento del Regno) che possiamo recuperare un programma pastorale unitario. Scrive, infatti, papa Francesco nella Desiderio desideravi al n. 37:
La pastorale d’insieme, organica, integrata, più che essere il risultato di elaborati programmi è la conseguenza del porre al centro della vita della comunità la celebrazione eucaristica domenicale, fondamento della comunione. La comprensione teologica della Liturgia non permette in nessun modo di intendere queste parole come se tutto si riducesse all’aspetto cultuale. Una celebrazione che non evangelizza non è autentica, come non lo è un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita (cfr. 1Cor 13,1).
In conclusione: c’è cibo per tutti i tavoli del centro pastorale! Se immaginavamo una formazione liturgica riservata agli specialisti dei riti o finalizzata a riportare qualcuno a Messa, dobbiamo fare lo sforzo di riposizionare tutta l’azione pastorale perché su tutti i tavoli (cioè in ogni processo pastorale) il buon cibo offerto sia la Parola e la Liturgia. Questo non significa che tutti i tavoli nella stessa maniera e con gli stessi metodi dovranno esplicitare i contenuti dei sacramenti o fare liturgie.
Cadremmo ancora in forme riduttive percepite peraltro con pochissimo interesse o insofferenza soprattutto dagli interlocutori di alcuni tavoli, penso a quello del bene comune o della famiglia. Si tratta, piuttosto, come operatori pastorali di crescere nella consapevolezza che nessuna vostra azione pastorale è liturgica anche se è più o meno prossima al culto rituale. Tutte le azioni poste in essere dalla nostra missione di accompagnamento precedono e conseguono al culto rituale e sono ad esso orientate perché lo scopo della missione è invitare tutti alla mensa del Regno. Ogni azione pastorale è da leggere in ottica di processo iniziatico (graduale e organico) che ha il suo apice nell’Eucaristia sacramento del Regno.
Anche se non fa riferimenti espliciti al culto (preghiere o gesti rituali), in sé stessa, ogni azione pastorale è già liturgia (culto e adorazione) perché risveglia nei destinatari la relazione (filiale-battesimale) con Dio e un senso di appartenenza (più o meno consapevole) alla Chiesa che si manifesta nelle azioni missionarie interpretate dai tavoli.
Il triangolo della fede ecclesiale
«L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito:
annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria),
celebrazione dei Sacramenti (leiturgia),
servizio della carità (diakonia).
Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro»
(BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 25).
La narrazione lucana dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) ha una matrice liturgica perché risponde alla domanda della seconda generazione cristiana che non è testimone oculare di Gesù risorto e si interroga su come sia possibile riconoscerlo e incontrarlo ancora nella storia dopo la sua Ascensione. I discepoli accedono all’incontro con il Risorto, che è vivo al loro fianco, presente in persona, grazie ad una esperienza di riconoscimento (la fede pasquale) che implica di rinunciare alla pretesa di un contatto fisico (vedere, toccare, il corpo storico di Gesù) per accedere a una nuova possibilità di relazione con il Cristo risorto che vive simultaneamente alla destra del Padre e “in mezzo” alla comunità dei credenti che, ora, sono il suo corpo in terra. Appare loro nella mediazione della Parola, del Pane spezzato, della comunità radunata. Il ben-essere della fede pasquale dipende dalla coerenza e dalla proporzione con cui si mettono in atto i processi di rielaborazione della Parola e del Sacramento che sfociano nell’etica comunitaria. Un’esperienza di fede che poggia solo su un piede del tripode sarà difettosa. L’insistenza unilaterale sulla Parola porta al biblicismo, a letture fondamentaliste o erudite della Scrittura che non generano fede. Solo nel suo rapporto con la Liturgia, la Scrittura diventa Parola viva per l’oggi di un’assemblea radunata per il culto e la confessione della fede. Ma la Liturgia staccata dalla Scrittura rischia di scadere a ritualismo o devozionismo.
Il rito, per essere cristiano, ha bisogno di essere continuamente evangelizzato come conferma la scelta della riforma liturgica di inserire in ogni rito l’annuncio della Parola che suscita la fede e permette di riconoscere il Signore Gesù nei suoi segni. I primi due lati del triangolo della fede ecclesiale comportano, poi, un rapporto originario con l’ethos della comunità. Una prassi cristiana di assistenza alle fragilità e di difesa dei diritti umani che non sia “in-formata” dalla Parola e dal Sacramento perde la sua qualità di testimonianza del Regno.
Ogni progetto form-attivo della comunità cristiana deve misurarsi sul triangolo della fede e interrogarsi sulle precedenze, sulle connessioni e sulle proporzioni dei tre lati della mediazione ecclesiale. Precisiamo che nell’esperienza dei singoli molte cose sono interscambiabili: c’è chi partecipando a un rito (es. un funerale) risveglia interrogativi sulla fede, c’è chi recupera una domanda evangelica grazie a un servizio di volontariato, c’è chi interroga la Bibbia per lasciarsi interrogare sulla sua fede. Comunque si parta, nell’esperienza della fede, se è autentica, su recuperano prima o dopo anche gli altri lati del triangolo. Trasferendo il discorso dalle singole persone alla pastorale in generale, ci chiediamo se esiste un punto di partenza privilegiato in considerazione dell’attuale contesto esistenziale e culturale in cui viviamo.
Il primato dell’evangelizzazione
La risposta ci viene fornita, ormai da decenni, dai documenti ecclesiali che parlano di nuova evangelizzazione, nuovo annuncio, secondo annuncio per i ricomincianti, cioè i battezzati che risvegliano il dono della fede ricevuta un tempo ma poi “dormiente”. In un sinodo sull’Europa si è usata un’espressione efficace che, in parte, fotografa l’attuale panorama del cattolicesimo: mentre la Chiesa antica aveva deciso di battezzare i convertiti, la Chiesa di oggi si trova a convertire i battezzati. La precedenza è, dunque, per il lato “Scrittura” che comprende tutte le forme di annuncio, privilegiando però il kerigma alla catechesi vista la condizione di “principianti” in cui versa la larga maggioranza dei cattolici “anomali” che non si sentono del tutto cristiani, ma neppure atei o pagani. Gli operatori pastorali oggi devono essere consapevoli di questo e più preparati nelle forme (stili, metodi, approcci) di annuncio kerigmatico.
Più che della catechesi (educare alla fede) per la coltivazione della fede, oggi c’è bisogno di primo annuncio cioè della semina della Parola. È tale semina a mancare in buona parte della nostra pastorale ordinaria. Ma nei nostri contesti la fede non va più presupposta, deve essere proposta. Prima di educare alla fede, bisogna suscitarla e la fede viene suscitata dall’annuncio della Parola: «La fede dipende dunque dall’udire la predicazione, ma questa a sua volta, dalla Parola di Cristo» (Rm 10,17). Ogni volta che gli operatori di un Tavolo s’interfacciano per parlare di bene comune, famiglia, educazione, cura…c’è sempre un profilo kerigmatico che passa, tanto nel modo in cui la Chiesa si auto-presenta quanto nell’annuncio, più o meno esplicito, dell’Evangelo che in ogni occasione ci è possibile fare.
La pedagogia dell’iniziazione
Rispetto alla pastorale di conservazione in cui la trasmissione della fede (o quanto meno una identità cristiana in generale) era presupposta dall’ambiente domestico e sociale, la pastorale odierna recupera la consapevolezza che il cristianesimo non caratterizza l’attuale cultura e che occorrono nuovi dispositivi iniziatici alla fede tanto per l’età evolutiva che per gli adulti.
Il cristianesimo di oggi è figlio (o nipote) di quello di un tempo cronologicamente vicino, ma culturalmente ormai lontano, in cui l’azione fondamentale della Chiesa era sacramentalizzare. La “pratica” rituale era sintomo del benessere della fede del popolo. La cura d’anime era tesa a conservare in “stato di grazia”: Messa e Confessione. La fede era presupposta, la morale pubblica aveva nella Chiesa un garante di istruzione e controllo.
Siamo ancora – solo in parte – figli di quel modello pastorale perché c’è ancora una consistente richiesta di sacramenti e riti di passaggio. Qualcuno si lamenta di una chiesa erogatore di servizi ad uso e consumo di una religiosità fai-da-te centrata sulla soddisfazione di bisogni religiosi individuali o di pubblica utilità. Che fare, porre una “dogana ai sacramenti?”.
C’è chi vorrebbe risolvere con un aut aut il dilemma tra una Chiesa di popolo (“stazione di servizio”) o Chiesa di comunità per chi ha fatto la scelta della fede. Dovremo immaginare ancora per un certo periodo la coesistenza di più velocità pastorali con la consapevolezza che alcuni chiedono i sacramenti per sé stessi (alla maniera di riti civili o tradizionali) e altri desiderano i sacramenti perché vogliono la vita cristiana. Questo non toglie che la Chiesa faccia già un buon servizio quando propone e accompagna in una degna preparazione ai sacramenti a tutti i richiedenti (la formazione alla liturgia). Le nostre migliori risorse, tuttavia, investiamole soprattutto nella mistagogia (la formazione dalla liturgia).
Prima, però, è necessario renderci conto che dobbiamo uscire dal condizionamento del modello vecchio dei sacramenti “a pioggia” immaginando che questo sortisca (quasi in automatico) l’esperienza della fede. Dobbiamo fare i conti con una necessaria correzione del tiro. Normalmente agiamo così: i sacramenti a tutti, la Bibbia per gli specialisti che, in genere, sono una nicchia di cultori del testo biblico o di cercatori di spiritualità.
La tradizione ecclesiale (ricordiamo il triangolo della fede) ci ricorda che nella fisiologia della fede vale il contrario: la Parola e la carità sono per tutti, i sacramenti sono per i credenti! Attenzione a non equivocare il discorso in base a un “democraticismo” (equivalenza di diritti) frettolosamente confuso con l’ecclesiologia di comunione per cui, una volta affermato che nel popolo di Dio c’è pari dignità, sarebbe improprio e persino ingiusto “privare” alcuni di quello che Gesù ha offerto “per voi e per tutti”.
Secondo la logica iniziatica, invece, non va applicata una valutazione morale in base alla quale i cristiani (abitualmente) non “messalizzanti” sarebbero di “serie b” rispetto a chi “fa la comunione”. Si tratta, piuttosto, di rispettare la linea di progressione dell’esperienza di fede e nutrire ciascuno in base al cammino personale. Assodato che non si tratta di classificare i cristiani in base a una graduatoria di pratica religiosa, possiamo recuperare la sapienza pastorale della Chiesa antica che proteggeva gelosamente i sacramenti (specie l’Eucaristia) ripetendo con insistenza che le “cose sante sono riservate ai santi”, talvolta rifacendosi al monito evangelico di non dare le cose sante ai cani e non gettare le perle davanti ai porci perché – in quanto esseri non dotati di discernimento – «non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi» (Mt 7,6).
Soggiace l’idea che per riconoscere la presenza di Dio nei segni sacramentali occorre che gli occhi della fede siano aperti (dall’illuminazione battesimale) e che i partecipanti siano iniziati a distinguere il pane profano dal pane di Dio, cioè avvertano con profondità di fede i significati di ciò che si compie nei sacri riti. Per questo i santi misteri erano protetti dalla “disciplina dell’arcano”.
I cristiani non parlavano mai con i pagani dei loro riti e delle loro dottrine, non per una sorta di elitarismo escludente, ma per timore che agli occhi profani questi grandi tesori della fede potessero apparire come cose banali e sciocche, proprio perché giudicate in superficie. Bere del vino, mangiare del pane e affermare che questi sono segni del divino può suonare come ridicolo per una mente profana. I difetti di una mancata iniziazione sono ravvisabili, ad esempio, in alcune forme macchiettistiche di presentare i sacramenti negli spazi pubblicitari, ma anche nella superficialità con cui certi fedeli “si prendono l’ostia”, per usare la loro espressione.
Abitualmente, e non solo per chi va rieducato a partecipare alla liturgia, occorrerebbe dare più importanza alla “liturgia del sagrato” che ci fa fare il passaggio dalla strada alla chiesa. Spesso sottovalutiamo l’importanza delle soglie, dell’entrare gradualmente, dei passaggi dal culto quotidiano al culto rituale.
L’architettura stessa delle nostre chiese, lo spazio liturgico, dovrebbe segnare e accompagnare il nostro entrare nella celebrazione attraversando la soglia: Il portale sta tra l’esterno e l’interno; tra ciò che appartiene al mondo e ciò che è consacrato a Dio. E quando uno lo varca, il portale gli dice: «Lascia fuori quello che non appartiene all'interno, pensieri, desideri, preoccupazioni, curiosità, leggerezza. Tutto ciò che non è consacrato, lascialo fuori. Fatti puro, tu entri nel santuario» (R. Guardini).
PER L’AZIONE PASTORALE DEI TAVOLI
Riapprendiamo la capacità di iniziare e proporre processi iniziatici alla liturgia. Il tentativo di “animare” la Messa per renderla più comprensibile, più adatta a noi, più “umana”, più interessante non ha portato i frutti sperati perché muove da un equivoco di fondo: non si può iniziare alla Messa dentro la Messa; occorre recuperare alcune tappe propedeutiche all’arte del celebrare (perché, come, chi) che per loro natura stanno fuori e prima della Messa che rappresenta l’apice della fede matura del discepolo il quale accetta di fare Pasqua insieme al Maestro e desidera sedere alla mensa del suo sacrificio.
Non possiamo dare per presupposta la fede che invece va proposta, dunque si tratta di recuperare quelle tappe iniziatiche alla esperienza della fede e della preghiera (come dialogo e contatto con Gesù Vivo) nelle sue forme personali e comunitarie, a partire da celebrazioni al cui centro c’è l’annuncio della Parola e trova spazio tutta una serie di risonanze antropologiche (apprendere le posture corporee della preghiera, il silenzio, il canto, il linguaggio dei sensi, le parole e i diversi generi della preghiera: supplica, intercessione, lode, adorazione…).
Ci è chiesto, per una maggiore fedeltà alla tradizione catecumenale che la Chiesa patristica ha sperimentato e il concilio Vaticano II ha ripristinato (almeno idealmente), di non adottare come discriminante il criterio giuridico del precetto festivo del buon cristiano che non deve mancare alla Messa della Domenica.
In una logica catecumenale (applicabile per analogia ai già battezzati) sarà più fruttuosa una celebrazione pre-eucaristica per riattivare la fede di cristiani “anomali” (battezzati ma poco credenti, per nulla praticanti, in ricerca, dubbiosi, immaturi…) che devono riapprendere o imparare per la prima volta l’ABC della fede e familiarizzarsi alla competenza celebrativa con gradualità.
Questa consapevolezza pastorale ci deve far riflettere sull’utilità (e l’urgenza) di “creare” percorsi kerigmatici e insieme rituali “sostenibili” e appropriati ai livelli di partenza delle persone. Questo non significa sostituire la Messa (che è sempre l’apice della comunione con il Signore Gesù) con altre forme di ritualità; la Messa verrà sempre proposta per tutti i cristiani, ma siamo consapevoli che dai sessant’anni in giù sono assai pochi gli adulti, i giovaniadulti, i giovani, gli adolescenti e i bambini che vi partecipano se non alcune volte in un anno. E quando li incontriamo in qualche celebrazione eucaristica ci rendiamo conto che spesso rimangono muti e passivi perché mancano di iniziazione: non conoscono le risposte e le preghiere, i segni rituali che professano la fede, le posture del corpo convenienti ai momenti del rito. Semplicemente: risulterà noioso e costrittivo un rito nel quale non sei stato introdotto a capire come parteciparvi, a coglierne il senso, il ritmo, le armoniche dello spazio e del tempo, il senso comunitario.
Recuperiamo (con coraggio e prudenza) un’arte di iniziare all’esperienza della comunità che prega, dei suoi linguaggi e dei suoi riti, iniziando dalla ritualità spicciola e legata alla vita per elaborare sempre meglio una ritualità liturgica che si approssima a quella completa dell’Eucaristia.
Esempi trasversali per dare immaginazione:
La pastorale battesimale (in tutto l’arco dagli 0 ai 6 anni) è il luogo per una prima trasmissione dell’esperienza rituale, a partire dalla “sorpresa” dei genitori che sono i primi sacerdoti dei loro figli e imparano a benedirli ogni giorno (al risveglio, quando vanno al nido e a scuola, quando si coricano). Basta farlo con loro le prime volte, magari elaborando semplici strumenti perché imparino a memoria le parole essenziali della benedizione (“Il Signore ti benedica e di protegga” mentre tracciano il segno della croce sulla fronte).
Alla nascita di un bambino tutta la comunità può essere coinvolta mediante semplici forme rituali: il suono delle campane e un rito di felicitazione a cui si invitano i vicini di casa, i parenti e gli amici. I ministri istituiti o i facilitatori della Parola o i catechisti battesimali possono guidare una preghiera comunitaria di benvenuto e di ringraziamento per il nuovo nato.
La forma rituale domestica e comunitaria più sentita dalle famiglie è la benedizione dei figli da valorizzare come occasione di annuncio della fede sgombrando ogni equivoco perché non sembri magia. Nei primi anni di vita i bambini sono benedetti dalla comunità in alcune date significative dell’anno liturgico; è più efficace se oltre al ministro ordinato anche i genitori, i nonni e i fratelli sono invitati a compiere un gesto di benedizione sui piccoli.
Strumenti:
Francesco, Desiderio desideravi, n. 47.
Il catechismo della iniziazione cristiana dovrebbe essere più essenziale (anche quanto alle nozioni), più mistagogico e capace di far desiderare ai bambini/ragazzi l’incontro con Gesù nei sacramenti. Ripensare i sacramenti significa concepirli non come “cose da fare” ma tappe per essere introdotti nella vita cristiana-ecclesiale. I catechisti lamentano che i bambini non vanno a Messa però vanno a catechismo. Vanno aiutati a ricalcolare il loro compito di iniziatori. Il criterio non sarà quello di averli a Messa tutte le domeniche (desiderabile a tempo opportuno), ma di familiarizzarli all’esperienza del celebrare. Non significa che si devono spiegare le parti della Messa (anche), ma di costruire un percorso catechistico intrecciato alla liturgia (“mistagogico”: prende per mano e fa interiorizzare i contenuti della fede a partire dai riti vissuti). Talvolta sarà utile fare l’incontro di catechismo in chiesa e familiarizzare con gli spazi, gli oggetti, i gesti, i movimenti. I “contenuti” dell’annuncio trovano il loro riscontro nei riti della Messa: annunciare il perdono di Dio e dei fratelli a partire da un brano evangelico sarà l’occasione per invitare i ragazzi a conoscere e apprendere (anche a memoria) le preghiere dell’atto penitenziale (Confesso, Signore pietà…). Ripetizione e memorizzazione sono indispensabili per apprendere una capacità di celebrare partecipando e non solo assistendo. Merita maggiore investimento pastorale il servizio dei ministranti (chierichetti); se ben condotto, e non improvvisato o ridotto ai ruoli da svolgere, può rappresentare un’occasione iniziatica efficace.
Strumenti: - Progetto diocesano per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi della diocesi di Palermo a cura di Valeria Trapani
Il cantiere del progetto catechistico, giunto a qualche anno di sperimentazione, deve farsi carico della necessità di «uniformare» il percorso sacramentale di iniziazione cristiana in diocesi, anche per quanto concerne la scansione temporale dei percorsi catechistici e la celebrazione dei sacramenti di prima confessione, Messa di prima comunione all’Eucaristia, Confermazione. A quale età, dopo quali tappe? Il Tavolo della EE si è proposto di creare continuità ed ovviare a interruzioni sconvenienti nel percorso formativo. La proposta per gli adolescenti rappresenta non un inizio diverso, ma una nuova tappa per dare continuità al percorso “mistagogico” post-cresima in chiave di crescita vocazionale. Dagli stessi catechisti viene la richiesta di una formazione adeguata al loro compito di iniziare alla liturgia, che vada oltre la frustrazione dell’assenza o dell’abbandono della Messa. Si potrebbe supportare la formazione liturgica dei catechisti con laboratori specifici sulla prima confessione (contenuti, dinamiche, attenzioni celebrative), sulla prima comunione e sulla cresima.
La pastorale degli adolescenti e dei giovani potrebbe costruire un percorso di celebrazioni (mensili alla maniera di una serie di tappe verso il Giubileo) che accompagnano il cammino associativo o di gruppo, curando anche un “prima” e un “dopo” per provocarli a una interiorizzazione dei significati e delle esperienze rituali vissute. Fondamentale è riprendere la formazione sulla liturgia (in particolare sulla Messa) con educatori alla fede e capi Scout, ma a un livello di contenuto più profondo (non scontato) che aggiorni le poche nozioni del catechismo della prima comunione. È un’esigenza avvertita da loro stessi. Anche gli insegnanti di IRC potrebbero veicolare messaggi sulla ritualità come linguaggio universale presentando gli aspetti specifici dei riti cristiani.
Strumenti:
Giovani e liturgia dal Concilio a oggi, Note di Pastorale Giovanile, febbraio 2019. Elena Massimi, Il corpo custodito, curato e trasfigurato dalla liturgia, marzo 2022. Elena Massimi, la rubrica “Sale e Pepe nella liturgia”, Note di Pastorale Giovanile vari mesi del 2020. Christus vivit nn. 224.226
…possibilità di re-iniziare gli adulti attraverso percorsi liturgici:
• vedi la bozza del sussidio Spunti per il cammino catecumenale. Proposta in orizzonte missionario per una pastorale-liturgica per i catechisti in fase di costruzione da parte dell’equipe per il Catecumenato.
• la Confermazione degli adulti: non è il recupero della Cresima che manca (per fare altro: madrina/padrino, sposarsi…), ma un’occasione di ri-evangelizzazione.
• il Ministero dei padrini e delle madrine è in fase di ripensamento in seno alla Chiesa italiana. L’idea di fondo è di riscrivere e dare spessore a questa figura ministeriale di accompagnamento: non sponsor per un’ora, ma accompagnatori «scelti» di una vita (identità del padrino per battesimo e cresima per dare concretezza alla continuità effettiva di un rapporto). I tavoli interessati potrebbero immaginare qualche supporto agile e sostenibile per aiutare le UP in brevi percorsi con i padrini/madrine per renderli più consapevoli del ministero che accettano di svolgere.
• Ripresa kerigmatica/mistagogica della vita cristiana per i genitori della iniziazione cristiana (con attenzione all’intreccio tra responsabilità educativa dei genitori e risorse della fede), non tanto una catechesi parallela, ma un annuncio adatto al loro livello di adulti che li coinvolga a celebrare qualche tappa catecumenale dei ragazzi (memoria del battesimo, consegna del Vangelo, consegna del Padre nostro, presentazione alla comunità…). Anche in questo ambito, non si tratta di immaginare percorsi troppo elaborati e che incontrino l’adesione di tutti, ma di far assaporare a chi ci sta un incontro significativo con una Chiesa percepita accogliente, ospitale, alleata al loro compito educativo.
SUL FILO DEL RITO
Ho indugiato su questa prima parte in quanto necessaria a focalizzare lo specifico cristiano della ritualità che non si può né capire né vivere al di fuori dell’esperienza della fede pasquale e dalla comunità che la confessa e celebra la liturgia per formare uomini e donne “liturgici”.
La formazione liturgica non si può ridurre all’obiettivo di insegnare cos’è la Messa spiegando meglio le singole parti. Ho messo l’accento sulle premesse di una formazione liturgica in chiave iniziatica secondo una pedagogia che implica un graduale apprendistato rituale in stretto rapporto con la Parola, la comunità, le esperienze di fraternità e di servizio.
Nella seconda parte di questo sussidio ad uso degli operatori dei Tavoli pastorali ci proponiamo un esercizio concreto: seguendo lo svolgimento della Messa (senza forzature ma secondo la logica ecclesiale per cui dalla lex orandi derivano la lex credendi e la lex agendi) ricaviamo dai vari riti i punti di partenza dell’azione pastorale dei Tavoli e delle rispettive equipe. Leggendo queste pagine, noi stessi ci formiamo alla liturgia e ci lasciamo formare dalla liturgia per immaginare e discernere i percorsi generativi da proporre o accompagnare per vitalizzare le comunità/UP.
L’ordo liturgico
Se vi chiedessi qual è il momento più importante della Messa presumo mi rispondereste: la consacrazione. Non è sbagliato, ma dice ancora troppo poco. Riepilogo, per procedere con ordine: la Messa è il sacramento, cioè il rito che fa memoria della Pasqua di Gesù e ci mette in comunione con la Trinità e, in forza dello Spirito, tra noi.
La comunione sacramentale non è l’Ostia consacrata, è Gesù e noi. Il potere del rito è di farci compiere un viaggio di trasformazione in cui, nelle diverse tappe, siamo insieme “attivi”, per disporci all’incontro, e “passivi” per ricevere il dono dello Spirito e lasciarci trasformare nel corpo di Cristo.
La liturgia è azione; anche se siamo seduti nei banchi, in realtà, siamo in movimento. Passo dopo passo, la Messa è una sorta di processione che ci introduce nella vita del Risorto, nel Regno di Dio. Come ogni cammino, anche l’itinerario del rito è il susseguirsi ordinato dei passi da compiere, uno dopo l’altro, per giungere alla meta: il Regno. Ciascuna parte della liturgia è correlata e subordinata alle altre, ciascuna è necessaria all’insieme del rito, tutte sono indispensabili nella loro reciprocità. Compiendo pazientemente le tappe della celebrazione nel suo insieme organico si manifesta la vera natura dell’Eucaristia, come sacramento mediante il quale la Chiesa «diventa ciò che è», ovvero il corpo di Cristo.
Il significato ampio del memoriale eucaristico è quindi custodito dall’ordo, cioè dall’ordito del rito, dalla sua trama e struttura di fondo che comporta il susseguirsi dei vari riti dal segno inziale della croce fino al saluto finale “andate in pace”.
La vera domanda, allora, non è “cosa succede al pane e al vino durante la consacrazione”, ma che cosa succede a noi, cioè all’assemblea che si raduna in obbedienza al comando del Signore di fare memoria e celebrare questo insieme di riti che la trasformano nel corpo stesso di Cristo (cfr. 1Cor 10-11). Quindi, superando una concezione statica della “forza” sacramentale tutta concentrata nel momento consacratorio del pane e del vino, proviamo “a far espandere” la forza del sacramento sull’insieme della liturgia eucaristica e verifichiamo come ciascun rito contribuisce a dare forma dinamica alla Chiesa e alla sua missione.
Possiamo, dunque, parlare di:
- sacramento dell’assemblea;
- sacramento della Parola;
- sacramento dell’offerta;
- sacramento dell’epiclesi;
- sacramento della comunione.
Recuperiamo l’orizzonte ampio dell’Eucaristia che dà forma alla Chiesa nell’equilibrio dei tre corpi raffigurati nella miniatura armena (medievale) che abbiamo aggiornato e “mantovanizzato”. Nella cornice del cenacolo (culla della Chiesa) possiamo distinguere il corpo personale di Gesù (storico), il corpo sacramentale (il tavolo rotondo a forma di ostia) e il corpo ecclesiale (circolare quasi un contorno dell’ostia) in cui i discepoli formano un gruppo di simili a significare che l’unità di coloro che nutrendosi del corpo sacramentale diventano somiglianti a Gesù. Nell’icona “mantovanizzata” (in copertina) abbiamo preferito differenziare le figure dei discepoli in base al genere, alle vocazioni, ai carismi e ministeri per evidenziare che l’assemblea è inclusiva di categorie, età, ruoli, per evidenziare che l’Eucaristia realizza l’unità come “omogeneità” (tutti figli nel Figlio e fratelli nel Fratello) a condizione che tale unità consacri le differenze e le alterità (la pluralità delle figliolanze e delle fratellanze).
La convocazione dell’assemblea
Il primo atto della celebrazione è il movimento che fa passare dalla dispersione alla costituzione dell’assemblea. Essa è il primo segno della presenza di Cristo che si manifesta nel «riunirsi insieme nel medesimo luogo» (At 2,1). Contraddice la natura di “raduno dei molti nell’Uno”, tipica dell’Eucaristia, la moltiplicazione e frammentazione delle assemblee che risponde a logiche di comodità di tempo e di spazio, oltre alle comprensibili ragioni per valorizzare le comunità più piccole non lasciandole senza Messa. Prevale, tuttavia, il criterio che un’assemblea numericamente povera lo sarà facilmente anche dal punto di vista della qualità del canto, della preghiera, delle ministerialità. Dunque, è necessario che le UP si interroghino sul numero delle Messe (feriali e festive), sulla dignità e qualità celebrativa, sull’opportunità (specie nei giorni feriali con pochissima partecipazione) di privilegiare la liturgia della Parola o la liturgia delle Ore.
L’assemblea ha una struttura “organica”
Proprio a partire dalla liturgia, il concilio Vaticano II ha ripensato alla forma della Chiesa, meno clericale e più comunionale. Si è passati (almeno nella teologia) dalla Messa del prete all’Eucaristia della comunità. Sono due i modi di partecipare al sacerdozio: il sacerdozio battesimale e il sacerdozio ministeriale, entrambi articolati sull’unico sacerdozio di Cristo che, attraverso l’offerta della sua vita, realizza la missione di mediatore per riportarci in comunione con il Padre. Occorre educare a una maggiore consapevolezza che nella Messa «tutti celebrano, uno presiede», che non si “assiste” da spettatori alla Messa ma si è coinvolti con una partecipazione piena, attiva, consapevole, sentita.
L’assemblea è, dunque, pluriministeriale.
Come si diceva all’inizio, uno dei criteri dell’arte di celebrare è quello di “mettere ordine” e, in liturgia, significa “accordare”, verbo pieno di rinvii simbolici all’opera dello Spirito, “divino plettro” che suona le corde delle opere, dei carismi e dei ministeri ecclesiali. L’accordo rituale si precisa come accordo delle funzioni (radunare, incontrare, ascoltare, accompagnare, annunciare, predicare, incitare a cantare, comunicare un messaggio, esprimere un sentimento) e delle forme espressive, che non possono essere attribuite e concentrate solo su uno o pochi ministri.
Fondamentale è l’accordo sinergico dei vari ministeri: - - - - -
- Ministri lettori (proclamazione delle letture, preparazione della preghiera universale)
- Ministri accoliti (servizio all’altare, trasporto per favorire la partecipazione di anziani e malati, visita)
- Ministranti (servizio e iniziazione all’esperienza liturgica)
- Canto e musica (non fare dei canti nella liturgia, ma cantare LA liturgia sapendo scegliere i canti)
- Custodi del tempio, arte floreale, decoro, paramenti, libri e vasi sacri (cura della nobile bellezza)
- Servizio di accoglienza e convivialità (sviluppare una «liturgia del sagrato» prima e dopo la Messa). Siamo consapevoli che «la pluriministerialità è un fatto innegabile, irreversibile, impegnativo» (A. Borras).
Per l’azione pastorale: il gruppo liturgico
Nell’ottica dell’assemblea quale soggetto della celebrazione si comprende l’importanza della “regia” liturgica come esigenza richiesta dal rito stesso: senza preparazione attenta, c’è confusione e si moltiplicano inopportune istruzioni tecniche dentro il rito. Dovremo però precisare come si debba realizzare tale opera di regia perché sia coerente con l’azione liturgica e non si trasformi in una sorta di imposizione di idee, di gusti e devozioni personale da parte di alcuni (i killer liturgici), ma diventi lo strumento per garantire alla liturgia la forma bella del corpo ecclesiale ed eucaristico. Considerando che non poche UP sono guidate da un gruppo di presbiteri che si ruotano nella presidenza eucaristica, diventa ancora più forte l’esigenza di convenire” e “convergere” verso uno stile celebrativo comune, sufficientemente condiviso e persuasivo, per non favorire la personalizzazione della Messa da parte di chi la presiede. Pur nel rispetto delle sensibilità soggettive dei presidenti dell’assemblea, la responsabilità degli stili celebrativi compete alla comunità che può affidare al gruppo liturgico (parrocchiale o di UP) il compito di una regia sinodale delle celebrazioni, come prevedono peraltro le indicazioni offerte dall’Ordinamento generale del Messale Romano circa la preparazione pratica di ogni liturgia: La preparazione pratica di ogni celebrazione liturgica si faccia di comune e diligente intesa, secondo il Messale e gli altri libri liturgici, fra tutti coloro che sono interessati rispettivamente alla parte rituale, pastorale e musicale, sotto la direzione del rettore della chiesa e sentito anche il parere dei fedeli per quelle cose che li riguardano direttamente. Al sacerdote che presiede la celebrazione spetta però sempre il diritto di disporre ciò che a lui compete (n. 111). La comune e diligente intesa di cui si parla non teme di coinvolgere tutte le persone interessate ai diversi aspetti della celebrazione, senza escludere l’ascolto dei pareri dei fedeli stessi, per quelle cose che li riguardano direttamente. In questo programma, che pone tutti – a partire dal responsabile della comunità e dal singolo presidente – alla scuola della liturgia («secondo il Messale e gli altri libri liturgici»), si preannuncia uno stile liturgico sinodale, nel segno di quel reciproco servizio che rigetta ogni deriva autoritaria del potere. Dalla sua preparazione sino alla sua realizzazione, la celebrazione eucaristica appare in questa prospettiva come una “palestra sinodale”. Questo compito di corresponsabilità nell’impostare la vita liturgica comunitaria comporta una triplice attenzione per la quale il gruppo liturgico va formato:
- attenzione al progetto: esprime il senso profondo e lo scopo da raggiungere; riguarda il “perché” della celebrazione;
- attenzione al programma: esprime il “cosa” della celebrazione, il modo concreto con cui il progetto si realizza in una scaletta di cose da fare, o da poter fare;
- attenzione alla regia: esprime il “come” della celebrazione e riguarda tutte le attenzioni pratiche da avere nella singola celebrazione e nella singola assemblea.
Riti iniziali: l’atto penitenziale
Il valore di questo rito non è quello di una pausa per l’esame di coscienza. È piuttosto una memoria della dignità battesimale che viene ravvivata dalla confessione di essere membra di un’assemblea di peccatori-penitenti-perdonati che intercedono gli uni per gli altri invocando la remissione dei peccati, frutto del sacrificio eucaristico.
Esempi trasversali di processi in atto per una pastorale della conversione:
• Gruppo Metanoia e azioni per la giustizia riparativa (cappellania del Carcere)
• C’è dell’Oro nelle ferite (Eremo della Ghisiola)
• Percorsi di riconciliazione per Separati Divorziati in nuova unione
• Messe di consolazione e servizio per la liberazione (Santuario delle Grazie)
• Processi di «gestione» ecclesiale dei conflitti
• Riformare la celebrazione della confessione? Dei bambini… e non solo!
• Disponibilità nell’anno Giubilare a cammini di conversione e celebrazione della Riconciliazione anche comunitaria
La liturgia della Parola
Purtroppo la Bibbia è stata ridotta a “testo” d’informazione religiosa. Il suo carattere di “evento” (il fatto che Dio parli all’uomo è ancor più importante di ciò che gli dice) è custodito dalla liturgia: Cristo stesso «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7). La Scrittura non è mai così Parola di Dio come quando è proclamata nella liturgia. Purtroppo, un lento processo di separazione tra Parola e Sacramento ha prodotto una visione indebolita tanto della Scrittura quanto dei sacramenti (ricordiamoci il triangolo della fede). Sulla tavola eucaristica vengono, dunque, imbandite successivamente due mense e, secondo l’adagio dei padri della Chiesa, non può ricevere Cristo sotto le specie del Pane chi non l’ha ricevuto prima sotto le specie della Parola.
Per l’azione pastorale
Nella formazione dalla liturgia bisogna mettere più in risalto la sacramentalità della Parola (cfr. Verbum Domini n. 56) attraverso i gesti e le forme della proclamazione in cui si manifesta che la Parola viene «celebrata»: la processione introitale con un Evangeliario dignitoso/decorato posto in evidenza sull’altare, la proclamazione (anche cantata quando possibile e opportuno), la benedizione con l’Evangeliario dopo la proclamazione. Queste azioni ripetute (non solo nelle solennità ma ogni domenica) educano gradualmente l’assemblea a interiorizzare quanto dice il documento conciliare Dei Verbum, al numero 21: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella Liturgia di nutrirsi del pane della vita alla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo». Nella formazione alla liturgia occorre approfittare di ogni genere di riunione (dagli amministratori ai volontari Caritas) per educare alla centralità e alla presenza viva della Parola, partendo sempre con la proclamazione di qualche versetto e, secondo l’opportunità, evidenziando la sacramentalità delle Scritture anche ritualizzandone la collocazione (su un leggio, con un cero acceso).
Anche l’incontro di catechismo può prevedere abitualmente un rito intorno alla Bibbia prima di annunciarla/raccontarla, attraverso il quale gli stessi ragazzi sono “familiarizzati” a un atteggiamento credente verso la Parola (invocare lo Spirito, fare brevi risonanze, baciare il Vangelo, creare una custodia preziosa al loro libro dei Vangeli…).
L’apostolato biblico può favorire la preparazione alla/della liturgia della Parola domenicale e ai tempi liturgici in diversi modi:
- accompagnare i lettori in una formazione ai contenuti biblici da proclamare
- aiutare i facilitatori per i “gruppi del Vangelo” (alla lettura del ciclo domenicale o continua del vangelo dell’anno)
- aiutare i predicatori a preparare l’omelia sui testi dell’Anno Liturgico (e in chiave liturgica)
- facilitare i catechisti nella comprensione dei testi biblici da utilizzare nelle diverse tappe.
I ministri istituti (lettori e catechisti) preparano le orazioni della preghiera universale (dei fedeli) con agganci ai brani della Parola e ai fatti locali, coinvolgendo l’assemblea per proporle, facendo attenzione a circostanze e a giornate particolari (povero, migrante, vita, salute mentale, disabilità, famiglia, giovani, lavoro…). Questo rito (spesso indebolito dalla lettura frettolosa di intenzioni preconfezionate e complicate da seguire) è assai importante perché manifesta il carattere sacerdotale dell’assemblea. Specie il laico, lungo la settimana esprime il suo sacerdozio esistenziale feriale dedicandosi ai “mondi laici” per orientarli al Regno e la domenica esercita il suo sacerdozio rituale festivo con l’intercessione che presenta al Padre questi “mondi” affinché siano oggetto di benedizioni ed entrino nella consacrazione eucaristica. Le intenzioni non devono essere didascaliche, ma brevi e in forma di supplica (preferibilmente litanica) non di ringraziamento o altro.
La liturgia dell’offertorio
Il rito prevede una forte componente gestuale: preparare l’altare e poi portare, presentare, ricevere, sollevare, deporre sulla mensa il pane e il vino. Dal momento in cui entrano nel rito di offertorio, pane e vino non sono più soltanto prodotti naturali e vengono chiamati «doni» o «oblate». «È bene che i fedeli presentino il pane e il vino» (OGMR, 73). Fino a quel momento l’altare è vuoto e l’offerta viene dal cuore dell’assemblea. La liturgia funziona per segni visibili. Nessun gesto è meramente tecnico, ma espressivo del significato teologico corrispondente; in questo caso si tratta dell’esercizio stesso del sacerdozio regale dei battezzati. Correggiamo, perciò, l’abitudine sbagliata di tenere le offerte sulla credenza accanto all’altare o di metterle in anticipo sull’altare (per un’esigenza pratica del celebrante). Così si perde tutta la dimensione simbolica della partecipazione dell’assemblea al sacrificio di Cristo e l’equilibrio con il ministero del presidente che ripresenta Cristo mediatore nell’atto di presentare sé stesso in sacrificio al Padre.
Merita maggiore solennità il gesto nobile delle braccia offerenti dei fedeli che presentano pane e vino, salendo processionalmente dalla navata in direzione dell’altare e manifestando che il pane è frutto della terra e del lavoro dell’uomo (nell’originale latino operis manuum hominum: opera delle mani dell’uomo). Le braccia offerenti rispecchiano l’identità profonda dell’uomo che non è il consumatore ma il sacerdote della terra. La liturgia, assumendo la materia cosmica non “nuda”, ma lavorata dalla cultura umana, è strettamente imparentata all’ecologia integrale. Esprime nel suo linguaggio sintetico e simbolico una teologia della creazione e una teologia del lavoro in stretta correlazione alla festa.
La liturgia non si aggiunge alla creazione, ma ne svela il senso ultimo. Il primo chicco di grano comparso sulla terra era già creato in previsione del sacrificio di Cristo e dell’Eucaristia.
La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce… È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre (DD 42).
Nell’Eucaristia il creato trova la sua maggiore elevazione…è il centro vitale dell’universo…è un atto di amore cosmico…unisce il cielo e la terra…il mondo ritorna a Dio in gioiosa e piena adorazione” (LS 236).
Manifestando le cose create come veicoli dello Spirito, canali di grazia, la liturgia ci offre uno sguardo nuovo sulla creazione che corregge la smania smisurata di appropriazione delle cose secondo la logica acquisitiva del consumismo e del pensiero economico che lo alimenta. La liturgia favorisce una educazione ecologica che si profila innanzitutto come educazione simbolico-sacramentale a uno sguardo contemplativo (in una cosa ne vedi un’altra più profonda) non superficiale, ma rispettoso e grato (DD 46) che salvaguarda da un depauperamento irreversibile del tessuto materiale del vivere, ma anche da un impoverimento del percorso esistenziale dell’homo sapiens, tecnologicus, oeconomicus, soprattutto adorans. I percorsi di educazione ecologica, accennati nella LS, possono agganciarsi alla liturgia intesa come ricerca di una forma di saggezza del vivere con sobrietà (LS 222: godere con poco), nella condivisione universale e fraterna dei beni (LS 228), nella salvaguardia della biodiversità (è il senso della benedizione della campagna, dei raccolti, degli ambienti naturali).
La dignità regale dell’uomo-cristiano si manifesta nelle diverse attività professionali con cui realizza il suo essere immagine del Creatore posto nel Giardino per custodirlo (salvaguardia) e coltivarlo (sviluppo sostenibile e coerente con il disegno creaturale). L’uomo è creato co-creatore e il suo lavoro è al contempo labor, ars, opus Dei (Regola di s. Benedetto), fatica, genialità, culto. La radice della parola cultura (arte e artigianato) deriva da cultus. L’uso antico del “pane comune” per la Messa rappresentava una forte irruzione del quotidiano nell’Eucaristia. Incluso il pane delle lacrime. Molto lavoro, infatti, non arriva all’altare perché mal retribuito, insicuro, con sfruttamento minorile, iniquo…C’è anche il pane dell’amarezza da “redimere”: per il Giovedì Santo in Coena Domini potremmo usare per tutta la Diocesi le ostie prodotte dai carcerati.
É urgente oggi ritrovare i ritmi di armonizzazione lavoro e famiglia, i tempi di impegno e i tempi di riposo. La liturgia coi suoi ritmi festivi veicola una visione del lavoro e della festa capace di riequilibrare l’idolatria dell’efficienza e del tempo produttivo per recuperare esperienze antropologiche fondamentali quali la gratuità, la leggerezza, la bellezza delle relazioni, il godimento della natura, la rigenerazione delle motivazioni e delle energie, la salvaguardia del suolo destinato a aree verdi.
Per l’azione pastorale
Il mese del creato (settembre) offre l’opportunità per riti e gesti di benedizione che andrebbero incentivati anche in ragione della vocazione naturale del nostro territorio e delle sue attività produttive. Gli eventi (anche in ambienti più “laici”) promossi dal Tavolo del Bene 19 comune in collaborazione con le Comunità Laudato sì e le associazioni ambientaliste possono prevedere la lettura di un testo (sapienziale o religioso) in cui si recupera la visione “sacra” del creato e la sua anima vivente. Anche le benedizioni annuali della campagna e delle stalle (Sant’Antonio), le processioni in occasione di alcuni patroni, le Messe celebrate nei luoghi di lavoro (1 maggio) rappresentano una risorsa liturgica evangelizzatrice perché con il linguaggio tipico dei riti si veicolano molti messaggi di ecologia integrale.
Preghiera eucaristica
È detta anche “anafora” che significa elevare verso l’alto, non a caso inizia con il dialogo invitatoriale: “In alto i nostri cuori” – “sono rivolti al Signore” e termina con la dossologia: “Per Cristo, con Cristo, in Cristo a te Padre…” accompagnata dal gesto di elevare verso l’alto i doni consacrati. Il viaggio eucaristico verso il Regno è giunto all’apice: unita al sacrificio che il Figlio incessantemente offre per la gloria del Padre, la Chiesa prende anch’essa la forma di “corpo offerto”.
La preghiera eucaristica è formata da due fuochi: la prima parte (anamnesi) si concentra sul racconto istituzionale riprendendo le parole e i gesti di Gesù sul pane e sul vino; la seconda parte (epiclesi) invoca lo Spirito Santo affinché, dopo aver trasformato le offerte, scenda a trasformare l’assemblea che nutrendosi del corpo e sangue di Gesù riceve la pienezza dello Spirito Santo e diventa, in Cristo, un solo corpo e un solo spirito (preghiera eucaristica III).
La richiesta fondamentale rivolta a Dio nell’anafora (la più importante di tutta la Messa) è la nostra trasformazione nel corpo ecclesiale di Gesù: perché siamo in lui una cosa sola. Tutte le altre suppliche, compresa l’epiclesi per la trasformazione del pane e del vino, sono funzionali e convergenti in questa grande supplica che rivela il senso dell’Eucaristia: siamo trasformati nel Corpo di Cristo. Esso include l’assemblea presente attorno all’altare (i circumstantes), ma si espande a tutte le dimensioni spazio-temporali e all’eternità: include la chiesa locale e universale, comprende tutti gli uomini che cercano Dio con cuore sincero, la comunione dei santi, i defunti.
Per l’azione pastorale
Per la pastorale della famiglia è fondamentale l’antropologia cristiana della sponsalità del corpo. In una cultura dell’uso oggettuale del corpo (desiderato e disprezzato come oggetto erotico), l’annuncio cristiano sulla dignità, bellezza, eternità del corpo umano si misura sull’offerta eucaristica di Gesù: “Prendete questo è il mio corpo offerto per voi”.
Il sacramento del matrimonio si fonda sulla carità eucaristica che plasma il gesto massimo dell’amore sponsale nell’intima unione dei corpi che ricalcano, in certo modo, le parole di Gesù nell’intimità del cenacolo. San Giovanni Paolo II, partendo dal fatto che «i sacramenti innestano la santità sul terreno dell’umanità dell’uomo: penetrano l’anima e il corpo, la femminilità e la mascolinità del soggetto personale, con la forza della santità» insegnava che «tutto ciò viene espresso nella lingua della liturgia: vi si esprime e vi si attua. La liturgia eleva il patto coniugale dell’uomo e della donna, basato sul “linguaggio del corpo” riletto nella verità, alle dimensioni del “mistero” dell’unione sponsale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-sposa con Cristo»9. Gli sposi cristiani diventano intimi di Dio grazie al potere sacramentale della loro stessa intimità. L’eros dell’uomo non potrebbe parlarci dell’amore divino, se già non lo portasse inscritto nella propria intimità. Interroghiamoci se uno degli spazi di annuncio del Vangelo non sia rappresentato proprio dalle tante coppie di battezzati conviventi che attendono di “intravedere” quale sia il dono specifico del sacramento che fa la differenza. Siamo persuasi dell’insufficienza di argomenti legati alla regolarizzazione di una posizione matrimoniale, dunque recuperiamo gli elementi propriamente sacramentali del disegno cristiano sulla coppia e la famiglia e approfittiamo dei corsi in preparazione al matrimonio, ma anche della pastorale battesimale e del catechismo dell’IC, come occasioni per proporre la vocazione sponsale. A questo traguardo giungeranno con minore difficoltà i giovani se, fin da adolescenti, saranno educati a una visione della corporeità e della sessualità presentate in chiave “eucaristica”. Sentire che la scelta di partecipare alla Messa e comunicare al corpo di Gesù ti plasma un corpo capace di dono, di amicizia e di eros “sano-santo”, potrebbe suonare strano agli orecchi di adolescenti interessati da un risveglio prepotente e promettente del corpo.
Al Tavolo EE – mentre affronta i temi sensibili del genere e della sessualità – si apre un campo fertile per presentare il progetto antropologico sul corpo, la coppia, la differenza, la generatività, a partire dalla percezione corporea del sé riletto in chiave eucaristica: Il corpo non è solo una cosa che possiedo, sono io, è il mio essere come dono ricevuto dai miei genitori e dai loro prima di loro e, in ultima istanza, da Dio. Per questo quando Gesù dice: «Questo è il mio corpo, offerto per voi», non sta disponendo di qualcosa che gli appartiene, sta passando agli altri il dono che lui è. Il suo essere è un dono del Padre che Egli sta trasmettendo. […] È strano che non ci venga bene parlare di questo, perché il cristianesimo è la più corporale delle religioni. Crediamo che è stato Dio a creare questi corpi e a dire che erano cosa molto buona. Dio si è fatto corpo fra di noi, essere umano come noi. Gesù ci ha dato il sacramento del suo corpo e ha promesso la resurrezione dei nostri corpi. Sicché dovremmo sentirci a casa nella nostra natura corporale, appassionata... Le parole centrali dell’Ultima Cena sono state: «Questo è il mio corpo, offerto per voi». L’eucarestia, è centrata sul dono del corpo10.
Trasversalmente a tutti i tavoli, ma in particolare penso al Bene comune e alla Famiglia, il tema del corpo legato alla liturgia non ci può lasciare indifferenti rispetto alla disabilità.
Il tema dell’accoglienza nella liturgia inclusiva richiama anche la questione della disabilità. Proprio la liturgia è quella forma ecclesiale di preghiera che, potendo disporre di una molteplicità di linguaggi (canto, gesti, corporeità), può rivelarsi (con le dovute attenzioni) particolarmente capace di “ospitare” fratelli e sorelli con abilità diverse. Questo fatto, però, ci provoca a chiederci se non dobbiamo mostrare maggiore attenzione a facilitare la loro partecipazione alla liturgia, organizzando trasporti adeguati, attenzioni alle barriere architettoniche, tempi misurati sulle loro possibilità. Forse, più che celebrare la festa del malato o particolari ricorrenze dovremmo attrezzarci per rendere possibile e abituale la loro partecipazione.
Più in generale, la pastorale della salute e la pastorale con gli anziani contribuiscono a formare una mentalità comunitaria che valorizza le membra sofferenti del corpo di Cristo che rappresentano una memoria permanente della sua croce e risurrezione, e concorrono a edificare il cantiere della comunità compiendo nella loro carne quello che manca alle afflizioni di Cristo a favore del corpo di lui che è la Chiesa (Col 1,24). Sarebbe opportuno intensificare lungo l’anno liturgico le liturgie di unzione/consolazione per malati e anziani, coinvolgendo le famiglie e il personale di cura, invitando tutta la comunità a partecipare in modo tale che queste non sembrino un rito privato, ma pubblico che santifica non solo i sofferenti ma – tramite loro – l’intera comunità.
Tra le intercessioni della Preghiera eucaristica c’è quella per i defunti per i quali si chiede una partecipazione sempre più intensa alla comunione beatificante con Dio e insieme si professa la fede nella comunione dei santi: «concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria» (preghiera eucaristica III). La pastorale del lutto, mentre accompagna singoli e coppie nella rielaborazione della perdita dei loro cari nel rispetto dei tempi e delle sensibilità, li aiuta ad aprirsi all’esperienza di una nuova comunione dei defunti resa possibile attraverso Cristo risorto e in modo del tutto speciale nella liturgia in cui le barriere del tempo sono abbattute e tutti siamo compresenti nella vita di Cristo, chi è ancora pellegrino nel tempo e chi è già nella vita definitiva del Regno.
Riti di comunione
Il viaggio della Messa previsto dall’ordo liturgico sfocia dall’apice della preghiera eucaristica (la dossologia: “Per Cristo, con Cristo…”) al cospetto del Padre. La nostra offerta unita all’offerta di Gesù ci fa ascendere nel Regno, siamo ammessi alla presenza del Padre e, nella dignità di figli liberi con pieno diritto di parola (parresia), “osiamo” pronunciare le parole più alte della preghiera, le stesse trasmesse da Gesù per rivolgerci al Padre nostro. La comunione è l’esperienza per eccellenza della vita cristiana. La vita stessa della santa Trinità è riassunta come “comunione” delle tre persone divine. La comunione (koinonia) implica due dimensioni: quella verticale della adozione filiale (espressa, nella recita del Padre nostro, dalle mani aperte e alzate verso l’alto, davanti a Dio) e quella orizzontale della fraternità espressa dallo scambio della pace che non è un generico gesto di cordialità e gentilezza, ma il segno della presenza del Risorto in mezzo all’assemblea che ci trasforma in uomini e donne pacificati e attori di segni che trasmettono la sua Pace.
L’apice della partecipazione alla Messa è l’atto di comunicare al corpo sacramentale di Gesù. Nel parlare comune si dice “faccio la comunione”, quasi si trattasse di “prendere” l’ostia consacrata come oggetto “sacro” col quale trattenere un rapporto di devozione e, spesso, in un’ottica meritocratica o democratica (la comunione come “premio” o come “diritto” per tutti). Iniziamo col togliere l’articolo: faccio comunione al Corpo di Gesù per comunicare alla forza salvifica della sua Pasqua e trasformare la mia vita in un culto (esistenziale) al Padre in unione ai fratelli e sorelle che celebrano insieme l’Eucaristia e diventano il corpo (ecclesiale) di Cristo in stato di offerta.
“Comunione” è il medesimo nome dell’Eucaristia e della Chiesa (credo la comunione dei santi significa al contempo la comunione ai “santi doni” e la comunione “dei santi” cioè di coloro che sono santificati dai santi doni). Comunicando al corpo del Signore si è trasformati in persone eucaristiche capaci dello “scambio di doni” che è l’essenza del mistero eucaristico in quanto sacrificio di sé per la vita dell’altro. La nuova ed eterna alleanza con Dio in Cristo è continuamente rinnovata dalla celebrazione del sacramento eucaristico il cui frutto è la comunione del Regno nelle sue realizzazioni sempre parziali. La piena comunione sarà realizzata solo nell’ottavo giorno (il Regno eterno) mentre nei giorni del suo pellegrinaggio la Chiesa pregusta la comunione definitiva con la Santa Trinità nel sacramento. L’ordine di ripetere la cena in sua memoria ci è stato dato da Gesù nell’orizzonte della venuta del Regno: finché il Signore non verrà glorioso alla fine dei tempi ripetiamo il (suo) rito affinché (nel “tempo” che ci separa) Lui continui a venire nell’Eucaristia e non restiamo separati dalla sua comunione (ancora provvisoria e precaria). La prima invocazione eucaristica fu Maranatha (il Signore è venuto, Signore vieni!).
Le persone eucaristiche più mature sono all’interno della comunità tessitrici di comunione, il bene più prezioso da custodire perché da esso sta o cade l’essenziale della Chiesa. Sussiste un legame naturale tra la liturgia eucaristica e la sinodalità, ancora sottosviluppato. La tavola dell’altare è il paradigma dei nostri tavoli ecclesiali quando ci riuniamo per discernere insieme e decidere l’oggi della missione. Le nostre azioni sinodali sono come un’espansione dell’adunanza eucaristica in cui si chiede a Dio il perdono necessario a ricomporre i conflitti, si cerca la chiarezza e la concordia rispetto ai suggerimenti dello Spirito, ci si muove insieme nel discernere le azioni missionarie da porre in essere. Dall’ecclesiologia (eucaristica) di comunione si passa alla sinodalità. Saltando il radicamento sacramentale facilmente si confonde il senso della sinodalità con pratiche (parlamentari) di tipo democratico che, sebbene pertinenti, andranno sempre confrontate con l’identità specifica della Chiesa.
Per l’azione pastorale
I percorsi spirituali che proponiamo sono un’assimilazione dell’esperienza liturgica. Se la celebrazione eucaristica è “cibo” da mangiare (di tanto in tanto), la preghiera personale è “aria” da respirare (incessantemente). La preghiera personale è «modulata» sulla preghiera liturgica e ne è come l’interiorizzazione (di-stacco, epiclesi, ascolto, intercessione, offerta, adorazione, lode). I percorsi spirituali rispondono ai ritmi delle progressioni personali. Il lavoro per Tavoli deve tener conto di più criteri di azione pastorale: l’accompagnamento delle comunità non rende inutili o contrarie azioni pastorali della Chiesa locale che rispondono all’esigenza di approfondimento, di una parte di fedeli, della relazione filiale/fraterna nello Spirito. Quei percorsi, tuttavia, per la loro logica intrinseca conducono le persone che ne sono arricchite a donarsi con generosità e profondità alla missione nelle loro comunità di appartenenza. Andrebbero incentivati, a fianco di esperienze residenziali, i percorsi o i momenti di spiritualità nelle parrocchie/UP proponendo lungo l’anno momenti di ritiro, Scuole di preghiera (con al centro la Parola), EVO, pellegrinaggi. Attivare queste attenzioni è parte della missione del Tavolo degli adulti in cammino (e in particolare l’Equipe di formazione e spiritualità in dialogo con la CDAL).
Lo scambio della Pace non chiude la fraternità eucaristica in un benessere interno esclusivo. Mentre provoca a introdurre percorsi e dinamiche di pacificazione e riconciliazione interne alle comunità (da ideare e sperimentare), promuove l’impegno dei cristiani per la fratellanza universale e la denuncia profetica contro ogni forma di odio e violenza. Le equipe della pace e della mondialità, mentre promuovono gesti simbolici e azioni comuni per educare alla pace, gestiscono di fatto una “ritualità della soglia” che intreccia linguaggi più o meno espliciti della fede con parole profetiche e simboliche dell’anelito universale alla pace e alla giustizia. Marce della pace, manifestazioni di solidarietà con popoli e minoranze in sofferenza rappresentano importanti occasioni comunitarie in cui i cittadini si trovano a “celebrare” questi “beni comuni” secondo un cerimoniale “aperto” ricco di elementi che rafforzano impercettibilmente i legami affettivi e ideali tra i partecipanti.
Per l’azione pastorale
Stiamo ponendo particolare cura a formare gli organismi di comunione ai vari livelli della nostra chiesa locale: diocesano, di UP, parrocchiale. Ci guida la consapevolezza che dalla forza coesiva della “visione” comune dipende la fruttuosità della missione. Dio benedice la comunione molto più delle ottime attività che individualmente i singoli possono realizzare. Pensare, decidere, muoversi in comunione è la vera “ascesi” che la conversione sinodale in atto ci chiede. La fatica di agire coordinati implica conversioni e passaggi di impostazione nelle persone e comunità coinvolte. Perché la sinodalità diventi la forma permanente dell’agire ecclesiale occorre non solo una spiritualità della comunione plasmata dalla partecipazione all’Eucaristia, ma anche una buona organizzazione.
La liturgia – abbiamo colto – è un agire ecclesiale ordinato (regolato, strutturato da una sequenza logica, con un prima e un dopo) che manifesta l’indole comunitaria e corporativa della Chiesa. La stessa “forma” si riflette nell’agire ordinato della missione. Organizzare tempi e procedure ordinate di lavoro, stabilire responsabilità e ruoli di azioni (chi deve fare che cosa) è fondamentale alla missione. Non risponde alla natura della chiesa un agire missionario improvvisato e approssimativo che non rispetta le esigenze di ordine (programmazione e processi) necessarie per muovere più soggetti tenendo conto dei loro tempi, impegni, compiti. Non a caso, Gesù fornisce indicazioni e dettagli pratici per l’’invio missionario dei 72 discepoli e nelle parabole evangeliche si ricorre spesso alla figura del buon amministratore della casa. Lo stile missionario necessita sempre di leggerezza, duttilità, disponibilità alle novità e docilità alle sorprese dello Spirito. Ma questo non esclude e non si contrappone a un agire orientato, ordinato, organizzato. E questo perché la “comunione” della chiesa non è un’esperienza autentica “solo” per le componenti della fraternità elettiva, spontanea, immediata, paritaria. La celebrazione “istituita” da un ordo recupera le dimensioni istituzionali non come un difetto ma una benedizione per la Chiesa in quanto custodiscono, consolidano, danno continuità e crescita nel tempo all’esperienza comunitaria che è autentica tanto per gli aspetti carismatici spontanei quanto per gli elementi istituzionali costruiti con sapiente finezza e laboriosa “strategia”. Comprendiamo, allora, le ragioni per cui nel cammino sinodale diocesano ci siamo proposti di “istituire” e accompagnare le equipe di comunione che in sinergia con i consigli pastorali rappresentano le “giunture” del corpo ecclesiale (collegamenti interni alle UP e con la diocesi).
Nel prossimo periodo è necessario uno sforzo formativo e di discernimento per precisare e presentare alle comunità la “struttura” di comunione nei suoi diversi organismi (funzioni, responsabilità, rappresentatività). Lo sviluppo di comunità è un organismo fondamentale di sintesi e orientamento che accompagna il percorso pastorale diocesano (i tavoli) tenendo conto dei vari livelli di interazione ecclesiale: consiglio pastorale diocesano, consiglio presbiterale, COMO. Il nostro impegno di accompagnamento e sviluppo delle UP (nel loro potenziale vocazionale missionario) implica un’offerta di formazione specifica per approfondire le competenze legate al servizio del consigliare e discernere. Non possiamo dare per scontata e acquisita la capacità di accompagnare i processi decisionali comunitari svolti alla luce della Parola e con lo strumento della conversazione spirituale. É un artigianato sinodale che chiede al centro pastorale di accompagnare (agendo con uno stile abituale convergente) ma anche con interventi formativi specifici nelle UP per aiutare a crescere nella corresponsabilità dei processi, degli stili, dei ministeri.
LA LITURGIA DOPO LA LITURGIA
Ite Missa est! Sono le parole latine del congedo, di difficile traduzione. La Messa è stata consegnata, inizia la missione. Il termine “Messa” deriva, perciò, dal nome del rito conclusivo che comporta il congedo dell’assemblea (dimissio) e il suo invio in diaspora per essere i missionari del quotidiano (missio). Recuperare la verità della liturgia cristiana implica, come dicevamo, di valorizzare di più e meglio il prima e il dopo del rito. La chiusura affrettata e la dispersione veloce dell’assemblea impediscono di “celebrare” i primi frutti della Messa nella “liturgia del sagrato” che rappresenta la cerniera tra l’uscita del rito e il ritorno negli spazi del quotidiano. I riti dei saluti, della convivialità, della condivisione coi poveri, i messaggi di sensibilizzazione, l’invito a collette non sono accidentali alla liturgia ma strutturali al passaggio simbolico del dono ricevuto che irrompe nella vita.
Un elemento fondamentale di cerniera è il passaggio dalla Chiesa alle case, piccole chiese domestiche. «Tornati nelle nostre case, prepariamo due tavole: una per il cibo del corpo, l’altra per il cibo della Sacra Scrittura. Il marito ripeta quel che è stato detto nella santa assemblea, la moglie istruisca, i figli ascoltino. Ognuno di voi faccia della sua casa una chiesa» (G. Crisostomo). Basterebbe poco per realizzare il collegamento: prima di pranzo un genitore propone un versetto o una frase sentita a Messa a cui possono aggiungersi altre risonanze. Ma la maggior parte delle famiglie non va a Messa, come aiutarle a ricordare il giorno del Signore? Il Tavolo della famiglia in sinergia con il Tavolo della EE potrebbe aiutare le comunità a immaginare una semplice liturgia domenicale familiare inviando attraverso i social parrocchiali (i gruppi Whatsapp della catechesi e degli adolescenti) una parola della domenica da «comunicare» per far partecipare (almeno un po’) alla domenica.
I riti finali ci riportano alla complementarietà dei tre corpi: il corpo sacramentale di Gesù sull’altare irradia e imprime la sua forma sull’assemblea trasformandola in corpo ecclesiale; uscito dall’edificio sacro questo corpo di uomini e donne eucaristici è la prima parola (epifanica, testimoniale) che si riversa sulle strade e nella capillarità degli ambienti laici. Da come si presenta e si muove questo corpo ecclesiale (non composto dai “migliori” ma da peccatori graziati e riconciliati) dipende l’efficacia di ogni altro annuncio e dei segni della profezia, della cura, della educazione.
Il rito del congedo collega il sacramento dell’altare con il sacramento del fratello. Dopo aver ricevuto Cristo sotto le specie del Pane lo riceviamo sotto le specie del fratello, soprattutto il povero, come insegna G. Crisostomo: «Vuoi onorare il corpo del Salvatore? Colui che ha detto: Questo è il mio corpo, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare. Ciò che non avete fatto ad uno dei più umili, lo avete rifiutato a me! Onora dunque il Cristo condividendo i tuoi beni con i poveri».
Per l’azione pastorale
Questa liturgia del servizio dopo la liturgia dell’altare (di cui il ministero diaconale è garanzia e profezia) è l’assist delle diverse declinazione della carità ecclesiale: carità politica, carità etica, carità solidaristica. Il Tavolo del bene comune e le sue diverse equipe sono sorretti dalla fonte liturgica nell’azione pedagogica della carità che è il compito primario del loro mandato. Davvero l’Eucaristia è coppa della sintesi e lo si vede particolarmente nella forza ispiratrice di molte azioni educative al servizio e alla cittadinanza. Non solo per i progetti concreti di solidarietà materiale, ma per le proposte di servizio (specie per i giovani) che implicano il passaggio ulteriore dalla solidarietà alla fraternità/ospitalità. Dalla logica della comunione eucaristica hanno preso le mosse varie teorie della economia di comunione. All’energia della comunione possiamo ricondurre l’idea più recente delle Comunità Energetiche Rinnovabili. La visita pastorale ha confermato che la comunità cristiana ha l’energia della convocazione e del confronto delle reti di volontariato, può promuovere dibattiti su temi di interesse comune che coinvolgono amministratori, sindacati, imprenditori, attori dello sport e della cultura.
Per (non) finire, quasi a mo’ di sintesi del nostro percorso formativo, vi lascio una citazione centrata sul rapporto liturgia e corpo, quasi un commento all’immagine dei tre corpi che ci guiderà nel prossimo anno:
Nella liturgia gli uomini, individualmente e collettivamente, dovrebbero compiere l’esperienza del loro corpo come corpo liturgico, come corpo che risorge nella partecipazione eucaristica al Corpo del Risorto. Il rito – lo preciso, il rito cristiano che è ricerca della comunione e non dello stato di trance […] – costituisce forse oggigiorno la sola possibilità di esorcizzare una sacralizzazione narcisistica ed angosciata del corpo, anche grazie ai poteri terapeutici che esplica attraverso la sua tradizionale gestualità. Il corpo oblativo nel quale ci offriamo insieme, «noi stessi, gli uni agli altri, e tutta la nostra vita», al Fuoco divino che, rispondendo all’epiclesi – «manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo» –, investe i nostri sensi, la nostra corporeità, attraverso una bellezza non estetica, quella «bellezza che crea la comunione». Bellezza al contempo carnale e luminosa, che raggiunge i sensi per dare loro pace e risvegliarli alla loro modalità spirituale e, per loro tramite, se è possibile, risvegliare finalmente il cuore11.
Note:
1 «Una visione della liturgia solo in prospettiva concettuale e didattica va contro la sua natura di forma che dà forma, secondo la quale il credente, pervenuto alla fede, si lascia plasmare ed educare dall’azione liturgica, quale espressione del culto della Chiesa nella sua fontalità sacramentale, sorgente della vita cristiana» (CEI, Incontriamo Gesù, n.17).
2 CPLN, Ars celebrandi, 9. «La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano» (BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, 40).
3 Parlando di formazione in ambito liturgico andranno identificati i formatori, annoverando al primo posto lo Spirito di Cristo: «Nella liturgia lo Spirito Santo è il pedagogo della fede del popolo di Dio» (CCC n. 1091). «L’azione dello Spirito Santo anima tutta l’azione celebrativa» (DD n. 52). «I nostri misteri non sono delle commedie: là tutto è regolato dallo Spirito» (G. CRISOSTOMO, Hom. In 1Cor 41,4). 4 F. CASSINGENA-TRÉVEDY, La bellezza della liturgia, 30.
5 A. SCHMEMANN, Liturgy and Tradition, St. Vladimirs Seminary Press, New York 1990, 51-52 [traduzione mia].
6 La DD citando Romano Guardini conferma che «il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli» (n. 44). 7 R. TAFT, «Che cosa fa la liturgia?», in Oltre l’oriente e l’occidente, Roma 1999, 263-265.
8 IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, III,16,7: PG 71,926.
9 GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 4 luglio 1984.
10 T. RADCLIFFE, Affettività ed Eucarestia, pp. 1-2. 21
11 O. CLÉMENT, Teologia e poesia, Piemme, 26-27.
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